Scarica la versione integrale della testimonianza
Transcript
Scarica la versione integrale della testimonianza
Nerina De Walderstein Mi chiamo Nerina de Walderstein e sono un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz. Sono stata arrestata a Trieste il 23 Marzo del 1944, dalla polizia Collotti alle undici e trenta di sera, lo stesso giorno, in cui sono ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico … Sono entrati in casa mia sette poliziotti della questura di Trieste, della Via Bellosguardo della Villa Triste di Trieste con i mitra puntati verso la mia famiglia: in casa con me c’erano il papà e la mamma. Io avevo diciotto anni e mezzo allora. Fortunatamente hanno preso soltanto me, ma cercavano mio fratello. Mio fratello era a Venezia alla scuola Foscari e là con un gruppo di studenti, si era composto il gruppo della GAP di Venezia. Cercavano materiale bellico… qualsiasi cosa da poter mandare al gruppo dei partigiani, che erano nella zona di Trieste. Io sono stata là per prendere questo materiale e sono ritornata a casa con la valigia piena. Perciò loro cercavano mio frate llo e non me… Ma… Il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia perché, avendo saputo del mio arresto, sono fuggiti e sono andati nel gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia. Ci hanno portato direttamente a Villa Triste. Mi sono trovata a mezzanotte a Villa Triste, dove è successo … Il mio più grande impatto con loro. Appena arrivata dentro, ho preso due ceffoni fenomenali …Durante l’interrogatorio sono stata picchiata… mi hanno rotto tre costole…mi hanno appesa per le mani, legandomele dietro, ad un palo e là non so quanto sono rimasta, perché sono svenuta… sempre sotto le percosse… Mi sono svegliata dentro una cella tutta bagnata, dove mi hanno lasciata tutta la notte per poi reinterrogarmi il giorno dopo, ma sempre di sera. Sempre bastonandomi, sempre picchiandomi… col dolore delle mani dove la prima sera mi hanno appesa sul palo. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate: non ho più la forza nelle mani. Questa è la conseguenza delle torture subite. Sono rimasta a Villa Triste per otto giorni. Da Villa Triste, mi hanno poi portata alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Sono stata nuovamente interrogata e, sempre a suon di scappellotti, cercavano di tirarmi fuori qualche parola dalla bocca. Io non ho parlato mai. Sono rimasta sempre in silenzio, ho sempre detto che quello che avevo fatto, l’avevo fatto sempre io, col nome di Walter, che sarebbe mio fratello: mi sono assunta tutte le responsabilità. Dai Gesuiti sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste dove, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. Ho subito l’interrogatorio giù nel bunker del Coroneo, che è una cosa tremenda… anche là altre botte , altro tormento… Il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per quarantadue giorni con la polizia che li controllava, sempre in Trieste, casa mia. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me: perciò sono stata quarantadue giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno, in cui siamo partite dal Coroneo verso il trasporto. La mia mamma non la conoscevo più perché… L’ho cercata, era dietro a me…Aveva fatto un cambiamento totale… invecchiata di vent’anni: prima per il mio arresto e poi perché di mio fratello non sapeva più niente. Dopo che sono stata nel bunker, dopo i due mesi di Coroneo , sono stata messa in una cella da sola perché non erano sicuri del fatto che non fossi io, ma che fosse mio fratello… Sempre cercando lui mi hanno messo nella cella 68 e là sono rimasta fino al giorno del trasporto. Io ero convinta … Perché nella cella 68 si finiva male, non si sapeva dove si andava… Perché noi, io non sapevo… A Trieste c’era la Risiera e nessuno… Per il periodo, in cui sono stata alle carceri, non sapevo che esistesse una Risiera a Trieste, sapevo che c’era la risiera, ma… Del tutto differenti le cose. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella con me, poi nella cella 68, sono rimaste tutte alla Risiera… sono morte là. Io ho avuto la fortuna che, nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi, mi dissero, due giorni prima di partire, che mi avrebbero mandato… che la mia morte sarebbe stata altrove: in un posto dove sarei morta lentamente, mi disse il tedesco. Una morte lenta, lenta, lenta, con molto supplizio e molto tormento… Al Coroneo quando sono stata chiamata dal tedesco, che mi aveva detto che non sarei morta…”Non farà pum” ha detto “morirai d’una morte lenta, d’una lenta agonia, dove andrai sarà un posto meraviglioso”. Due giorni dopo sono partita per Auschwitz, dove ci hanno detto che ci avrebbero portati a lavorare. Noi eravamo convinte di andare a lavorare…La mamma, allora, mi ha portato giù quel giorno tutto quello che poteva portarmi per andare a lavorare, ma… Non era così. Comunque la donna,che mi ha portato alla stazione e quella che ho visto prima di partire, non era più la mia mamma. Nel trasporto eravamo tantissime donne,ma non potrei dire il numero preciso … Credo oltre cinquanta. C’erano anche uomini, eravamo tutti…Ci hanno chiamato di notte, perciò io ero convinta che andavo… Andavo in un posto qualsiasi, non nel campo. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due: mi sono trovata giù nel giardino, un grande giardino, che c’era nelle carceri di Coroneo, dove ho visto tantissima gente. Ho pensato: “Allora non mi succederà qualcosa di tremendo, di grave… perché è impossibile che possano sterminare tutta questa gente”. Quando ho chiesto dove saremmo andati, mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo… non si sa”. Saranno state le quattro e mezza del mattino, ci hanno messo in colonna davanti alle carceri del Coroneo e, a quella maniera, siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari dei deportati e anch’io ho visto i miei genitori … Ci siamo salutati, perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici... Quando siamo partite dalla stazione… Devo premettere che, alla stazione, avremmo dovuto partire immediatamente, ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto in modo che potessimo rimanere ancora due ore con i nostri familiari… Poi siamo partite. Era un privilegio avuto proprio dei ferrovieri, che ci hanno dato l’opportunità di restare ancora un poco con i nostri familiari. Quando sono partita non … Dalla stazione si vedeva la mia casa, dove io ero nata… e io non ho pianto… non ho potuto piangere…non ho pianto lasciando i miei genitori: ero dura… impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza di Barcola… e ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male, che sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Mi sono appoggiata sopra un’altra, e là sono svenuta. Da allora non ho più pianto. Non sapevo più cosa vuol dire il piangere, perché… Non so perché. Poi siamo partite, siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz. Nel frattempo, dentro nel trasporto, io mi sentivo male, stavo veramente male. Ho avuto la fortuna, la gentilezza di uno dei carabinieri che mi ha portato nel suo vagone con lui, e là sono rimasta per due giorni, fintanto che mi sono sentita meglio. Non so quale sia stato il motivo, forse un motivo c’era. I primi malori, li ho avuti dentro nel treno e quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non ho mangiato più dal giorno, in cui sono partita. