rappresentazione mentale di nomi e verbi: uno

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rappresentazione mentale di nomi e verbi: uno
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA
FACOLTA’ DI PSICOLOGIA
Corso di laurea in Psicologia
RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E
VERBI: UNO STUDIO NEUROPSICOLOGICO
SU PAZIENTI AFASICI.
Relatore: chiar.mo prof. Claudio Luzzatti
Crepaldi Davide
matr. N° 598565
A.A. 2002-2003
“…ogni vita, la si riceve da qualcun altro,
strumento nelle mani di Dio, datore di ogni
bene.”
Enzo Bianchi
“La strada è sempre meglio della locanda.”
Miguel de Cervantes
“L’avvicinamento più grande alla realtà, alla
comprensione, si fa non nella luce meridiana
delle definizioni, ma nel buio crepuscolare
dell’indefinizione, nel tenue, ma percepibile
sconforto che lo accompagna e nella tolleranza
di non lasciarsene sopraffare.”
Leonardo Ancona
1
2
3
INDICE
RIASSUNTO
ABSTRACT
INTRODUZIONE
7
8
9
PARTE I
1. CONCETTI INTRODUTTIVI
15
1. NOMI E VERBI IN LINGUISTICA
15
1. LE CATEGORIE LESSICALI
1.1 Le “classi” di parole
1.2 Criteri di definizione
1.3 Quante e quali?
1.4 Nomi e verbi
2. SOTTOCLASSI DI NOMI E VERBI
2.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali”
2.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi
2.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi
3. DIFFERENZE LINGUISTICHE TRA NOMI E VERBI
3.1 I tratti binari
3.2 Tratti comuni e tratti specifici
3.3 Il tratto [relazione]
4. ALTRE DIFFERENZE TRA NOMI E VERBI
4.1 Il caso grammaticale
4.2 Il movimento sintattico
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2. CONCETTI LINGUISTICI O COSTRUTTI DELLA MENTE?
49
3. L’AFASIA
1. AFASIA E SINDROMI AFASICHE
1.1 Afasie non-fluenti
1.1.1 Afasia di Broca
1.1.2 Afasia globale
1.1.3 Afasia transcorticale motoria
1.1.4 Afasia doppia transcorticale
1.2 Afasie fluenti
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52
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55
56
57
57
3
1.2.1 Afasia di Wernicke
1.2.2 Afasia di conduzione
1.2.3 Afasia amnestica
1.2.4 Afasia transcorticale sensoriale
2. PATOLOGIA E NORMALITÀ
58
58
59
60
61
2. LA LETTERATURA SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI
66
1. GLI STUDI SU PAZIENTI AFASICI
1.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia
1.2 Le variabili lessicali
1.3 Il locus funzionale del deficit
1.3.1 Deficit sintattico
1.3.2 Deficit morfologico
1.3.3 Deficit semantico
1.3.4 Deficit lessicale
1.3.5 Deficit fonologico
1.4 Conclusione
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68
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96
2. GLI STUDI DI LOCALIZZAZIONE ANATOMICA
96
PARTE II
3. ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE AD UN
TEST DI DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI
102
1. L’ANALISI QUALITATIVA
102
1. INTRODUZIONE
2. ANALISI QUALITATIVA DEI PROTOCOLLI
2.1 Materiali e metodi
2.2 Risultati
2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi
2.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi
2.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi
2.3 Discussione
2.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi
2.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia
2.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia
2.4 Profili di singoli soggetti
2.4.1 Due profili contrapposti
2.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi
2.5 Conclusioni
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110
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117
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129
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141
143
2. VERIFICA DELLE IPOTESI DI BIRD ET AL. (2000)
147
1. MATERIALI E METODI
2. RISULTATI
150
150
4
3. DISCUSSIONE
4. CONCLUSIONE
4. STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN UN GRUPPO DI
PAZIENTI AFASICI ATTRAVERSO UN TEST DI RECUPERO LESSICALE
IN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF)
151
154
156
1. MATERIALI E METODI: IL TEST DI RECUPERO LESSICALE DI NOMI E VERBI IN
UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF)
160
1.1 Il materiale
161
1.2 La somministrazione
162
1.3 La randomizzazione
163
1.4 Le variabili semantico-lessicali
164
1.5 I sottogruppi di item
166
1.6 Pregi e difetti
167
2. MATERIALI E METODI: UNA NUOVA BATTERIA DI DENOMINAZIONE
168
2.1 Quale test di denominazione usare?
169
2.2 La costruzione della nuova batteria
170
2.2.1 La base di partenza
170
2.2.2 Lo studio pilota
171
2.2.3 La selezione degli item
175
2.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali
181
2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione
183
3. MATERIALI E METODI: SOGGETTI E SOMMINISTRAZIONE DEI TEST
184
3.1 Soggetti
184
3.2 Materiale e somministrazione del compito
185
4. RISULTATI
187
4.1 Il test di denominazione su figura
187
4.2 Il test RNV-CF
191
4.3 Denominazione e RNV-CF a confronto
192
5. DISCUSSIONE
198
6. CONCLUSIONI
209
5. DISCUSSIONE GENERALE
211
6. APPENDICE
216
BIBLIOGRAFIA
237
5
6
RIASSUNTO
Gli studi neuropsicologici su pazienti afasici hanno fornito dati importanti
per la comprensione della struttura dell’apparato linguistico mentale: in
particolare, la scoperta della possibile dissociazione tra le capacità di recupero
lessicale di nomi e verbi nei pazienti afasici ha aperto un interessante dibattito
sulla rappresentazione mentale di queste due classi lessicali..
Alcuni autori sostengono, infatti, che le categorie di nome e verbo non siano
rappresentate a livello mentale, ma riflettano differenze di tipo semantico; altri,
invece, ritengono che l’informazione relativa a queste classi lessicali sia davvero
rappresentata nel sistema linguistico mentale, secondo alcuni a livello sintattico,
secondo altri a livello morofologico piuttosto che lessicale o fonologico.
Lo scopo di questo lavoro è di fornire un contributo sperimentale al dibattito
in corso, dopo aver considerato gli elementi che la letteratura neuropsicologica
offre e dopo aver riflettuto sulle basi linguistiche della distinzione nomi-verbi.
Questo contributo sperimentale è stato ottenuto attraverso una rianalisi, di
tipo qualitativo e quantitativo, di alcuni dati già presenti e discussi in letteratura
e attraverso la somministrazione ad un gruppo di pazienti afasici di due nuovi
test di recupero lessicale da noi costruiti.
I risultati ottenuti sembrano indicare che il deficit all’origine della
dissociazione è da collocarsi a livello lessicale piuttosto che semantico o
sintattico e che tale deficit non è sempre uguale nei diversi pazienti dissociati,
potendo collocarsi sia ad un livello lessicale-sintattico (il livello del lemma) sia
ad un livello più periferico, lessicale-fonologico (il livello del lessema).
7
ABSTRACT
Neuropsychological studies provided important evidences regarding the
organization of lexical representations and the underlying conceptual structure.
For instance, it has been shown that aphasic patients may undergo a lexical
damage that is specific for grammatical classes, like nouns and verbs.
The interpretation of this phenomenon is not obvious: many authors have
proposed different accounts, each of which refers to a specific level of language
analysis (semantic, syntactic, lexical or phonological level).
The aim of the present study is to provide an experimental contribution to
the debate upon the functional locus of the deficit causing noun-verb
dissociation, by testing a group of aphasic patients for lexical retrieval. We will
also supply an overview of linguistic and theoretical basis of the distinction
between nouns and verbs and explore the neuropsychological literature upon
noun-verb dissociation and its interpretation.
Our results indicate that the noun-verb dissociation is a consequence of a
lexical impairment that can occur either at the lemma level (i.e. a level at which
lexical-syntactic information like theta-roles or argument structure are stored) or
at the lexeme level (i.e. a more peripheral stage involved in storing the words’
phonological structure).
8
INTRODUZIONE
Il lessico mentale è uno degli argomenti che sono stati maggiormente
dibattuti negli ultimi anni di ricerca neurolinguistica.
Molti autori hanno indagato la struttura di questo costrutto, peraltro non
nuovo nella storia della psicologia: che dovesse esistere da qualche parte nella
mente un “magazzino” che contenesse le “immagini delle parole” era già chiaro
e comunemente accettato dagli studiosi della seconda metà dell’ottocento
(Wernicke, 1874; Lichtheim, 1885; Freud, 1891).
Non si può, però, certo dire che ai tempi di Broca, Wernicke e Lichtheim, si
parlasse di un lessico mentale come lo intendiamo noi oggi; le immagini delle
parole, infatti, altro non erano che engrammi motori o pattern uditivi, legati in
modo stretto ad un contesto associazionistico senso-motorio.
Soltanto con l’avvento della linguistica moderna si è cominciato a parlare di
un livello lessicale del linguaggio, intendendo con esso un livello intermedio tra
quello concettuale-semantico e quello fonologico-articolatorio; in questo senso,
le parole sono considerate puri simboli (significanti, secondo la terminologia
semiotica), etichette che acquisiscono senso e utilità solo in quanto riconosciute
dai parlanti come associate a determinati concetti.
Interpretato in questo modo, il lessico è diventato negli ultimi decenni un
riferimento costante per l’interpretazione clinica dei sintomi delle sindromi
afasiche e un argomento di ricerca estremamente dibattuto in psicologia
cognitiva e neuropsicologia.
9
In particolare, ci si è riferiti al lessico mentale per interpretare un
fenomeno clinico di grande interesse, emerso circa vent’anni fa (Baxter,
Warrington, 1985): la dissociazione tra nomi e verbi in afasia. Esso consiste in
prestazioni differenti con le due classi lessicali ottenute in compiti linguistici che
coinvolgono nomi e verbi, come la denominazione di figure, il completamento
di frasi, il compito di fluenza, l’associazione di parole a figure.
Le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno sono ormai molto
forti: si è visto, certo, che molte delle dissociazioni riportate nel passato in
letteratura sono dovute al mancato bilanciamento delle principali variabili
lessicali (immaginabilità e frequenza d’uso, ad esempio), ma si è anche
dimostrato come altri casi siano, invece, interpretabili solo come dei veri effetti
di classe grammaticale.
Tutti i ricercatori sono, quindi, d’accordo sul fatto che esista il fenomeno
della dissociazione nomi-verbi; molto meno accordo c’è, però, sul modo di
spiegarlo.
Alcuni, infatti, ritengono che la classe grammaticale non sia rappresentata a
livello lessicale e che il fenomeno sia da spiegare in termini di rappresentazioni
semantiche; altri ritengono, invece, che la dissociazione sia genuinamente
lessicale e che, quindi, sia necessario studiare il modo in cui la categoria
grammaticale è rappresentata nel lessico; altri ancora fanno risalire la
dissociazione-meglio-nomi a problemi di natura sintattica che impediscono agli
afasici di processare in modo corretto i verbi, più complessi dei nomi morfosintatticamente.
Come si può vedere, il panorama è molto variegato e le ipotesi interpretative
sono molte e di natura piuttosto differente tra loro.
10
Noi indagheremo il fenomeno della dissociazione attraverso la
riconsiderazione dei risultati ottenuti da Luzzatti et al. nel loro lavoro del 2002 e
attraverso la somministrazione ad un campione di pazienti afasici di un compito
di recupero lessicale e di un nuovo compito di denominazione di figure da noi
costruito; prima di affrontare la parte sperimentale, però, riassumeremo le
principali basi teoriche e storiche del problema.
La tesi sarà, quindi, organizzata in due parti: una introduttiva in cui
affronteremo, come detto, gli aspetti teorici (capitolo 1) e storici (capitolo 2)
della questione della dissociazione nomi-verbi e una sperimentale in cui, invece,
parleremo del nostro lavoro con i pazienti (capitoli 3 e 4) e trarremo le
conclusioni dai dati che sono emersi (capitolo 5).
Prima di cominciare, però, desidero ringraziare i miei “compagni di
viaggio”, coloro che in questi due anni mi sono stati vicini con entusiasmo,
pazienza, discrezione, interesse, disponibilità… in un parola, con amore.
Ringrazio Silvia perché la serenità che mi hanno dato due braccia sempre
pronte a stringermi e darmi coraggio è stata fondamentale e perché la sua voce
sa ricordarmi di tornare bambino e recuperare la semplicità e la gioia che a volte
perdo.
Ringrazio il papà e la mamma perché è molto più facile studiare quando c’è
qualcuno che ti prepara la cena, ti rifà il letto e và a fare la spesa anche per te:
spero di diventare capace come voi di servire gli altri con gratuità in tutto, nelle
grandi e nelle piccole cose.
Ringrazio Luca perché mi riempie ogni giorno il cuore di gioia con la sua
spensieratezza e la sua energia.
11
Ringrazio Laura, don Marco, Marco e Paolo perché se oggi riesco a donare
un po’ di amore agli altri è solo perché essi me ne hanno dato una quantità
enorme in tanti anni di vita insieme.
Ringrazio gli amici che hanno camminato con me verso Santiago,
insegnandomi che c’è una gioia grandissima nella condivisione della fatica e nel
dono gratuito.
Ringrazio tutti i miei amici, la Compagnia Filodrammatica “Entrata di
Sicurezza” e tutti coloro che ho conosciuto in questi anni di studi perché hanno
rinnovato continuamente in me la gioia e lo stupore dell’amicizia.
Ringrazio tutti coloro con cui ho condiviso l’esperienza educativa in oratorio
e i ragazzi cui ho tentato di dare qualcosa di me: quasi tutte le mie convinzioni,
idee e passioni sono nate educando.
Si dice che un regalo inaspettato valga doppio: forse non è così, ma
sicuramente la gioia che esso dà è grandissima. In questi due anni ho conosciuto
persone che avrebbero potuto non donarmi nulla…ed invece mi hanno travolto
di generosità!
Ringrazio Lorenzo Montali, Chiara Ripamonti, Emanuela Bricolo, Roberta
Daini, Michele Burigo, Alberto Gallace, Lola De Hevia e gli altri ricercatori del
Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca che hanno creato
intorno a me un bellissimo clima di accoglienza, ideale per lavorare bene.
Ringrazio le logopediste che mi hanno aiutato a raccogliere i dati sui
pazienti afasici: in particolare, Mariarosa Colombo per la sua capacità di
impegnarsi per gli altri, Graziella Ghirardi per la tenerezza con cui accompagna
i pazienti e Giusy Zonca per la sua travolgente allegria.
Ringrazio Silvia Aggujaro per la spontaneità che ha reso il nostro lavoro
insieme più divertente, oltre che molto costruttivo.
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Ringrazio Gennaro Chierchia per la paterna pazienza e disponibilità che mi
ha mostrato in questi due anni: la semplicità con cui sa donare le sue conoscenze
agli altri è davvero uno straordinario e preziosissimo dono.
Ringrazio Saskia Arduino per l’enorme aiuto che mi ha dato nei primi passi
del mio cammino, notoriamente i più difficili: il suo appoggio e la sua
competenza sono davvero stati fondamentali per questa tesi.
Infine, ringrazio Claudio Luzzatti perché non si è limitato ad assistere il mio
lavoro, ma ha voluto costruirlo insieme a me. E’ stato sempre presente quando
avevo bisogno di lui e mi ha continuamente donato il suo entusiasmo, la sua
partecipazione e la sua disponibilità: in questo contesto imparare tanto è stato
non solo molto facile, ma piacevole e divertente.
Mi sono dilungato nei ringraziamenti volutamente, perché sono convinto che
un uomo nella sua vita possa fare ben poco da solo, ma sia capace di cose
incredibili se riconosce l’amore che gli altri quotidianamente gli danno.
Quali grandi doni ho ricevuto! Questa tesi non è altro che il frutto di questi
doni, che mi hanno davvero riempito di gioia e che spero di aver custodito e
fatto maturare in modo adeguato.
13
PARTE I
Come già anticipato, ci occuperemo in questa prima parte della tesi degli
aspetti teorici e storici del problema della dissociazione nomi-verbi.
In particolare, nel primo capitolo introdurremo i concetti teorici di nome e
verbo da un punto di vista linguistico; inoltre, descriveremo le principali
sindromi afasiche e discuteremo del problema metodologico dell’indagine sulla
struttura della mente condotta con esperimenti su pazienti cerebrolesi.
Nel secondo capitolo, invece, ci soffermeremo più specificamente sul
fenomeno della dissociazione nomi-verbi, analizzando il contributo della
ricchissima letteratura neuropsicologica e neurocognitiva sull’argomento.
Parte I
Capitolo 1
CONCETTI INTRODUTTIVI
Capitolo 2
LA LETTERATURA SULLA
DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI
14
1
CONCETTI INTRODUTTIVI
1. Nomi e verbi in linguistica
Questa tesi si occupa dell’organizzazione mentale dei nomi e dei verbi; i
concetti di nome e di verbo verranno dunque considerati come costrutti mentali.
Storicamente, però, essi non sono nati in ambito psicologico, ma sono stati
“presi in prestito” dalla linguistica, scienza con cui la psicologia ha iniziato da
qualche decennio ad intrattenere rapporti sempre più stretti.
Mi sembra quindi necessario, prima di occuparci dei costrutti mentali nome
e verbo, osservare e conoscere i corrispettivi costrutti linguistici, da cui
storicamente derivano.
Ci porremo, perciò, qualche domanda su come queste categorie lessicali
siano emerse nella ricerca linguistica, su quali siano i dati che giustificano la
loro distinzione, su quali rapporti intrattengano da un punto di vista puramente
linguistico e su quale sia il loro status semantico.
15
1. Le categorie lessicali
1.1 Le “classi” di parole
Le parole si “comportano” tutte allo stesso modo? Vanno tutte incontro agli
stessi fenomeni? Detto in altri termini, sono tutte dello “stesso tipo”?
La risposta è evidentemente no: ci sono delle parole che indicano azioni
(camminare), altre che indicano oggetti (sedia) e altre che sembrano non
indicare né azioni né oggetti (senza); ancora, ci sono parole che possono stare in
certe posizioni e altre no, ci sono parole che indicano relazioni e altre non
relazionali.
Le parole non sono quindi tutte uguali: ma allora, è possibile raggruppare le
parole in classi? E’ possibile costruire un modello con queste classi? Le classi
sono disgiunte e complementari tra loro? Corrispondono a quelle che ci hanno
insegnato a scuola?
Inoltre, queste categorie funzionali sono costrutti prettamente linguistici o
sono anche categorie della mente?
Per rispondere a queste domande dobbiamo provare a costruire queste
categorie e vedere che cosa succede.
1.2 Criteri di definizione
Un primo tentativo di costruire queste “classi” potrebbe essere fatto
cercando delle caratteristiche necessarie e sufficienti che definiscano ciascuna
delle ipotetiche categorie.
16
Percorrendo questa strada si scopre, innanzitutto, che non è possibile trovare
un criterio inerente1 che, da solo, renda conto della distinzione tra due classi
(nome e verbo, ad esempio) disgiunte tra loro2.
Per chiarire meglio, uso un esempio: è conoscenza comune (utilizzata in
maniera proficua anche nell’insegnamento delle basi della grammatica ai
bambini) che i nomi indichino oggetti e i verbi, invece, azioni.
Questo è sicuramente vero, in generale3; non possiamo, però, usare questo
criterio, da solo, per determinare univocamente se una parola sia un nome o un
verbo; infatti, non riusciremmo a spiegare perché “gioia” sia un nome o perché
“temere” sia un verbo.
Allora potremmo usare, invece di un solo criterio, alcuni criteri in modo
congiunto.
In questo modo, è possibile definire meglio le classi lessicali, ma non
descrivere perfettamente le nostre intuizioni di parlanti.
Ad esempio, un verbo potrebbe essere una parola che indica un’azione
oppure una parola astratta e relazionale: secondo questo criterio, “temere”
sarebbe ben classificato, ma non “soffrire” (che non indica un’azione vera e
propria, è astratto, ma non relazionale) o “relazione” (che non indica un’azione,
è astratto, è relazionale, ma non è un verbo!).
Negli esempi fatti finora, abbiamo considerato soltanto criteri semantici e
abbiamo visto che non è possibile definire le classi lessicali che intuitivamente
1
un criterio inerente è un criterio fondato su proprietà della parola che non si riferiscono
alla struttura della frase; sono proprietà di questo tipo tutte le proprietà “semantiche” (come, ad
esempio, denotare un’entità concreta o astratta) e alcune proprietà “morfo-sintattiche” (come la
coniugazione del verbo o l’essere regolare o meno).
2
questa mi sembra essere l’intuizione dei parlanti: non esistono parole che siano
contemporaneamente nome e verbo e, quindi, le due classi sono disgiunte.
3
ed è probabilmente stato così anche nell’evoluzione del linguaggio umano.
17
ciascun parlante conosce con un insieme definito di caratteristiche necessarie e
sufficienti.
Provando ad usare criteri di altro tipo, scopriamo, però, che esistono delle
prove molto affidabili per decidere l’appartenenza di una parola ad una certa
classe (almeno per i nomi, i verbi, le preposizioni e gli aggettivi); questi criteri
sono così potenti che quasi possono essere considerati necessari e sufficienti.
Essi non sono, però, semantici, ma distribuzionali4.
Ad esempio, in italiano, un verbo può precedere direttamente un nome
proprio all’interno di un sintagma5, mentre un nome non può farlo, ma ha
bisogno di una preposizione interposta:
(1)
(2)
(3)
Mario tradisce Maria
*Il tradimento Maria da parte di Mario
Il tradimento di Maria da parte di Mario
Esistono, poi, caratteristiche sub-lessicali che possono differenziare parole di
classi diverse: ad esempio, solo certe parole (gli aggettivi) possono essere
modificate con il suffisso -issimo/a/i/e. Anche questi criteri sono molto
affidabili.
4
“distribuzionale” è il contrario di “inerente”; un criterio distribuzionale, infatti, si riferisce
al comportamento della parola nella frase (ad esempio, il fatto che un verbo sia transitivo o
intransitivo oppure il fatto che possa essere preceduto o seguito da certi elementi e non da altri).
Si potrebbe notare che “distribuzionale” equivale a “sintattico”: questo è in parte vero, ma
preferisco conservare la dizione “distribuzionale” per indicare che questi criteri sono “ingenui”,
ateorici; ciascuno di noi, infatti, ne ha una familiarità tale che è in grado di capirli e usarli con
facilità anche senza avere mai studiato sintassi.
5
quest’ultima specificazione è importante. Infatti è possibile dire: “Sotto il sole Maria
suda”. In questa frase, il nome sole precede direttamente il nome Maria: i due nomi, però,
appartengono a due sintagmi diversi. Se così non fosse, la frase sarebbe non-grammaticale.
Il concetto di sintagma è uno dei più importanti nella linguistica moderna; lo definiremo e
studieremo più avanti (pagina 27). Per ora sia sufficiente dire che il sintagma è l’entità
linguistica sopralessicale più piccola, è fortemente strutturato al suo interno ed ha una struttura
costante, indipendente dalla “categoria” di appartenenza del sintagma stesso.
18
Riassumendo, non è possibile dividere le parole in classi lessicali disgiunte e
complementari sulla base di criteri puramente semantici (o comunque, inerenti).
E’ possibile, invece, individuare delle caratteristiche di tipo morfologico e
distribuzionale che sono proprie di certi gruppi di parole e non di altri; sulla base
di questi criteri, e di quelli inerenti citati sopra, diventa relativamente facile per
un linguista (e per tutti i parlanti nativi di una lingua) distinguere parole di
diverse classi lessicali.
Ogni classe di parole potrebbe, quindi, essere descritta come un insieme di
caratteristiche di diverso tipo (semantiche, morfologiche, distribuzionali),
ciascuna con un diverso livello di “affidabilità”, dove per “affidabilità” si
intende il grado di condivisione di quella caratteristica da parte delle parole che
fanno parte di quella categoria: ad esempio, il tratto “essere potenzialmente
preceduto da un determinante” è condiviso da tutti i nomi, mentre il tratto
“indicare un oggetto” è proprio della maggioranza dei nomi, ma non di tutti.
Come si vede, quindi, le categorie lessicali non sono descrivibili tramite un
numero definito di tratti necessari e sufficienti, ma tramite delle caratteristiche,
alcune molto “tipiche” o molto “affidabili” (quasi a raggiungere lo status di
necessità-sufficienza), altre meno “tipiche”, perché non condivise da tutti i
componenti della classe.
1.3 Quante e quali?
Abbiamo visto quali caratteristiche necessariamente hanno le classi in cui
potremmo raggruppare le parole che hanno un comportamento simile tra loro.
19
Questo è tutto quello che possiamo fare semplicemente osservando il
linguaggio così come si presenta a noi ogni giorno.
Infatti, se volessimo stabilire quante classi lessicali esistono e quali sono
queste classi, avremmo bisogno di guardare il linguaggio attraverso la “lente” di
una teoria.
