La Tunisia a due anni dalla fuga di Ben Alì cerca

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La Tunisia a due anni dalla fuga di Ben Alì cerca
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ANNO XXXIV - N. 4 - 17 GENNAIO 2013
La Tunisia a due anni dalla fuga di Ben Alì cerca un rilancio
economico e culturale
Il “volano” potrebbe essere il 12° Forum Sociale Mondiale del marzo prossimo. Un libro
di Ilaria Guidantoni documenta il periodo post rivoluzionario di un Paese in cambiamento.
D
al 26 al 30 marzo prossimi si svolgerà a Tunisi il 12°
Forum Sociale Mondiale. A due anni dalla fuga del presidente Ben Ali la situazione resta sempre difficile, se pure il Paese
sta rialzando la testa. Non ha i soldi del vicino Marocco, ma ha
storia e bellezze che meritano attenzione dell’Occidente. Del
resto, all’epoca la Tunisia era stata scelta a giusta ragione in quanto culla delle «primavere arabe» e paese che vanta un ricco tessuto associativo. Ma oggi come oggi proprio Tunisi e la Tunisia
sembrano diventare il centro della nuova frontiera nordafricana.
Insomma, non essere soltanto la base di partenza per un'emigrazione clandestina e disperata. E su questo lavora da tempo il neo presidente Moncef
Marzouki (nella foto).
In quest’ottica si inserisce anche un'iniziativa sostenuta da rappresentanti italiani del
mondo della cooperazione. Sulla base dell'esperienza italiana? nelle Pmi, infatti, Monica
Carco, rappresentante a Tunisi dell'Unido (l'organizzazione dell'Onu specializzata nello
sviluppo industriale) e Lorena Lando, rappresentante dell'organizzazione mondiale per le
migrazioni (Oim), hanno premiato nei giorni scorsi, nell'ambito della valorizzazione dello
spirito imprenditoriale e innovativo, 71 progetti sui duemila presentati alla Cite' des
Sciences di Tunisi, un luogo simbolo per la gioventù tunisina.? Emanuele Santi, economista della Banca Africana di Sviluppo, ha dichiarato: ''Oggi la Tunisia ha bisogno di un
rilancio economico per riuscire nella transizione politica e, attraverso questa iniziativa,
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vogliamo mostrare che il paese ha le capacità necessarie per ripartire''. A sostegno della
realizzazione del progetto, unico nel suo genere in tutta l'Africa, sono venti partner. Dalla
Banca Africana di Sviluppo, al mondo associativo, a grandi imprese come Microsoft e
Total, oltre a Fao, Ilo, Unido e Oim. Il programma offre non solo finanziamenti, ma anche
un accompagnamento imprenditoriale per un anno.? Come ha spiegato Monica Carco,
ogni partner contribuirà all'esecuzione dei progetti nell'ambito del proprio settore di ?competenza. L'esponente dell'Unido ha poi sottolineato la grande partecipazione soprattutto da
parte delle fasce piu' svantaggiate della popolazione. I giovani fra i 18 e i 34 anni rappresentano infatti il 54% dei beneficiari e le donne sono un terzo dei candidati selezionati.
“Questi progetti” - ha osservato da parte sua l'economista italiana del team, Federica
Ricaldi – “faranno la differenza grazie all'effetto leva: oltre al milione di euro di sovvenzione, sono stati infatti mobilitati circa 2 milioni addizionali, per un finanziamento totale
di 3 volte la cifra iniziale”.