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere. Mi sono ripresa quando mi hanno detto: “Guardi domani arriviamo nel campo di lavoro”. Mi sono sentita un po’ meglio, perché ho detto:” Tanto vado a lavorare, siamo tutte insieme con le nostre compagne, con quelle del viaggio, sarà un po’ differente, un po’ diverso, sarà meglio che essere chiuse così dentro questa tradotta”. Invece, mentre ci si avvicinava ad Auschwitz, ci hanno raccontato un pochino che cosa era Auschwitz, ma non bene, perché non avevamo capito niente. Ci hanno detto vedrete quando si arriva dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve, e noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente, quando siamo arrivate ad Auschwitz, l’orchestrina c’era, ma… Prima di entrare dentro, logicamente, c’era già il campo, ma io non sapevo come fosse il campo di Auschwitz… Abbiamo visto certe persone, che erano chine a terra, e abbiamo chiesto: “Mamma mia, chi sono quegli uomini? Chi sono quelle persone? Sono come dei musulmani” … e mi hanno detto: “Sì, sono musulmani”. Ho detto: “Tutti musulmani? Sono venuti qui a lavorare? E…” . “Capirai, capirai” mi hanno risposto “Vedrai che dopo un po’ di tempo sarai musulmana pure tu”. Io ho detto: “No, guarda, sono cattolica”. “Va bene, va bene, ma capirai più in là”. Siamo state portate tutte prima ad Auschwitz 1 e poi a Birkenau, però qua ndo siamo arrivate, il primo impatto ènstato tremendo, spaventoso, perché ci hanno cacciate giù dalle tradotte, proprio cacciate, gettate giù. Sono partiti i primi ceffoni: quello era l’inizio. Quando sono partita via da Auschwitz, quella era la fine degli scapaccioni e delle botte. Le due cose più brutte, che ho subito nell’entrata ad Auschwitz sono state quella d’aver visto i musulmani e quella di essere state denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per una giornata intera e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude. Siamo arrivate là il 21 Giguno. Era una cosa tremenda: la notte era fredda, durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità. Eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva un con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane, e con me c’erano tantissime giovani, ma c’erano anche tante persone anziane e vedere quelle povere nonne, che per me allora erano nonne, che erano lì nude, disperate, si nascondevano, cercavano di proteggere quelle parti che non dovevano essere viste. Poverine, piangevano, piangevano … Sono rimaste poco tempo, perché siamo state portate dentro tutte assieme, ma pochissimo tempo dopo sono morte. Non si sapeva dove si andava… Tutte nude ci hanno portate dentro nella baracca, dove ci facevano entrare nella sauna, poi ci tagliavano i capelli, ci rasavano e ci spedivano avanti.Avevo dei capelli lunghi, biondi… erano belli un po’ ondulati e il polacco, che tagliava i capelli, mi ha preso una ciocca di capelli in mano, me l’ha tagliata, poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti. Ero l’unica coi capelli. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano “Ciocchina”. Ci hanno mandato, poi, in un'altra stanza, dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziavano i tatuaggi. Io sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicevano, perché, prima di tutto, il tedesco lo capivo poco, quello della scuola non più di tanto. Quando ero quasi sul punto di entrare anch’io ,ho sentito che dicevano all’altra compagna:” D’ora in avanti, tu non sei più il nome tale dei tali, ma bensì tu sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sulle mani la matricola e ci hanno detto:” D’ora in avanti questo è il tuo numero e rispondi a questo numero”. Io ho la matricola 82132, e con questo numero io ho passato tutto il periodo, sapendo di essere soltanto il numero 82132 e il nome l’ho dimenticato. Poi nuovamente in fila, per gli indumenti da vestire. Davanti a me quella compagna, che era partita da Trieste, quella che ha avuto la sventura come me di essere stata spiata, aveva il numero 82131. Lei era bella alta, una bella figura, ma aveva già i suoi anni, aveva trent’anni; io ero una bambina di fronte a lei, una bambina piccolina… A me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto, che non copriva neanche le ginocchia. Io volevo scambiarmelo con lei perché mi faceva pena, ma quando abbiamo fatto quel gesto abbiamo ricevuto delle botte tutte e due, perciò ci siamo calmate e ci siamo messe nuovamente in fila, per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate dentro nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera … non è un campo di lavoro. Ma come mai queste baracche, che cosa ci succede?”. Pian piano entrando dentro, quando ci hanno portato dentro nelle baracche, abbiamo visto delle altre prigioniere, fra le quali delle ragazze, che c’erano prima nelle carceri del Coroneo, dove ci eravamo conosciute; quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro, piangendo, ci hanno raccontato cosa cisarebbe successo. “Oltre ad essere tatuate, non i può succedere altro” pensavo. Invece, poi, è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento. L’abbigliamento che ci hanno dato consisteva in una veste qualunque… Poi le scarpe, scarpe meravigliose! Indossavo sulla sinistra una ghetta e sulla destra uno zoccolo, uno zoccolo olandese grande,che perdevo man mano…la ghetta, almeno, mi rimaneva, ma quando camminavo,non essendo abituata… Non sapevo nemmeno cosa fossero gli zoccoli… Quando camminavo, mi piagavano i piedi. Per non parlare della biancheria intima! Tutto, era tutto là. Mutande, reggiseno tutto là, tutto in quella veste meravigliosa…Il numero lo avevamo sulla manica della veste che portavamo. Oltre ad essere tatuate, avevamo il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Avevamo poi dietro un triangolo rosso, perché noi eravamo prigioniere politiche. C’erano moltissimi triangoli: eravamo cattoliche cristiane, avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia, ci si distingueva dagli ebrei, logicamente era fatto per quello. Ci siamo messe a ridere, quando ci siamo viste l’una con l’altra … Si piangeva e si rideva, perché eravamo talmente ridicole, con quelle zucche pelate. Non ci si riconosceva più… Quando ci siamo viste, ci si guardava e ci si chiedeva: “Ma chi sei tu?” e tutte mi dicevano: “Ma come mai a te non ti hanno tagliato?” “Non lo so!” E veramente non sapevo perché, non ho mai saputo perché sono rimasta coi capelli. Poi ho visto che negli altri trasporti c’erano altre rimaste coi capelli e non erano state rapate a zero. In conclusione quello era niente in confronto a tutto quello che ci aspettava poi nei lager. Poi nelle… quando eravamo dentro nelle… un lapsus di memoria. Nel blocco, quando abbiamo visto quei castelletti dove si dormiva in sei, come le sardine… Noi giovani dormivamo a terra, io ho dormito per quasi un mese, forse anche più, sulla nuda terra. Ed eravamo talmente tante dentro quel blocco, che non ci si poteva stare… Non ci si poteva girare e quando ci si girava, se eravamo stanche di essere su un fianco, si svegliava l’una: “Ti prego giriamoci dalla parte opposta”, perché le ossa dolevano, facevano male. Allora ci si girava. Non potendo più resistere ci si levava di lì… Una di meno, in modo che le altre potessero riposare un po’… Ci si sedeva per terra e a terra ci si addormentava… logicamente. Dormivamo, dormivamo per terra. Molte hanno fatto così, perché non era possibile… Poi se appena arrivata eri grassa, eri in carne, dove ti mettevi…Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere, perché era impossibile… Era talmente basso, che non ti potevi sedere. E poi la notte …le cimici… Quando spegnevano la luce dopo pochi secondi ti sentivi camminare sul braccio,un’invasione di cimici…Spaventoso, una puzza tremenda …Impossibile addormentarsi. Poi ci si è abituati, ma non del tutto. E così ogni notte era la caccia alle cimici, perché altrimenti ti mangiavano …Avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccati dalle cimici. Erano tremende, grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fosse le cimici.Ma poi ho imparato bene. Non potrei dire quanto tempo sono rimasta ad Auschwitz 1, perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che la mattina ci si alzava verso le tre, tre e mezza e che ci si coricava …Sempre in piedi all’appello… Si attendeva quella “miska”, quel ciotolo che davano per cinque, perché ci mettevano sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare, uscendo dal blocco, metterti in fila per cinque, e guai se non eri diritta in fila per cinque: partivano le botte. Se per un momentino ti distraevi quando eri in fila… Altre botte. Prima che arrivasse la Kapò quante poverine, quante sono rimaste là, perché cadevano non resistevano più perdevano i sensi e poi finivano…Come finivano non si sa. La tortura più grande era quella …Il loro godimento era quello di tenerci fuori all’aperto anche se pioveva, se nevicava, se faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con la stessa cosa addosso, con lo