Mi spiego meglio: abbiamo visto che le differenze esistenti tra parole diverse
sono moltissime. Quali di queste differenze dobbiamo allora considerare per
tentare una classificazione?
A meno di non procedere a caso, non si può rispondere a questa domanda
senza farsi guidare da un’ipotesi interpretativa, per quanto rudimentale, sul
funzionamento del linguaggio.
Da questo deriva che “lenti teoriche” diverse (applicate, magari, a lingue
molto diverse tra loro) possono lasciare vedere un numero diverso di classi
lessicali o tipi diversi di classi lessicali.
Ma allora, il sistema di classificazione della linguistica moderna non è
universale? E, forse, nemmeno l’unico possibile? E se non è l’unico possibile,
ha uno status privilegiato solo per motivi storici e culturali?
Rispondere a queste domande non è così semplice, anche per ragioni
“affettive”; vogliamo molto bene ai nostri costrutti e alle nostre convinzioni ed è
difficile chiedersi con serenità e obiettività se questi siano fondati.
Nella scienza, però, ogni teoria è solo un modo possibile di spiegare i dati:
può sempre succedere (ed in effetti è capitato spesso) che emergano modi
alternativi di organizzare teoricamente le conoscenze e che questi risultino più
efficaci di quelli che eravamo abituati ad usare.
20
1.4 Nomi e verbi
Detto questo, pare che almeno alcune categorie lessicali non siano solo
frutto dell’uso di una particolare teoria.
La lingua è un mezzo di comunicazione che può servire a diversi scopi:
ordinare, chiedere, mettere in atto qualcosa (un matrimonio, ad esempio),
dichiarare uno stato di cose a proposito del mondo o di se stessi.
A tutte queste funzioni sottostà la natura primariamente predicativa del
linguaggio: attraverso il linguaggio, io posso affermare uno stato di cose,
metterlo in atto, chiedere se sussiste, ordinare che venga instaurato, ma, in tutti
questi casi, il nucleo comunicativo resta uno stato di cose, il fatto che qualcuno
sia qualcosa (Graffi, 1994).
Per questo, due elementi devono essere necessariamente presenti (anche se,
a volte, possono restare inespressi fonologicamente) in ogni frase: un entità
linguistica che serve per predicare qualcosa (di solito, il verbo) e una che serve
per specificare i protagonisti della predicazione, cioè gli argomenti (di solito, il
nome6).
Questa considerazione, unita alla presenza praticamente costante di entità
lessicali di tipo verbale e nominale nelle diverse lingue del mondo, assegna a
nomi e verbi un ruolo privilegiato nel panorama delle categorie lessicali.
Possiamo fare un’ultima, ma importante considerazione: in neuropsicologia
esistono, con frequenza non trascurabile, doppie dissociazioni tra nomi e verbi,
mentre non sono mai state rilevate dissociazioni significative tra avverbi ed
aggettivi o tra preposizioni e congiunzioni. Anche questo, evidentemente, è un
6
più correttamente, il sintagma verbale e il sintagma nominale: introdurremo questi concetti
tra poco. Vedi nota 5.
21
segno del fatto che nomi e verbi non siano classi grammaticali come le altre, ma
abbiano qualcosa di “speciale”.
2. Sottoclassi di nomi e verbi
Stabilito che è possibile distinguere tra diverse categorie di parole, diventa
molto interessante indagare più a fondo la composizione interna di queste
categorie, almeno di quelle che riteniamo essere praticamente universali (nome e
verbo, appunto).
Indagare più a fondo la composizione interna significa, almeno in una fase
iniziale, chiedersi se sia possibile costruire delle sottoclassi di nomi e verbi.
La risposta è sicuramente sì: ci sono molti possibili parametri seguendo i
quali si possono costruire sottoclassi verbali e nominali.
Le sottoclassi così formate sono, molto spesso, trasversali tra loro.
Noi parleremo solo di alcune di esse, non tanto perché siano le più
importanti in assoluto, quanto perché sono quelle, cognitivamente e
neuropsicologicamente, più interessanti per i nostri fini.
Non mi occuperò ora di giustificare la nostra scelta perché le sue ragioni
emergeranno in modo evidente nei prossimi capitoli, quando parleremo della
letteratura neuropsicologica a proposito di nomi e verbi e discuteremo il nostro
esperimento.
22
2.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali”
Una distinzione molto evidente a ciascun parlante è, ad esempio, quella che
separa nomi astratti (come gioia o speranza) da nomi concreti (come “albero” o
“sedia”).
Queste categorie molto generali possono, poi, essere divise in ulteriori sottocategorie: ad esempio, una distinzione interna ai nomi concreti che si trova
spesso negli studi psicologici sul lessico mentale è quella tra nomi naturali e
nomi artificiali.
I primi si riferiscono ad oggetti naturali (animali, piante, parti del corpo,
ecc.), mentre i secondi si riferiscono a quegli oggetti che sono costruiti
dall’uomo (tutti i manufatti, in sostanza).
La ragione dell’insistenza degli studiosi di lessico mentale su queste
sottocategorie è principalmente la loro rilevanza neuropsicologica: la
dissociazione tra la capacità di denominare oggetti naturali e quella di
denominare oggetti “artificiali” è stata una delle prime e più ricorrenti
dissociazioni rilevate in pazienti afasici (Warrington, McCarthy, 1983; Hart,
Berndt, Caramazza, 1985).
Negli ultimi anni, poi, sono state avanzate teorie che tentano di spiegare
queste dissociazioni (Bird et al., 2000, ad esempio), per cui la distinzione tra
nomi naturali e artificiali ha acquisito anche una discreta importanza teorica,
divenendo oggetto di dibattito tra gli studiosi (Shapiro, Caramazza, 2001; Bird,
Howard, Franklin, 2001).
23
2.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi
La classificazione dei verbi è almeno altrettanto ricca di quella dei nomi;
anzi, in virtù della maggior complessità morfologica- e forse anche sintatticadei verbi stessi, le sottocategorie verbali sono probabilmente più numerose e più
intricate di quelle nominali.
Alcune sono molto familiari: ad esempio, la distinzione tra verbi ausiliari e
verbi a contenuto (lessicali) oppure quella tra verbi della prima, seconda o terza
coniugazione.
Un’altra distinzione molto familiare (che useremo nel nostro studio) è quella
tra verbi transitivi e verbi intransitivi.
A scuola abbiamo tutti studiato che i verbi transitivi sono quelli che
vogliono il complemento oggetto, mentre quelli intransitivi non lo possono
reggere.
Nei termini della sintassi generativa, questa distinzione transitivi-intransitivi
va precisata meglio: i verbi transitivi, infatti, sono i verbi che possiedono
almeno due argomenti e che danno un caso grammaticale strutturale al proprio
argomento interno, mentre i verbi intransitivi sono quelli, ad uno o più
argomenti, che non danno un caso grammaticale strutturale al proprio argomento
interno.
In questa definizione ho anticipato dei concetti che sono necessari per
definire le due classi di verbi, ma che non ho ancora introdotto e spiegato: lo
farò in parte nel prossimo paragrafo, in parte nel seguito del capitolo (per il
concetto di argomento interno e di argomento esterno, vedi pagina 27; per quello
di caso grammaticale, vedi pagina 40).
24
A costo di ripetermi un po’, mi sembra importante esplicitare le due
differenze principali tra questi tipi di verbi: innanzi tutto, i transitivi hanno, di
norma, più argomenti degli intransitivi, e secondariamente, i transitivi danno un
caso al loro argomento interno mentre gli intransitivi non lo fanno.
Soprattutto la prima differenza è importante perché permette di testare
alcune ipotesi neuropsicologiche: ad esempio, quella per cui gli agrammatici
manifestano maggiori difficoltà nel trattamento dei verbi transitivi, in quanto
generalmente più ricchi di argomenti e, quindi, più complessi sintatticamente
(Thompson, 2003; Thompson et al., 1995).
2.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi
Tra i verbi intransitivi, si rende poi necessaria un’ulteriore, importante,
distinzione.
Esistono, infatti, dei verbi monoargomentali intransitivi che hanno dei
comportamenti molto simili a quelli dei verbi transitivi: questi verbi sono
chiamati inaccusativi7.
Ad esempio, come i transitivi, ma al contrario degli altri intransitivi (che,
d’ora in poi, chiamerò inergativi), i verbi inaccusativi permettono la costruzione
di frasi contenenti l’elemento clitico “ne”:
7
il primo termine usato per designare questi verbi era “ergativo”, originariamente utilizzato
nella descrizione di lingue non-indoeuropee.
L’introduzione del termine “inaccusativo” è dovuta a Perlmutter (1978); in seguito a questa
nuova denominazione, i verbi intransitivi non-ergativi sono stati chiamati “inergativi”. Oggi, gli
studiosi sono piuttosto concordi nel ritenere più corretti i termini più recenti.
25
(4) inaccusativo: Molti ragazzi sono scivolati -> Ne sono scivolati molti
(5) transitivo:
Paolo ha mangiato molti biscotti -> Paolo ne ha mangiati molti
(6) inergativo:
Molti ragazzi hanno telefonato -> *Ne hanno telefonati molti
Ancora, i verbi inaccusativi usano l’ausiliare essere, mentre gli inergativi e i
transitivi attivi vogliono l’ausiliare avere.
Infatti:
(7)
inaccusativo:
Mario è scivolato
(8)
transitivo:
Mario ha mangiato la torta
(9)
inergativo:
Mario ha riso
L’utilizzo dell’ausiliare essere è una caratteristica sintattica molto rilevante;
ricorda da vicino, infatti, i verbi transitivi in forma passiva, che possiedono
sempre questo ausiliare.
Un’altra importante caratteristica di verbi inaccusativi è che, nella
maggioranza dei casi, possiedono un elemento in posizione di soggetto che non
è l’agente dell’azione: l’analogia con le forme passive diventa sempre più forte.
(10)
inaccusativo:
Il palazzo è crollato
(11)
inaccusativo:
Giovanni è caduto dalle scale
(12)
transitivo passivo:
La torta è mangiata da Luca
E’ possibile dare una spiegazione unica e coerente a queste “stranezze”?
26
Un elemento di guida importante per gli studiosi è stato l’uso dell’ausiliare
essere, considerato “spia” di un fenomeno di movimento sintattico8.
Consideriamo le tre frasi seguenti:
(13)
transitivo:
Luca ha divorato la cena
(14)
inergativo:
Luca ha dormito
(15)
inaccusativo:
Luca è scivolato
Nella loro forma superficiale, queste tre frasi sembrano strutturalmente
identiche, a parte, ovviamente, per l’oggetto del verbo transitivo divorare che gli
altri due verbi, monoargomentali, non possiedono.
Ma allora come spieghiamo il diverso comportamento di dormire e
scivolare?
L’ipotesi più accreditata è che il verbo dormire possieda un argomento
esterno, mentre il verbo scivolare non lo possieda.
Ma cosa significa argomento esterno?
Per rispondere a questa domanda dovrò necessariamente fare riferimento ad
una teoria della sintassi; in particolare, mi farò aiutare da quella più diffusa e
condivisa attualmente: la teoria X-barra.
Questa teoria prevede che ogni sintagma sia strutturato su tre livelli; al
livello zero (più “profondo”) si pongono solo la testa del sintagma e l’argomento
interno della testa (complemento), mentre l’argomento esterno e gli altri
8
i fenomeni di movimento sintattico prevedono degli spostamenti di interi sintagmi o
elementi lessicali nel passaggio dalla struttura profonda, dove la frase viene inizialmente
costruita nella sua forma base, dichiarativa, alla struttura superficiale della frase stessa, che è la
forma in cui la frase viene pronunciata (Cook e Newson, 1996).
27
elementi del sintagma (chiamati aggiunti) si situano al livello una barra
(l’argomento esterno discende direttamente da X’’, occupando la posizione di
specificatore).
Possiamo rappresentare graficamente la struttura dei sintagmi come in figura
19.
Per chiarirci ancora meglio le idee, rappresentiamo il seguente sintagma
verbale
(16)
“Luca divorare la cena con grande foga”
Figura 1: il sintagma secondo la teoria X-barra.
X’’
Argomento
esterno
(specificatore)
X’
X’
Aggiunto
X
TESTA DEL
SINTAGMA
Argomento
interno
(complemento)
9
accanto agli apici che indicano il livello, si usa la lettera X per indicare che questa struttura
è uguale in tutti i sintagmi. Quando si conosce la natura del sintagma, determinata dall’entrata
lessicale che si insedia nella posizione di testa, si sostituisce la X con l’iniziale della classe
grammaticale della testa. Ad esempio, se diventa testa l’entrata lessicale “tavol-”, il sintagma
diventa nominale e allora X, X’ e X’’ verranno sostituite da N, N’ e N’’.
Similmente accade se, ad insediarsi nella posizione di testa, è un verbo o un aggettivo o una
preposizione: parleremo allora di sintagma verbale (V’’ o VP, dall’inglese verbal phrase), di
sintagma aggettivale (A’’ o AP, adjectival phrase) o di sintagma preposizionale (P’’ o PP,
prepositional phrase).
28
La testa lessicale è “divorare”, l’argomento interno è “la cena” e
l’argomento esterno “Luca” e l’aggiunto “con grande foga”.
Graficamente, il sintagma si presenta come in figura 210.
Come si può vedere, la testa è priva delle specifiche flessive di tempo e
accordo: esse le verranno date soltanto quando si insedierà in una frase. Ecco
come questo processo avviene.
Secondo la teoria X-barra, la frase stessa è un sintagma (il sintagma flessivo
o IP o I’’, dall’inglese inflectional phrase), alla cui testa si insediano
Figura 2: rappresentazione grafica del sintagma verbale (16)
V’’
V’
N’’
N
Argomento
esterno
“Luca”
V’
V
“divorare”
P’’
Aggiunto
“con grande foga”
N’’
Argomento
interno
“la cena”
10
In questo albero, ho rappresentato due sintagmi nominali e un sintagma preposizionale
come se fossero entità terminali dell’albero; in altre parole, sintagmi non svolti, cioè, ancora al
livello due barre. Questo non significa che quei sintagmi non sviluppino il livello una barra e il
livello zero: la loro struttura è esattamente identica a quella di tutti gli altri sintagmi.
Non ho rappresentato i due livelli più bassi solo per semplicità, dato che non sono rilevanti
per la nostra discussione.
Così succederà anche nel prosieguo di questo capitolo: quando saranno presenti negli alberi
dei sintagmi di livello due barre come entità terminali, questo sarà dovuto a ragioni di semplicità
e non al fatto che in quei sintagmi non siano presenti i livello una barra e il livello zero.
29
informazioni come l’accordo, il tempo o il modo del verbo, che non si
realizzano con una parola.
In questa struttura, il sintagma verbale finisce per occupare la posizione di
argomento interno della testa flessiva (figura 3).
Figura 3: rappresentazione sintagmatica della frase “Luca ha divorato la cena con
grande foga”secondo la teoria X-barra11
I’’
Argomento
esterno di IP
I’
Aggiunto
di IP
V’’
I
Accordo,
tempo, modo
V’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
V’
V
“ha divorato”
P’’
Aggiunto
“con grande foga”
N’’
Argomento
interno
“la cena”
11
la teoria X-barra, nelle sue formulazioni più recenti, divide il sintagma flessivo (IP) in due
sintagmi, il sintagma di tempo ( Tens) e il sintagma di accordo (Agr). Manterrò il termine IP (o
I’’) perché più semplice e chiaro, oltre che sufficiente per i nostri scopi.
Anche la struttura frasale, così come l’ho descritta qui, è semplificata rispetto alla formulazione
standard della teoria X-barra: ancora più “in alto” nella struttura sintattica, esiste un ulteriore
sintagma, il sintagma del complementatore (CP), di cui IP è argomento interno
30
Dopodiché l’argomento esterno della testa verbale, quello che occupa la
posizione di soggetto, si sposta nella posizione di argomento esterno del
sintagma flessivo (figura 4).
La posizione canonica del soggetto nelle frasi attive è, quindi, quella indicata
in figura 4; e quelli che ho descritto sopra sono gli “eventi” attraverso i quali il
soggetto grammaticale arriva ad occupare quella posizione.
Figura 4: il movimento del NP soggetto
I’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I’
I’
Aggiunto
I
Accordo,
tempo, modo
V’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
V’
V’
V
“Ha divorato”
P’’
Aggiunto
“con grande foga”
N’’
Argomento
interno
“la cena”
31
Ecco che ora possiamo rendere più chiaro il senso dell’inaccusatività
I verbi transitivi e inergativi possiedono un vero argomento esterno, nel
senso che il loro soggetto compie il tragitto canonico che abbiamo visto sopra:
“nasce” come argomento esterno della testa verbale e poi muove ad argomento
esterno della testa flessiva.
I verbi inaccusativi, invece, non possiedono un vero argomento esterno; i
loro soggetti nascono come argomenti interni del verbo (per intenderci, nella
posizione dell’oggetto dei verbi transitivi) e, solo in un secondo tempo,
muovono nella posizione di argomento esterno della testa verbale; da ultimo,
subiscono il movimento verso la posizione di argomento esterno della testa
flessiva, come tutti gli altri verbi.
Si può forse fare un po’ di chiarezza con il confronto grafico tra la struttura
dei verbi inergativi e la struttura dei verbi in accusativi (vedi figura 5).
In sostanza, i verbi inaccusativi subiscono un movimento in più rispetto ai
transitivi e agli inergativi. Questo movimento è esattamente uguale a quello
compiuto dai complementi oggetto (gli argomenti interni) dei verbi transitivi
che volgono al passivo: l’uso dell’ausiliare essere potrebbe rispecchiare questa
analogia.
Inoltre, i soggetti degli inaccusativi nascono nella posizione di argomento
interno della testa verbale, cioè nella posizione dove nascono gli oggetti dei
verbi transitivi: questo è coerente con il fatto che non sono quasi mai agenti
delle azioni che il verbo denota e col fatto che possono essere cliticizzati con la
particella “ne”.
Questa interpretazione del comportamento dei verbi inaccusativi spiega,
quindi, piuttosto bene i fenomeni linguistici di cui sono protagonisti.
Inoltre, sul piano psicologico, lascia prevedere che:
32
Figura 5a e 5b: confronto tra gli alberi sintattici di un verbo inergativo e di un verbo
inaccusativo
5a: Verbo inergativo “ dormire”
I’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I’
I
Accordo,
tempo, modo
V’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
M2
V’
V
“Ha dormito”
I’’
5b: Verbo inaccusativo:“scivolare”
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I’
I
Accordo,
tempo, modo
M2
V’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
V’
V
“È scivolato”
N’’
Argomento
interno
“Luca”
M1
33

il trattamento di questi verbi richieda, in generale e da un punto di
vista più specificamente sintattico, un carico di risorse maggiore rispetto ai
transitivi e agli inergativi per via del movimento ulteriore cui vanno incontro

questo ulteriore movimento richieda un processamento psicologico
diverso da quello necessario per trattare inergativi e transitivi per via della
diversa natura dei movimenti M1 e M2 (figura 5) 12; se questo processamento
fosse selettivamente colpito da un danno neurologico, causerebbe un deficit
specifico per i verbi inaccusativi (vedi anche Thompson, 2003).
La prima previsione è coerente col fatto che la prestazione ai verbi
inaccusativi di alcuni gruppi di afasici (anomici e Wernicke), oltre che dei
controlli normali, sia leggermente peggiore di quella agli altri tipi di verbi
(Luzzatti et al., 2002).
Le due previsioni, considerate insieme, porterebbero, inoltre, a pensare che
gli agrammatici siano il gruppo di afasici più compromesso nella produzione e
comprensione degli inaccusativi; in questa direzione vanno anche alcune
interpretazioni dell’agrammatismo (Grodzinsky, 1986, 1995) che fanno
riferimento proprio alla difficoltà nel trattare i fenomeni di movimento per
spiegare i problemi sintattici di questi pazienti13.
12
a livello linguistico, infatti, i due movimenti di figura 5 sono di natura diversa: in M 1, NP
muove dalla posizione di complemento a quella di argomento esterno dello stesso sintagma,
mentre, in M2, si muove da un sintagma all’altro, sempre come argomento esterno.
13
Ogni movimento sintattico provoca la formazione di una “ traccia”, un “segno” che non
ha realizzazione fonetica, ma resta nel posto da cui la parola o il sintagma si è mosso.
Le tracce hanno una grande importanza perché giustificano il fatto che i posti abbandonati
dagli elementi che si sono mossi non vengano occupati da nessun altro sintagma o parola: infatti,
quei posti non restano vuoti, ma ospitano la traccia dell’elemento spostato.
Secondo la Trance Deletion Hypotesis (TDH) di Grodzinsky (1986, 1995), gli agrammatici
hanno difficoltà proprio a trattare queste tracce.
34
Questo è proprio ciò che Luzzatti et al. (2002) trovano: gli agrammatici (e
anche gli altri afasici non-fluenti) denominano peggio i verbi inaccusativi
rispetto a quelli inergativi.
Torneremo in seguito sulla questione.
3. Differenze linguistiche tra nomi e verbi
Nomi e verbi si distinguono sia per la loro diversa natura (come abbiamo
visto nel paragrafo 1.4) che per alcune differenze di comportamento sotto
diversi aspetti linguistici.
Passeremo ora in rassegna alcune di queste differenze, facendoci aiutare da
un sistema di descrizione delle entrate lessicali14 (EL) che è ormai applicato a
molti campi della linguistica, dalla fonologia alla morfologia: il sistema dei tratti
binari15.
Nel paragrafo successivo, studieremo, invece, quelle differenze tra nomi e
verbi che non vengono colte dal sistema dei tratti binari.
3.1 I tratti binari
Il sistema dei tratti binari prevede che le entrate lessicali siano descritte
come un insieme di valori binari, ciascuno associato ad un tratto, ad una
14
uso questo termine in modo del tutto scevro da significati teorici; per
entrata lessicale
(EL) intendo una “voce del vocabolario”, cioè una parola non flessa (in forma base).
15
per la verità, non mi atterrò strettamente alla sintassi dei tratti binari, ma utilizzerò quegli
aspetti che ci aiutano a cogliere le differenze tra nomi e verbi. Questo perché a volte
un’eccessiva attenzione alla forma appesantisce l’argomentazione.
35
proprietà, che ogni entrata lessicale può possedere (ed allora avrà valore
positivo) oppure non possedere (ed allora avrà segno negativo).
In definitiva, ogni EL è vista come un elenco di caratteristiche, dove, però, è
stato individuato un insieme finito di parametri di riferimento rispetto ai quali
valutare queste caratteristiche.
Possiamo rendere più chiaro il concetto utilizzando due esempi di entrata
lessicale, una nominale e una verbale, descritte attraverso dei tratti binari
(Tabella 1).
Consideriamo i primi due tratti, [verbo] e [nome]. Questi, valutati insieme,
indicano la categoria cui appartiene l’entrata lessicale.
Questi due tratti permettono, però, di descrivere solo quattro classi lessicali:
verbo (+V e -N), nome (-V e +N), aggettivo (+V e +N) e preposizione (-V e –N)
(Chomsky, 1970).
Dobbiamo credere, dunque, che esse siano in qualche modo “privilegiate”
rispetto alle altre? Dobbiamo pensare che possiedano qualcosa di speciale?
Secondo la teoria X-barra, sì: infatti, le classi lessicali di nome, verbo,
aggettivo e preposizione sono le uniche i cui componenti possono essere teste di
sintagmi lessicali16.
16
I sintagmi lessicali sono quelli che veicolano non solo informazione sintattica (il tempo,
l’accordo, il modo, ecc.), ma anche informazione semantica propria.
Ad esempio, il sintagma nominale è un sintagma lessicale: “Il bambino di Maria” denota
un'entità, il bambino, e ne “coinvolge” un’altra, Maria (informazione semantica). Al contrario, il
sintagma dell’accordo garantisce che ci sia accordo tra il soggetto (o l’oggetto) e il verbo,
inserendo il morfema adeguato, senza dirci nulla su chi siano il soggetto e il verbo (informazione
sintattica).
Sintagmi di questi tipo vengono chiamati funzionali (Cook e Newson, 1996).
La testa di un sintagma lessicale è, invece, l’elemento lessicale principale, quello che
trasmette al sintagma tutta una serie di informazioni, come il numero di argomenti, la classe
grammaticale, il significato di base (che potrà poi essere modificato dagli altri elementi del
sintagma), il tipo di sintagmi o parole che possono occupare determinate posizioni del sintagma.
Il concetto di testa è, però, legato non tanto a queste proprietà, ma alla struttura del
sintagma: è, infatti, sulla base di questa che si stabilisce chi sia la testa del sintagma (vedi pagina
26 e seguenti).
36
Prima di chiederci che cosa significhino gli altri tratti dell’esempio,
introduciamo più approfonditamente una distinzione cui abbiamo già fatto
riferimento nel paragrafo 1.2 (vedi nota 1 e 4).
Alcuni linguisti (ad esempio, Scalise, 1994) dividono i tratti in due gruppi:
inerenti e contestuali.