Di grande impulso per il rilancio dell’immagine tunisina nel mondo è anche il libro di
Ilaria Guidantoni “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia”,
una sorta di documento sulla transizione tunisina del post-rivoluzione 14 gennaio 2011. Il
volume della collana Revolution di Albeggi Edizioni, si pone con l’attenzione che merita
la situazione, visto che ora viene il momento più arduo da raccontare perché estremamente difficile da capire, quello della transizione verso la nuova Costituzione e le elezioni per
il primo Governo regolare. Nessuno sa quanto durerà, né dove porterà questa fase nuova
e complicata. I partiti navigano a vista e c’è il desiderio di ritrovare l’identità nella tradizione religiosa; questa è una delle chiavi per comprendere l’ascesa di EnnahDa, formazione politica islamista simile alla nostra Democrazia Cristiana degli anni ‘60. Di fatto, il
partito di maggioranza relativa. Lavoro, salari migliori e una vita più serena. Tutto questo
non è arrivato; c’è, invece, da ricostruire un sistema produttivo, ristrutturare il sistema
agricolo, rivitalizzare il turismo. I passi avanti però si scorgono: la libertà di espressione
è acquisita, la cultura e l’arte sono in fermento, pur senza un ruolo di guida da parte degli
intellettuali rispetto all’evoluzione politica; i giovani, seppur acerbi politicamente, poco
organizzati e confusi dall’incertezza del momento, rappresentano un grande potenziale di
accelerazione del cambiamento. Il libro è una tessitura di incontri-conversazioni con varie
figure della società tunisina, come Kmar Bendana e Silvia Finzi, docenti a La Manouba;
Imen Ben Mohamed, deputata di EnnahDa, eletta in Italia; Luigi Merolla, direttore
dell’Istituto Italiano di Cultura a Tunisi; le scrittrici Lilia Zaouali e Fawzia Zouari; e poi
giornalisti, artisti, manager, gente comune. Il libro tocca i luoghi strategici della rivoluzione: dall’Orologio, detto il Big Ben, celebrativo del presidente Ben Ali nella ribattezzata piazza 14 gennaio, giorno della sua detronizzazione; al cosiddetto Ministero del
Terrore, metafora dell’orrore custodito nei sotterranei per lunghi anni di corruzione e violenza; all’Hotel Africa, rifugio dei giornalisti durante la rivoluzione, simbolo del vecchio
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regime. Infine, l’autrice descrive i luoghi storici di Tunisi, come la Medina, brulichio di
voci e odori e il Museo del Bardo, e consiglia luoghi di cultura, ma anche hotel, ristorantini, caffè e negozi speciali, per un soggiorno piacevole e non solo culturalmente impegnato. Un libro fresco, accessibile e utile. Di questi tempi non è poco davvero.
La trappola Bersani-Renzi verso l’elettorato di centrodestra è
stata smascherata
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Non esiste nel Partito democratico compatto a sinistra un’area moderata.
n po’ tutti, nel centrosinistra come nel centrodestra, in coro
con gli illustri commentatori mediatici, avevano accolto le
Primarie pre-elettorali del Partito democratico come una vittoria
campale, al 60%, dei “progressisti” sui “moderati”, degli apparaturist sui liberal. Insomma, il postcomunista Pier Luigi Bersani
che riduce il cattolico liberista Matteo Renzi (nella foto) al 40%
dei “democrat”, dimostrando che quella forza politica che si
apprestava a conquistare Palazzo Chigi rappresentava, per la
prima volta dai tempi del Pci, la sinistra in Italia. Riducendo la
minoranza messa su dal Sindaco di Firenze al rango di una confraternita di compagni di strada con la missione di facilitare il voto di quei ceti insoddisfatti
dal berlusconismo e dal montismo. Non era questo il sistema adoperato nel secolo scorso
da Togliatti e da Berlinguer per allargare la base proletaria? Ed anche nella composizione
delle liste per la Camera e per il Senato il segretario del Pd non è mai stato così saldamente al comando in un complesso politico mai appunto tanto a sinistra. Da Stefano Fassina
candidato a Roma a Cesare Damiano a Milano. Più l’infiltrazione di Niki Vendola, vedi il
caso pur egli cattocomunista. Mentre i postdemocristiani storici che occupano nel Pd posizioni chiave e sono stati tutti riconfermati in lista per le prossime elezioni (a cominciare
dal capogruppo della Camera, Dario Franceschini, e dalla presidente del partito, Rosy
Bindi), rappresentano ormai l’asse portante della classe dirigente bersaniana, veri e propri
chierici cattocomunisti alla Rodano. Esercitando – come ha sostenuto la presidente Bindi
il 2 gennaio in una intervista a Il Messaggero – un potere di attrazione così vasto da aver
fatto del Pd “il partito con più voti cattolici”. Nel senso di postdemocristiani.