stesso indumento che dovevi tenere anche se era tutto zuppo di acqua e dovevamo rimanere là, perché non c’era altro da cambiare. Chi aveva una buona costituzione un fisico forte ha resistito, ma le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e si vedeva una cadere morta…morta in piedi. Da Auschwitz 1 mi hanno mandato ad Auschwitz 2, a Birkenau. Quando c’era l’appello, se non ti prendevamo per andare a lavorare nei campi, a piantare le patate, o pulire i campi, avevi il lavoro all’interno nel campo di concentramento: dovevi pulire i blocchi, pulire i gabinetti… Perché per fare i propri bisogni, si doveva andare davanti al blocco,sempre sotto il loro controllo… e davanti a tutte …Era una cosa tremenda …Noi, per un periodo avevamo una carriola davanti …E’ molto difficile poter andare…E poteva farlo una, che era giovane, perché una persona anziana non poteva, perché si sbilanciava e cadeva: quante poverine sono cadute dentro nella carriola, tutte sporche e sudicie dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, alla meglio …Non si sa neanche come, perché non avevamo niente. Non c’era niente da fare …Ci si doveva accontentare e poi quando si poteva andare, alla mattina, quei due minuti a lavarsi al “wascheraum”… Nel blocco dove avevi un po’ d’acqua …Uno zampillino d’acqua, che non riuscivi neanche a lavarti gli occhi …Cercavi di lavarti il meglio possibile con quell’acqua color ruggine. Eravamo tutte sporche, tutte sudicie senza la possibilità di potersi lavare un po’ …Senza aver vergogna andavi in quel gabinetto, quello tremendo …E poi… Se non ti abituavi c’erano le botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna, e la sfortuna, di essere addetta alla pulizia dei gabinetti, portar dentro… C’era un carro, in cui vuotavi tutte le cose e poi con quel carro andavi… Lo portavi lungo il campo, prendevi e portavi avanti fino che non arrivavi nei gabinetti, per lasciare tutto il carretto. Penso che quello fosse uno dei peggiori del campo, perché era veramente umiliante, noi la chiamavamo la “merda strasse”- scusate l’espressione!- purtroppo ognunaveva il suo turno. Poi, quando non facevi quello, dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, sotto il sole cocente, perché quando c’era il sole ti bruciava… E poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora in cui si mangiava, perché non c’era altro da fare. A volte ti portavano da un’altra parte, in un altro blocco, dove ti facevano portare delle pietre …La tortura era quella di tormentarci perché quando non ne potevi più, cadevi per terra esausta, e quando ti rialzavi le bastonate… e ti picchiavano… E’ successo che una delle due sorelle francesi è caduta …La tedesca ha ordinato alla nostra Kapò di farla alzare e ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Come l’ha colpita, lei è caduta a terra, logicamente, ferita e l’altra sorella è corsa in suo aiuto, ma mentre era china sopra di lei …Noi sempre a camminare intorno, sempre a portare le pietre, prenderle su e poggiarle a terra: non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella e la seconda, che è corsa per aiutarla, è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due. E noi, sempre in giro a camminare, facendo sempre lo stesso lavoro, fino all’ora del ritorno. Non ho mai saputo quale fosse l’ora in cui si tornava, perché l’orologio non esisteva, non si sapeva mai che ora fosse, che giorno fosse… tutti i giorni erano uguali, qualche volta si cercava di riuscire a capire che giorno fosse , si contava… si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, perché la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Eri vuota eri …Ma forse era meglio, perché non soffrivi più tanto, perché …Mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dire se era un’abitudine o veramente eravamo ome un essere morto, che camminava. Perché tante volte ci si chiedeva:” Si cammina o siamo ferme?”. Qualche volta qualcuna mi pizzicava e mi diceva: “Sì! Sei ancora viva” perché io mi mettevo in un mutismo …Non so succedeva a tutte, ma non ero l’unica… Eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di camminare, di fare quattro passi, sempre con la testa rivolta al cielo …Non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finirla Tante volte dicevi:” E’ morta … Quella è morta… Quella ha finito di soffrire”. La risposta era: “Quella ha finito di soffrire”. Malgrado tutto si aveva sempre una speranza, perché io sempre dicevo:”Devo tornare a casa …Devo essere forte, devo continuare a soffrire, subire ma …Devo ritornare a casa”. Era come un ritornello nella mia testa, e quello mi accompagnava. Nei momenti più pesanti cominciavo:” Devo ritornare a casa, perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”. E poi dicevo alle altre… Allora si cambiava discorso e si iniziava a portare il pensiero verso casa, che ci aiutava a vivere, e quella era una via …Come potrei dire … Un aiuto. Un aiuto per poter continuare a lottare …Per ritornare. E poi, le risate quando avevamo fame … Quando si era col gruppo, davanti al blocco e non ci permettevano di andare da nessuna parte, cosa si faceva? Ci si metteva a gruppetti, da una parte e dall’altra, e si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare …”Cosa mangeresti tu?Cosa mangeresti tu a quest’ora? …Adesso che faresti?” Allora si facevano delle ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di dire, magari, non so… “Un poco di pane con un quadratino di margarina ci basterebbe” …Alla fine ci accontentavamo di quello. E quando, poi, era l’ora di mettersi in fila, sempre sull’appello, per prendere quel pezzetto di pane…Che bello! Quella era l’ora più bella. E così passavano le giornate: ci si raccontavano tante cose, poi andavamo a lavorare. Nel campo di Auschwitz c’erano moltissimi lavori: c’era il lavoro della tessitura, poi c’era ….c’era il blocco, in cui si facevano i cingolati. C’erano tantissimi blocchi io sono passata soltanto per tre, però sapevo che ce n’erano tanti, ma non di che cosa …Quelle che facevano quei lavori non raccontavano alle altre, così che si sapeva ben poco di quello, che succedeva nel campo. Si parlava quando c’era qualcosa di grosso. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni: quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria, perché i treni fischiavano, poi fischiavano le sirene, poi c’era la rientrata nei blocchi tutti quanti chiusi perché non si doveva vedere tutto quello che succedeva con quelli che uscivano dai vagoni. Poi c’erano… i blocchi… i vagoni che mettevano in fila e andavano direttamente ai crematori …Qualcuno cercava di scappare dalla fila… E allora sentivi il mitra… Il mitra che cantava. Già sapevi cosa succedeva e ti tenevi chiusa chiusa nel blocco, perché sapevi che se eri in strada, succedeva anche a te … Insomma c’erano le botte, c’era… C’era tutto quello che ti potevi immaginare non di buono, perciò si scappava sempre e si cercava di rientrare nel blocco. Il famoso “blockspere”, la chiusura di tutti i blocchi poi… Il fatto è che, quando eri là da un po’ di tempo,poi capivi tutto …Per ogni fischio, sapevi cosa succedeva. Le sirene suonavano sempre, perché c’era sempre qualcuno, che si ribellava, che voleva scappare … Ma nessuno è scappato. Abbiamo sentito … Ma non so, questo l’ abbiamo sentito in campo, che una polacca e una russa sono state …Che hanno …Sono riuscite a fuggire aiutate da un gruppo di militari, di prigionieri che erano là nel campo della SS. Non si sa come, ma è stato formato un battaglione, dove sono andati …Era un comando partigiano, che era nelle vicinanze, polacco. Questo ci hanno raccontato, io non l’ho visto, ma credo che sia stato …Perché tutte sapevano …Però ho visto quella brutta cosa delle due sorelle e poi mentre io ero là c’è stata l’impiccagione di un polacca, che ha tentato di fare un’altra evasione dal campo. L’ hanno torturata davanti tutto il gruppo delle donne che erano là in quel campo, e quando l’ hanno benetorturata e rotto tutte le ossa, l’hanno impiccata moribonda: questo è successo nel periodo in cui io ero là. E il pranzo! Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e c’erano dei bidoni con l’acqua bollente; le spaccavano, sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino, poi le gettavano dentro in quel bidone d’acqua bollente, dove galleggiava no i semi …Galleggiavano quell’interno …Quella buccia … Quel limoso. Poi quando era l’ora del pranzo e chiamavano - si sapeva che era l’ora del pranzo, perché c’era un fischio particolare - andavi con la tua chibla - si chiamava “chibla cole”- e prendevi quel pranzo, che ti portavano. Quando lo vedevi, se eri forte di stomaco, lo mangiavi, sennò rimandavi … Ma cercavi di mandare giù qualche cosa, per poter sopravvivere. Io ho sofferto molto, perché il mio stomaco era debolissimo, ho sofferto… Veramente non so dire come sia sopravvissuta…Era il mio destino. Mangiavo pochissimo, mangiavo solo quando ci davano le rape. C’erano le rape - chiamavano “navoni” quelle rape grattugiate, secche – che gettavano dentro in questa chibla di acqua bollente, e, quando un pochino si gonfiavano, te le davano …Avevamo una… Se riuscivi a procurarti una ciotola, un recipiente, le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio …Col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiare. Era una tortura mangiarle! Perché erano come tanti aghi che mandavi giù, ti grattava la gola, tante volte piangevi …Prima di mangiare piangevi, poi mangiavi, perché sapevi che non c’era altro. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano veramente meglio. La festa grande era la domenica …Ti mettevi in fila, ti davano una patata,era festa …La tua festa della domenica: una patata con un pochino di margarina un piccolo …Ti davano un triangolino di margarina e così mangiavi quella patata …Loro non guardavano se la patata era grande o se era piccolina, te ne davano una e basta. Spesso succedeva che ricevevi la piccolina e non la grande. Quando una riceveva la grande tutte attorno a lei: “Un pezzetto anche a me sai? Perché tu ne avevi di più! Un pezzetto anche a me, guarda che me lo avevi promesso!” Questa era un po’ d’allegria, nella grande tristezza, nella disperazione… Quella patata domenicale era una grande festa, ma vicino a quella patata si immaginava tutto il contorno, con la nostra idea, con la nostra fantasia, si diceva: “Adesso mangiamo questo ragù, questo spezzatino, la patata è buona” … Ci si rideva sopra per non piangere. Un'unica volta mi è capitato di sognare: ho fatto un sogno lungo, però ho pianto tutta la notte… Ho raccontato il sogno ad una signora slovena, di Maribor. Sono andata fuori per fare i miei bisogni ho trovato pure lei là e le ho raccontato …Mi fa: “Perché piangi?”. “Non so, non so perché”. Allora mi ha detto: “Ma stai piangendo!”, “Sì, ma non so perché! …Ho sognato, ma non so se ho sognato o se mi è venuto nella testa …Qualche cosa mi è frullato…” “Ho visto mia nonna, nel sogno, ma non so … L’ho vista, mi ha toccata, ed è fuggita …La cercavo poi sono uscita e mi vedi qua”. E la signora slovenami fa: “Senti cara ragazzina, dimmi un po’: quanti anni hai?” “Quanti anni ho? Non saprei …Mi sembra… No, no, credo 19 ,ma non so se ho ancora 19, né so che giorno è!”. Mi guarda e mi dice: ”Senti tu sei … miracolata!”. “Perché?”.” Perché tua nonna ti ha fatto sapere che oggi è il tuo compleanno e ti ha portato gli auguri! Che nonna è? La nonna materna o la paterna?”. Le dico.”La materna, perché la paterna non l’ho mai vista. Ero molto legata alla mia nonna! Sai – dicoAnna, che prego ogni sera la mia nonna?” Perché era morta un paio di mesi prima, che m’arrestassero, e ho detto “E’ fortunata, perché non ha saputo del mio arresto, altrimenti moriva di dolore per quello!”. E lei mi parla e mi dice:”Ti racconto … Guarda le stelle e ti racconto cos’è la tua vita”.La ascoltavo mentre mi diceva.”La tua mamma e il tuo papà sono osti vero?”. “Sì! Avevamo la trattoria allora, prima che ce la distruggessero …Mi racconta la vita di mia madre, poi quella di mio padre e poi la mia. Mi dice: ”Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata, ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Io non sapevo che fosse il giorno del mio compleanno: quando le ho detto il giorno, in cui sono nata mi disse: “Oggi è il tuo compleanno, sai?”. “No, non so che giorno è oggi”. Mi disse: ”Oggi è il tuo compleanno: tu mi hai detto che sei nata il 9 luglio, quindi oggi è il tuo compleanno!”. Da allora, ho sempre ricordato le parole, che mi aveva predetto quella signora … Io non sapevo nulla di predizioni allora, non ne avevo mai sentito parlare. Una cosa che non ho mai capito è il perché il ciclo mestruale si fosse bloccato totalmente. Anche adesso, che ho rivisto le mie compagne, tutte ci siamo chieste:” Ma cosa è successo? Come?”. Perché appena arrivate bloccato in pieno …Nessuna sa a che cosa fosse dovuto. Ci siamo chieste se non fosse in quell’acqua nera, calda, che ci davano da bere la mattina, ma non sappiamo se fosse tè o veleno, che ci davano pian piano per avvelenarci. Nessuna ha mai capito che cosa fosse quella calda acqua nera, che si beveva al mattino. Ho chiesto a tutte, ma nessuna ha mai capito… Non si sa, ma io vorrei proprio sapere cosa ci davano, visto che di colpo si è bloccato in pieno!Ci siamo tutte meravigliate, ci siamo chieste a vicenda …Fermato, e non si sa né perché, né come... Sono rimasta a Birkenau poco tempo: forse un mese,poi mi hanno portata nel Lager B. Il Lager B era il lager dove si lavorava …Dove ti portavano a lavorare. Si andava fuori a coltivare le patate. Quando arrivavi là, se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla: anch’io ho fatto questo, nel ritorno. Lungo la strada - quella bella strada battuta, bianca - ho visto, l’erba bianca,tutta infarinata e mi sono abbassata per prenderne un ciuffetto … Dopo, però …Le botte! Al ritorno, già lungo la strada mi hanno schiaffeggiato così forte, che la testa mi girava da tutte le parti - ancora adesso sento gli schiaffi - e poi, quando sono arrivata al blocco, mi hanno messo in punizione, davanti al blocco; inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata a tenere una pera cotta. Tante volte mi sembrava di cadere, allora mi raddrizzavo perché mi arrivava sennò una …Su per la schiena o qualcos’altro … Cercavo di raddrizzarmi di farmi forza … Non saprei dire per quanto tempo … Poi mi hanno detto di alzarmi, ma non so … Non so quante volte sono stata sul punto di cadere e mi rimettevo, poi, sull’attenti, nella posizione giusta. Non so quanto tempo sia passato. Quando mi sono alzata, le mie ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto non c’era carne, c’era solo la pelle. Ed è passato del tempo, prima che mi si rimarginassero tutte le ferite, anche perché mi si riaprivano tute le altre volte, in cui dovevo inginocchiarmi per altre punizioni …Poi finalmente sono guarita. Quella punizione era tremenda, la peggiore tra quelle che ho subito,per cui mi sono ben guardata dal prendere di nuovo un po’ d’erba. L’ho fatto soltanto quando vedevo che la tedesca era lontana … Anche le Kapò guai se ti vedevano! C’erano delle polacche… Erano peggio delle SS! Se c’è una cosa che detesto, che non sopporto, sono proprio le Polacche! Perdonami, Polonia, ma è così! Tutte quelle che sono state là, hanno subito le angherie delle bloccove e dalle blocstube… La notte, loro mangiavano, bevevano, si divertivano … Le sentivamo mangiare e bere, mentre noi, quasi morte di fame, eravamo là a languire. E loro erano pasciute …Nessuna era magrolina: erano tutte tonde, forse anche troppo, perché sfiguravano con noi … Non si può immaginare che in un blocco, in un campo di concentramento ci fossero dei tipi, degli esseri così perversi, così cattivi. Tutte erano cattive, perché se mai potevano ti picchiavano, ti condannavano in tante cose …Per esempio, per qualche malefatta di una di loro, eri condannata tu, non loro … Ti mettevano al posto loro. Se rubavano, se mancava qualche cosa, erano le politiche che portavano via, perché loro erano o ebree o polacche. Sulle polacche non si discute, perché loro non avevano colpe … Erano state tutte portate nel campo, perché erano evacuate …Avevano distrutto Varsavia, perciò le hanno portate là. Non hanno subito quello, che abbiamo subito noi … Avevano anche loro il triangolo rosso, ma erano nella “Police”. Non che avessero un trattamento migliore, perché mangiavano come noi, ma essendo polacche, quelle che distribuivano, per loro era