Tabella 1: le entrate lessicali “tavolo” e “mangiare” descritte con i tratti binari.
TAVOLO
MANGIARE
[verbo –]
[verbo +]
[nome +]
[nome -]
[regolarità +]
[regolarità +]
[concretezza +]
[concretezza +]
[I° coniugazione +]
[II° coniugazione -]
[III° coniugazione -]
[animatezza -]
[lessicalità +]
[inaccusatività -]
[zerovalenza +]
[zerovalenza -]
[monovalenza -]
[monovalenza -]
[bivalenza -]
[bivalenza +]
[trivalenza -]
[trivalenza -]
[relazione -]
[relazione +]
37
Inerenti sono quei tratti che non fanno riferimento al “vicinato” linguistico
delle parole nelle frasi, che possono essere evidenziate anche osservando la
parola al di fuori di contesti sovralessicali; ad esempio, il significato è quasi
sempre una caratteristica inerente.
Sono, invece, contestuali quei tratti che possono essere indagati solo
considerando il comportamento della parola nel contesto sintagmatico o frasale.
Tenendo presente che alcuni tratti non sono chiaramente classificabili perché
definiti in riferimento al contesto, ma anche a caratteristiche inerenti, seguiremo
questa bipartizione nell’indagare i successivi tratti dell’esempio alla ricerca di
altre differenze tra nomi e verbi.
3.2 Tratti comuni e tratti specifici
Cominciamo osservando che alcuni tratti sono comuni a nomi e verbi,
mentre altri sono specifici per gli uni o per gli altri.
In particolare, sul versante inerente, sono condivisi i tratti di regolarità e
concretezza, mentre non sono condivisi quelli di coniugazione e animatezza.
Questa considerazione non sembra dirci granché, anche se bisogna fare
qualche osservazione importante.
Dapprima, il fatto che la coniugazione sia un tratto specifico dei verbi è
proprio dell’italiano, ma non di tutte le lingue: in latino, ad esempio, anche i
nomi appartengono a classi che si differenziano tra loro per il tipo di affissi usati
38
nella flessione della radice (le declinazioni), per cui potremmo dire che esiste
per i nomi il tratto [declinazione] analogo al tratto [coniugazione] per i verbi17.
La seconda osservazione è che non sempre tratti uguali hanno significati
perfettamente corrispondenti per nomi e verbi.
Ad esempio, per decidere se un nome è concreto oppure no, un buon criterio
potrebbe essere la possibilità di toccare ciò che il nome denota; è evidente che
questo criterio non è di nessuna utilità per i verbi, dal momento che tutti
diremmo che il verbo “costruire” è molto concreto (rispetto ad “amare”, per
esempio) benché nessuno di noi sia in grado di toccare il “costruire”.
3.3 Il tratto [relazione]
Passando al versante prevalentemente contestuale, si può notare un’altra
importante differenza tra nomi e verbi.
Entrambi possiedono il tratto [relazione], però, mentre i verbi sono sempre
relazionali, i nomi non lo sono necessariamente (Graffi, 1994).
Il valore a questo tratto, quindi, è sempre [+] per i verbi, mentre varia per i
nomi: essi, infatti, possono essere argomentali (e allora avranno segno positivo
al tratto [relazione]) oppure non-argomentali (e allora avranno a quel tratto
valore negativo).
Si potrebbe obiettare che i verbi intransitivi stretti, cioè i verbi ad un solo
argomento (ad esempio, cenare), non sono relazionali; questa obiezione è
legittima se si usa il termine “relazione” nell’accezione comune, ma Graffi usa il
17
uso il tratto generico [coniugazione] e non i tratti più specifici usati sopra per comodità (vedi
nota 15).
39
termine “relazionale” a proposito dei verbi per indicare che essi devono sempre
saturare le proprie valenze.
In altre parole, tutti gli argomenti predicati dal verbo devono essere
sintatticamente18 presenti nella frase.
Consideriamo gli esempi seguenti:
(17)
(18)
Mario ha abbracciato Claudia
*Mario ha abbracciato
(19)
L’abbraccio tra Mario e Claudia fu molto caloroso
(20)
L’abbraccio fu molto caloroso
Di queste quattro frasi, solo (18) è non-grammaticale, probabilmente per il
fatto che manca l’oggetto, cioè uno dei due protagonisti della relazione denotata;
come si può vedere da (17), infatti, se aggiungo l’oggetto, la frase diviene
corretta.
Osservando, però, il quarto esempio, dove a denotare la stessa relazione
(l’abbraccio) è un nome, si vede che, non soltanto uno, ma entrambi gli
argomenti della relazione sono assenti: eppure la frase è grammaticale!
Ecco, quindi, che la differenza diventa evidente: i verbi sono obbligati a
realizzare i loro argomenti, pena la non-grammaticalità della frase.
La stessa cosa non vale per i nomi che, anche quando sono relazionali,
possono “permettersi” di non realizzare fonologicamente i propri argomenti
(purché, dal contesto, sia intuibile la loro esistenza).
18
gli argomenti non devono essere necessariamente realizzati fonologicamente: è necessario
soltanto che il verbo assegni ad una posizione sintattica (un nodo dell’albero) ciascuno dei suoi
argomenti. I nodi cui la testa verbale ha assegnato un argomento potranno poi essere occupati da
elementi fonologicamente nulli e quindi non essere espressi.
40
Ad esempio, madre è un nome strettamente relazionale: perché ci sia una
madre ci deve essere un figlio, non si può essere madre senza un rapporto di
maternità con un “oggetto” altro da sé, proprio figlio.
Eppure la frase “la madre si comportò male in quella situazione” è
perfettamente grammaticale, purché si possa capire dal contesto che un figlio
esiste, anche se non viene citato esplicitamente.
I nomi argomentali, quindi, a differenza dei verbi, possono apparire da soli,
anche se, in quei casi, i loro argomenti devono essere chiaramente presenti nel
contesto.
I nomi non-argomentali, invece, possono -ma non devono- essere seguiti da
“complementi di specificazione”: posso, infatti, dire sia “Il palazzo di Marco è
crollato” che “Il palazzo è crollato”.
Un ultima nota: nonostante, come si è visto, possiedano diverse regole di
realizzazione degli argomenti, nomi e verbi fanno uso degli stessi tratti per
specificare la natura “quantitativa” della relazione che denotano; detto in altro
modo, indipendentemente dal fatto che siano obbligati a realizzarli oppure no,
sia i nomi che i verbi fanno uso dei tratti [zerovalenza], [monovalenza],
[bivalenza] e [trivalenza] per specificare quante entità coinvolga la loro
predicazione.
4. Altre differenze tra nomi e verbi
Ci sono altre differenze di comportamento tra nomi e verbi; il sistema dei
tratti binari non può coglierle, però, appieno, così le analizzeremo a parte in
41
questo paragrafo, riferendoci a due fenomeni molto importanti in ambito
sintattico: i fenomeni di caso e quelli di movimento.
4.1 Il caso grammaticale
Consideriamo ora queste frasi:
(21)
Mario ha bevuto l’acqua
(22)
Mario ha chiesto di Maria
(23)
*Mario ha chiesto Maria
Le prime due frasi sono corrette, mentre la terza è chiaramente nongrammaticale: perché?
La differenza tra la (22) e la (23) sta tutta nella preposizione “di” prima del
nome “Maria”: perché questa preposizione è così importante, tanto da decidere
della grammaticalità della frase?
Per rispondere a questa domanda è necessario notare che, nella (21), non c’è
una preposizione prima del sintagma nominale “l’acqua”, eppure la frase è
grammaticale; anzi, se ci fosse una preposizione, questa causerebbe la nongrammaticalità della frase (*Mario ha bevuto di l’acqua).
La ragione di questa asimmetria và ricercata nei verbi che reggono le due
proposizioni (bere e chiedere).
Bere è un verbo biargomentale transitivo, mentre chiedere è biargomentale
intransitivo.
42
La differenza tra i verbi biargomentali transitivi e intransitivi sta nel fatto
che i transitivi assegnano un caso grammaticale strutturale all’oggetto, mentre
gli intransitivi non lo fanno (vedi paragrafo 2.2).
Un caso grammaticale strutturale è una sorta di “etichetta”, assegnata da
teste lessicali col tratto [N-] (vedi pagina 36 e seguenti), a sintagmi nominali
secondo certe regole che possono variare da lingua a lingua19.
Questa “etichetta” può avere realizzazione morfologica e fonologica (ad
esempio, in latino o in tedesco), oppure non avere nessun marker visibile; in
questo secondo caso si parla di caso astratto20.
A proposito dell’assegnazione dei casi, esiste una legge, il filtro del caso,
che dice che ogni sintagma nominale dotato di realizzazione fonologica deve
possedere un caso (astratto) (Cook e Newson, 1996).
Ecco quindi spiegata la non-grammaticalità di (23): il SN “Maria”, essendo
oggetto di un verbo intransitivo, non possiede caso. In (22), invece, la
preposizione interposta tra verbo e oggetto fornisce caso a “Maria”, rendendo la
frase accettabile.
In (21) la preposizione non è necessaria perché il verbo è transitivo ed è
quindi esso stesso a dare caso al suo oggetto, il SN “L’acqua”.
Questa piccola digressione sul caso grammaticale mi serve per evidenziare
una seconda differenza tra nomi e verbi, implicitamente già emersa.
19
ad esempio, alcune lingue richiedono l’adiacenza tra verbo e oggetto per l’assegnazione
del caso, mentre altre non lo fanno (come il francese); o ancora, in molte lingue, i verbi
assegnano il caso all’oggetto verso destra, ma in alcune altre, come il giapponese, la “direzione”
dell’assegnazione del caso è contraria e il verbo assegna il caso all’oggetto che sta alla sua
sinistra (Cook e Newson, 1996).
20
esistono varie prove dell’esistenza del caso astratto, tra cui una delle più evidenti è proprio
quella che abbiamo preso ad esempio in questo contesto (il filtro del caso).
43
I nomi hanno bisogno di un caso per esprimersi fonologicamente, mentre i
verbi non solo non hanno bisogno di caso, ma addirittura sono essi stessi ad
assegnarlo!
Questo evidenzia ancora quanto le entrate lessicali verbali e le entrate
lessicali nominali (e, quindi, i sintagmi che vanno ad “abitare”) differiscano tra
loro.
4.2 Il movimento sintattico
E’ possibile notare un’ulteriore differenza tra nomi e verbi analizzando due
tipi di movimento sintattico.
Un primo fenomeno di movimento è il movimento del sintagma nominale,
un esempio del quale, in realtà, abbiamo già visto parlando di inaccusatività: un
sintagma nominale (NP)21 in posizione di oggetto (
complemento della testa
verbale) si muove ad occupare la posizione di soggetto (specificatore della testa
flessiva)22.
Riporto l’esempio in figura 5b per chiarezza.
Come si vede dall’albero, il NP che occupava la posizione di complemento
della testa verbale muove nella posizione di specificatore di V’’ prima e in
quella di specificatore di I’’ poi.
Non solo gli oggetti dei verbi inaccusativi, ma anche gli oggetti dei verbi transitivi
fanno questo tipo di movimento quando la frase è volta in forma passiva: il NP che,
21
riprendo qui la legenda di nota 9: VP è il sintagma verbale (
Verbal Phrase), NP il
sintagma nominale, AP il sintagma aggettivale, PP il sintagma preposizionale e IP il sintagma
flessivo. Per il concetto e la struttura del sintagma, si veda pagina 27 e seguenti.
22
i concetti di complemento e specificatore sono introdotti a pagina 27.
44
nella forma attiva, si trova in posizione di oggetto si sposta nella posizione di
soggetto (figura 6).
Ora dovrebbe essere chiara la dinamica del movimento; resta, però, aperta una
domanda: perché mai questi SN dovrebbero spostarsi? Che cosa provoca il loro
movimento?
Figura 5b: albero sintattico di una frase contenente un verbo inaccusativo.
I’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I’
I
Accordo,
tempo, modo
M2
V’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
V’
V
“È scivolato”
N’’
Argomento
interno
“Luca”
M1
45
Per capire, soffermiamoci sui verbi inaccusativi, quelli cioè che non
possiedono un argomento esterno: di fatto, ogni verbo che non possiede
argomento esterno non assegna caso al suo argomento interno.
Da qui, ricordando il filtro del caso (vedi pagina 43), deduciamo che il NP è
costretto a muoversi da quella posizione!
Infatti, restando nel “luogo di nascita”, sarebbe privo del caso necessario per
la sua realizzazione fonologica.
Dunque il NP si muove alla ricerca del caso grammaticale, andando
trovarlo dalla testa flessiva, la quale, essendo una testa [N-], può dare un caso ai
NP.
E questo vale anche per il passivo: il verbo transitivo in questa forma, infatti,
perde la capacità di dare il caso accusativo al suo oggetto, costringendolo a
“migrare”.
Anche i verbi vanno incontro a fenomeni di movimento, ma di tipo diverso
rispetto a quelli cui sottostanno i NP.
Consideriamo l’esempio:
(24)
“Luca legge spesso questi libri”
la cui struttura sintattica è rappresentata in figura 7.
Come si può vedere, la testa verbale si muove dalla sua posizione naturale
alla posizione di testa flessiva. Questa posizione è già occupata dalle specifiche
di tempo, accordo e modo (anche se queste non hanno, di per sé, realizzazione
fonologica), ma questo non impedisce il movimento.
46
Figura 6: albero sintattico di una frase in forma passiva.
I’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I’
I
Accordo, tempo,
modo, FORMA
PASSIVA
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
V’’
V’
V
“È stato
interrogato”
N’’
Argomento
interno
“Luca”
L’interpretazione della struttura sintattica della frase potrebbe sembrare un
po’ arbitraria, ma in realtà non lo è; infatti, ipotizzare un movimento è l’unico
modo per giustificare il fatto che il verbo (una testa di sintagma) preceda
l’avverbio (il suo specificatore).
In italiano, infatti, la struttura del sintagma (vedi pagina 28) è tale per cui la testa
sta sempre in seconda posizione, preceduta dal suo argomento esterno di
sinistra, lo specificatore appunto; per cui la nostra frase di esempio, così come
sintatticamente nasce, dovrebbe essere “Luca spesso legge questi libri”23.
23
questa frase ( Luca spesso legge questi libri ) non è del tutto non-grammaticale, ma viene
prodotta molto meno spesso della forma col movimento (Luca legge spesso questi libri):
potremmo dire, dunque, che è una forma insolita.
47
Figura 7: il movimento della testa verbale.
I’’
N’’
Argomento
esterno
“Luca”
I
Accordo, tempo,
modo
“legge”
I’
V’’
Argomento
esterno
“spesso”
V
“legge”
V’
N’’
Argomento
interno
“questi libri”
Osservando i due movimenti in modo comparato emergono subito delle
differenze:
 il movimento di NP è un movimento di un intero sintagma, mentre il
movimento del verbo coinvolge solo la testa, lasciando fermo il resto
del sintagma.
 il luogo di destinazione del NP mosso è una posizione della struttura
sintattica vuota (come, ad esempio, lo specificatore del sintagma
flessivo), mentre il verbo và ad occupare una posizione che, sebbene
48
non sia occupata da elementi che, di per sé, avranno una
realizzazione fonologica, contiene comunque qualcosa.
Anche qui, però, la cosa più interessante è il perché del movimento.
L’ipotesi più probabile è che il verbo si sposti per raggiungere le specifiche
di tempo, accordo, modo e forma per potersi realizzare fonologicamente: infatti,
il verbo deve essere coniugato prima di essere espresso.
Possiamo, quindi, immaginare che il verbo “vada a prendersi” le proprie
specifiche flessive, andando ad insediarsi nella loro posizione di nascita.
Detto questo, la più grande differenza tra il movimento di NP e il
movimento della testa verbale sembra essere proprio la causa: mentre il nome si
vede costretto alla migrazione da una legge che gli impedisce di realizzarsi
senza ricevere un caso da una testa [N-], il verbo si muove “attivamente” alla
ricerca della propria flessione.
2. Concetti linguistici o costrutti della mente?
All’inizio del precedente capitolo abbiamo detto che ci saremmo occupati
dei costrutti mentali di nome e verbo; fino ad ora, però, abbiamo indagato in
modo piuttosto approfondito soltanto i rispettivi concetti linguistici.
E’ giunto il momento di scoprire le carte: vi è corrispondenza biunivoca tra
unità linguistiche e unità di elaborazione mentale?
La risposta è evidentemente no (o almeno, non necessariamente), anche se
riteniamo che tra le due entità ci sia qualche relazione.
49
Più in particolare, riteniamo che un comportamento concreto “prodotto” da
una certa struttura mentale debba riflettere in qualche modo le caratteristiche
della struttura mentale stessa.
Il modo in cui le proprietà della mente si riflettono nelle sue manifestazioni
è, però, tutt’altro che trasparente; non ci illudiamo, quindi, che sia sufficiente
trovare dei buoni principi organizzativi ed esplicativi di un comportamento per
capire la struttura dell’apparato mentale che l’ha prodotto.
Non possiamo, in altre parole, fare un’attenta analisi funzionale di un
fenomeno, costruire una teoria esplicativa dei dati e poi semplicemente
affermare che anche la mente funziona secondo quei principi e quelle modalità:
le teorie dei comportamenti non sono necessariamente teorie della mente.
Però, è piuttosto evidente, per il fatto stesso che ogni nostro comportamento
scaturisce da qualche struttura mentale, che i fenomeni manifesti possiedano
principi organizzativi e caratteristiche che, in qualche modo, derivano dalla
mente.
Il problema allora si sposta e diventa: come è possibile indagare il tipo di
relazione che lega le caratteristiche dei fenomeni con le caratteristiche degli
apparati mentali che hanno contribuito a produrli?
Noi crediamo che un buon metodo sia quello di partire da un’analisi
funzionale descrittiva ed esplicativa (non necessariamente di tipo psicologico) di
un dato concreto, per poi assumere che i processi mentali all’origine del dato
stesso abbiano proprio quelle caratteristiche o caratteristiche molto simili.
Questo non perché crediamo davvero che ci sia una totale trasparenza tra
livello mentale e livello comportamentale (abbiamo appena affermato il
contrario!), ma perché è la base di partenza più solida che abbiamo: in ormai
qualche decennio di ricerca cognitiva abbiamo sviluppato dei solidi strumenti
50
per l’analisi funzionale dei fenomeni psicologici, senza considerare l’aiuto che
in questo senso ci possono dare discipline come la scienza computazionale,
l’informatica, la linguistica, la teoria dei sistemi, ecc.
Avendo questa base solida, è possibile poi affrontare la fase sperimentale
della nostra ricerca: controllare le ipotesi emerse sul piano puramente funzionale
descrittivo-interpretativo al banco di prova del comportamento in condizione
sperimentale.
Noi sappiamo che, molto probabilmente, le nostre ipotesi iniziali, proprio
perché presuppongono la trasparenza tra il livello mentale e quello
comportamentale, non saranno corrette; ma questo non importa più di tanto
perché sarà l’esperimento stesso a dirci come migliorare le nostre idee.
Passo dopo passo, esperimento dopo esperimento, ci avvicineremo alla reale
organizzazione della struttura mentale che stiamo indagando; la strada è
probabilmente molto lunga, ma sembra metodologicamente giusta e, quindi,
promettente.
Con questo spero di avervi almeno in parte convinto dell’utilità e
dell’importanza delle prime pagine di questa tesi: per studiare la struttura
mentale dell’apparato linguistico è necessario riferirsi continuamente al livello
funzionale descrittivo-interpretativo che la scienza linguistica odierna ci offre.
Necessario, ma non sufficiente: senza testare a livello comportamentale, in
modo controllato e sperimentale, le ipotesi emerse in quel campo, esse restano
per la psicologia delle promesse incompiute. Cercheremo di scongiurare questa
eventualità nella seconda parte della tesi.
51
3. L’afasia
Dopo aver raccolto molti suggerimenti dalla linguistica, dobbiamo dunque
passare alla sperimentazione sul piano comportamentale delle ipotesi
psicologiche che da quei suggerimenti sono nate.
In particolare, il nostro studio -il nostro confrontarci con la realtà dei
comportamenti umani- sarà di tipo neuropsicologico: più precisamente,
indagheremo le prestazioni di alcuni pazienti afasici ad un test di recupero
lessicale.
Questo ci obbliga ad affrontare, seppur molto brevemente, due questioni:
 che cosa è l’afasia? Quali forme cliniche di afasia esistono? Quali
sono le loro principali caratteristiche?
 perché indaghiamo la struttura della mente “normale” in pazienti
cerebrolesi, afasici, in cui presumibilmente il sistema cognitivo è
danneggiato? Questo metodo di indagine è legittimo e affidabile?
1. Afasia e sindromi afasiche
L’afasia è un disturbo della comunicazione verbale conseguente ad una
lesione cerebrale acquisita che interessa uno o più componenti del processo di
comprensione e produzione di messaggi verbali.
Questa definizione contiene i quattro elementi fondamentali che
caratterizzano l’afasia nell’ampio mondo dei disturbi della comunicazione:
52
 l’afasia è un disturbo della comunicazione verbale, non della
comunicazione in toto; le componenti comunicative non-verbali possono
essere risparmiate e, in qualche caso,
utilizzate come strategia
compensativa spontanea.
 il disturbo afasico consegue ad un danno organico cerebrale,
solitamente focale e localizzato nell’emisfero sinistro.
 la lesione responsabile dell’afasia non è congenita, ma acquisita;
colpisce, cioè, individui che avevano già sviluppato una normale
competenza linguistica e comunicativa.
 il disturbo afasico riguarda una o più componenti del sistema linguistico:
esistono forme di afasia piuttosto selettive accanto a forme molto gravi
che compromettono quasi tutti i livelli linguistici.
La classificazione attuale delle afasie più diffusa è una classificazione di tipo
sindromico, frutto dell’integrazione tra i modelli anatomo-clinici ottocenteschi, i
dati e le osservazioni emerse in un secolo di pratica clinica e i più recenti
sviluppi dell’analisi linguistica funzionale.
Essa si basa innanzitutto su una distinzione di tipo quasi esclusivamente
quantitativo: la distinzione tra afasie fluenti e afasie non-fluenti. Queste due
forme si distinguono fondamentalmente per la quantità di eloquio emesso
nell’unità di tempo e per la lunghezza delle locuzioni prodotte: la quantità è
paragonabile a quella dei controlli normali per gli afasici fluenti ed è molto
minore per gli afasici non-fluenti, mentre, per ciò che riguarda la lunghezza
delle locuzioni, le frasi dei non-fluenti sono significativamente più brevi di
quelle prodotte dai fluenti e dai controlli normali.
53
Questa prima distinzione è utile clinicamente, ma è solo preliminare: afasie
fluenti e non-fluenti, infatti, si distinguono ulteriormente in sindromi più
specifiche sulla base di criteri di tipo qualitativo.
1.1 Afasie non-fluenti
Le afasie non-fluenti sono tipicamente caratterizzate da alcuni disturbi che
determinano la scarsa fluenza dell’eloquio: problemi articolatori, disprosodia
(disturbo del ritmo e della melodia del linguaggio), difficoltà di produzione
dell’eloquio (che si manifesta con sforzo, a volte notevole, nel corso della
produzione orale). Inoltre, le frasi sono brevi, spesso presentano omissioni delle
parole grammaticali (le preposizioni, ad esempio) o sostituzioni delle forme
flesse con forme meno marcate morfo-sintatticamente (forme base o di
citazione).
Le sindromi afasiche che più spesso possiedono questi sintomi e, quindi, più
spesso si associano ad una fluenza molto bassa sono quattro.
1.1.1 Afasia di Broca
L’afasia di Broca, nella sua forma più tipica, è caratterizzata da un eloquio
ridotto e dalla presenza di un disturbo dell’articolazione non paretico, chiamato
anartria o aprassia articolatoria. Sempre sul versante della produzione, può
essere presente l’agrammatismo, un fenomeno per cui l’afasico semplifica e
riduce le strutture grammaticali: i verbi non sono declinati, i funtori
54
grammaticali sono spesso omessi, l’ordine delle parole può essere alterato,
vengono prodotte pochissime o nessuna frase subordinata, ecc.
Ancora, sono spesso presenti anomie e parafasie fonemiche.
La comprensione sembra preservata o molto poco danneggiata in
conversazioni informali, ma si dimostra piuttosto deficitaria a prove specifiche,
soprattutto con frasi sintatticamente complesse.
Le prove di transcodificazione sono solo parzialmente colpite, purché non
coinvolgano la produzione orale; la copia è preservata, mentre la ripetizione
presenta di solito gli stessi problemi del linguaggio spontaneo.
La lettura ad alta voce può essere relativamente risparmiata: quando non lo
è, presenta le caratteristiche tipiche di una dislessia fonologico-profonda.