Il responso sull’identità del Partito democratico forgiato da Bersani, dopo il pasticcio
veltroniano, è dunque chiaro: quello che era un “amalgama mal riuscito” di diverse tendenze (così lo definì Massimo D’Alema) sta diventando una specifica entità di sinistra.
Una forza comunque più omogenea, perché ormai liberatasi dalle contaminazioni liberalriformiste, quelle appunto del tempo di Walter Veltroni, con i “popolari” ridotti in quanto
tali a pura testimonianza; e dunque disponibile ad aderire senza più titubanze al Partito
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socialista europeo nell’attesa che anche in Germania, come è accaduto in Francia, vadano
al governo i socialisti. Formando in tal modo una Ue progressista. La “Ditta”, come
Bersani ha definito il suo partito ed anche i precedenti del centrosinistra in questo secolo,
è stata molto rinnovata. Ma anche tornata ad essere, quasi come ai tempi del Pci, robusta
e disciplinata. Se questo sviluppo rafforza da un lato il segretario Pier Luigi Bersani ed il
suo apparato, svuotando del tutto, elettoralmente, l’insieme di quella sinistra radicale tipo
Rifondazione comunista che alle elezioni del 2008 si vide espulsa dal Parlamento e posta
ai margini nel corso dell’intera ultima Legislatura, d’altro canto impediva una strategia
capace di attrarre alle prossime elezioni di fine febbraio quelle frange sociali moderate le
quali, pur insoddisfatte dei governi berlusconiani e di quella variante montiana che nel
corso del 2012 si è dimostrata, questa si, punitiva degli interessi dei ceti medi ed inferiori, difficilmente sono disponibili a dare il proprio consenso a programmi scopertamente
“progressisti”, di sinistra.
Bisognava, dunque, inventarsi uno specchietto per le allodole centriste, capace di pescare voti aggiuntivi senza i quali difficilmente il Pd così “sinistrato” sarebbe riuscito ad ottenere la maggioranza anche al Senato; e Bersani quindi essere nelle condizioni di espugnare Palazzo Chigi. Fu soltanto l’Agenzia Giornalistica Repubblica a segnalare subito, il 29
novembre, che quella dello scontro Bersani-Renzi alle Primarie era una finzione, non una
contrapposizione politica ed ideologica di correnti: “Tra le due parti si recita la commedia
dell’arte. Con l’obiettivo realistico (o ritenuto tale) di far compiere alla ‘Sinistra’ quel salto
dalla minoranza storica cui sembrerebbe condannata in Italia ad una posizione finalmente
maggioritaria. Come? Attirando il consenso elettorale degli ‘estremisti’ con Bersani e dei
‘moderati’ con Renzi”. Ma si trattava di una trappola combinata, non di una gara correntizia. Avvertivamo, sulla base di informazioni di prima mano attinte nel campo
d’Agramante: “L’idea che nel centrosinistra si era creata intorno al Sindaco di Firenze una
consistente corrente nazionale di ‘Destra’ ha fatto presa, come ha rilevato ingenuamente e
quindi autolesionisticamente persino Silvio Berlusconi …”. Al contrario, Matteo Renzi era
agli ordini di Pier Luigi Bersani. Un suo valletto.