sempre un po’ di più, per noi tanto di meno. Subivamo tutte le loro cattiverie, e guai se dicevi qualcosa: “ Ciaf!”, cadeva immediatamente lo scappellotto e la mano era sempre allungata pronta: non occorreva neanche allungarla, era sempre pronta a picchiarci. Quello era all’ordine del giorno: succedeva spesso e volentieri. Sono stata, poi, trasferita da quel lager. Sono stata portata via da Auschwitz. Mi hanno presa perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila, con tutte le altre, per portarci al trasporto: non si sapeva dove si andava. Dicevano che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello. Erano scelte tutte le migliori e quando si era in fila, pronte per partire, ci consegnavano del pane, per il viaggio, ci davano una pagnotta di quel famoso pane …Del pane acido, cattivo, duro … Era come mangiare la segatura del legno: quella forse era più tenera da inghiottire. Quando si era in fila, si aspettava che ci distribuissero per partire. C’erano due bambine vicino a me; due bambinette, perché io per loro ero una mamma: una di dodici e una di tredici anni, del Goriziano, non potrei dire il paese perché non lo ricordo. Poi ci siamo perse, perché siamo partite assieme, ma, quando siamo arrivate a destinazione, ci hanno divise: ognuno da un’altra parte. Mentre eravamo in fila, è stata rubata una pagnotta: erano contate… C’erano là le ebree, che spartivano il pane con le polacche: una di queste ha accusato quelle due piccole di aver rubato, cosa che non era vera, perché erano con me…Invece io ho visto che l’avevano preso loro, ma hanno detto al militare tedesco, che ci accompagnava per il trasporto, che erano state loro. Allora questi,tutto infuriato, ha inveito contro di loro,che si sono messe a piangere, poverine, perché erano bambine. Non dovevi piangere, perché se ti vedevano piangere ti picchiavano e se, quando ti picchiavano, ti vedevano piangere, ti picchiavano ancora di più. Se,invece, non piangevi e reagivi degnamente ti lasciavano. E loro, poverine, si sono messe a piangere e il militare era pronto a picchiarle, a picchiarle duro, perché voleva usare il calcio del moschetto. Quando l’ho visto, ho preso le loro difese: ho ricevuto io il colpo, che dovevano subire loro, anche se non era destinato a me, ma l’ho preso. A causa di quel colpo duro sono svenuta. Non capivo niente: l’ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne, che mi hanno sollevato e portata di peso dentro, perchè non mi hanno voluto lasciare là a terra. Sul vagone mi sono ripresa, avevo anche una ferita alla testa, che si vede ancora. Era una cosa da niente perché poi si è chiusa e rimarginata, ma il colpo… Col tempo, il colpo che ho ricevuto dietro la nuca, col calcio del moschetto, ha fatto suppurazione, perché la botta ha screpolato il cranio e dentro si è formata un’infezione che poi … Praticamente il mio osso stava andando in cancrena. Sono stata molto fortunata, veramente, devo dire, nonostante il male subito. Ci hanno portato a Flossenburg, ma io non ricordo: per me dal giorno, in cui sono partita da Auschwitz, il mio ricordo è … Quando mi sono ripresa, in treno…Per me è il vuoto totale, perché io non ricordo più niente. Io ricordo di essere stata in fila e il ricordo di essere saltata davanti alle due bambine, di avere preso le loro difese, ma non so più niente. Sono passata per il campo di Flossenburg, in cui non ricordo di essere stata, ma ricordo di essermi ritrovata il 14 di dicembre nella fabbrica di lampadine Osram, a Plauen. Non so come sono arrivata… Mi sono ripresa, mi sono guardata intorno, ho detto:” Dove siamo?” Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze… “Ma non ti rendi conto che sei nella fabbrica, ma dormi?” Nessuna si è accorta che non sapevo niente, di quel periodo non ricordo niente,non so. Mi sono ritrovata in fabbrica a lavorare, ma non so come sono arrivata. Parlavo quel poco di tedesco, che sapevo. Assieme alla mia compagna, lavoravo nel magazzino e là abbiamo lavorato fino alla liberazione.Ho avuto la fortuna di avere un direttore della fabbrica meraviglioso con tutte noi, con tutto il nostro gruppo …Eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato veramente come fossimo state operaie, lavoratrici della sua fabbrica. Era sempre gentile con noi, quando avevamo bisogno di qualche cosa ci aiutava, se qualcuna era malata la faceva curare. Abitavamo nella soffitta della fabbrica, tutta la soffitta era a nostra disposizione. Avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno: non una doccia, ma almeno un rubinetto per poterci lavare. Ognuna aveva il suo letto, perché nel castelletto ognuna aveva il suo pezzetto; io ero una fra le più giovani, ed ero su in alto. La mattina, ci davano il solito tè da bere e si andava al lavoro alle 6. Ognuna aveva una mansione, un lavoro, che imparava con gli operai, che ci insegnavano. Ognuna faceva quei lavori della fabbrica di lampadine: si iniziava con il vetro, poi fino alle lampadine più grandi, quelle enormi, che erano molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese di quel lavoro, poi sono andata nel magazzino. Quando ero là dentro mi sentivo sempre tanto male, mi sentivo male. La prima volta - sarà stato il 20 o il 21 di dicembre - mi sono sentita svenire, sono mancata mentre dove lavoravo. La mia compagna ha chiamato aiuto: mi hanno dato un po’ d’acqua, sono rinvenuta e ho continuato a lavorare, ma avevo un tal mal di testa, che mi sembrava di impazzire. Sono svenuta per tre volte , la terza volta, però, c’era il direttore e mi ha visto, è stato lui a prendermi in braccio a sollevarmi e a chiamare il soccorso, che era dentro nella fabbrica. Però quando rinvenivo perdevo nuovamente i sensi, ha chiamato la Croce Rossa e mi ha portato in un clinica, la clinica in cui avevano diritto gli operai della fabbrica. C’era con me, però, anche la tedesca con il cane, perché - non lo si sa - ma c’è anche il cane . Quando il medico mi ha visitata, mi ha chiesto dove avevo male, ho mostrato l’orecchio e ho detto: “Qua: mi fa tanto male l’orecchio”.L’orecchio mi spurgava. Mi hanno pulito, mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo, è successo nuovamente. Praticamente, questi episodi continuano fino al 14 di gennaio … Quando mi hanno riportata là, quasi non rinvenivo più, dai dolori: ogni tanto mi mettevano sotto il naso della melissa o altro per tenermi sveglia. Mi ha visitata un altro medico e gli ho mostrato dove avevo male: lui mi ha preso la testa e … ha premuto sulla parte, che mi faceva male… Ho urlato…Un urlo paventoso, mostruoso…Tutti si sono spaventati. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria …Mi hanno fatto tantissime radiografie … Mi hanno fotografata tutta la testa e io, ridendo, ho detto:”Per andare al cinema?”. Si sono divertiti un po’ con me, con quel po’ che parlavo, mi hanno chiesto moltissime cose. Mi hanno detto: “Senti bambina: ti faremo un’operazione, faremo di tutto per salvarti”. C’era un medico meraviglioso, il chirurgo che mi ha detto… C’era anche una… Perché noi nella fabbrica avevamo un medico interno: era una una dottoressa russa, meravigliosa, prigioniera. Era un colonnello dell’aviazione russa ed era medico. Lei ci curava, dentro nella fabbrica, quando c’era qua lcuna malata; c’era una stanza, chiamata “revier” , dove lei curava tutte le ammalate. Il direttore della fabbrica aveva voluto che la dottoressa mi seguisse, non so perché, ma aveva molta fiducia in quella dottoressa. La dottoressa, quindi, è venuta con me e anche la tedesca. Quando mi hanno portato nella sala operatoria hanno chiesto se volesse entrare anche lei. ”Sarei felice !” ha detto la dottoressa “Perché quella bambina soffre molto…” ed anche lei era presente durante l’operazione. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa. Mi hanno ripulito mezza testa, perché io qua dentro ho tutto vuoto, mi hanno … Grattato tutto quello che c’era … Hanno lasciato un pochino, perché qua io ho una cosa dentro, non so cosa hanno fatto. Mi hanno salvata praticamente. Siccome non potevano darmi nessun medicinale, perché lo aveva proibito la tedesca, il medico,mentre avevo la testa fasciata … Avevo una testa! Avevo soltanto un pezzettino aperto dall’occhio , ero come una mummia. Il medico ha messo tra le bende tanti tubetti di vitamine… E aveva dato ordine alla dottoressa di darmele ogni giorno, facendomele sciogliere in bocca. E la dottoressa mi ha seguita, con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi dovesse toccare, finchè sarei rimasta nella fabbrica, per terminare le cure. Lui, inoltre, avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore. Nel frattempo si è ammalata un’altra: aveva la tubercolosi. Era uno scheletrino la povera Rosa, e l’ha messa anche a lei nel “revier” . Vedendo che tossiva, l’hanno fatta rimanere su con la dottoressa, che si è presa cura di lei. E’ riuscita a ritornare a casa, ma poi è morta. Io ero talmente indebolita, che non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa, un po’ seduta. Quando ho potuto camminare, sono andata giù in fabbrica, ma il dottore ha detto che avrei dovuto fare, soltanto delle cosette piccole, cose leggere. Quando mi sentivo stanca avevo l’obbligo … Il diritto di riposarmi. La notte non lavoravo: facevo sempre i turni di giorno. Ho fatto fino all’ultimo quello che ho potuto, sempre lavori leggeri, e questo fino alla liberazione. Ho cercato di tenere anche un diario mentre ero in fabbrica…Ma prima, vorrei raccontare questo fatto: la notte di Natale, una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco, che lavorava nella fabbrica, e lui l’ ha aiutata a scappare. All’appello del giorno di Natale lei non c’era …E’ stata cercata per tutta la fabbrica: non c’era… Noi siamo state messse in castigo una giornata intera, perché volevano sapere da noi, ma nessuna sapeva niente. Abbiamo fatto il Natale senza mangiare; alle sei di sera ci hanno dato il permesso e abbiamo bevuto quel tè nero e sino al giorno dopo, a mezzogiorno… niente. Il giorno dopo - era il giorno di Santo Stefano - le tedesche erano ubriache: avevano fatto una festa enorme e noi sempre sull’attenti. Il giorno dopo ancora, abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. Quella dottoressa aveva prigioniera una sorella… La dottoressa si chiamava Muscenka, e la sorella si chiamava Tania. Non so per quale motivo, ma è successo che le hanno aizzato i cani contro, quando è entrata su nella soffitta, e noi dovevamo assistere alla scena di quei cani che l’hanno morsicata per tutto il corpo. L’ hanno quasi fatta a brandelli. Poi l’ hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa, pian piano ha curato sua sorella e poi è rimasta anche lei là in fabbrica. Questo era uno dei tanti, tremendi giorni, momenti terribili… Dover assistere all’annientamento di una persona in quella maniera… Fortunatamente era ancora viva e la sorella l’ha curata. Questo è il mio diario, i miei ricordi, le cose che scrivevo, le lettere che scrivevo alla mia mamma, qua c’è una poesia che ho fatto per la mamma, qua sono tutte le cose che mi venivano in mente e che scrivevo. Mi rilassavano un pochino… Parlavo con la mamma. Ne avevo due di questi, uno, purtroppo il più grande, me lo hanno rubato al mio ritorno, quando sono rimpatriata a Bolzano … Ho perso tutto. A memoria posso ancora dire cosa scrivevo alla mamma: “Mamma, sappi che io qui sto molto bene non ho bisogno di niente, non pensare di mandarmi un pacco, non mandarmi niente, né vestiario, né niente, perché qua stiamo talmente bene, che non necessitiamo di niente, è tutto a posto. Quando verrò a casa ti racconterò. Cara mamma la cosa più bella e che io parlo ogni giorno con te e con la nonna. Non c’è niente di più bello che ritornare la sera, quando tutto è silenzio, e parlare con voi: questo mi aiuta a vivere. Alla liberazione mi ricordo che le tedesche ci aveva no chiuse nella fabbrica, che era diroccata da una parte …Noi eravamo proprio dalla parte diroccata, che era rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse dentro e loro sono fuggite. Sentivavamo ….C’erano i Russi, gli Americani e gli Inglesi, che andavano verso Berlino… hanno quasi distrutto Plauen. Era buio, per non so quanto tempo, forse due giorni, forse un giorno e mezzo…Eravamo sempre al buio, perché era tanto il fumo delle bombe, della distruzione, che era sempre buio, sempre tenebre. Però quando c’era calma, si sentiva parlare ,si sentivano i militari.Da una di quelle finestre ferrate ,che erano con il vetro, con dentro il metallo… abbiamo - io no perché non avevo la forza, ma quelle che avevano ancora un po’ di forza - disfatto il letto, dove dormivano le tedesche, e con quell’asta di ferro con cui era fatto, hanno picchiato sui vetri, fino a che hanno fatto un buco. Hanno, poi, messo sull’asta un lenzuolo, con su una croce rossa, fatta col nostro sangue… C’erano delle bottiglie e dei bicchieri, li abbiamo rotti e coi vetri ci siamo punzecchiate per far venire fuori il sangue e con quello abbiamo scritto… Abbiamo fatto una croce rossa. A furia di gridare ci hanno sentito. Si gridava alla disperata e un paio sono impazzite - specialmente le russe, poverine, che avevano il numero 42000 , ed erano là fra le prime, erano quasi impazzite -. Era una cosa da impazzire eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi senza mangiare… Era tremendo. Finalmente si sono resi conto che eravamo su e sono venuti gli Americani, che ci hanno liberato. Io ero a letto, talmente sfinita, che non mi alzavo più. Gli Americani, che sono venuti su hanno perlustrato la stanza e hanno portato in braccio diversa gente. Quando mi hanno sollevata dal letto, mi hanno detto: “Ma sei una bambina! Quanti anni hai? Undici? Dodici?” Una cosa che mi ha portato sempre fortuna… Il militare che mi ha sollevata ha parlato in inglese e io in sloveno …. Ho detto: ”Madonna Santa aiutami!”, lui mi ha sentito parlare lo sloveno e mi dice, in uno sloveno un po’ stentato:”Ma sei slovena?” Anche la mia mamma è slovena. Quella volta del ‘14-‘18 molta gente è andata in America. Lui non sapeva tutto… Così gli ho raccontato.Mi ha preso in braccio, mi ha sollevata e stretta al petto e mi ha detto:” Dio mio, Dio mio, ma come si può ridurre una creatura così?!”. Poi mi ha portato giù, mi ha affidato alla Croce Rossa e poi i Russi mi hanno portato all’ospedale del campo. Mi hanno rifocillata e curata.Per quindici giorni, mi hanno tirata su, prima con il tè, solo tè poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato poi, quando ci siamo riprese, ci hanno portato nel campo di smistamento. Sono imasta pochissimo in quel campo, perché ho trovato una brigata… Ci siamo trovati diversi triestini …Ero ancora un po’ giù di corda …Sono tornata a casa ancora con la testa fasciata, per due mesi, e mi ha curata il Professor Danilo che è stato pure lui ad Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato… C’era una di Gorizia , del Goriziano, era più anziana di me, io andavo verso i venti e lei aveva trentacinque anni: per me era come una mamma e si è presa cura di me. Mentre ero là, due giorni, sono entrati tre triestini, erano prigionieri dei campi militari, non erano deportati, ma militari, prigionieri dei campi di concentramento in Germania. Quando sono entrati hanno chiesto, come tutti, se c’era qualcuno di Trieste. “Sì, c’è una di Trieste” e quando vengono in quello stanzone una grande camerata, dove erano i letti per le donne…Uno viene là e mi trova a letto, perché non stavo molto bene… E mi vede con la testa… Ha preso paura viene da me e mi dice:” Posso darti una bacio, sono triestino, ti porto altri tre compagni triestini.” Questo primo triestino era grande amico di un milanese … Questo milanese, Arturo Tomasi, era anche lui, mi sembra, militare, ed erano assieme nel campo dei militari: è venuto anche lui a trovarmi e ha portato tutti quelli che conosceva, avevo tutti gli amici, era meraviglioso. Sai cosa ha fatto, mi ha portato… Quando ero là avevo ancora il vestito del campo, dopo tanti giorni di liberazione. Mi dice: ”Ma come mai sei vestita così ancora? C’è nessuna delle tue compagne che ti abbia portato un altro vestito? Sono tutte vestite a festa e tu sempre con quell’abito…”. “ Sai “ ho detto “ Non posso uscire non mi sono potuta arrangiare.” In un batter d’occhio sono usciti e sono ritornati: mi hanno portato una gonna grandiosa… La mia compagna di Gorizia mi ha detto:” Non ti preoccupare te la faccio io” . Me l’ha fatta per la mia grandezza e quando l’ha