La letteratura classica ha nel passato riferito una localizzazione lesionale
frontale postero-inferiore; di fatto, però, la maggioranza dei casi presenta lesioni
assai più ampie, solitamente estese anche alle aree parietali e temporali (Mohr,
1976, Mohr et al., 1978; Lecours at al., 1985; Alexander, Naeser, Palumbo,
1990).
1.1.2 Afasia globale
L’afasia globale è la forma più grave di afasia non-fluente in quanto colpisce
praticamente tutti gli aspetti della produzione e della comprensione linguistica.
Quest’ultima è, a volte, parzialmente risparmiata nelle conversazioni su
argomenti familiari in contesti “naturali”, ma si rivela fortemente deficitaria a
qualsiasi test formale.
55
La produzione è nulla, talvolta costituita da frammenti sillabici ripetuti
(recurring utterences) o da stereotipie.
Il linguaggio scritto e le prove di transcodificazione sono anch’esse
gravemente compromesse (qualche paziente può riuscire ancora a produrre la
propria firma).
La lesione è solitamente molto ampia, coinvolgendo tutte le aree linguistiche
dell’emisfero sinistro (zone perisilviane fronto-temporo-parietali).
1.1.3 Afasia transcorticale motoria
E’ una forma di afasia molto particolare (simile all’afasia dinamica di Luria)
e non frequentissima.
Il paziente è in grado di svolgere bene quasi tutti i compiti linguistici, ma il
suo eloquio è caratterizzato da grave inerzia, cioè tendenza a non utilizzare il
linguaggio: Lichtheim interpretava già alla fine del secolo scorso questo quadro
come una disconnessione tra le rappresentazioni concettuali e quelle lessicali.
In sostanza, quindi, il paziente tende a non usare spontaneamente il
linguaggio o ad usare solo parole isolate o frasi molto brevi e dimostra una
notevole dissociazione tra la capacità di descrivere un evento e la capacità di
denominare o di ripetere frasi anche lunghe e complesse.
La comprensione è solitamente normale, sia a livello lessicale che sintattico.
La lesione è tipicamente frontale premotoria, quindi con relativo risparmio
dell’area di Broca.
56
1.1.4 Afasia doppia transcorticale
Concettualmente, questo quadro consiste nell’isolamento completo, sia in
produzione che in comprensione, tra linguaggio e rappresentazioni concettuali.
E’ una forma piuttosto rara, caratterizzata clinicamente da una forte
dissociazione tra la prestazione nelle prove di ripetizione (conservate) e la
prestazione alle prove di comprensione e produzione, entrambe gravemente
compromesse.
La lesione che provoca questo quadro solitamente coinvolge le aree
perisilviane anteriori e posteriori, con un risparmio relativo delle aree di Broca e
Wernicke.
1.2 Afasie fluenti
Come abbiamo detto prima, nelle forme fluenti di afasia l’eloquio non è
rallentato né scarso, ma paragonabile quantitativamente a quello dei normali.
I sintomi clinici generali formano un quadro simmetrico e opposto a quello
delle forme non-fluenti: non ci sono disturbi articolatori, la prosodia è
conservata, le frasi sono relativamente lunghe ed elaborate dal punto di vista
sintattico, la propensione a parlare è normale, a volte anche troppo marcata
(questi pazienti sono frequentemente logorroici).
Inoltre, un tratto tipico dei pazienti fluenti è la grande ricchezza di parafasie
verbali e/o fonemiche e di neologismi che rendono il loro eloquio
incomprensibile (quando le parafasie e i neologismi sono molto frequenti, fino a
costituire interamente l’eloquio del paziente, si parla di gergo).
57
1.2.1 Afasia di Wernicke
Nonostante sia storicamente una delle prime sindromi afasiche ad essere
entrata nella pratica clinica, l’afasia di Wernicke ha un quadro piuttosto
eterogeneo.
Nella sua forma più tipica, la produzione verbale è abbondante,
caratterizzata da errori fonemici, che vanno dalle frequenti parafasie, ai
neologismi, fino al gergo fonemico.
Molto frequenti sono anche gli errori lessicali (anomie, parafasie semantiche
e verbali, fino al gergo).
Caratteristica di questi pazienti è una certa inconsapevolezza del fatto che
ciò che essi producono è incomprensibile all’interlocutore: questa
inconsapevolezza molto spesso non è totale, ma li porta comunque a
sottovalutare il proprio disturbo.
La comprensione è di solito anch’essa compromessa, ma presenta una
gravità molto variabile (espressione della gravità generale della sindrome).
Ripetizione, lettura ad alta voce e dettato sono frequentemente
compromesse.
La lesione tipica di questo quadro è situata nella prima circonvoluzione
temporale, nella sua parte medio-posteriore (area di Wernicke).
1.2.2 Afasia di conduzione
La produzione è simile a quella dei Wernicke, ma, in questo caso,
prevalgono gli errori fonemici; frequenti sono le conduites d’approche, tentativi
58
successivi, solitamente progressivamente migliori, di superare e correggere le
difficoltà fonologiche per arrivare alla parola target. Ripetizione e lettura
presentano un quadro simile, con molte parafasie fonemiche, anomie e qualche
parafasia verbale.
L’elemento classico e distintivo di questa sindrome è il netto contrasto tra
una capacità di ripetizione piuttosto deficitaria e una buona comprensione,
soprattutto in contesti informali e nel colloquio clinico: nei termini della
linguistica moderna, si potrebbe dire che questo tipo di afasia presenta un deficit
a livello fonologico con risparmio lessicale e sintattico.
La sede lesionale non è chiaramente evidente: i classici addebitarono il
deficit ad una lesione del fascicolo arcuato, ma possono esitare in questo quadro
anche lesioni corticali del giro sovramarginale e dell’insula.
1.2.3 Afasia amnestica
Questa forma di afasia è caratterizzata da una prevalente compromissione
della capacità di denominazione, a fronte di prestazioni solitamente meno
deficitarie negli altri ambiti.
L’eloquio è dunque fluente, ma spesso interrotto da anomie e reso prolisso e
complicato dalle frequenti circonlocuzioni, giri di parole che l’afasico usa per
spiegarsi quando non riesce a recuperare la parola target.
Le difficoltà lessicali portano spesso il paziente ad utilizzare parole passepartout (come “cosa”, “roba”, “fare”), parole, cioè, molto “leggere”
semanticamente, poco specifiche, utilizzate in luogo di quelle più corrette, ma
più ricche di significato, che questi pazienti non riescono a recuperare.
59
La comprensione, la lettura e gli altri compiti di transcodificazione sono
solitamente conservati.
Anche per questa sindrome, la lesione non è facilmente identificabile:
sembra, però, che le aree più spesso lese in questi pazienti siano quelle temporoparieto-occipitali, posteriori all’area di Wernicke, corrispondenti alle aree 37 e
39 di Broadmann.
1.2.4 Afasia transcorticale sensoriale
L’afasia transcorticale sensoriale è caratterizzata da una produzione fluente,
ricca di parafasie verbali ed anomie che possono arrivare a destrutturate
completamente l’eloquio, rendendolo incomprensibile (gergo verbale).
Simmetricamente all’afasia di conduzione, il tratto tipico di questa sindrome
è la dissociazione tra una conservata ripetizione (buona anche con frasi lunghe e
sintatticamente complesse) e una comprensione molto compromessa, soprattutto
a livello lessicale-semantico: potremmo dire che questa sindrome è
caratterizzata da un deficit lessicale-semantico marcato con relativo risparmio
della fonologia.
La lettura e la scrittura presentano solitamente un pattern parallelo al
linguaggio orale, con una compromissione non molto grave, ma centrata
soprattutto sul livello lessicale-semantico.
Le aree coinvolte nelle lesioni che esitano in questo quadro sono molto
simili a quelle dell’afasia amnestica; l’unica possibile differenza sta nel fatto
che, in questo caso, la lesione delle aree 37 e 39 di Broadmann è più estesa.
60
2. Patologia e normalità
L’ultimo argomento di questo capitolo è la questione metodologica posta
all’inizio del paragrafo: perché indagare la struttura della mente in pazienti
cerebrolesi?
Gli studi neuropsicologici vengono utilizzati di solito con due obiettivi:
1. lo studio delle aree cerebrali che sono coinvolte nei processi
cognitivi.
2. lo studio dei processi cognitivi di per sé, a livello puramente
funzionale.
Per ciò che riguarda il primo scopo, il senso degli studi neuropsicologici è
abbastanza evidente: se devo studiare come si associano aree cerebrali e
prestazioni cognitive, l’indagine delle capacità mentali dei pazienti cerebrolesi
non è solo un metodo di indagine, ma il metodo di indagine principale (fino a
qualche anno fa, prima che la tecnologia permettesse gli studi funzionali in vivo,
era anche l’unico).
Ciò non significa, però, che questa metodologia sia perfetta: nonostante il
metodo sia utilizzato da più di un secolo e mezzo (Bouillaud ne parlava già nel
1825) e sia stato lungo questo arco di tempo perfezionato -con la revisione, ad
esempio, del concetto di localizzazione e di funzione (vedi, ad esempio, Luria,
1977)- ancora oggi ci sono dei dubbi e delle questioni irrisolte, oltre ad alcuni
assunti necessari per ritenere i dati ottenuti su pazienti informativi a proposito
della mente normale.
61
Prima di vedere quali sono, riflettiamo un po’ sul secondo obiettivo degli
studi sui pazienti, quello puramente funzionale.
La storia è ricchissima di esempi dell’importanza della ricerca
neuropsicologica per la psicologia cognitiva: basti pensare all’ambito degli studi
sulla memoria, dove l’esistenza di pazienti con memoria a lungo termine
preservata a fronte di un chiaro deficit di memoria a breve termine ha mandato
in crisi i modelli sequenziali
come quello proposto da Atkinson e Shiffrin
nel 1968, portando alla formulazione di modelli paralleli che si sono rivelati più
adeguati a rendere conto non solo dei dati neuropsicologici stessi, ma anche dei
dati ottenuti su soggetti normali.
Lo stesso argomento di questa tesi è prevalentemente funzionale (noi ci
chiediamo, infatti, come sono organizzati i concetti di nome e verbo nella mente
più che chiederci se ci sono delle aree cerebrali specifiche che si occupano di
trattarli) eppure è emerso da dati neuropsicologici, cioè dall’esigenza di spiegare
come mai degli afasici possano mostrare delle ottime capacità di denominare
nomi, ma non verbi e viceversa.
Generalizzando, i dati comportamentali che osserviamo nei pazienti
cerebrolesi devono essere spiegati e previsti dai modelli cognitivi della mente
normale: ecco allora che neuropsicologia e scienze cognitive appaiono legate
l’un l’altra e risulta giustificato l’uso degli studi sui pazienti per l’indagine sulla
struttura della mente.
Questa affermazione mi permette di introdurre la prima delle questioni
aperte a proposito del metodo neuropsicologico: infatti, ciò che abbiamo detto
sopra è vero solo se assumiamo che la mente lesa mantenga un rapporto stretto
con quella normale, in particolare se crediamo che la mente lesa si comporti
come la mente normale senza le funzioni perse e non come una mente
62
organizzata in un nuovo ordine, poco prevedibile, comprendente magari nuove
strutture, e non necessariamente simile a quello che la mente aveva
precedentemente al danno cerebrale.
Questo è l’assunto di costanza (Vallar, 2000), necessario se vogliamo dare
un rilievo non solo clinico agli studi neuropsicologici.
Un secondo assunto molto importante che i ricercatori neuropsicologi
solitamente adottano, implicitamente presente già in quello di costanza, è quello
di modularità: per dirla come Marr, “…any large computation should be split up
into a collection of small, nearly indipendent, specialised subprocesses” (Vallar,
2000).
Ogni nostra elaborazione mentale è costituita, dunque, di tante piccole
elaborazioni più specifiche, ciascuna delle quali, aggiungiamo noi, è svolta da
un sotto-sistema mentale specializzato, relativamente indipendente dagli altri.
Un ultimo assunto necessario è quello di corrispondenza tra
l’organizzazione funzionale e l’organizzazione neurologica, secondo cui questi
sotto-sistemi mentali sono implementati nel substrato neurale in modo che la
proprietà della modularità sia conservata: infatti, se i sotto-sistemi mentali
fossero a carico di circuiti cerebrali distribuiti e non separati, diffusi nella
corteccia, non neurologicamente indipendenti e non cognitivamente specifici,
nessuna lesione selettiva dei moduli mentali sarebbe possibile e i fenomeni
comportamentali conseguenti non sarebbero più interpretabili in modo chiaro
dalla scienza cognitiva né a livello funzionale né a livello localizzativo.
Ogni ricerca neuropsicologica accetta questi assunti prima di generalizzare
alla mente normale i propri risultati e prima di localizzare le funzioni: ma questi
assunti non sono privi di insidie e, anche se sono sostenuti da una grande massa
di dati a loro favore, non devono essere intesi in modo troppo rigido.
63
Ad esempio, il fatto che un danno neurologico focale porti praticamente
sempre ad un danno cognitivo relativamente limitato, con alcune funzioni
cognitive lese e altre risparmiate, è una prova forte a favore della modularità.
Allo stesso modo, i dati provenienti dalla neurofisiologia dimostrano
l’esistenza di circuiti neuronali altamente specializzati e anatomicamente
identificabili, come quelli presenti nella corteccia visiva, selettivamente
responsabili della percezione delle forme, piuttosto che del colore o del
movimento (Cowey, 1985, Lueck et al., 1989): anche a livello neurologico,
quindi, gli assunti di modularità e di specificità funzionale sono plausibili ed è
quindi realistico che l’organizzazione neurologica rifletta quella mentalefunzionale (assunto di corrispondenza).
Anche l’assunto di costanza è ben documentato: nella pratica clinica è molto
raro trovare dei fenomeni qualitativamente così diversi dai normali da dover
ipotizzare la formazione di strutture cognitive nuove. La riabilitazione stessa è
sempre mirata al recupero o al compenso delle funzioni perse basato sull’utilizzo
delle strutture conservate e precedentemente presenti, non su nuove strutture,
siano esse emerse spontaneamente o costruite nella pratica riabilitativa.
Questo non significa, però, che i tre assunti vadano accettati sempre nel loro
significato più stretto.
Ad esempio, non dobbiamo considerare i moduli mentali come realmente del
tutto indipendenti: quelli che, pur con compiti diversi e specifici, partecipano
allo stesso processo cognitivo devono essere in qualche modo in contatto,
devono passarsi informazioni l’un l’altro; di conseguenza, nessun modulo potrà
restare del tutto indifferente ai danni subiti dai moduli funzionalmente
“confinanti”.
64
Allo stesso modo, all’assunto di corrispondenza non chiediamo di
giustificare una mappatura precisa e puntuale di ogni struttura mentale in una
certa area cerebrale: già a partire dagli anni settanta (vedi Luria, 1977) si è
diffusa l’idea che non siano singole aree cerebrali a farsi carico di singoli
compiti mentali, ma piuttosto complessi circuiti, che è certamente possibile
individuare, ma non in modo così lineare come i localizzazionisti puri
ritenevano: questi circuiti, infatti, si intrecciano, condividono moduli,
coinvolgono strutture cerebrali anche molto lontane tra loro a livello anatomico.
Infine, le prove accumulate negli ultimi anni sulla plasticità cerebrale (Basso
e Pizzamiglio, 1999; Cappa e Vallar, 1992; Weiller, Chollet, Friston et al., 1992)
invitano alla prudenza nell’interpretare il principio di costanza: è probabilmente
vero che non si creano nuove strutture cognitive di alto livello dopo lesioni
cerebrali, ma un certo grado di riorganizzazione funzionale e anatomica va
messo in conto.
Accettando, quindi, cum grano salis questi assunti, ci inoltriamo nella ricca almeno negli ultimi anni- letteratura neuropsicologica sui nomi e i verbi, prima
di affrontare la parte sperimentale vera e propria: non camminiamo, infatti, su
una strada inesplorata, ma abbiamo delle tracce promettenti da seguire.
65
2
LA LETTERATURA SULLA
DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI
Negli ultimi vent’anni molti autori si sono occupati della dissociazione
nomi-verbi.
Più in generale, l’interesse verso questo fenomeno rispecchia l’attenzione
sempre maggiore che gli studiosi hanno riservato alle dissociazioni tra classi di
parole nelle sindromi afasiche come “indizi” fondamentali per capire la struttura
del sistema linguistico umano.
L’esistenza di compromissioni dissociate in afasia è stata evidenziata in
letteratura già molti anni fa (Head, 1926; Goldstein, 1948), ma l’importanza
teorica che gli era conferita non era molta; al contrario, negli ultimi due decenni,
ci sono state molte osservazioni di tali fenomeni e, soprattutto, un ricco dibattito
teorico sul modo migliore di interpretarli.
In questa direzione ha senza dubbio pesato lo sviluppo delle teorie
linguistiche moderne e la collaborazione sempre più stretta tra psicologia e
linguistica nello studio della mente.
Sono state osservate e descritte dissociazioni tra oggetti naturali e oggetti
artificiali (Warrington, McCarthy, 1983; Hart, Berndt, Caramazza, 1985), tra
66
nomi astratti e nomi concreti (Head, 1926), tra parole a contenuto e parolefuntore (Goodglass, Menn, 1985), tra oggetti indoor e outdoor (Gardner, 1973).
Le proposte esplicative di questi fenomeni sono state molte e, come avremo
modo di vedere più in dettaglio, hanno toccato quasi tutti i livelli linguistici, da
quello semantico a quello lessicale a quello sintattico.
Tra queste proposte, emergono in particolare due filoni interpretativi: alcuni
autori hanno visto la dissociazione tra due categorie di parole come la prova di
un’organizzazione separata di queste categorie a livello lessicale centrale o in
uscita, mentre altri hanno fatto risalire le differenze di prestazione a differenze
nei concetti semantici sottostanti alle etichette lessicali dissociate. Come
vedremo, questa dicotomia interpretativa si riproporrà a proposito della
dissociazione nomi-verbi.
Essa è stata osservata e descritta per la prima volta in modo esplicito da
Miceli, Silveri, Villa e Caramazza (1984); in realtà, già prima di allora si parlava
di deficit dei verbi (Myerson, Goodglass, 1972), intendendo, però, un problema
prettamente sintattico, un fenomeno tipico dell’agrammatismo associato alla
semplificazione sintattica della frase e all’omissione dei funtori. Non era
presente nessun accenno di riflessione a livello lessicale o semantico e di
confronto con i nomi, tutte cose che appaiono dallo studio di Miceli et al. (1984)
in avanti.
Da allora, come abbiamo più volte sottolineato, tutta una serie di studi ha
rafforzato le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno, ne ha
sottolineato aspetti diversi e ha proposto ipotesi esplicative anche radicalmente
differenti tra loro.
In particolare, potremmo raggruppare la letteratura sull’argomento in base a
tre grossi temi, strettamente legati tra loro:
67
1. l’associazione tra tipo di afasia e fenomeni dissociativi a favore dei
verbi o dei nomi.
2.
il ruolo delle variabili lessicali e semantiche.
3. il locus funzionale del deficit che crea la dissociazione.
Inoltre, un po’ più recentemente, alcuni studi di neuroimmagine funzionale
con soggetti normali si sono occupati di nomi e verbi con risultati a volte
contrastanti rispetto a quelli degli studi neuropsicologici. Parleremo di questi
lavori nella seconda parte del capitolo.
1. Gli studi su pazienti afasici
1.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia
Già prima che in letteratura emergesse una riflessione esplicita sulla
dissociazione tra nomi e verbi era noto che uno dei disturbi che caratterizzano il
fenomeno agrammatico è la difficoltà di produzione dei verbi.
Essi erano visti come entità primariamente sintattiche e la loro
compromissione marcata nell’agrammatismo veniva ricollegata quasi sempre a
disturbi di tipo sintattico.
Parallelamente, i pazienti con afasia amnestica mostravano, in alcuni studi, il
pattern opposto, con una difficoltà specifica nella produzione di nomi, sia in
compiti di recupero di parole isolate che nel linguaggio spontaneo (Zingeser,
Berndt, 1988, 1990).
68
Quest’idea dell’associazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo
e tra dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica è rimasta piuttosto salda
anche quando la dissociazione nomi-verbi ha smesso di essere interpretata come
“effetto collaterale” di certe sindromi afasiche e ha iniziato ad essere studiata
come fenomeno lessicale a sé stante.
Recentemente, due studi si sono occupati di questi argomenti e sono giunti a
conclusioni piuttosto simili.
Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno sottoposto dieci
pazienti afasici ad una serie di compiti che coinvolgevano la produzione e la
comprensione di parole isolate (denominazione su figura e su definizione,
denominazione di scene in videotape, completamento di frasi e lettura ad alta
voce) e la produzione e comprensione di frasi (racconto di storie, descrizione di
scene, produzione di frasi contenenti una parola target, associazione frase-figura
e frase-videotape). Tre dei quattro pazienti agrammatici risultarono dissociatimeglio-nomi, mentre due dei tre afasici amnestici risultarono dissociati-meglioverbi; facevano parte dello studio, però, anche altri due afasici dissociatimeglio-nomi i quali non erano agrammatici. Gli autori deducono da questi
risultati che la correlazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo non
è perfetta (non parlano, invece, esplicitamente dell’associazione tra anomia e
dissociazione-meglio-verbi).
A sostegno di questa conclusione, Berndt et al. sottolineano come la
dissociazione-meglio-nomi correli piuttosto bene con i deficit della struttura
frasale (i dissociati-meglio-nomi producono meno frasi e frasi più semplici, oltre
69
24
che ricche di verbi semanticamente leggeri ), ma non altrettanto con i deficit
morfologici, tipici dell’agrammatismo.
Pur non essendo perfetta l’associazione tra agrammatismo e dissociazionemeglio-nomi, esiste un’evidente tendenza da parte degli agrammatici a mostrare
un deficit più marcato per i verbi: quando questa tendenza è stata interpretata in
termini causali, si è sempre ipotizzato che fosse il deficit agrammatico a
determinare la dissociazione (Myerson, Goodglass, 1972).
Berndt et al. (1997), invece, ipotizzano la relazione inversa; essi, infatti,
sostengono che un deficit primariamente lessicale dei verbi, se occorre a livello
25
del lemma , cioè al livello in cui sono immagazzinate tutte le informazioni
sintattiche legate alle etichette lessicali, può provocare problemi nella
costruzione della struttura frasale (vedi anche Saffran, 1982); questo perché i
verbi forniscono molte delle informazioni necessarie per una corretta
realizzazione della cornice sintattica (i lemmi dei verbi specificano i ruoli
tematici e la griglia di sottocategorizzazione, cioè il numero di argomenti retti
dalla testa verbale e il tipo di sintagma in cui si devono realizzare).
Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno effettuato
uno studio su 58 pazienti afasici, i quali furono sottoposti ad un test di
denominazione su figura.
Di questi 58 pazienti, 26 risultarono dissociati, 20 a favore dei nomi e 6 a
favore dei verbi; 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi erano pazienti con afasia
amnestica e 5 dei 6 agrammatici che parteciparono allo studio erano dissociatimeglio-verbi. Visti da questa angolazione, i risultati sembrano confermare le
24
I verbi semanticamente leggeri sono quei verbi, come fare, ad esempio, che portano poca
informazione semantica, che sono poco specificati avendo un significato piuttosto ampio, vago e
applicabile in molto contesti diversi.
25
Parleremo più specificamente di lemma e della teoria dell’accesso lessicale di Levelt et al.
nel paragrafo 1.3.4.
70
associazioni ipotizzate in letteratura; dobbiamo, però, considerare anche che gli
afasici amnestici che parteciparono allo studio erano 13, per cui 8 di loro non
mostravano l’attesa dissociazione-meglio-verbi; allo stesso modo, se è vero che
5 dei 6 agrammatici erano dissociati-meglio-nomi, è anche vero che 15 pazienti
risultarono dissociati-meglio-nomi senza essere agrammatici.
Anche da questo studio sembra, dunque, che non ci sia una vera e propria
associazione sistematica tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo e
dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica, pur essendo presente una certa
tendenza da parte degli agrammatici ad avere maggiore difficoltà con i verbi e
da parte degli afasici amnestici a cadere prevalentemente con i nomi.
1.2 Le variabili lessicali
Molti studi riportano in letteratura l’importanza di considerare le variabili
lessicali (in particolare frequenza, immaginabilità, lunghezza ed età di
acquisizione) nell’interpretare i risultati di esperimenti che coinvolgano la
produzione, la lettura e la comprensione di parole isolate (Bates, Burani,
D’Amico, Barca, 2001).
E’ noto, infatti, che le prestazioni dei soggetti normali e dei pazienti afasici
siano influenzate da queste variabili in modo piuttosto importante.
In particolare, l’immaginabilità e la frequenza d’uso sono state studiate in
molto lavori che si occupavano di dissociazione nomi-verbi.
Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno indagato l’effetto
della frequenza d’uso in alcuni compiti di produzione di parole isolate. Nel
compito di denominazione di figure e videotape, gli autori trovano un effetto
71
complessivo della frequenza d’uso nella prestazione degli 11 afasici e un effetto
sul singolo soggetto in 4 dei 7 pazienti dissociati; in nessuno di questi 4 soggetti,
però, la frequenza poteva spiegare interamente la dissociazione nomi-verbi, dato
che ciascuno di essi denominava meglio i nomi a bassa frequenza che i verbi ad
alta frequenza o viceversa, a seconda della direzione della dissociazione.
In uno studio successivo, Berndt, Haendiges, Burton e Mitchum (2002)
hanno sottoposto 7 soggetti afasici ad un compito di completamento di frasi;
questo allo scopo di bilanciare nomi e verbi per immaginabilità, cosa molto
difficile quando è necessario raffigurare gli oggetti e le azioni da denominare.
I 7 soggetti che parteciparono allo studio erano stati sottoposti
precedentemente ad un compito di denominazione di figure e di lettura di parole
singole ad alta e bassa immaginabilità: 5 di essi erano risultati dissociati-meglionomi e altrettanti avevano mostrato un effetto di immaginabilità (3 di questi
facevano parte del gruppo dei dissociati).
Entrambi i pazienti dissociati-meglio-nomi, i quali non avevano mostrato un
effetto di immaginabilità in lettura, continuavano ad essere dissociati al compito
di completamento di frasi (anche se per uno dei due le differenza non era più
statisticamente significativa), ma non sensibili all’effetto di immaginabilità.
Dei 3 afasici dissociati-meglio-nomi che mostravano anche l’effetto di
immaginabilità in lettura, uno (ML) continuava ad essere molto dissociato nel
completamento, mostrando in aggiunta un forte effetto di immaginabilità; questo
effetto era indipendente dalla dissociazione visto che ML denominava i nomi ad
alta immaginabilità meglio dei verbi ad alta immaginabilità e i nomi a bassa
immaginabilità meglio dei verbi a bassa immaginabilità.
Gli altri due soggetti avevano una dissociazione più ridotta di quella che
mostravano in denominazione di figure, ma non erano più sensibili
72
all’immaginabilità, che quindi non può essere indicata come la causa della
diminuita dissociazione.
Il paziente DS, invece, che non era dissociato alla denominazione, ma aveva
un forte effetto di immaginabilità in lettura, univa queste due caratteristiche nel
completamento di frasi: per Berndt et al. questo paziente è decisivo nel
completare la doppia dissociazione e mostrare così che i due effetti, quello di
classe grammaticale e quello di immaginabilità, sono indipendenti e che nessuno
dei due può essere fatto risalire all’altro.
Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno anch’essi
indagato l’effetto dell’immaginabilità oltre a quello di frequenza, ottenendo un
risultato molto interessante. Essi hanno sottoposto 58 pazienti afasici ad un test
di denominazione di figure trovando una forte associazione tra l’effetto
frequenza e la superiorità ai verbi e l’effetto di immaginabilità e la superiorità ai
nomi: infatti, la frequenza risultava un predittore significativo all’analisi di
Regressione Logistica (McCullugh, Nelder, 1983) solo per 11 dei 58 soggetti,
ma per ben 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi, mentre l’immaginabilità era
significativa in 29 dei 58 pazienti, ma in tutti i 20 dissociati-meglio-nomi. Un
altro risultato importante trovato dagli autori è quello per cui, sottoponendo i
dati a regressione logistica bivariata, in ben 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi il
fattore categoria grammaticale non è più significativo, mentre lo è ancora quello
di immaginabilità. Con la stessa procedura, si vede come la prestazione di 3 dei
6 dissociati-meglio-verbi non sia più significativamente influenzata dalla classe
grammaticale, mentre continui ad esserlo dalla frequenza.
Sembra, quindi, che la prestazione della maggioranza dei dissociati dello
studio di Luzzatti et al. (2002) dipenda, più che dalla categoria grammaticale, da
73
alcune variabili lessicali che, tramite il loro effetto, creano una dissociazione
“apparente”.
Gli autori sottolineano, però, il fatto che 2 dissociati-meglio-nomi e 3
dissociati-meglio-verbi siano realmente tali (cioè, anche nell’analisi bivariata il
fattore classe grammaticale è significativo); questo significa che il fenomeno
della dissociazione nomi-verbi non è sempre riducibile all’effetto delle variabili
lessicali, ma esiste indipendentemente da esse.
Chiarello, Shears e Lund (1999) hanno condotto un ampio studio
sull’immaginabilità e sono giunti alla conclusione che i processi attraverso cui i
soggetti valutano l’immaginabilità dei nomi e dei verbi sono diversi.
Nei loro dati, le valutazioni di immaginabilità dei nomi correlavano molto
bene con il tempo che il soggetto impiegava per emettere il giudizio; questo
suggerisce che i soggetti in quel caso valutassero la facilità e la velocità con cui
generavano un’immagine mentale dell’oggetto cui il nome si riferiva.
Questa correlazione era molto più debole per i verbi, lasciando pensare,
appunto, che i processi nei due casi fossero diversi.
Tutto ciò è molto importante perché indica che l’immaginabilità dei nomi
non è solo più alta di quella dei verbi, ma riflette diversi processi qualitativi
sottostanti la produzione del giudizio o forse addirittura diversi processi di
generazione delle immagini mentali.
1.3 Il locus funzionale del deficit
Il fatto che un paziente afasico produca o comprenda meglio i nomi dei verbi
che cosa ci dice a proposito dei suoi disturbi linguistici?
74
La domanda non è banale perché sono effettivamente molte le risposte
possibili.
Tutti i modelli cognitivi del linguaggio, infatti, prevedono il passaggio, sia in
produzione che in comprensione, da tre livelli di processing: quello fonologico,
quello lessicale e quello semantico.
Inoltre, le informazioni linguistiche devono essere processate sintatticamente
ed esistono evidenze che mostrano come anche la produzione di parole isolate
comporti il recupero di alcune informazioni sintattiche (Thompson, Lange,
Schneider, Shapiro, 1997).
E’ quindi possibile, almeno in linea teorica, che a ciascuno di questi livelli
sia rappresentata la divisione tra nomi e verbi e sia presente il deficit che
provoca la dissociazione.
Nei prossimi paragrafi, descriveremo gli studi che si sono occupati del
problema del locus del deficit, iniziando da quelli che ipotizzano un problema
sintattico, passando poi per gli studi che pongono il danno a livello morfologico,
semantico, lessicale e fonologico.
1.3.1 Deficit sintattico
Le spiegazioni della dissociazione nomi-verbi che sono state proposte in
letteratura e che riconducono il deficit al livello sintattico sono di due tipi:
 un’ipotesi sostiene che alcuni afasici abbiano un generico disturbo
sintattico della costruzione della frase il quale, unito ai disturbi
morfologici, causa l’agrammatismo e, insieme, il deficit ai verbi;
75
questi ultimi sono visti in quest’ottica come entità meramente
sintattiche, con un ruolo centrale nella strutturazione della frase.
 altre ipotesi più recenti precisano maggiormente il deficit all’origine
del disturbo dei verbi, riferendosi a volte a problemi
nell’assegnazione dei ruoli tematici che le entrate lessicali verbali
prevedono, a volte a difficoltà più periferiche, nella realizzazione
degli stessi ruoli tematici. Il disturbo è quindi localizzato, in questo
contesto, più verso il versante lessicale, ponendosi all’interfaccia tra i
due livelli.
La prima ipotesi esplicativa è stata la più diffusa (praticamente, l’unica) fino
alla metà degli anni ottanta, quando il progresso della linguistica generativa e la
sua influenza in campo psicologico hanno favorito la nascita di interpretazioni
più precise.
Gli elementi su cui questa idea è basata sono fondamentalmente due, uno di
carattere teorico e uno di tipo sperimentale:
1. il verbo ha un ruolo cruciale nella costruzione sintattica della frase e
ha una complessità morfologica molto maggiore di quella dei nomi.
2. agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi si associano spesso nei
disturbi dei pazienti afasici.
Le interpretazioni sintattiche più recenti discendono dalla prima, essendone,
in sostanza, delle versioni più precise e più raffinate linguisticamente (Marshall,
Chiat, 1996).
76
Oltre che su una più avanzata elaborazione teorica, esse si basano su alcuni
dati sperimentali che dimostrano l’esistenza di pazienti con un deficit selettivo
dell’assegnazione degli argomenti del verbo in produzione e della comprensione
dei ruoli tematici associati al verbo stesso (Marshall, Chiat, Pring, 1997; Byng,
1988).
Queste evidenze a favore dei disturbi selettivi dei ruoli tematici e della loro
realizzazione sono ritenute da alcuni ricercatori non particolarmente forti
(Druks, 2002), anche se effettivamente spiegano bene e in modo economico i
disturbi di alcuni pazienti.
Le spiegazioni sintattiche condividono, però, un limite molto evidente: esse
spiegano l’emergere della dissociazione-meglio-nomi, ma non della
dissociazione-meglio-verbi. Tutte ricorrono alla presenza di un problema
sintattico che colpisce i verbi, o perché più complessi o perché caratterizzati da
un processing specifico (ruoli tematici, ad esempio), ma nessuna ipotizza la
possibilità di un deficit sintattico selettivo per i nomi.
Questo significa che esse spiegano la prestazione di certi dissociati, ma non
di tutti: devono perciò essere affiancate necessariamente da altre ipotesi
esplicative che giustifichino la dissociazione opposta. Questa strada è stata
effettivamente seguita da alcuni ricercatori, come Marshall e Chiat (1996), i
quali hanno proposto che disturbi sintattici dei ruoli tematici causino la
dissociazione-meglio-nomi e disturbi semantici della “conoscenza percettiva”
siano all’origine della dissociazione-meglio-verbi.
Un ultimo appunto che è possibile fare a queste ipotesi interpretative si basa
sulla forza delle prove sperimentali.
77
Esse, come abbiamo detto prima, sono state evidenziate più volte e, dunque,
sono molto solide, ma non ci sembrano così stringenti nel provare un danno a
livello sintattico: sono possibili, infatti, ipotesi alternative.
Ad esempio, il fatto che l’agrammatismo si associ con la dissociazionemeglio-nomi non prova necessariamente l’origine sintattica del deficit: è
ugualmente possibile che coesistano due deficit separati, uno sintattico e uno
lessicale indipendente dal primo (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza, 1984).
O ancora, essendo che le correlazioni non rivelano nulla sull’esistenza di una
causalità e, soprattutto, sulla sua direzione, si potrebbe anche interpretare i dati
in senso opposto, ipotizzando che sia un deficit lessicale per i verbi a causare
almeno qualche sintomo agrammatico e non viceversa (Berndt et al., 1997b).
Esiste un’altra spiegazione della dissociazione nomi-verbi che fa risalire il
problema ad un deficit sintattico: essa è stata proposta di recente da Naama
Friedmann (2000).
Questa ipotesi fa ampio riferimento alle teorie linguistiche attuali, ma, a
differenza della spiegazione di Marshall e Chiat, non è una versione moderna,
rivista e corretta delle spiegazioni sintattiche tradizionali che hanno dominato
fino agli anno ’80: essa non si basa, infatti, sugli stessi dati sperimentali e non fa
riferimento ad aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi, ma a fenomeni
puramente sintattici.
Secondo Friedmann, il danno selettivo dei verbi è legato ad un deficit
dell’albero sintattico, per cui tutti i nodi posizionati al di sopra del Tense Phrase
26
(traducibile con “sintagma del tempo”) vengono distrutti o sottospecificati :
questo deficit impedirebbe ai pazienti afasici di muovere il verbo all’interno
26
Il concetto di “ albero sintattico ” è stato introdotto nel primo capitolo; il
sintagma del
tempo è uno dei due sintagmi in cui è stato recentemente diviso il sintagma inflessionale (IP) di
cui abbiamo parlato nel primo capitolo: esso porta le informazioni temporali per l’accordo del
verbo.
78
dell’albero sintattico e di fletterlo correttamente, causando un disturbo selettivo
per questa categoria grammaticale.
1.3.2 Deficit morfologico
Una delle caratteristiche tipiche dell’agrammatismo è il deficit morfologico,
caratterizzato dall’omissione dei funtori grammaticali e dalle difficoltà di
produzione dei morfemi legati, derivazionali e flessivi.
L’associazione tra agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi può quindi
dare adito ad interpretazioni del deficit verbale anche nei termini di un danno
morfologico.
Quest’idea è stata avanzata da alcuni ricercatori, tra cui Saffran, Schwartz e
Marin (1980) e Saffran (1982), i quali hanno sostenuto che la dissociazionemeglio-nomi emerge a causa di un danno ai morfemi grammaticali; una
posizione più articolata è stata assunta da Friedmann (2000), la quale sostiene,
come abbiamo visto, che un disturbo dell’albero sintattico, impedendo il
movimento della testa verbale, renda impossibile la corretta flessione del verbo.
Queste interpretazioni soffrono degli stessi limiti di quelle sintattiche, in
quanto giustificano solo la dissociazione-meglio-nomi e si fondano su dati
sperimentali molto solidi (ancora una volta, l’associazione agrammatismodissociazione-meglio-nomi), ma interpretabili in molti modi diversi.
Shapiro e Levine (1990) e Shapiro, Shelton e Caramazza (2000) descrivono,
poi, un paziente con afasia amnestica, dissociato-meglio-verbi, il quale mostra
un deficit marcato della morfologia nominale (non riusciva a produrre l’affisso
del plurale), ma non ha problemi con la morfologia del verbo.
79
Gli autori non usano, però, questo dato per argomentare che un deficit
morfologico specifico per i nomi possa, da solo, causare una dissociazione; in
effetti, la dissociazione si manifesta anche in compiti che non hanno nulla di
morfologico, come la denominazione di oggetti, e, in ogni caso, il danno
morfologico non è una costante di tutti i dissociati-meglio-verbi, ma un deficit
specifico di alcuni di questi pazienti.
Resta, quindi, il problema principale di queste ipotesi esplicative: un deficit
morfologico isolato e selettivo può, secondo alcuni autori, causare una
dissociazione-meglio-nomi, ma non una dissociazione-meglio-verbi, nonostante
ci siano evidenze che un deficit morfologico per i nomi possa far parte del
quadro patologico di alcuni pazienti afasici DMV.
1.3.3 Deficit semantico
E’ possibile spiegare la dissociazione nomi-verbi riferendosi al livello
semantico? E’ possibile che la distinzione tra nomi e verbi sia rappresentata a
questo livello nel sistema cognitivo?
Nome e verbo sono, in realtà, due concetti sintattico-lessicali, nel senso che
costruiscono, in senso stretto, una contrapposizione tra gruppi di parole che si
fonda sul comportamento sintattico e sulla distribuzione nella frase (vedi cap. 1).
Sembrerebbe, quindi, impossibile sostenere che la distinzione tra nomi e
verbi sia rappresentata a livello semantico nel sistema cognitivo umano.
Però, tipicamente, i nomi sono etichette lessicali che denotano oggetti,
mentre i verbi molto spesso rappresentano azioni: è quindi possibile ricondurre
la distinzione nomi-verbi (una distinzione, come abbiamo visto, sintattico80
lessicale) alla distinzione oggetti-azioni (una distinzione semantica). Facendo
questa operazione, diventa del tutto naturale riferire al livello dei significati e dei
concetti il deficit che produce la dissociazione nomi-verbi in afasia.
27
Ancora, si potrebbe sostenere, assumendo un approccio composizionale al
significato (Breedin et al., 1998), che i diversi concetti si basino principalmente
su caratteristiche definenti percettive piuttosto che non percettive o viceversa: in
questo senso, banana sarebbe definito principalmente da caratteristiche
percettive (è gialla, ha forma allungata), mentre il concetto di bottiglia si
fonderebbe più su caratteristiche funzionali (le bottiglie hanno forme e colori
molto diversi: il nucleo concettuale che definisce il significato sembra essere più
il fatto che serve per contenere liquidi).
Se fosse così, sarebbe piuttosto intuitivo sostenere che i nomi naturali, in
quanto rappresentano oggetti non costruiti dall’uomo, si riferiscano a concetti
fondati più sulle proprietà percettive, mentre i nomi artificiali e i verbi, in
quanto denotano strumenti o azioni, si riferiscano a concetti basati
principalmente su caratteristiche funzionali.
Ecco allora che un deficit semantico selettivo delle proprietà funzionali o
percettive dei concetti simulerebbe una dissociazione tra nomi e verbi.
Grazie a queste due argomentazioni è possibile ricondurre i deficit dei nomi
o dei verbi a problemi di natura semantica.
Questo tipo di considerazioni, in modo più o meno esplicito, sono il
fondamento delle ipotesi esplicative che sono state proposte in letteratura per
rendere conto della dissociazione nomi-verbi attraverso un disturbo semantico:
non è possibile porre la distinzione a livello semantico riferendosi direttamente
27
L’approccio composizionale è basato sull’assunto che i significati depositati nel nostro
sistema semantico non siano unità monolitiche e indivisibili, ma siano costruiti da una serie di
caratteristiche elementari (features) che, sommandosi le une alle altre, determinano i diversi
concetti.
81
a nomi e verbi, bisogna prima ricondurre questi costrutti ad altre distinzioni,
che hanno davvero a che fare con il mondo dei significati e dei concetti.
Queste argomentazioni teoriche sono intrinsecamente coerenti e sicuramente
plausibili, ma nascondono un pericolo: interpretate in modo rigido, ci dicono che
i costrutti di nome e verbo non sono necessari, essendo riconducibili ad altre e
più basilari distinzioni. Potremmo addirittura dire, in quest’ottica, che la
distinzione nome-verbo non è rappresentata nel nostro sistema linguistico.
Un altro elemento a favore di queste ipotesi esplicative consiste nel fatto che
sono particolarmente economiche: infatti, fanno risalire ad un unico meccanismo
quasi tutte le dissociazioni tra classi di parole che sono state osservate in
letteratura (o almeno spiegano in un unico modo le due dissociazioni principali,
quella nomi-verbi e quella oggetti animati-oggetti inanimati).
La prima spiegazione di una dissociazione in termini semantici risale alla
metà degli anni ottanta, grazie al lavoro di Elizabeth Warrington e dei suoi
collaboratori (Warrington, McCarthy, 1983; Warrington, Shallice, 1984) a
proposito della dissociazione tra nomi di oggetti viventi e nomi di oggetti non
viventi.
Essa si fondava due assunti (che poi sono stati ripresi per spiegare la
dissociazione nomi-verbi):
1. la conoscenza concettuale è organizzata nella mente secondo il tipo
(visiva, olfattiva, motoria, funzionale, ecc.).
2. le proprietà funzionali e sensoriali sono differentemente importanti
nel definire i concetti degli oggetti viventi e degli oggetti non viventi.
82
Questi due assunti sono stai ripresi, con qualche piccola modifica e con
qualche aggiunta, da Bird, Howard e Franklin (2000) per rendere conto della
dissociazione nomi-verbi.
La spiegazione birdiana della dissociazione prevede che siano all’opera due
meccanismi: il primo è quello legato all’immaginabilità cui, secondo gli autori,
molti afasici diventano estremamente sensibili dopo il danno cerebrale. Secondo
Bird et al., questo fattore è così importante che la maggioranza delle
dissociazioni-meglio-nomi sono in realtà dovute ad esso; gli autori, infatti, si
spingono a dire: “We would even go as far as to claim that “true” verb deficits
do not exist”.
A fianco dell’immaginabilità opera l’altro fattore che crea la dissociazione e
cioè la diversa distribuzione delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei
concetti denotati dai nomi e nei concetti denotati dai verbi; se a questo
aggiungiamo che le caratteristiche sensoriali e funzionali possono essere lese da
un danno cerebrale in modo relativamente selettivo, ecco spiegata la
dissociazione nomi-verbi in entrambe le direzioni.
Sotto questo “secondo fattore” si nascondono alcuni assunti che è bene
esplicitare:
 i concetti sono organizzati nella mente in modo composizionale (vedi
nota 27).
 l’informazione semantica è immagazzinata secondo la modalità di
acquisizione.
 le informazioni semantiche funzionali e sensoriali mantengono un
certo grado di indipendenza (funzionale e anatomica), dato che
possono essere lese selettivamente.
83
Da ultimo, Bird et al. sostengono che anche i nomi di oggetti animati e i
nomi di oggetti inanimati hanno una diversa distribuzione nelle caratteristiche
semantiche che li definiscono, essendo i primi definiti più da proprietà sensoriali
e i secondi più da proprietà funzionali; questo è molto importante perché fa
prevedere delle associazioni tra tipi diversi di dissociazione che saranno usati da
Bird et al. per dimostrare la loro teoria, ma che saranno anche il tallone
d’Achille dell’ipotesi, secondo i suoi critici.
Riassumendo, se combiniamo i due fattori che sono all’origine delle
dissociazioni secondo Bird et al. (2000), otteniamo 4 diversi scenari dissociativi
possibili in seguito ad un danno cerebrale:
1.
DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES:
danno prevalente ai nomi di oggetti viventi rispetto ai nomi di oggetti
inanimati; i nomi, nel complesso, dovrebbero essere penalizzati da questo
deficit, ma la loro maggiore immaginabilità compensa l’altro effetto: nomi
denominati come i verbi.
2.
DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES: danno
prevalente ai nomi animati rispetto ai nomi inanimati; il deficit delle sensory
features è molto profondo così che la maggior immaginabilità dei nomi non
compensa più il suo effetto, ma solo lo attutisce: nomi denominati peggio dei
verbi.
3.
DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES: danno prevalente
dei nomi inanimati rispetto ai nomi animati e dei verbi rispetto ai nomi;
generalmente, nomi di manufatti meglio dei verbi per la loro maggiore
immaginabilità.
84
4.
DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO CON
MARCATO EFFETTO DI IMMAGINABILITA’: nomi animati e inanimati
piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior sensibilità
all’immaginabilità creata dal deficit.
La teoria di Bird et al. (2000) prevede, quindi, che:
1. molte dissociazioni-meglio-nomi scompaiano con un controllo
severo del fattore immaginabilità.
2. nelle dissociazioni “sopravvissute” ci sia un’associazione tra deficit
degli oggetti inanimati e deficit dei verbi e tra deficit degli oggetti
animati e deficit dei nomi.
3. i pazienti dissociati-meglio-nomi (che non subiscono un forte effetto
di immaginabilità) mostrino un deficit della conoscenza o del
processing delle caratteristiche funzionali dei concetti ; viceversa, i
dissociati-meglio-verbi dovrebbero avere dei problemi nel processare
e recuperare le proprietà sensoriali dei concetti.
Queste previsioni sono state controllate da Bird et al. (2000) sia attraverso
una revisione della letteratura che attraverso l’analisi di sei pazienti afasici
dissociati nelle due direzioni.
La prima previsione è stata confermata in modo piuttosto chiaro, sia in
letteratura che nei pazienti (ma anche in altri studi, vedi Luzzatti et al., 2002),
mentre le altre due sollevano qualche dubbio.
Infatti, per ciò che riguarda la seconda previsione, i tre pazienti verb-spared
di Bird et al. (2000) (i quali non erano dissociati-meglio-verbi probabilmente per
85
l’effetto di immaginabilità) mostravano, nel complesso, una migliore prestazione
con i nomi inanimati, ma nessuno dei tre singolarmente aveva questo effetto.
Per ciò che riguarda la terza previsione, essa è confermata, in un compito di
produzione di definizioni, dalla prestazione dei verb-spared (la proporzione di
caratteristiche sensoriali fornita da essi era molto bassa), ma non dalla
prestazione dei dissociati-meglio-nomi, che producevano più caratteristiche
sensoriali nel definire gli oggetti animati, ma non nel definire quelli inanimati.
Gli autori spiegano questo fatto con la tendenza a produrre solo le caratteristiche
essenziali dei concetti, per via della non-fluenza molto marcata di questi
pazienti; la spiegazione è plausibile, ma è data a posteriori e sembra costruita ad
hoc.
Questi risultati sono ritenuti sufficienti da Bird et al. per confermare la loro
ipotesi esplicativa.
Nel complesso, l’ipotesi del deficit selettivo delle sensory/functional
features mostra alcuni limiti: innanzitutto, come altri ricercatori hanno
argomentato (Shapiro, Caramazza, 2001a), le evidenze sperimentali a sostegno
della teoria non sono molto solide.
In particolare, oltre ai problemi nei dati proposti dagli stessi autori a prova
della loro ipotesi, alcuni studi che hanno dimostrato la diversa distribuzione
delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei concetti di nomi e verbi, come
quello di Farah e McClelland (1991), hanno usato una definizione di
caratteristiche funzionali troppo restrittiva, escludendo quelle caratteristiche
come il luogo di vita e la categoria di appartenenza che definiscono in modo
importante anche gli oggetti viventi, ma che non sono sensoriali (Shapiro,
Caramazza, 2001b).