Non deve comunque stupire che Renzi in persona, seguendo a ruota Fassina e precedendo lo stesso Bersani, abbia ora attaccato Mario Monti ed il suo movimento civico con l’accusa di demagogia (“Stare con il Professore, insieme a Casini e Fini è comunque fantascienza …”) mettendosi al servizio della segreteria del partito nella prossima campagna
elettorale quale propagandista lungo l’asse bersaniano Vendola-Camusso. Ottenendo l’offa della candidatura di una cinquantina di presunti renziani nelle vesti di richiamo per quelle frazioni dell’elettorato di centrodestra che, pur disaffezionate verso Berlusconi e verso
Monti, mai concorrerebbero a mandare in Parlamento onorevoli massimalisti, di sinistra
vera. Uomini di Area Renzi al corrente della corrente con il trucco, come quelli vicinissimi al Sindaco di Firenze: tra i quali il capo della sua segreteria a Palazzo Vecchio, Luca
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Lotti, l’organizzatrice del tour alle Primarie, Simona Bonafè, la coordinatrice dei Circoli
del Sindaco ora sciolti, Elena Boschi, oppure l’ex ministro postdc, messo a fianco del
Sindaco per dargli visibilità, Paolo Gentiloni. Esclusi dalle liste quegli attivisti – come
Roberto Reggi, Sindaco di Piacenza la città di Bersani che fu alla testa delle truppe renziane durante le Primarie - i quali avevano creduto di partecipare, con le Primarie, ad una
corrente antagonista della sinistra radicale al potere per rovesciarla. Fermandosi giudiziosamente, malgrado l’afflusso alle urne del partito di “primarialisti” moderati da sempre
lontani dal centrosinistra, a quota 40%.
Matteo Renzi, schieratosi con il segretario progressista, non abbandona naturalmente il
gioco volto a far credere all’elettore di centrodestra che non tutto il partito sta a sinistra:
“Con una mia corrente”, proclama il 7 gennaio dopo una colazione di lavoro con il segretario, “avrei 160 parlamentari. Saranno solo 50. Perché un partito progressista, di sinistra,
è uno e indivisibile …”. Come dire, se alle Primarie avesse prevalso la mia linea, invece
di quella di Bersani & C. (come potrebbe avvenire in Primarie future), il Pd si sposterebbe unitariamente al centro. Di conseguenza, l’invito ai vecchi elettori insoddisfatti da
Berlusconi e da Monti a rendersi conto che nel Pd ora di sinistra c’è spazio anche per loro.
Un gioco dei bussolotti, naturalmente. Alimentato dal Sindaco di Firenze, ogni tanto, con
la minaccia di non fare campagna elettorale alle politiche a causa di contrasti locali: l’ultimo, sollevato l’altro ieri, riguardava il licenziamento di un decina di dipendenti di un teatro del Maggio fiorentino che la Cgil ed alcuni consiglieri comunali “bersaniani” contrastavano. Episodio che tutti i giornali del centrosinistra, e non solo, si affrettavano a comunicare. Quale dimostrazione per l’elettore moderato che davvero nel Partito democratico
esiste una corrente di centro.
Fallito il tentativo dei soliti noti di compromettere il ruolo
strategico di Finmeccanica nel mondo
L
Con l’archiviazione dell’indagine sui presunti reati del ceo Guarguaglini.
a Procura della Repubblica di Roma ha dunque archiviato la
posizione dell’ex ceo di Finmeccanica, Pierfrancesco
Guarguaglini, per un storia artefatta di false fatture, insieme alla
moglie Marina Grossi, amministratore delegato di una società del
gruppo non certo per nomina famigliare: come comunque se presunti reati del coniuge dovessero comportare responsabilità comuni. Nominato dall’azionista Tesoro un altro presidente ed amministratore delegato della holding nella persona di Giuseppe Orsi
(nella foto), tratto da un’altra società di Finmeccanica, ecco che
altri magistrati aprono un fascicolo d’indagini per corruzione inter5
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nazionale e riciclaggio. Sulla base di denunce anonime volte a compromette Finmeccanica
in quanto tale. Fascicolo destinato, anche qui, ad essere dopo qualche tempo chiuso per
mancanza di prove.