finita mi ha vestito bene: hanno trovato una blusettina di organdis e mi hanno messo quella. Lei me la ha fatta più piccolina, me l’ha ristretta e mi hanno vestito a festa. L’ Arturo il compagno milanese, siccome portavo ancora gli zoccoli, mi ha detto: “Senti Nerina, ti prometto che domani mattina sono da te, non chiedere perché.” Dove eravamo c’era un caserma di tedeschi; dentro la fureria ha preso delle scarpe dei tedeschi, nuove e mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … Bellissimi! E tutti mi chiedevano dove li avessi trovati del mio numero. Ho detto che avevo l’angelo custode, e veramente era un angelo custode: era meraviglioso, era un po’ più vecchio di me perché aveva trent’anni, io ero più bambina. Si è preso cura di me e con i ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento, perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo, hanno cercato il posto migliore da dove si poteva scappare, hanno fatto un buco… Cercavano di fare qualche cosa, di combinare, di fare un carretto per me, perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto … Hanno trovato una carrozzina con quelle due belle ruote grandi, e un po’ di legno e mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile per potermi sedere bene. Su quel carretto hanno messo delle cosette, che avevano trovato, mi hanno procurato anche degli indumenti personali… Tutto loro, perché io non potevo. La fuga… Eravamo in dieci: c’era uno della Calabria, uno del Trentino, un milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. Tutto era pronto: non bisgonava fare altro che, aspettare, che la ronda cambiasse giro.Mi hanno portato nella notte - notte fonda, quando tutti dormivano - dentro nel buco: prima l’Arturo, il più vecchio, poi io e la mia compagna e poi tutti gli altri, di seguito. Ci siamo messi in marcia: io pacifica come una patrona seduta e loro, poverini, che mi spingevano. Mi hanno riportata a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi. Durante il giorno si camminava, ci si chiedeva l’uno con l’altro dove si poteva andare, puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava, ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, si andava a rubare qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’erano i negozi, qualche negozio aperto, si chiedeva … Ho mostrato i miei numeri di campo e quelli della mia compagna di campo, si mostrava il numero e hanno capito subito che eravamo prigionieri. Ci davano qualche cosa da mangiare, quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente. Si cercava di andare verso Vienna, ma a un dato momento…. Si passava la notte all’aperto e una volta ci ha sorpreso la pioggia, ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito e la pioggia ci ha bagnato per bene, ci correva dietro la schiena, perché eravamo distesi per terra sul prato…In giugno, col caldo… Quando ci siamo svegliati la mattina eravamo già quasi asciutti, perché il sole ci aveva asciugati, ma io avevo dei brividi, sempre dei brividi e dicevo che avevo freddo. Troviamo un paese, un bel paesetto: sono andati a chiedere a un colono, che aveva una bellissima campagna, se si poteva rimanere, se aveva un fienile, per riposare la notte, perché la loro compagna di viaggio - di sventura - non stava troppo bene. Ci hanno dato delle coperte, ci hanno messo nel fienile, però nel pomeriggio la mia temperatura è salita, hanno detto che farneticavo, che contavo certe cose… Parlavo di cose che loro non comprendevano. Avevo bisogno di qualche cura, di un medico.Un medico si poteva trovare in diversi paesi, nei dintorni, ma siccome erano tutti a venti o venticinque chilometri di distanza, il signore ha prestato la bicicletta ad uno dei miei compagni e con lui sono andati dal medico. Questi, arrivato, mi diagnostica la broncopolmonite:”Guardate ,lei non si può muovere, deve rimanere qua!”. Mi ha dato dei medicinali, e “Mi raccomando, deve sudare: copritela, copritela bene”. Hanno fatto così, dopo otto giorni il medico è tornato e gli hanno chiesto se si poteva partire… Acconsentì,raccomandando:” Badate che non vi prenda la pioggia, perché lei è ancora molto debole e fragile”. In paese ci hanno dato una tuta olimpionica, mi hanno vestito con quella e con scarponi di montagna, perché era freddo e non potevo andare coi sandali, e con me, così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che c’era un treno che portava a Vienna … Abbiamo preso quello, di corsa… La cosa più bella era che ci avvicinavamo a casa. Abbiamo preso il treno, un treno che portava carbone: ci siamo fatti un posticino e quella notte abbiamo dormito sul treno, che andava pianissimo, perché c’erano delle stazioni bombardate. La mattina ci siamo svegliati, e abbiamo sentito parlare è polacco: eravamo entrati nuovamente in Polonia. Siamo quindi tornati in Germania, non ricordo che stazione fosse, ci siamo imbarcati su un treno e siamo ripartiti verso la Germania. Ci hanno presi per un tratto di strada, dei camion che portavano viveri in Germania e poi ci hanno detto che eravamo in Germania e che, quel giorno, sembrava arrivasse un treno, che portava i prigionieri francesi a casa. Aspettando, forse, avremmo avuto fortuna: potevano prenderci con loro. Abbiamo aspettato… A noi si sono avvicinati altri prigionieri, che erano rimpatriati, un gruppo di trenta persone circa … Abbiamo chiesto se potevamo andare anche noi… “Siamo Italiani” abbiamo raccontato. “Noi non abbiamo collegamenti con nessuno e cerchiamo di rimpatriare come meglio possibile”. “Ma noi andiamo su per la Svizzera…” . “Ma è sempre più vicino all’Italia: ci lasciate al confine e poi…” . Così ci hanno preso. Siamo saliti sul treno, ma non c’era più posto, perché erano in tanti; così hanno preso,alla stazione, delle travi e le hanno messe di traverso sul vagone bestiame… Lì sopra siamo saliti noi e tutti quelli che c’erano alla stazione. Hanno fatto diversi vagoni e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera. Sul treno si sono accorti che c’erano molti ammalati: avevano tutti il tifo e la Svizzera: ”Mi dispiace, non si entra: passate per il Brennero”. Al Brennero siamo arrivati con il treno a Bolzano, dove ci hanno scaricati. Gli altri hanno proseguito e noi siamo rimasti là, perché a Bolzano abbiamo saputo che c’era la città di smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dei campi: quelli che ritornavano per l’Italia, là avevamo tutto, c’era il rifugio, il ritrovo. Io non potevo camminare, allora questi cinque ragazzi, che erano con noi, tutto il nostro gruppo, hanno portato le cose verso la stazione, perché venivano dei pullman a prenderci e ci portavano in una … Non era una caserma, sarà stata una casa di qualcosa, che era un po’ bombardata…Era qualche cosa dove venivano portati i malati, qualche ambulatorio, qualche cosa di simile. In Svizzera, prima di mandarci indietro, ci avevano dato qualche cosa per coprirci, da mangiare e ci hanno dato uno zainetto con dentro una coperta, ci hanno rifornito molto bene e ognuno aveva il suo zainetto. I ragazzi portavano gli zaini e li hanno appoggiati sul muro del… Due si sono fermati e gli altri sono tornati al treno, mentre erano via ci hanno portato via tutti gli zaini, ci hanno derubati, e quando siamo ritornati gli zaini non c’erano più. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberate, quella è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo, che era per me la continuazione della mia vita… Dimenticare quella vita, per tornare a farne una nuova era tutto. Avevo dentro dei libri, delle cose che ho scritto, un bel diario, non come questo, più grande, che mi ero fatta tutti i giorni man mano che passavano, alla sera… Quel poco mi annotavo, per poterne poi parlare, raccontare. Tutto mi hanno portato via… Una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia, grassa: avevo due tute, una sopra l’altra, la testa fasciata, una sciarpetta che mi copriva la testa,perchè mi vergognavo di tutto quel bianco! I ragazzi mi hanno dato gli scarponi, perché con quelli si poteva camminare meglio…Qua ndo siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine, il grande problema era come arrivare a casa, perché tutto era bombardato, il treno non camminava, da Udine non camminava, dovevamo arrangiarci in qualche maniera, per ritornare. Il percorso da Bolzano a Udine… Un pullman ha preso tutti quelli, che erano nelle vicinanze, nei dintorni di Udine, nei dintorni di Trieste, tutti quelli di quelle zone, che si trovavano in quel momento. A Udine, c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere .Ci hanno detto che dovevamo fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto, per poter scappare da Udine: è stato lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. La fuga del gabinetto, un’altra fuga. Quando ci hanno portato in questo … Mi sembra … Era qualche cosa di militare o di comunale, c’erano i gabinetti … Qualche scuola, qualche ricreatorio… Dove andavi e ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto giù da basso, di modo che siamo andati dentro, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare e quello che ci hanno chiesto, ci siamo messi in una stanzetta al piano terra, perché loro avevano già progettato la fuga dalla quarantena. Avevano visto un gabinetto: c’era un finestrino che si doveva spingere.Per primo è andato Luciano ,che era di Trieste ed era il più piccolino,era il più giovane, era molto snello, perché aveva vissuto bene, una bella prigionia. Poi è andato quello che era il più grasso, uno è andato spinto di traverso, si è anche fatto male alla spalla; poi hanno sollevato me e mi hanno fatta passare. Ci troviamo la sera, la notte tardi a Udine, questo sempre di notte … Abbiamo cercato di andare alla stazione in cerca di qualche treno in partenza. Siamo andati alla stazione, siamo partiti, ma a Santa Maria la Longa siamo scesi, perché da lì non si andava più. “Che succede?” … Là ci siamo messi in cammino: “Aspettiamo”. “ Non c’è niente da aspettare”… “Bisogna pensare che, fino a Monfalcone, non c‘è niente! A Monfalcone potrete camminare avanti col treno, perché da Monfalcone a Trieste, la linea è fatta, è pronta, è libera”. Ci siamo incamminati… Dopo aver fatto abbastanza strada, stanchi ci siamo seduti al margine della strada, su una colonna… Io avevo tanta sete.”Sopporta, abbiamo sopportato tanto”. Da una stradina del paese, ad un certo punto, stava venendo giù un carradore, un uomo coi cavalli, col carro, che doveva fare una missione, non so per dove. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi; quando ha saputo che eravamo dei rimpatriati e che andavamo a Trieste – eravamo rimasti soltanto noi triestini – “Se potesse portarci almeno un pezzetto, ci lasci poi sulla strada.” Ci ha presi sul carro, aveva una bottiglia d’acqua, ce l’ha data da bere… “Ragazzi, non posso telefonare, ma capiranno, vi porto fino a Monfalcone, a Monfalcone avrete fortuna, perché i treni ci sono, uno vi prenderà su”. “Ma non abbiamo i biglietti!”. “I biglietti!!! Ma che ti sogni! Ma devono portarvi in braccio”. Difatti, poverino, ci ha portati fino a Monfalcone. A Monfalcone ci hanno ristorato - meravigliosi i monfalconesi - ci hanno dato quello che potevano, ci hanno dato un panino, ci hanno dato una mela… Ci hanno preso le generalità, hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di là, hanno fatto un’inchiesta su tutti i deportati se sapevamo se c’era qualche vivo, qualche morto, e poi ci hanno rifocillati nuovamente, perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. E così alle 6 di sera, il treno è partito. Il treno era un treno lumaca. Su quel treno c’era della gente che andava a fare la borsa nera, andavano nella Furlania,dove portavano il sale e prendevano il mangiare. Mentre ero sul treno, ho sentito che parlavano il triestino… in un vagone davanti al nostro, siccome i vagoni erano aperti. Siamo andati avanti per ascoltare meglio …Erano due persone, che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto. Una si ferma… Io sempre con la testa fasciata, la signora più anziana… Mi guarda, mi fissa: “Madonna, non è mica Silvia?” E lei: “Oh Dio, Anna, è la cisa che ritorna, è la cisa non è morta, non è morta.” Qualcuno aveva riportato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che io ero morta… “ Mamma mia, la Rosina impazzisce”. Là ci ha preso una tale … Smania di tornare a casa, una voglia di correre e ho chiesto come prima cosa:”Anna, mio fratello è tornato vivo?”. “ Sì, ti aspetta”. “Non me dici bugie?”. “Sì, il fratello, la mamma e il papà, tutti ti aspettano” . Non avevano voluto dirmi, che tutti pensavano che ero morta. Io, con quegli altri ragazzi, ci siamo nuovamente riuniti, perché eravamo assieme in tutti i momenti, dopo tutta la nostra Via Crucis. Alfredo: “Stai ferma, siediti un attimo, abbi pazienza, calma!” Non so quante volte ho percorso il treno su e giù, camminavo. Quando siamo entrati nella nostra zona, ho visto Miramare: mi sentivo fare “bububum bububum” … Si fermava, ho detto: “ Oddio mi si ferma il cuore”. Tutto a un tratto, nuovamente, ho sentito battere forte il cuore, mi sentivo il fuoco alla testa. “Ma guarda, non arrivo neanche a casa”. Finalmente siamo entrati nella stazione, io camminavo su e giù su questo treno e, non appena hanno aperto le porte, io ero la prima, che poteva scendere, ma non sono scesa, no, sono caduta indietro sono svenuta, mi hanno portato in braccio e quando sono arrivata dentro, hanno chiesto un po’ di acqua, mi hanno dato l’acqua.Non c’era nessuno alla stazione ad attendere un rimpatriato in Trieste, perché il giorno prima erano partiti i partigiani: il giorno prima c’erano i partigiani il giorno dopo la città era vuota. C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente. Alfredo e gli altri ragazzi che erano con me: “ Andiamo noi e la portiamo fino a casa…” .”Ragazzi, non abbiate paura, è in buone mani, noi abitiamo al piano di sotto, la portiamo a casa noi, la Nerina, vedrai sarà a posto, sarà ben curata, le portiamo anche quel piccolo zainetto che le avete dato voi.”. Mi avevano dato un piccolo zainetto coi loro ricordi. Siamo arrivati a casa, ero tutta infagottata, e ,quando sono arrivata a metà strada, c’era la casa di mia zia… Ho visto mia cugina alla finestra, che guardava le signore, che erano imbottite del mangiare, delle compere, che hanno fatto in Furlania - io ero là tutta imbacuccata - e lei diceva: “ Guarda quella là: fino in testa si è messa qualcosa da nascondere!” E mi guardava…Mentre anch’ io la guardavo, tutto ad un tratto ho visto che impallidiva. Con un urlo dice:” Mamma è ritornata mia cugina!” Quella, è stata la prima volta che ho pianto. Quando ci siamo viste, non potevo né parlare né niente …( lungo silenzio si percepisce l’emozione di Nerina). La zia mi ha preso in braccio e mi ha detto:” Sfrigolino mio, sei ritornata!” e mi ha portato a casa dalla mamma: è corsa su con me, non ha permesso che nessuno mi toccasse, è sempre rimasta attaccata a me, e mi ha portato dalla mamma. La mamma non c’era a casa era andata con un’altra signora, a cercare il marito. Intanto mio fratello era uscito, per andare a parlare con alcuni ragazzi, che dicevano, che era arrivato un camion, su cui c’erano delle donne: anche se sembrava che venissero dalla Slovenia, lui era nadato a cercarmi là… Quando sono rientrata, ho avuto la fortuna di avere il papà, che ,poverino, si è attaccato a me: non poteva lasciarmi. Poi è giunto mio fratello e, per ultima, la mamma, che avevano portato in braccio… Quando mi ha vista, ha detto: “ No, questa non è mia figlia, avete sbagliato non è lei, non è questa, non la conosco!”. Si capisce: ero tutta fasciata, ero talmente piccola, quando sono partita e piccolissima, quando sono rientrata. La mia mamma appena mi ha visto mi ha chiesto: “Amore, ti faccio il caffè?”. “No, mamma,il caffè l’ho bevuto,ti prego: fagioli, fammi dei fagioli”. E ho chiesto: “ Papà, hai del vino?”. “Del vino?Te che non bevi?”. Mi ha dato la bottiglia e io me la sono messa in bocca, l’ho bevuta così…Mezza bottiglia. Poi, un po’ alla volta, ho mangiato i fagioli; la mamma non li aveva nemmeno conditi e mi ha detto: “Ti raccomando, piano: uno alla volta.” E quando vedeva che ne prendevo troppi, mi faceva: “Via, piano!”. Poi sono venuti tutti i miei zii, tutti quanti là, e dicevano: “Non mi racconti, non mi parli, niente…Ci parleremo…L’essenziale è che tu sia ritornata.” E abbiamo fatto la notte, in piedi, con il contorno dei miei dolci parenti.