86
Introducendo una definizione più ampia di caratteristiche funzionali,
Caramazza e Shelton (1998) non trovano evidenti differenze nella distribuzione
di proprietà sensoriali e funzionali tra concetti denotati da nomi e concetti
denotati da verbi.
Un altro problema per queste teorie, è la presenza di pazienti con deficit
dell’elaborazione delle informazioni visive che non sono dissociati-meglio-verbi
e meglio-inanimati (Coltheart et al., 1998); inoltre, esistono pazienti dissociatimeglio-inanimati che non mostrano un deficit prevalente delle informazioni
sensoriali (Laiacona et al., 1993).
Altre evidenze sperimentali non facilmente spiegabili nella teoria di Bird,
Howard e Franklin sono le dissociazioni più specifiche, ad esempio, tra animali
e frutta/verdura (Hart, Gordon, 1992) e i deficit specifici per categorie molto
ristrette, come i cibi. Esse possono essere spiegate solo ipotizzando ad hoc
ulteriori differenze nelle distribuzioni delle caratteristiche semantiche, che
ancora non sono state dimostrate sperimentalmente.
Il dato, però, che è stato impugnato più volte come la prova decisiva contro
l’ipotesi di Bird et al. è la presenza di alcuni pazienti che mostrano la
dissociazione solo in output o solo in input, oppure solo nel linguaggio scritto o
in quello orale (Caramazza, Hillis, 1991); inoltre, sono stati descritti dei pazienti
con una dissociazione a favore dei verbi nella denominazione orale, ma con una
dissociazione opposta nella denominazione scritta (Hillis, Caramazza, 1995).
Assumendo che il sistema semantico sia unico e che serva sia la modalità
scritta che quella orale, oltre che essere punto di passaggio comune nel
processing della comprensione e della produzione, non è possibile localizzare il
deficit a livello semantico e spiegare queste dissociazioni tra modalità e compiti
87
diversi (in alcuni pazienti, la dissociazione è addirittura doppia; Rapp,
Caramazza, 2002).
In realtà, sono proprio Caramazza e i suoi colleghi, i principali critici
dell’ipotesi birdiana, a suggerire una soluzione del problema; essi, infatti,
suggeriscono che, ipotizzando un danno non solo semantico, ma anche lessicale
nella sola modalità scritta (o orale), si potrebbe rendere conto dei disturbi dei
pazienti con dissociazioni selettive del linguaggio scritto (o orale).
Questa ipotesi è, però, molto poco economica (prevede due loci funzionali
lesi invece che uno) ed inoltre difficilmente sostenibile considerando che i
pazienti, nella modalità meno danneggiata, avevano performance praticamente
normali, cosa poco probabile in presenza di un danno al sistema semantico
(Shapiro, Caramazza, 2001a).
Inoltre, se consideriamo i pazienti con la doppia dissociazione nomi-verbi
nel linguaggio orale e scritto, anche assumendo l’ipotesi esplicativa suggerita da
Shapiro e Caramazza, dobbiamo accettare che la categoria grammaticale sia in
qualche modo rappresentata nel lessico fonologico e ortografico di uscita, al di
fuori, quindi, del sistema semantico.
Riassumendo, l’ipotesi del deficit semantico (Bird et al., 2000) mantiene un
fascino molto grande perché è particolarmente economica, anche se non sembra
essere sostenuta solidamente dai dati sperimentali; in particolare, esisterebbero
alcuni pazienti con una dissociazione solo in modalità orale o solo in modalità
scritta o solo in input o solo in output, mentre altri addirittura sembrerebbero
mostrare una doppia dissociazione nomi-verbi in diverse modalità: questi
soggetti sembrano rendere molto poco probabile l’ipotesi per cui il fenomeno
dissociativo emerge a causa di un problema semantico.
88
1.3.4 Deficit lessicale
Come abbiamo detto all’inizio del paragrafo precedente, le categorie di
nome e verbo sono, di fatto, delle categorie di parole, di etichette verbali, che
sono state classificate così per rendere conto del loro diverso comportamento in
contesti sintattici (capitolo 1).
Da qui deriva che il livello in cui più naturalmente si potrebbe collocare la
loro rappresentazione è quello lessicale o lessicale-sintattico. Di fatto, questa
posizione è quella maggiormente condivisa dai ricercatori che si sono occupati
di dissociazione nomi-verbi fino ad oggi (Druks, 2002).
Il primo a proporre un’ipotesi di questi tipo è stato Miceli; egli, insieme al
suo gruppo di collaboratori, ha proposto già nel 1984 che la scarsa prestazione ai
verbi che caratterizzava gli agrammatici non fosse parte del pattern di deficit
sintattici che compongono l’agrammatismo, ma fosse da ricondurre ad un
disturbo lessicale aggiuntivo e indipendente (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza,
1984; Miceli, Silveri, Nocentini, Caramazza, 1988).
Per la precisione, nel lavoro del 1988, gli autori specificano che il disturbo
deve essere localizzato nel lessico fonologico di uscita, il quale è organizzato
secondo la categoria grammaticale; questa ipotesi emerse sulla base di quello
che, ancora oggi, sembra essere il dato sperimentale più forte a favore di un
deficit lessicale relativamente periferico e cioè la dissociazione tra produzione e
comprensione di nomi/verbi trovata in alcuni pazienti.
In questo filone si sono poi inseriti nuovi studi, più recenti, i quali,
descrivendo nuove dissociazioni tra modalità e tra input e output, hanno
riproposto con sempre maggior forza questo schema interpretativo (Caramazza,
Hillis, 1991; Hillis, Caramazza, 1995).
89
Dall’inizio degli anni novanta, sono stati descritti pazienti con deficit
selettivi dei verbi in denominazione e lettura, ma non in scrittura (Caramazza,
Hillis, 1991), pazienti con deficit ai verbi in scrittura su dettato, ma non in
denominazione e lettura (Caramazza, Hillis, 1991), pazienti con deficit ai nomi
in produzione orale e ai verbi in comprensione scritta (Hillis, Caramazza, 1995),
pazienti con deficit ai nomi in produzione orale e ai verbi in produzione scritta,
sia in contesti di recupero di parole isolate che in contesti frasali (Rapp,
Caramazza, 2002); come si può vedere, è possibile costruire doppie
dissociazioni praticamente tra tutti i lessici ortografici e fonologici, di input e di
output.
Questo modo di interpretare la dissociazione nomi-verbi, benché basato sulla
prestazione di pochi pazienti, ha una grossa ricaduta sui modelli linguistici
umani: infatti, questa prospettiva implica che le categorie grammaticali siano
rappresentate in modo ridondante in ogni lessico mentale, sia in quello
ortografico che in quello fonologico in uscita, sia in quello ortografico che in
quello fonologico in entrata.
La rappresentazione delle categorie grammaticali contiene tutte quelle
informazioni sintattiche che dal lessico sono recuperate per costruire la struttura
della frase: se ipotizziamo che essa sia rappresentata nei lessici periferici,
diventa superfluo avere un livello lessicale più centrale, comune ai lessici
ortografici e fonologici di input e output, che veicola proprio quelle
informazioni sintattiche che possiedono già i lessici periferici stessi.
Questo livello lessicale-sintattico centrale è, in realtà, ipotizzato da molti
modelli della produzione del linguaggio, tra cui quello di Levelt, Roelofs e
Meyer (1999).
90
Questo modello prevede due livelli lessicali: uno centrale, utilizzato sia in
produzione che in comprensione, costituito da lemmi, nodi lessicali direttamente
collegati col sistema semantico, che portano tutta una serie di informazioni
sintattiche, come la categoria lessicale, le specifiche sui ruoli tematici e la
28
griglia di sottocategorizzazione e morfologiche, come la persona, il tempo e il
numero. I lemmi non possiedono invece nessuna informazione fonologica.
Questa è situata al secondo, e più periferico, livello lessicale, quello dei
lessemi: queste etichette sono, appunto, primariamente fonologiche e
contengono informazioni come la qualità dei fonemi e la struttura metricoaccentuativa della parola da produrre.
Esistono due sistemi di lessemi, uno specifico per la produzione e uno
specifico per la comprensione: questi due magazzini possono comunicare
direttamente tra loro.
Al di là dei particolari, la cosa importante è che in questo modello, costruito
sulla base di dati ottenuti solo su soggetti normali, la distinzione nome-verbo
esiste solo ad un livello lessicale centrale, comune al sistema di comprensione e
a quello di produzione: esso dunque non contempla la possibilità di doppie
dissociazioni come quelle descritte nella letteratura neuropsicologica.
Per questa ragione, Rapp e Caramazza (2002) argomentano contro alcuni
assunti della teoria di Levelt et al. (1999):
1. essi sostengono che le informazioni sulla classe grammaticale
possono essere rappresentate amodalmente in modo indipendente
dalla semantica e dalla forma fonologica delle parole (come avviene
28
La griglia di sottocategorizzazione contiene le informazioni necessarie per realizzare gli
argomenti del verbo, come, ad esempio, il sintagma tramite cui ciascun ruolo tematico deve
essere realizzato.
91
nel modello di Levelt), ma non devono essere legate a nessun livello
lessicale centrale, analogo a quello del lemma.
2. il livello del lemma non esiste, o comunque deve essere prevista la
possibilità che le forme fonologiche delle parole vengano attivate
direttamente dai rispettivi concetti semantici.
3. i lessici contenenti le forme fonologiche delle parole devono essere
specifici per modalità e organizzati secondo la classe grammaticale
degli elementi che ne fanno parte.
Accettando questi assunti, è effettivamente possibile spiegare le doppie
dissociazioni citate sopra.
In sostanza, in questa prospettiva, il livello del lemma non esiste e le
informazioni lessicali-sintattiche, che nel modello leveltiano erano integrate nel
sistema lessicale, ora sono spostate in un livello di elaborazione sintattica,
sicuramente comunicante col sistema lessicale (tanto che i lessici sono
organizzati secondo principi sintattici, i.e. la classe grammaticale), ma
sostanzialmente esterno e indipendente da esso (Caramazza, Miozzo, 1997).
Esiste qualche evidenza neuropsicologica che testimoni l’esistenza del
livello del lemma?
Berndt, Mitchum, Haendiges e Sandson (1997a; 1997b) sostengono che il
deficit che provoca la dissociazione nomi-verbi deve essere collocato a livello
lessicale: si chiedono, però, se il deficit sia a livello del lessema o a livello del
lemma.
Gli autori cercano di rispondere a questo quesito analizzando il disturbo di
10 pazienti afasici con una serie di compiti di produzione e di comprensione di
parole isolate e di frasi.
92
Dall’analisi della prestazione dei pazienti ai compiti che avevano a che fare
con parole isolate emerge che, in produzione, 5 soggetti erano dissociati-meglionomi, 2 erano dissociati-meglio-verbi e 3 non erano dissociati; inoltre, c’era un
effetto di frequenza d’uso nella prestazione complessiva del gruppo (oltre che in
4 casi singoli), un alto numero di errori semantici e una comprensione non
dissociata in tutti i 7 pazienti dissociati in produzione.
Questi risultati non sono chiari: l’alto numero di errori semantici suggerisce,
infatti, un danno a livello del lemma, mentre l’effetto frequenza (dovuto alla
forma fonologica delle parole) e la comprensione intatta portano a pensare,
invece, ad un problema a livello del lessema.
Berndt et al. continuano allora l’indagine, utilizzando stavolta compiti che
coinvolgono il processing di frasi; questo perché se il deficit dei dissociatimeglio-nomi fosse a livello del lemma, argomentano gli autori, esso dovrebbe
compromettere la struttura di tutta la frase, in quanto la struttura argomentale del
verbo stesso e le indicazioni per la realizzazione dei ruoli tematici sarebbero
danneggiate. Un deficit del lessema, al contrario, non causerebbe questi effetti
collaterali, in quanto interverrebbe ad un livello in cui la cornice sintattica della
frase è già stata definita.
Ai dieci afasici venne chiesto, quindi, di
raccontare una storia e di
descrivere delle scene rappresentate visivamente: la prestazione dei pazienti
rivelò una correlazione tra deficit ai verbi e difficoltà nella costruzione della
frase di tipo puramente strutturale, non morfologico.
Questo dato suggerisce che il deficit lessicale che causa la dissociazione sia
a livello del lemma: per controllare questa ipotesi, i soggetti vennero sottoposti
ad un compito di produzione di frasi da una parola target, in cui lo
93
sperimentatore diceva un verbo (o un nome) al paziente e gli chiedeva di
costruire con esso una frase.
In questo compito il lemma con cui hanno difficoltà i dissociati viene fornito
dall’esterno e con esso tutto il bagaglio di informazioni sintattiche necessarie
alla buona costruzione della frase; per questa ragione, i dissociati con lesione
lemmatica dovrebbero trarre vantaggio da questa condizione e comportarsi
meglio che negli altri compiti, mentre la prestazione dei dissociati con lesione
lessematica non dovrebbe cambiare.
Due dissociati-meglio-nomi dimostrarono il miglioramento atteso: Berndt et
al. interpretano questi risultati come prova del fatto che, per questi due pazienti,
il deficit lessicale è situato a livello del lemma. A riprova di ciò, questi due
pazienti mostravano una difficoltà relativamente selettiva nella comprensione
delle frasi reversibili rispetto a quelle non-reversibili (indice di un problema con
i ruoli tematici, rappresentati a livello del lemma).
Altri due dissociati-meglio-nomi continuarono ad avere una prestazione
molto bassa, con grossi problemi nella costruzione della frase: gli autori
sostengono che questi pazienti hanno un problema sintattico di costruzione della
frase indipendente dal lessico.
L’ultimo paziente con un deficit dei verbi, invece, continuava a costruire
frasi con una buona struttura sintattica, mantenendo, però, la sua difficoltà nel
produrre verbi: questo quadro è interpretato come il risultato comportamentale
di un deficit del livello dei lessemi.
Riassumendo, per Berndt et al. (1997), il deficit che causa la dissociazione
nomi-verbi è di tipo lessicale e può colpire sia il livello del lemma, producendo
difficoltà anche nella strutturazione della frase, sia il livello del lessema.
94
1.3.5 Deficit fonologico
Alcuni studi (ad esempio, Kelly, 1992) hanno dimostrato che, nella lingua
inglese, nomi e verbi differiscono in una serie di caratteristiche fonologiche,
come la lunghezza media, il pattern accentuativo (nelle parole bisillabiche) e la
qualità di vocali.
Questo fa legittimamente sorgere l’ipotesi che le differenze osservate tra
nomi e verbi possano essere meglio attribuite a difficoltà con particolari tratti
fonologici piuttosto che a problemi con una specifica classe grammaticale
(Rapp, Caramazza, 2002).
Questa ipotesi incontra almeno due difficoltà:
1. innanzitutto, le differenze fonologiche tra nomi e verbi non si
tramutano sempre in differenze ortografiche (si pensi alla qualità
delle vocali e al pattern accentuativo che, ortograficamente, non è
rappresentato) eppure la dissociazione emerge anche in compiti
scritti in alcuni pazienti (KSR in Rapp, Caramazza, 2002)
2. la dissociazione emerge anche in compiti che coinvolgono nomi e
verbi perfettamente omofoni e identici ortograficamente (in inglese
questa condizione è realizzata molto spesso: si pensi a hammer e to
hammer, rock e to rock, fish e to fish) dove, ovviamente, tutte le
variabili fonologiche sono bilanciate (Rapp, Caramazza, 2002).
E’ quindi piuttosto difficile pensare a questo come a un meccanismo capace
di spiegare tutte le dissociazioni, anche se esso potrebbe avere un ruolo almeno
in alcuni pazienti.
95
1.4 Conclusione
Come abbiamo avuto occasione di vedere, la letteratura ha fornito molti dati
su cui riflettere, sia a proposito del ruolo delle variabili lessicali che a proposito
del rapporto tra dissociazione nomi-verbi e sindromi afasiche.
Ma l’elemento che più ha interessato i ricercatori e che ha più importanza
per le sue implicazioni sui modelli linguistici della mente è sicuramente il locus
funzionale della lesione che causa la dissociazione.
Le ipotesi possibili in linea teorica (ed anche quelle proposte in base ai dati
sperimentali) sono moltissime, ma la letteratura sembra affermare che le due più
accreditate siano quella lessicale e quella semantica: semplificando molto il
problema, a favore della prima giocano alcuni dati sperimentali piuttosto
stringenti, come le dissociazioni per modalità e per input/output, mentre a favore
della seconda gioca soprattutto il fattore economia, essendo piuttosto
controverse le evidenze sperimentali su cui è fondata.
2. Gli studi di localizzazione anatomica
Alcuni autori si sono occupati del fenomeno della dissociazione nomi-verbi
anche da un punto di vista localizzativo: si sono chiesti, in sostanza, se
esistessero delle aree cerebrali prevalentemente associate al recupero o al
trattamento di queste due classi lessicali.
Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda sono si due tipi:
quelli che usano il metodo della correlazione anatomo-clinica e lavorano quindi
96
su pazienti cerebrolesi e quelli che utilizzano le tecniche elettrofisiologiche e di
neuroimmagine in vivo, lavorando quindi su soggetti normali.
Gli studi sui pazienti cerebrolesi. Gli studi che utilizzano il metodo della
correlazione anatomo-clinica sembrano indicare un quadro relativamente
definito: esso associa una lesione frontale, in particolare a livello dell’opercolo,
dell’insula, delle aree pre-centrali inferiori e delle aree pre-motorie e prefrontali, ad un deficit più marcato nella produzione dei verbi e un deficit
temporale, sia anteriore che inferiore, ad un problema relativamente selettivo per
i nomi.
In questa direzione vanno i dati provenienti da molti studi, tra cui quello di
Tranel et al. (2001) e quello di Glosser e Donofrio (2001).
Non mancano, però, dati contrastanti con questo quadro: nello stesso studio
di Tranel et al. (2001) viene sottolineato come esistano pazienti con un deficit
più marcato ai nomi che presentano lesioni pre-motorie/pre-frontali oppure della
corteccia occipitale mesiale sinistra; ancora, alcuni studi (Hillis, Caramazza,
1995) mostrano invece come pazienti con ampie lesioni frontali sinistre
presentino una buona produzione orale di verbi.
Da ultimo, alcuni ricercatori sottolineano che anche lesioni al lobo parietale
posteriore, andando a colpire le rappresentazione mentali dei programmi motori,
influiscono sulla produzione verbale dei pazienti cerebrolesi, a volte causando
una dissociazione-meglio-nomi, anche se forse non di origine strettamente
lessicale (De Renzi, Lucchelli, 1988).
Gli studi sui soggetti normali. Il quadro degli studi che utilizzano tecniche
elettrofisiologiche o di neuroimmagine sembra essere un po’ meno definito.
97
Sono riportati in letteratura, infatti, sia dati che confermano i risultati degli
studi su pazienti cerebrolesi sia dati che confutano l’ipotesi dell’associazione tra
aree frontali e verbi e tra aree temporali e nomi.
Nello studio di Perani et al. (1999), ad esempio, si nota, in corrispondenza
della denominazione di azioni, un’attivazione delle aree pre-motorie e prefrontali, ma anche un’attivazione temporale laterale.
L’associazione tra aree frontali e deficit ai verbi sembra essere quella che
trova più conferme nei dati sui soggetti normali: in questa direzione vanno,
infatti, i risultati di Damasio et al. (2001), di Chao e Martin (2000) e di Hillis et
al. (2002).
L’associazione tra produzione dei nomi e aree temporali ha ricevuto sia
conferme che smentite: Perani et al. (1999) non hanno rilevato nessuna area
associata in modo particolare alla denominazione di oggetti, mentre Hillis et al.
(2002) hanno sottolineato un’attivazione notevole dei giri temporale superiore e
medio dell’emisfero di sinistra in corrispondenza del recupero lessicale di nomi.
Uno studio particolare è quello di Martin et al. (1996): esso conferma
l’associazione ipotizzata tra lobo temporale sinistro e produzione di nomi, ma
evidenzia un ruolo importante nella denominazione dei verbi non tanto del lobo
frontale sinistro, ma delle aree temporali più posteriori, al confine con il lobo
occipitale e quello parietale.
Un ultimo studio che mi preme sottolineare è quello di Joan Sereno (1999),
la quale, utilizzando la tecnica dei tempi di reazione e della presentazione dello
stimolo in un solo emicampo visivo in compiti di categorizzazione e decisione
lessicale, ha dimostrato come i nomi presentati nell’emicampo sinistro siano
processati altrettanto velocemente di quelli presentati nell’emicampo destro: i
verbi, al contrario, sono processati in modo significativamente più lento se
98
presentati nell’emicampo sinistro. Questo indica che la competenza
dell’emisfero destro per quello che riguarda i verbi è piuttosto limitata (risultati
simili sono stati ottenuti da Pugh et al., 1997).
In conclusione, la letteratura sembra suggerire un’associazione tra aree
frontali e processamento dei verbi e tra aree temporali e processamento dei
nomi; si intuisce, inoltre, anche se non in modo chiaro, un ruolo del lobo
parietale posteriore e della parte posteriore del lobo temporale nell’elaborazione
dei verbi.
99
PARTE II
Dopo avere descritto e commentato le fondamenta sulle quali vogliamo
poggiare la nostra costruzione, in questa seconda parte della tesi, ci occuperemo
del nostro lavoro sperimentale.
Esso è costituito da due parti:
1. una nuova analisi qualitativa e quantitativa dei risultati ottenuti su 26
pazienti afasici dissociati nomi-verbi in un precedente compito di
denominazione su figura (Luzzatti et al., 2002).
2. la somministrazione di un nuovo test di denominazione e di un test
che valuta il recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di
completamento di frasi, dove gli item appartenenti alle due categorie
lessicali sono bilanciati per immaginabilità.
La seconda parte del lavoro sperimentale ci ha permesso di chiarire
l’intricata relazione tra dissociazione nomi-verbi e immaginabilità emersa già da
tempo in letteratura e riproposta dall’analisi qualitativa dei dati di Luzzatti et al.
(2002); inoltre, il contesto frasale in cui si svolgeva il test di recupero lessicale
ci ha aiutato a confermare le ipotesi sul locus funzionale del deficit che erano
100
emerse anch’esse dall’analisi qualitativa descritta nel terzo capitolo di questa
tesi.
Per poter condurre queste ulteriori analisi è stato necessario costruire una
batteria di completamento di frasi che ha permesso un bilanciamento migliore
dell’immaginabilità tra nomi e verbi e una nuova batteria di denominazione,
costituita da 50 figure di azioni e 50 figure di oggetti.
La scansione dei capitoli rispetta lo schema fin qui esposto: nel terzo
capitolo ci occuperemo della nuova analisi dei risultati ottenuti da un precedente
compito di denominazione (Luzzatti et al., 2002), mentre nel quarto
descriveremo le procedure attraverso cui abbiamo costruito le due nuove batterie
e discuteremo dei risultati ottenuti dalla somministrazione di queste nuove
batterie ad una serie di pazienti afasici non selezionati; infine, nel quinto
capitolo daremo uno sguardo complessivo ai dati ottenuti e trarremo le
conclusioni del nostro lavoro.
Parte II
Capitolo 3
ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA
DELLE RISPOSTE AD UN TEST I
DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58
PAZIENTI AFASICI
Capitolo 4
STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMIVERBI IN UN GRUPPO DI PAZIENTI
AFASICI
ATTRAVERSO UN TEST DI
RECUPERO LESSICALE IN UN COMPITO
DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF)
Capitolo 5
DISCUSSIONE GENERALE
101
3
ANALISI QUALITATIVA E
QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE
AD UN TEST DI DENOMINAZIONE
DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI
La prima parte del mio lavoro sperimentale è consistita in una rilettura e
un’ulteriore approfondimento dei dati emersi nell’esperimento di Luzzatti et al.
(2002), attraverso un’analisi qualitativa delle risposte dei pazienti e una rianalisi
quantitativa ad hoc, pensata per testare le previsioni sulla dissociazione nomiverbi fatte da Bird, Howard e Franklin (2000), secondo cui la dissociazione
emerge a causa di un disturbo semantico.
1. L’analisi qualitativa
L’analisi qualitativa è consistita nella classificazione degli errori commessi
da ciascun soggetto: abbiamo, in sostanza, costruito dei profili più approfonditi
delle prestazioni dei singoli pazienti, in cui le informazioni presenti non erano
più solo la correttezza o meno delle risposte, ma anche i tipi di errore commessi.
102
Questa analisi è stata condotta con l’obiettivo di raccogliere ulteriori dati che
potessero chiarire i risultati quantitativi e guidare la nuova ricerca.
In particolare, l’analisi quantitativa dei dati di Luzzatti et al. (2002) aveva
lasciato aperti alcuni quesiti:
1. quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai
nomi piuttosto che ai verbi o viceversa?
2. questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi?
3. se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e
per tipo di afasia oppure no?
Prima di cercare di rispondere a queste domande, riassumerò nella prima
parte del capitolo materiali, metodi e risultati dell’esperimento di Luzzatti et al.