Finmeccanica, il cui capitale di comando fa capo per il 30,25% al Tesoro, nel 2011 era
ancora il primo gruppo industriale italiano nel settore dell’alta tecnologia e tra i primi dieci
al mondo nell’aerospazio, difesa e sicurezza. Il gruppo, guidato da Guarguaglini, impiegava complessivamente oltre 75mila persone, di cui il 41% all’estero. In dettaglio, gli addetti in Italia erano circa 42.700, negli Stati Uniti dopo l’acquisizione nel 2008 della Drs
Technologies 11.602, nel Regno Unito 9.210. La presenza in Europa era forte in Francia
con 3.712 dipendenti, in Germania con 1.047 ed in Polonia con 3.416. Finmeccanica aveva
chiuso il 2.010 con ordini per 22 miliardi di euro, ed ordini per 22 miliardi. E Pierfrancesco
Guarguaglini si apprestava a ricevere dal presidente Usa, Barack Obama, un posto in
prima fila in un budget federale caratterizzato dai tagli ma prodigo nelle spese militari. Ciò
significava nuove commesse a Finmeccanica calcolate nel triennio per oltre 1.000 milioni
di dollari, partendo dall’acquisto di nove aerei V-27J per una spesa complessiva di circa a
480 milioni a cui si sarebbero aggiunti circa 100 milioni per le parti di ricambio e 39 milioni per l’attività di ricerca e sviluppo in sede Drs. Altri 500 milioni di dollari dovevano poi
arrivare dal decollo del programma dell’aereo M346. Ma il business non finiva qui.
Nonostante la crisi ed il risparmio, al Pentagono le risorse per le spese militari americane
nel campo della tecnologia sarebbero raddoppiate nel corso dell’anno e triplicate nel biennio successivo. Finmeccanica su questo terreno aveva ottime prospettive di sviluppo sia
sul fronte egli elicotteri che in altri. E ancora sul fronte specifico della homeland security,
il cui budget esprimeva un valore annuo pari a 57/80 milioni di dollari, in crescita di circa
il 9% rispetto al 2010. Un settore primario, grazie anche alla controllata Drs negli States,
che è particolarmente attiva con la sua divisione di elettronica per la difesa.
Contro questo potenziale d’incidenza straordinaria in campo economico, a cui in tempo
di crisi la Casa Bianca non sarebbe stata disposta a rinunziare, salivano d’intensità specie in Europa gli interessi concorrenziali rispetto all’Italia. Da parte franco-tedesca in particolare. Bisognava allora tagliare il capo alla nostra efficientissima holding delle tecnologie militari e civili. Come? Squalificando con una campagna moralistica – all’italiana,
cioè partendo da notizie riservate fatte giungere al magistrato penale dai soliti noti sì da
permettere ai media ed ai partiti politici d’intingervi il dito senza correre rischi – di grosso impatto emotivo in senso scandalistico. Operazione facilitata dal fatto che un grande
complesso industriale specializzato in produzioni sensibili è tenuto sott’occhio
dall’Intelligence di tutto il mondo, con la conseguenza di poter registrare eventuali interventi finanziari irregolari sugli appalti: specie in Paesi del terzo mondo quali la Libia ed
il Brasile nei cui mercati Finmeccanica era ben presente. Più di una Procura della
Repubblica ricevette così informazioni diffamatorie, subito tramutate per “atto dovuto”
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in interrogatori tra il personale del gruppo sino a trovare qualcuno, magari entrato in conflitto con il top manager, che facesse la spia.