(2002), in modo da chiarire il punto di partenza del nostro lavoro.
1. Introduzione
Il lavoro di Luzzatti et al. si proponeva di indagare alcuni aspetti della
dissociazione nomi-verbi poco chiari in letteratura (vedi capitolo 2), in
particolare:
 l’esistenza di associazioni tra tipo di afasia e prevalente deficit dei
nomi o dei verbi.
 la presenza di differenze nelle prestazioni dei soggetti dissociati tra
tipi di verbo (transitivi, inaccusativi e inergativi).
103
 i meccanismi all’origine della dissociazione.
All’esperimento parteciparono 45 soggetti normali di controllo e 58 afasici,
36 dei quali erano fluenti (13 amnestici e 23 Wernicke); 15 erano invece afasici
non-fluenti (di cui sei erano agrammatici), mentre sette erano afasici che non era
stato possibile classificare in modo chiaro.
Tutti i soggetti vennero sottoposti ad un compito di denominazione di figure
che rappresentavano azioni e oggetti: in particolare, furono utilizzate 30 figure
raffiguranti oggetti (15 naturali e 15 artificiali) e 40 figure raffiguranti azioni (16
raffiguravano verbi transitivi, 12 verbi inergativi e 12 verbi inaccusativi).
Ogni disegno venne valutato da 42 soggetti normali: tutte le figure usate
nello studio erano state denominate correttamente da almeno il 95% dei
controlli.
Per ciascun item furono calcolati i valori delle principali variabili lessicali:
frequenza d’uso orale, età di acquisizione, familiarità ed immaginabilità.
La batteria finale risultò bilanciata tra nomi e verbi per età di acquisizione e
familiarità; poiché alcuni item furono eliminati dalla versione finale a causa di
un name agreement inferiore al valore preliminarmente deciso, la frequenza
orale dei verbi era leggermente più alta di quella dei nomi (Mann-Whitney test:
p =.045). D’altra parte, era stato del tutto impossibile bilanciare l’immaginabilità
di nomi e verbi da denominare (i nomi erano più immaginabili dei verbi; MannWhitney test: p <.001).
Per quello che riguarda, invece, il bilanciamento della batteria tra tipi di
verbo, transitivi, inergativi ed inaccusativi risultarono avere frequenza,
familiarità, età di acquisizione ed immaginabilità non significativamente
differenti , tranne in due confronti: l’età di acquisizione degli inergativi era più
bassa di quella dei transitivi (Mann-Whitney test: p =.04) e l’immaginabilità
104
degli inaccusativi più bassa di quella degli intransitivi (Mann-Whitney test: p
=.03).
Vennero condotti due tipi di analisi: una a livello di gruppo e una per casi
singoli.
L’analisi per casi singoli aveva l’obiettivo di capire il ruolo delle diverse
variabili nella prestazione di ogni singolo soggetto attraverso l’Analisi di
Regressione Logistica (McCullagh, Nelder, 1983), sia univariata (considerando,
cioè, una singola variabile per volta) che multivariata (considerando invece più
variabili contemporaneamente).
I risultati emersi sono i seguenti:
1. a livello di gruppo, i pazienti afasici non-fluenti mostrarono una
compromissione nel recupero lessicale più marcata con i verbi che
con i nomi (p<.001). Anche gli afasici fluenti avevano livelli di
compromissione diversi, ma in modo meno evidente e a favore dei
nomi (p =.05). Gli agrammatici, in particolare, denominarono
correttamente il 33% dei verbi e il 70% dei nomi.
2. nei non-fluenti vi era una prestazione molto peggiore con i verbi
inaccusativi rispetto ai transitivi e agli inergativi (p<.001); gli
agrammatici, inoltre, si comportarono peggio con i verbi transitivi
che con i verbi inaccusativi e inergativi, anche se la differenza non
risultò statisticamente significativa (p =.12)
3. attraverso la regressione logistica univariata, si vide che la frequenza
d’uso orale aveva effetto su solo 11 dei 58 pazienti, ma su ben 5 dei
6 dissociati con superiorità ai verbi; parallelamente, l’immaginabilità
105
aveva effetti su solo 29 dei 58 pazienti, ma su tutti i 20 dissociati
meglio-nomi.
4. attraverso l’analisi della regressione multivariata, si vide, inoltre, che
la prestazione di 3 dei 6 dissociati meglio-verbi non dipendeva più
significativamente dalla classe grammaticale dell’item, se nel
modello veniva introdotta la frequenza d’uso; inoltre, la prestazione
di 18 dei 20 dissociati meglio-nomi non dipendeva più dalla classe
grammaticale se nel modello veniva inserito il fattore
immaginabilità.
5. per quanto riguarda il rapporto tra tipo di afasia e dissociazione, si
notò che 5 dei 6 dissociati meglio-verbi erano amnestici e che 5 dei 6
agrammatici mostravano una superiorità dei nomi. Inoltre, dei 7
amnestici dissociati, ben 5 lo erano a favore dei verbi e degli 8
Wernicke dissociati, soltanto uno aveva una superiorità ai verbi.
Come si può vedere, i dati emersi permettono di dare risposte, seppure
parziali, ai quesiti che Luzzatti et al. si ponevano all’inizio dello studio.
Innanzitutto, è stata ancora una volta verificata l’esistenza del fenomeno
della dissociazione nome-verbo negli afasici: la dissociazione è stata osservata
in entrambe le direzioni (doppia dissociazione), cioè sia a favore dei verbi che a
favore dei nomi.
L’associazione tra agrammatismo e superiorità dei nomi è stata trovata
anche in questo studio, così come quella tra afasie fluenti (in particolare, afasia
amnestica) e superiorità dei verbi. L’interpretazione di questo dato è complessa,
perché le “regole” associative in questione non sono biunivoche: se è vero che
quasi tutti gli agrammatici hanno un deficit più marcato ai verbi, non è vero che
106
tutti gli afasici con superiorità ai verbi sono agrammatici (solo 5 su 20), così
come non è vero che tutti gli afasici amnestici (o quasi) sono dissociati meglioverbi (solo 5 su 13), nonostante quasi tutti i dissociati meglio-verbi soffrano di
afasia amnestica.
Questo indica che l’associazione esiste (almeno in questo campione), ma che
la superiorità ai verbi e quella ai nomi non sono semplici fenomeni corollari
dell’agrammatismo o della sindrome afasica amnestica; piuttosto, essi sembrano
fenomeni complessi, trasversali alle diverse forme afasiche.
Sono state trovate differenze tra tipo di verbo, come gli autori si aspettavano;
Luzzatti et al. ipotizzano che la caduta ai transitivi degli agrammatici sia legata
alla difficoltà di questi nel trattare verbi con molti argomenti (e i transitivi ne
hanno sempre almeno due, al contrario di inergativi e inaccusativi). Al contrario,
la caduta dei non-fluenti agli inaccusativi potrebbe essere legata alla struttura
quasi-passiva di questi verbi, probabilmente “registrata” a livello del lemma.
Da ultimo, è risultato evidente il ruolo delle variabili lessicali: frequenza e
immaginabilità spiegano buona parte delle dissociazioni, ma non tutte. Proprio
su questo Luzzatti et al. si appoggiano per dimostrare che la dissociazione non è
(o almeno non è solo) un artefatto derivato dal non-bilanciamento delle batterie,
creato, quindi, dai diversi valori di immaginabilità, frequenza, lunghezza ed età
d’acquisizione che si associano a nomi e verbi.
Inoltre, è difficile anche pensare che la dissociazione (in particolare, quella a
favore dei nomi) sia l’effetto di un deficit sintattico che impedisce agli
agrammatici di trattare i verbi. Infatti, questa ipotesi mal si accorda col fatto che
molti dissociati meglio-nomi non siano agrammatici o abbiano problemi
sintattici piuttosto lievi; inoltre, mal si accorda col fatto che l’immaginabilità
giochi un ruolo importante nello spiegare la maggior parte dei deficit verbali.
107
Altro dato molto interessante è quello per cui la variabile immaginabilità
gioca un ruolo cruciale nella prestazione di tutti i dissociati meglio-nomi, ma in
pochi dissociati meglio-verbi e, parallelamente, la frequenza d’uso sia un fattore
significativo nelle prestazioni di quasi tutti i dissociati meglio-verbi, ma in
pochissimi dissociati meglio-nomi.
Date queste considerazioni, bisogna ammettere che, almeno in alcuni casi, la
dissociazione sia un “vero” fenomeno lessicale, legato alla classe
grammaticale, anche se questo non significa necessariamente che il lessico sia
diviso in un lessico dei nomi e in un lessico dei verbi.
In conclusione, Luzzatti et al. sostengono che la dissociazione nome-verbo
in afasia sia un fenomeno legato alla classe grammaticale e che la sua origine
non vada ricercata tanto in una suddivisione funzionale e anatomica del lessico
mentale, quanto piuttosto nella diversa complessità sintattica (numero di
argomenti, ad esempio) e nelle diverse caratteristiche semantiche
(immaginabilità e frequenza d’uso) che sono proprie di nomi e verbi.
2. Analisi qualitativa dei protocolli
Lo scopo di questa analisi è ottenere nuove informazioni sugli aspetti
qualitativi della dissociazione nomi-verbi.
Più specificamente, si vuole rispondere ad alcune domande:
 quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai
nomi piuttosto che ai verbi o viceversa?
 questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi?
108
 se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e
per tipo di afasia oppure no?
Un meccanismo patologico prevede necessariamente un certo tipo di errore
piuttosto che altri: costruire dei profili d’errore può quindi esserci molto utile
per risalire al tipo di disturbo che li ha causati e ai meccanismi attraverso i quali
si sono manifestati.
Ancora, se il tipo di disturbo che si nasconde dietro le dissociazioni di
ciascuno dei pazienti fosse uno solo, allora dovremmo attenderci dei profili
d’errore omogenei nei diversi soggetti; in caso contrario, non ci stupiremmo di
osservare fenomeni qualitativi anche molto diversi tra loro negli errori dei
dissociati.
Da ultimo, se notassimo che certi fenomeni qualitativi si associano con
maggior frequenza a certi tipi di dissociazione o a certi tipi di afasia, allora
potremmo ipotizzare non solo l’esistenza di meccanismi patologici diversi, ma
anche che questi diversi meccanismi dipendano appunto dal tipo di afasia o dal
tipo di dissociazione.
Se consideriamo, ad esempio, quali tipi di afasici mostrano una
dissociazione-meglio-nomi tra i 58 testati, ci accorgiamo che in questo gruppo
sono presenti sia afasici fluenti che afasici non-fluenti: essi hanno, per
definizione, dei quadri patologici molto diversi tra loro ed è dunque ragionevole
attendersi che mostrino qualche differenza anche nel dissociare tra nomi e verbi.
Non sembra, però, che queste eventuali differenze emergano dall’analisi
quantitativa (i due gruppi hanno gravità di dissociazione confrontabile e
mostrano un forte effetto di immaginabilità, ma non di frequenza d’uso).
109
2.1 Materiali e metodi
Sono stati considerati per questo studio 26 pazienti afasici. Di questi, 15
erano afasici fluenti, sei erano afasici non-fluenti e i restanti cinque soffrivano di
una forma di afasia non classificabile lungo il parametro fluente/non fluente.
Dei 21 pazienti cui era stata attribuita una diagnosi, sette pazienti furono
classificati come amnestici, otto come afasici di Wernicke, cinque come
agrammatici e uno come afasico non-fluente non agrammatico. Da ultimo, 20
erano dissociati-meglio-nomi (DMN) e sei erano dissociati-meglio-verbi
(DMV).
I soggetti sono stati sottoposti ad un test di denominazione di oggetti (30) e
azioni (40), le cui caratteristiche sono esposte a pagina 104.
Le risposte dei soggetti vennero classificate secondo una griglia che
comprendeva undici possibili tipi di errore.
Le alternative erano le seguenti (vedi anche Tabella 3):
Tabella 2: composizione del campione di afasici che ha partecipato allo studio
(DMN=dissociati-meglio-nomi; DMV=dissociati-meglio-verbi).
DMN
DMV
TOTALE
AMNESTICI
2
5
7
WERNICKE
7
1
8
BROCA NON AGRAMMATICI
1
0
1
BROCA CON AGRAMMATISMO
5
0
5
NON CLASSIFICABILI
5
0
5
TOTALE
20
6
26
110
1. Risposta corretta (R+): il soggetto denomina correttamente
l’oggetto o l’azione target.
2. Latenza: il soggetto denomina correttamente il target, ma solo dopo
un intervallo di almeno tre secondi.
3. Scambio nome/verbo (N_V): il soggetto produce un nome al posto di
un verbo o un verbo al posto di un nome con un legame semantico tra
gli elementi scambiati.
4. Produzione di un argomento del verbo (S/Ogg): il paziente, al posto
di un verbo, produce un nome che, indipendentemente dal suo legame
semantico col target, è un suo possibile argomento esterno (soggetto) o
complemento. Il legame tra le entrate lessicali scambiate, in questo
caso, è principalmente di natura sintattica piuttosto che semantica.
5. Produzione di un argomento del verbo insieme ad un verbo leggero
(S/Ogg+Vppt): il soggetto si comporta come nel caso dell’errore
descritto sopra, ma produce inoltre un verbo semanticamente leggero.
6. Circonlocuzione (Circ): il soggetto non riesce a denominare il target
e cerca di farlo capire attraverso un giro di parole.
7. Parafasia semantica (PS-cat+): il soggetto produce un elemento
della classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo),
ma non denomina il target, bensì un oggetto (o un’azione)
semanticamente relato.
8. Parafasia verbale (PV-cat+): il soggetto produce un elemento della
classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo), ma
non relato semanticamente al target; in questa classe è stata inclusa
anche la produzione di elementi lessicali della categoria giusta, ma
111
semanticamente leggeri, cioè con un significato molto generico, al
confine con le parole passe-partout.
9. Forma neologistica verbale derivata da nome (Neol): questo tipo di
errore è stato rilevato solo nella denominazione delle azioni e consiste
nella produzione di una forma verbale neologistica, morfologicamente
corretta, ottenuta per derivazione da un nome (di solito, relato
semanticamente al verbo target; ad esempio, fuocare per bruciare).
10. Risposta nulla (ø): il soggetto non da risposta, produce una frase
incomprensibile o senza senso oppure produce solo elementi
stereotipati.
11. Errore visivo: il soggetto sbaglia la denominazione dell’oggetto
perché non capisce o interpreta male il disegno.
La scelta di questo schema di correzione è dovuta all’esigenza di classificare
tutte le riposte dei soggetti, sottolineando, però, alcuni tipi di errore che ci
sembravano significativi, importanti per capire il meccanismo attraverso il quale
la dissociazione tra nomi e verbi emerge.
In questa prospettiva, i primi due tipi di risposta testimoniano un risparmio
della capacità di accesso al magazzino lessicale29 (quello dei verbi se si stanno
denominando azioni o quello dei nomi se si stanno denominando oggetti) anche
se, in qualche caso, non completo, come può testimoniare il tempo di latenza
Al contrario, lo scambio nome-verbo (N_V) e la produzione di un argomento
del verbo (S/Ogg) provano una evidente difficoltà di accesso al magazzino in
questione, tanto da costringere il paziente a scivolare su un item relato al target,
ma della categoria grammaticale opposta; secondo una terminologia introdotta
29
Intendo per “ magazzino lessicale ” un termine puramente funzionale-linguistico che non
sottende una divisione anatomica tra i lemmi verbali e quelli nominali.
112
da Saussure (1967) e Jakobson (1966), potremmo chiamare questi errori
sintagmatici.
Le parafasie, semantiche (PS) o verbali (PV) che siano, testimoniano,
invece, una conservata capacità di accesso al magazzino lessicale in esame, il
quale, però, non è perfettamente conservato; sempre seguendo Saussure e
Jakobson, potremmo chiamare questi errori paradigmatici. Essi sottendono un
tipo di deficit piuttosto diverso da quello sottolineato dagli scambi sintagmatici:
in particolare, PS e PV rivelano una conservata capacità di produrre elementi
della classe grammaticale in questione.
Errori come la circonlocuzione (Circ) e la produzione di un argomento del
verbo insieme ad un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) sono indici di un mancato
accesso alla parola target, ma non ci permettono di decidere con chiarezza se si
tratta di un errore sintagmatico o paradigmatico; essi sottolineano, però, che il
paziente è riuscito a costruire una struttura frasale, per quanto semplice o
scorretta, ed è riuscito a produrre un verbo, per quanto semanticamente leggero.
La forma neologistica verbale derivata da nome (Neol) è un tipo di errore
molto interessante, perché prova un deficit di accesso lessicale ai verbi, ma
garantisce che il paziente sa che deve produrre un verbo (altrimenti non si
sforzerebbe di costruirne uno) e che ha un sistema morfologico ancora piuttosto
intatto.
La risposta nulla caratterizza un deficit di accesso lessicale molto grave e
l’assenza di un meccanismo di compenso; l’errore visivo, invece, è teoricamente
meno rilevante per i quesiti che ci siamo posti.
113
Dopo avere classificato ogni singolo errore, abbiamo costruito i profili
qualitativi di ciascun soggetto partecipante all’esperimento30.
Fatto ciò, abbiamo raggruppato i dati per ottenere una sorta di “profilo
qualitativo medio” dei DMV e dei DMN.
Inoltre, all’interno di ciascuno dei due gruppi di dissociati, abbiamo
costruito i profili medi dei gruppi di afasici presenti: amnestici e Wernicke per i
DMV, amnestici, agrammatici e Wernicke per i DMN.
Tutto ciò è stato fatto per analizzare questi profili alla ricerca di somiglianze
ed eventuali simmetrie.
30
Le tabelle con i profili qualitativi d’errore completi di tutti i soggetti dissociati che hanno
partecipato allo studio si trovano in Appendice.
114
Tabella 3: schema di classificazione delle risposte per l’analisi qualitativa. Nell’ultima
colonna, dopo il nome e la definizione, si trovano esempi tratti dalle risposte dei pazienti
che hanno partecipato allo studio.
ERRORE
DEFINIZIONE
ESEMPIO
ACCESSO CONSERVATO E MAGAZZINO LESSICALE CONSERVATO
Risposta corretta
(R+)
Latenza (Lat)
Il soggetto denomina correttamente
l’oggetto o l’azione target.
FOTOGRAFARE:
"Sta fotografando" oppure “La
ragazza fotografa”
Il soggetto denomina correttamente il target,
ma solo dopo un intervallo di almeno tre
secondi.
MARTELLO:
"….martello"
ACCESSO NON CONSERVATO; CAMBIO DI CATEGORIA
Scambio
nome/verbo (N_V)
Il soggetto produce un nome al posto di un
verbo o un verbo al posto di un nome con
un legame semantico tra gli elementi
scambiati.
Produzione di un
argomento del
verbo (S/Ogg)
Il soggetto, al posto di un verbo, produce un
nome che, indipendentemente dal legame
LEGARE:
"la capra..la capra con la
semantico col target, è un suo possibile
argomento esterno (soggetto) o
corda..f..."
complemento.
STARNUTIRE:
"Ciu,Ciu..fazzoletto..fazzoletto
ce l'ho"
PSEUDO-STRUTTURA FRASALE; PRODUCE UN VERBO
Circonlocuzione
(Circ)
Il soggetto non riesce a denominare il target
PIOVERE:
e cerca di farlo capire attraverso un giro di
"…quando non c'è il sole"
parole.
115
Tabella 3: continua.
Produzione di un
argomento del
verbo insieme ad un
verbo leggero
(S/Ogg+Vppt)
Il soggetto, al posto di un verbo, produce un
nome che, indipendentemente dal legame
semantico col target, è un suo possibile
SOLLEVARE:
argomento esterno (soggetto) o
"C'è il l'armadio…per..per
complemento; produce, inoltre, un verbo
andare.."
semanticamente leggero. Dimostra una
struttura frasale per quanto semplice o
scorretta.
ACCESSO CONSERVATO; MAGAZZINO DEFICITARIO
Il soggetto produce un elemento della classe
CADERE:
grammaticale corretta (nome per nome o
Parafasia semantica
verbo per verbo), ma non denomina il
"Sta..sta scivolando, sta
(PS)
scivolando questo ragazzo"
target, bensì un oggetto (o un’azione)
semanticamente relato.
Il soggetto produce un elemento della classe
CADERE:
grammaticale corretta (nome per nome o
"Stanno levando su.. questo sta
verbo per verbo), ma non relato
facendo"
semanticamente al target.
Parafasia verbale
(PV)
ACCESSO NON CONSERVATO; MORFOLOGIA VERBALE CONSERVATA
Forma neologistica
verbale derivata da
nome (Neol)
Il soggetto produce una forma neologistica
verbale, morfologicamente corretta,
ottenuta per derivazione da un nome (di
solito, relato semanticamente al verbo
target).
BRUCIARE:
"Fuocava.."
ALTRI ERRORI
Risposta nulla (ø)
Il soggetto non da risposta, produce una
frase incomprensibile o senza senso oppure
produce solo elementi stereotipati.
Errore visivo (EV)
Il soggetto sbaglia la denominazione
CAMPANA:
dell’oggetto perché non capisce o interpreta
"..berretto"
male il disegno.
SEGA:
"…questa non la conosco.."
116
2.2 Risultati
2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi
Risposte nulle. Un primo dato che risalta con chiarezza è la differenza di
risposte nulle nella denominazione degli oggetti: i dissociati-meglio-verbi
(DMV) commettono questo errore nel 49% dei casi, mentre i dissociati-meglionomi (DMN) solo nel 12% (t = 5,0; p < ,001).
Il dato è relativamente scontato: i DMN sono tali proprio perché hanno
difficoltà nel denominare oggetti.
Se fosse tutto così semplice, però, troveremmo la stessa differenza, in
maniera simmetrica, nelle risposte nulle ai verbi: sorprendentemente, invece, i
DMN fanno un tale errore il 18% delle volte che tentano di denominare
un’azione contro il 13% dei DMV (t = -.584; p = .565 n.s.; Figura 8).
Scambi di categoria. Un altro dato abbastanza evidente è che i DMN
producono un nome al posto di un verbo quando devono denominare un’azione
nel 22% dei casi (13% N_V, 9% S/Ogg), mentre solo nel 3% dei casi i DMV
fanno questo scambio: questa differenza è statisticamente significativa (t = 3,087; p = .005).
117
Figura 8: risposte nulle nella denominazione di azioni e oggetti: si noti l’evidente
asimmetria.
Ancora una volta, se i due profili d’errore fossero simmetrici, dovremmo
aspettarci qualcosa di simile per l’errore opposto (verbo al posto di un nome
quando si denomina un oggetto): questo, però, non accade dato che i DMV
fanno questo scambio solo nell’uno per cento dei casi (mentre i DMN non lo
fanno mai; t = 1,869; p = ,74, n.s.; Figura 9).
Entrambe le asimmetrie osservate sono evidenziate in Tabella 4.
Tabella 4: denominazione delle azioni dei DMN e denominazione degli oggetti dei
DMV (i dati sono in percentuale); i profili non sono simmetrici.
R+
N_V
S/Ogg
Ø
DMV (oggetti)
23
1
0
49
DMN (azioni)
27
13
9
18
118
Figura 9: scambi di categoria nella denominazione di azioni e oggetti
2.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi
Prima di iniziare ad osservare i risultati, faccio notare che, nel nostro studio,
soltanto due pazienti con afasia amnestica sono dissociati-meglio-nomi; questo
significa che tutto ciò che sottolineeremo a proposito di essi e del loro “profilo
medio” non potrà essere esteso, se non con grande cautela e solo in via ipotetica,
a tutti gli afasici amnestici.
119
Scambi categoriali. Ancora una volta, la differenza più evidente tra i gruppi
confrontati sta nel numero di scambi di categoria lessicale: in questo caso, dato
che stiamo parlando di dissociati-meglio-nomi, si tratta del numero di N_V e
S/Ogg nella denominazione delle azioni.
In sostanza, i due afasici amnestici commettono uno di questi due errori
(producendo, quindi, un nome al posto di un verbo) il 3% delle volte che devono
denominare un’azione, mentre gli afasici di Wernicke lo fanno nel 24% dei
casi.31
Anche gli agrammatici fanno un gran numero di scambi di categoria nel
denominare le azioni (26% dei casi): la differenza tra amnestici e agrammatici è,
quindi, anch’essa molto marcata, pur se non statisticamente significativa (vedi
nota 2).
Come si può vedere, le attese differenze emergono, ma non distinguono gli
agrammatici dagli afasici di Wernicke, bensì gli afasici amnestici dagli altri due
gruppi.
Risposte corrette, risposte nulle e parafasie. Come viene compensata questa
grande differenza di scambi categoriali?
Se confrontiamo amnestici e Wernicke (Tabella 5), sembra che il maggior
numero di risposte corrette dei primi (43% contro 19%) compensi del tutto la
differenza sottolineata sopra.