Così è stato tirato in ballo il presidente ed amministratore delegato Guarguaglini, dominus del Gruppo, perché – secondo la formula di rito – “non poteva non sapere”; pur avendo fatto mettere a verbale la propria estraneità rispetto a quelle voci, il governo
Berlusconi-Tremonti decideva quindi, a titolo precauzionale, di dividere il comando in
Finmeccanica, proprio nell’interesse dell’Italia e dello stesso gruppo industriale così squalificato in tutto il mondo proprio nel momento del suo massimo successo. Così Pier
Francesco Guarguaglini lasciava la carica di amministratore delegato ad un dirigente del
gruppo molto qualificato, Giuseppe Orsi appunto, sino ad allora alla guida di Agusta
Westland mantenendo quella di presidente con deleghe decisionali significative. Quel
governo politico conosceva molto bene la prassi, che consentiva di attendere, prima di
assumere provvedimenti punitivi draconiani in aziende controllate dal Tesoro verso un
manager di grosso spessore, che la magistratura, la quale in genere non dà peso all’interesse della Nazione ma, coi tempi lunghi che sappiamo, esamina la veridicità di certe voci
sino, magari, a dover chiudere il fascicolo in mancanza di prove provate. Purtroppo, ci
voleva un nuovo governo, quello tecnico a presidenza di un professore e quindi composto
di inesperti nel considerare il peso di certe accuse scandalistiche troppe volte interessate,
per avallare le considerazioni dei pur incerti Pm. Togliendo a Guarguaglini anche la seconda carica, quella presidenziale con deleghe, ricongiungendola con quella di Orsi. Il che
non ha certo arrecato danni finanziari gravi alla stanza dei bottoni di Finmeccanica, causa
la presenza di un ceo del livello di Giuseppe Orsi assistito da un giovane direttore generale d’eccellenza qual è Alessandro Pansa; al punto da chiudere il 2012 ottenendo un ordine
di 12 aerei Eurofighter dall’Oman e di 8 elicotteri dalla Corea del Sud.
Ciò non toglie che la campagna scandalistica condotta contro Guarguaglini, conclusasi
con la sua assoluzione richiesta dai Pm e convalidata questa settimana dal Gip, abbia danneggiato gravemente Finmeccanica in patria e nel mondo. Anche a causa della sua cacciata persino dalla presidenza per decisione del governo Monti, su richiesta del ministro
dell’Economia-Tesoro, Vittorio Grilli, cioè dell’azionista del gruppo. Quel Grilli che, in
qualità di direttore generale con il ministro Giulio Tremonti nel passato governo politico
di centrodestra, pur si era opposto al dimissionamento di Guarguaglini da entrambe le
massime cariche in Finmeccanica, insistendo altresì affinché gli fossero attribuite deleghe
operative che sono proprie dell’amministratore delegato. E ciò per non avallare compiutamente le accuse promosse dalla stampa italiana ed estera previo contributo della Procura
di Roma. Eppure, che si trattasse di manipolazioni volte a colpire il Gruppo Finmeccanica
in quanto tale e non personalmente i suoi capi, fu chiaro quando Giuseppe Orsi, nuovo
responsabile del Gruppo, venne anch’egli indagato da un’altra Procura, quella di Busto
Arsizio, per presunti reati aziendali in relazione ad una vicenda di compravendita di eli7
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cotteri in India, risalente a quando il neo ceo della capogruppo era ancora alla guida della
controllata Agusta Westland. Anche Orsi ha respinto sempre ogni addebito e sottolineato
il paradossale quanto consequenziale atto mirante a fermare la corsa del grande gruppo
tecnologico nazionale alla conquista ulteriore del mercato globale. Talché, anche per Orsi
come è avvenuto finalmente per Guarguaglini, si prospetta una bella archiviazione. E
senza che il governo prendesse, come ha fatto almeno sinora, provvedimenti contro il
nuovo top manager. Se ne riparlerà dopo le elezioni di fine febbraio? Tanto che alcuni candidati alle Camere si preparano a chiedere una inchiesta parlamentare su questa diffusione di false informazioni volte a colpire una azienda di grande importanza strategica controllata dallo Stato. Intanto, Guarguaglini ha costituito una finanziaria specializzata, la
Gpm3, e si prepara (alla scadenza del patto annuale di non concorrenza a Finmeccanica
imposto dal Tesoro) ad accettare numerose offerte di lavoro da multinazionali.
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