31
Data l’esiguità dei campioni, qualsiasi tipo di confronto statistico perde notevolmente in
affidabilità: ci baseremo, quindi, soltanto su confronti qualitativi, senza l’appoggio di test
statistici.
L’esiguità dei campioni limita la validità statistica di questi risultati, che restano, però, a
nostro avviso, molto importanti per i suggerimenti che possono dare sull’aspetto qualitativo del
fenomeno della dissociazione nomi-verbi: le ipotesi sui meccanismi che causano questa
dissociazione produrranno previsioni che potranno poi essere confermate o disattese da studi
quantitativamente più estesi (e quindi statisticamente significativi).
Inoltre, da un punto di vista epistemologico, l’esiguità del campione limita l’estendibilità
dei risultati al gruppo di appartenenza, ma non la validità e l’importanza teorica del dato in sé.
120
Confrontando, invece, amnestici e agrammatici (Tabella 6), si nota che la
differenza di scambi categoriali è compensata, oltre che dalle risposte corrette
(43% gli amnestici, 38% gli agrammatici), anche dalle risposte nulle (15%
contro 8%), dalla parafasie semantiche e verbali (17% contro 15%) e dalle
produzioni di argomenti del verbo insieme a verbi leggeri (5% contro 1%).
Percentuale di scambi categoriali sul totale degli errori. Se consideriamo
solo le risposte scorrette (cosa che ci permette di avere dei dati “al netto” della
capacità generale di denominare i verbi), il 5% degli errori commessi dagli
amnestici alla denominazione di azioni è un errore che comporta la produzione
di un nome semanticamente (N_V) o sintatticamente (S/Ogg) relato: errori di
questo tipo costituiscono, invece, il 41% degli errori totali degli agrammatici e il
29% degli errori totali degli afasici di Wernicke.
Comincia ad emergere una prima differenza tra afasici di Wernicke e
agrammatici: la peggior prestazione media di questi ultimi fa sì che, se anche il
numero di errori sintagmatici è confrontabile in assoluto, la percentuale di questi
sia maggiore negli agrammatici.
Tabella 5: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nella
denominazione delle azioni dei DMN
Amnestici (n=2)
Wernicke (n=7)
R+ N_V S/Ogg.
43
3
0
19
14
10
Ø PS-cat+ PV-cat+
15
16
1
19
10
3
121
Tabella 6: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nella
denominazione delle azioni dei DMN
Amnestici (n=2)
Agrammatici (n=5)
R+ N_V S/Ogg.
43
3
0
38
16
10
Ø S/Ogg.+Vppt PS-cat+ PV-cat+
15
5
16
1
8
1
12
3
Circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt. La differenza tra afasici di Wernicke e
agrammatici che abbiamo appena sottolineato è compensata dalla diversa
percentuale di quel tipo di errori che indicano la presenza di un verbo e di una
struttura frasale, per quanto semplice e imperfetta.
Come potevamo prevedere visti i marcati problemi sintattici dei pazienti con
agrammatismo, questi ultimi producono una circonlocuzione o un argomento del
verbo con un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) solo nel 7% dei loro errori; i pazienti
con afasia di Wernicke, al contrario, fanno uno di questi due errori il 17% delle
volte che sbagliano, essendo in questo molto più simili agli afasici amnestici
(16% degli errori sono circonlocuzioni o S/Ogg+Vppt).
Più parafasie o più scambi? Un altro dato interessante è quello per cui gli
afasici di Wernicke, nella denominazione delle azioni, fanno molti più scambi di
categoria (24% degli item, come abbiamo detto sopra) che parafasie semantiche
o verbali (13%): in altre parole, quando sbagliano a denominare un’azione,
molto più spesso producono un nome relato piuttosto che un verbo scorretto. Un
andamento simile è manifestato dagli agrammatici: 26% di scambi contro 15%
di parafasie semantiche e verbali.
In entrambi i gruppi prevalgono, perciò, gli scambi che abbiamo chiamato a
pagina 113, sintagmatici.
Al contrario, gli afasici amnestici producono più spesso (17% degli item
contro 3%) un verbo sbagliato piuttosto che un nome (Figura 10).
122
In sostanza, i dati presentati a proposito dei dissociati-meglio-nomi indicano
che, mentre gli amnestici DMN tendono a sbagliare la denominazione delle
azioni mantenendo la classe grammaticale del target (producendo, in
maggioranza, scambi paradigmatici), gli afasici di Wernicke e gli agrammatici
più spesso producono un nome, semanticamente o sintatticamente relato, al
posto del verbo corretto, facendo, cioè, più scambi sintagmatici che
paradigmatici.
Inoltre, gli afasici di Wernicke e gli afasici amnestici producono anche molte
circonlocuzioni e molti S/Ogg+Vppt, indicando una capacità relativamente
conservata di costruzione della struttura frasale; questo tipo di errori è invece
più raro negli agrammatici.
Capacità generale di produrre verbi. Consideriamo, poi, tutti gli item (sia
quelli corretti che quelli sbagliati) e contiamo il numero di volte che ciascun
afasico DMN è riuscito, in assoluto, a produrre un verbo per un verbo, cioè ad
accedere al magazzino lessicale dei verbi.
In concreto, si tratta di considerare la frequenza totale di risposte corrette,
latenze, parafasie semantiche e verbali, circonlocuzioni e S/Ogg+Vpp, cioè tutti
quei tipi di risposta che presuppongono la produzione di un elemento della
categoria corretta; ciò che si osserva è che gli amnestici accedono a quel
magazzino nel 78% dei casi, gli agrammatici nel 64% e i Wernicke soltanto nel
51%.
Gli afasici amnestici e quelli di Wernicke si comportano come potevamo
prevedere in base agli altri risultati dell’analisi qualitativa. I primi producono
spesso un verbo quando sbagliano e quindi ci aspettiamo che mostrino un
accesso al magazzino lessicale dei verbi carente, ma non gravemente
123
Figura 10: scambi di categoria e parafasie semantiche (con categoria lessicale corretta)
nella denominazione delle azioni da parte dei DMN.
compromesso, mentre i secondi più frequentemente scivolano su un nome e,
quindi, ci aspettiamo che abbiano maggiore difficoltà a produrre verbi in
assoluto: queste previsioni sono verificate (Figura 11).
Così non è per gli agrammatici, che, quando sbagliano, producono un nome
al posto di un verbo come gli afasici di Wernicke, ma, in assoluto, dimostrano di
sapere accedere meglio di loro al magazzino lessicale dei nomi (figura 11).
Capacità generale di produrre verbi e scivolamenti sul nome. Le previsioni
sopraccitate si basavano sull’assunto che un gran numero di scivolamenti verso
124
la categoria lessicale meno compromessa (i nomi) fosse indice di un accesso
molto difficoltoso al magazzino maggiormente leso (quello dei verbi).
Stimolati dal fatto che, come abbiamo visto, le previsioni fondate su questo
assunto non sono sempre state confermate, ci siamo proposti di verificare la
plausibilità dell’assunto stesso.
Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione lineare e la retta di
regressione tra quello che noi consideravamo un indice della capacità di accesso
al magazzino dei verbi -il numero di scambi categoriali nella denominazione
delle azioni (considerati come variabile indipendente)- e il numero di verbi
Figura 11: denominazione delle azioni nei dissociati-meglio-nomi. Capacità generale di
produrre verbi e scivolamenti sul nome sembrano non correlare inversamente.
125
realmente prodotti sul totale delle 40 azioni da denominare (variabile
dipendente).
Il risultato è molto chiaro: l’indice di Pearson (r) è assai basso. Esso, infatti, è di
-.24, il che significa che il modello lineare di regressione spiega solo il 6% della
varianza della variabile dipendente (r2 = .057; p = .31, n.s.; vedi Figura 12).
In Figura 13, il coefficiente di correlazione lineare e la retta di regressione sono
calcolati anche per il gruppo degli agrammatici e per gli afasici di Wernicke
Figura 12: denominazione delle azioni di tutti i dissociati-meglio-nomi. Correlazione e
regressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti: come si
può vedere, la correlazione è molto bassa e il modello di regressione spiega solo il 6%
della varianza totale dei dati
126
(non per gli afasici amnestici (due) e per l’afasico di Broca non agrammatico
(uno solo) perché troppo poco numerosi): di fatto, nemmeno nei singoli gruppi
di pazienti si vede l’attesa correlazione, anche se negli agrammatici emerge un
trend (r2 = .46; p = .21 n.s.), che, invece, non si vede negli afasici di Wernicke
(r2 = .045; p = .64 n.s.).
Figura 13: denominazione delle azioni dei dissociati-meglio-nomi. Correlazione e
regressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti nei
singoli gruppi afasici: soltanto nel gruppo dei pazienti agrammatici si nota una
correlazione tra le due grandezze ed è possibile costruire un modello lineare
abbastanza predittivo.
127
2.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi
Prima di osservare i dati, ricordo che questo gruppo è composto da cinque
afasici amnestici e un solo afasico di Wernicke: ciò significa che, mentre il
profilo dei primi è un “vero profilo medio”, da cui si possono, con la dovuta
cautela (data la limitatezza numerica del campione), fare ipotesi generali su tutti
gli afasici amnestici, il profilo del paziente con afasia di Wernicke è un profilo
singolo, informativo solo su quel paziente; su di esso, è legittimo soltanto
costruire ipotesi di lavoro sui meccanismi della dissociazione che agiscono su
quel soggetto, non su tutti gli afasici di Wernicke.
Scambi sintagmatici. Un primo dato interessante è quello per cui sia il
paziente con afasia di Wernicke che i 5 pazienti con afasia amnestica non
producono mai un verbo al posto di un nome quando devono denominare un
oggetto: quando devono recuperare un’entrata lessicale della categoria più
danneggiata, questi soggetti non ”scivolano” mai su un’entrata lessicale della
classe opposta.
Ricordiamo che, nei DMN, gli afasici di Wernicke erano proprio quelli che
più massicciamente manifestavano questo fenomeno (lo “scivolamento” su
un’entrata lessicale della categoria meno danneggiata): se la tendenza mostrata
da questo paziente fosse confermata da altri afasici di Wernicke DMV, ecco che
emergerebbe un’altra delle asimmetrie che caratterizzano la dissociazione nomiverbi.
Scambi paradigmatici e risposte nulle. Un secondo elemento che emerge in
modo piuttosto evidente è la differenza molto marcata tra il numero di parafasie
128
semantiche o verbali (scambi paradigmatici) e il numero di risposte nulle nel
gruppo degli amnestici: 51% contro 11%. Questa differenza è presente anche nel
paziente con afasia di Wernicke, ma in modo molto marcato (40% contro 23%).
Sembra, quindi, che gli amnestici abbiano tendenzialmente maggiore
difficoltà dell’afasico di Wernicke a produrre un nome.
Questa impressione è confermata da un altro fatto: considerando solo gli
errori (come abbiamo detto a pagina 121, questo ci aiuta ad avere dati al netto
dell’entità del deficit generale di denominazione), il paziente con afasia di
Wernicke produce un nome il 48% delle volte che sbaglia a denominare un
oggetto, mentre gli amnestici, in media, hanno questo comportamento solo nel
19% dei casi (nel restante 80% fanno soprattutto risposte nulle).
In conclusione, gli amnestici dissociati-meglio-verbi sembrano avere un
accesso difficoltoso al “magazzino lessicale” dei nomi; il paziente con afasia di
Wernicke, al contrario, sembra riuscire più facilmente a recuperare nomi,
producendo, però, spesso parafasie semantiche o verbali.
2.3 Discussione
2.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi
Diversi meccanismi di dissociazione? La domanda da cui siamo partiti
nell’analisi qualitativa dei protocolli era la seguente: il disturbo selettivo per i
nomi e quello selettivo per i verbi hanno le stesse caratteristiche oppure no?
129
Detto in altro modo, i fenomeni comportamentali che si verificano nei DMN e
nei DMV sono simili oppure diversi?
I nostri dati non rivelano profili d’errore simmetrici e speculari tra DMN e
DMV , ma, al contrario, profili caratterizzati da fenomeni qualitativi differenti.
I DMN fanno un numero significativamente più alto di scambi di categoria
(sintagmatici) nella denominazione delle azioni rispetto a quanti ne facciano i
DMV nella denominazione degli oggetti; i DMV, a loro volta, fanno molte più
risposte nulle ai nomi di quante ne facciano i DMN ai verbi.
E’ possibile dare due tipi di interpretazione alla diversità dei profili d’errore:

potremmo dire che i dati testimoniano che la dissociazione-meglio-
verbi e la dissociazione-meglio-nomi sono fenomeni realmente diversi tra loro,
non due “aspetti” di un unico fenomeno; per questa ragione le caratteristiche dei
profili d’errore dei DMN e dei DMV non sono speculari, ma qualitativamente
differenti tra loro.

alternativamente, potremmo sostenere che la diversità dei profili
d’errore è causata da un deficit unitario, uguale nelle due dissociazioni; esso
colpisce, però, due categorie grammaticali diverse, non solo nel senso di
distinte, ma anche nel senso di strutturalmente differenti. Le due classi
avrebbero proprietà, struttura e caratteristiche specifiche, diverse tra loro, tali da
fare emergere pattern di errore diversi, pur essendo in atto il medesimo processo
patologico.
Scegliere tra le due spiegazioni è praticamente impossibile con i dati a
disposizione; la seconda ipotesi è forse più economica da un punto di vista
neuropsicologico, ma ha bisogno di appoggiarsi ad una teoria psicolinguistica
130
che spieghi quali differenze tra nomi e verbi possano causare un comportamento
così diverso tra i DMV e i DMN nella classe grammaticale più danneggiata.
Perché mai un afasico con problemi specifici ai nomi dovrebbe produrre
risposte nulle o parafasie semantiche piuttosto che scivolare verso un verbo
semanticamente relato?
E, simmetricamente, quali caratteristiche dei verbi dovrebbero condurre i
DMN a fare molti più scambi sintagmatici che paradigmatici?
La risposta a queste domande è tutt’altro che banale: nessuna teoria
psicolinguistica attuale giustifica in modo esplicito queste asimmetrie.
Quale meccanismo di dissociazione? Il profilo d’errore medio dei DMN
potrebbe essere spiegato nel modo seguente.
Nell’esporre questa ipotesi, farò riferimento alla teoria dell’accesso lessicale
di Levelt, Roelofs e Meyer (1999) (vedi capitolo 2); essa è la teoria dell’accesso
lessicale più completa che abbiamo oggi a disposizione e si presta molto bene a
spiegare gli scivolamenti verso la categoria meno danneggiata tipici dei DMN.
Sottolineo, però, che il meccanismo che vado ad esporre è, in realtà, applicabile
anche in contesti teorici dell’accesso lessicale diversi da quello di Levelt et al.
(1999).
Nel modello leveltiano, a livello del lemma, ogni nodo lessicale è legato ad
una serie di nodi sintattici i quali specificano tutte le sue caratteristiche morfosintattiche, tra cui anche la classe lessicale.
Potremmo ipotizzare che i DMN abbiano un disturbo, più o meno grave, di
alcuni di questi nodi sintattici, in particolare proprio di quelli che specificano le
“etichette di categoria lessicale”; questo deficit avrebbe conseguenze assai più
eclatanti sull’elaborazione delle etichette verbali rispetto a quelle nominali, per
131
via del fatto che le prime sono molto più ricche di informazioni sintattiche
(contengono, infatti, la griglia tematica del verbo e le regole di
sottocategorizzazione).
Nella teoria di Levelt at al. (1999), i nodi lessicali sottostanti alla
rappresentazione dei verbi e quelli sottostanti alla rappresentazione dei nomi
stanno in un unico magazzino lessicale e sono legati tra loro da legami
associativi del tutto uguali a quelli che uniscono nomi con nomi e verbi con
verbi.
Stando così le cose, quando un afasico cercherà di denominare un’azione, il
nodo lessicale corrispondente si attiverà, ma a volte esso non potrà essere
recuperato a causa della lesione alla sua etichetta categoriale (“verbo”), senza la
quale il lemma non può trovare una sistemazione nella frase.
Quando il lemma di un verbo non è recuperabile, è probabile che si attivino i
lemmi di altre parole, semanticamente relate a quella non recuperata.
I nodi semanticamente relati sono, però, sia nomi che verbi: se le etichette
lessicali dei nomi sono meno danneggiate, è più probabile che sarà selezionato
un nome, che ne sarà recuperato il lessema (vedi teoria di Levelt et al. (1999) al
capitolo 2) e la corrispondente sequenza fonologica; questo meccanismo porterà
piuttosto spesso alla produzione di nomi relati al verbo-target.
Ovviamente, essendo la lesione delle etichette lessicali verbo di entità
variabile e, comunque, mai totale, potranno essere prodotte anche delle risposte
corrette o delle parafasie semantiche.
Questa ipotesi prevede necessariamente un numero piuttosto rilevante di
scambi sintagmatici (N_V e S/Ogg) e non sembra, perciò, essere applicabile ai
DMV.
132
Essi, infatti, come abbiamo visto, non producono quasi mai un verbo per un
nome quando denominano gli oggetti: molto più frequentemente, non riescono a
recuperare nulla oppure producono elementi stereotipati. Sembra, quindi, che i
DMV “sappiano” in modo implicito di dover produrre un nome, cosa che
permette loro di non scivolare mai sulla categoria opposta.
Potremmo dire, quindi, che i DMV non hanno quel deficit che abbiamo
ipotizzato nei DMN e cioè un problema a livello del lemma che causa la perdita
delle informazioni riguardanti la classe lessicale: sembrerebbe che il loro deficit
sia più periferico, più spostato verso il livello del lessema, e quindi non tale da
compromettere le informazioni sulla categoria grammaticale.
In questo senso và anche il dato per cui la variabile lessicale che più
influenza la prestazione dei DMV è la frequenza (Luzzatti et al., 2002) che in
letteratura è stata indicata come caratteristica non tanto del livello semantico o
lessicale-sintattico, ma di un livello lessicale-fonologico (Berndt et al., 1997).
Scivolamento sul nome e capacità di produrre verbi. Se davvero il problema
dei DMN fosse a livello del lemma e si realizzasse nel modo ipotizzato,
dovremmo aspettarci un numero tanto maggiore di scivolamenti sul nome
quanto più è grave la lesione dell’etichetta verbo. In altre parole, più grande è il
deficit delle etichette lessicali verbali, maggiore sarà la probabilità di selezionare
nomi relati al target piuttosto che verbi relati al target in caso di errore.
Ci aspettiamo, quindi, una correlazione negativa tra la capacità generale di
produrre verbi e il numero di scivolamenti sul nome.
Un modo piuttosto diretto per “misurare” la capacità generale di produrre
verbi è contare il numero di volte che un paziente è riuscito a dire un verbo
133
quando doveva denominare un’azione, indipendentemente dal fatto che questo
verbo fosse giusto o sbagliato.
Concretamente, quindi, ci aspettiamo una correlazione negativa tra il numero
di verbi prodotti in totale nel compito di denominazione delle azioni e il numero
di scivolamenti sul nome rispetto al totale degli errori commessi: infatti,
secondo il nostro modello esplicativo, meno verbi un paziente produce in totale,
maggiore sarà il deficit all’etichetta lessicale verbo, maggiore la probabilità che,
tra i nodi lessicali attivati dall’immagine del test di denominazione, ne sia
selezionato uno nominale.
In realtà, così non è! La correlazione tra le due grandezze è molto bassa
(vedi Figura 12); non solo, ma nemmeno i modelli non-lineari (polinomiali di
grado maggiore o uguale a due, logaritmici, esponenziali) riescono a spiegare
più del 30% della varianza dei dati. Possiamo dire con realtiva certezza che le
due variabili considerate sono indipendenti.
Alla luce dei dati, quindi, sembra evidente che lo scambio sintagmatico (la
produzione di un nome al posto di un verbo nella denominazione delle azioni) è
un fenomeno indipendente dalla capacità generale di recuperare verbi.
Ricordo ancora che, anche assumendo modelli psicolinguistici diversi da
quello di Levelt et al. (1999), ad esempio modelli che prevedono due magazzini
lessicali separati e interconnessi per nomi e verbi, l’osservazione non perde il
suo valore teorico e resta interessante per la corretta interpretazione del
fenomeno dissociativo.
134
2.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia
Due profili differenti. Anche occupandoci delle sindromi afasiche e del loro
rapporto con la dissociazione nomi-verbi ci imbattiamo in una contrapposizione
tra due tipi di profili qualitativi piuttosto diversi.
I due quadri d’errore che emergono sono gli stessi che si notavano nel
confronto tra DMV e DMN: uno ricco di scambi sintagmatici e uno
caratterizzato dalla tendenza alla produzione di scambi paradigmatici.
Da una parte, abbiamo gli amnestici DMN che sembrano comportarsi nella
denominazione delle azioni come i DMV facevano nella denominazione degli
oggetti: essi fanno solo il 3% di scambi categoriali (il 5% di tutti gli errori
commessi), producono più parafasie semantiche che scambi di classe (17%
contro 3%) e riescono a produrre un verbo il 78% delle volte che devono
denominare un’azione.
Sull’altro versante si pongono gli afasici di Wernicke e agrammatici, i quali,
al contrario, fanno più scambi categoriali che parafasie (rispettivamente, 24%
contro 13% e 26% contro 15%) e scivolano su un nome molto più spesso degli
afasici amnestici (nel 29% degli errori gli afasici di Wernicke, nel 41% errori gli
agrammatici).
Sembra, quindi, che anche all’interno della dissociazione-meglio-nomi siano
presenti modi diversi di sbagliare, anche se non si associano, come avremmo
previsto, uno agli agrammatici e uno agli afasici di Wernicke.
Torneremo su questo punto tra poco, dopo aver sottolineato una prima
conseguenza di questo dato.
Ora non abbiamo più a che fare con due categorie lessicali diverse, ma con
una sola: quindi, non può più essere avanzata l’ipotesi esplicativa di un unico
135
meccanismo di disturbo che dà origine a quadri d’errore diversi perché colpisce
due componenti del sistema linguistico molto diverse tra loro. Dobbiamo
necessariamente ammettere l’esistenza di due diversi meccanismi di comparsa
del deficit principale.
Agrammatici e afasici di Wernicke. Appurata l’esistenza di due meccanismi
dissociativi diversi, occupiamoci di vedere se essi associano in modo
preferenziale con qualcuna delle diverse sindromi afasiche.
I dati ottenuti sottolineano un’evidente asimmetria tra la prestazione degli
afasici amnestici da un lato e quella degli afasici di Wernicke e degli
agrammatici dall’altro. Il gruppo degli afasici amnestici è, però, troppo piccolo
per essere considerato rappresentativo e quindi non avrebbe molto senso
discutere il confronto suggerito dai dati: i risultati emersi potrebbero essere
causati dalla particolarità di questi due pazienti.
Più interessante è sicuramente il confronto tra agrammatici e afasici di
Wernicke sia per via della maggiore rappresentatività dei campioni che per
alcune ragioni teoriche.
Come abbiamo anticipato nell’introduzione, questi due gruppi hanno dei
quadri patologici molto diversi tra loro: gli agrammatici sono pazienti afasici
non fluenti, costruiscono strutture frasali molto semplici, hanno grosse difficoltà
sintattiche e/o morfologiche, mentre gli afasici di Wernicke sono fluenti, sanno
costruire anche frasi relativamente lunghe e complesse, manifestano problemi a
livello soprattutto lessicale, fonologico e semantico, con relativo risparmio della
sintassi (vedi pagine 54 e 58).
136
La diversità dei quadri sindromici non vieta, ovviamente, che entrambi
manifestino una superiorità ai nomi, ma lascia legittimamente prevedere che il
fenomeno emerga in modo differente.
Inoltre, i pazienti considerati in questo studio manifestavano delle lesioni
notevolmente differenti: gli agrammatici avevano lesioni perisilviane sinistre
molto ampie che andavano praticamente a distruggere tutte le aree linguistiche,
mentre gli afasici di Wernicke mostravano o lesioni corticali limitate alle aree
temporo-parietali, nelle vicinanze del giro sovramarginale o lesioni
esclusivamente sottocorticali in corrispondenza della corteccia insulare.
A maggior ragione, quindi, ci aspettavamo delle differenze tra questi due
gruppi: prevedevamo che gli agrammatici avrebbero fatto molti scambi di
categoria e poche parafasie, che non avrebbero quasi mai costruito strutture
frasali (poche circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt), che avrebbero mostrato un grosso
effetto di immaginabilità (forse dovuto all’emergenza delle capacità linguistiche
dell’emisfero destro), mentre gli afasici di Wernicke avrebbero mostrato buone
strutture frasali, pochi scambi di categoria e molte parafasie.
Considerando sia i risultati dell’analisi quantitativa che quelli dell’analisi
qualitativa dei dati, non si notano le differenze attese: entrambi i gruppi
manifestano l’effetto di immaginabilità e non di frequenza d’uso, per entrambi
gli errori più comuni sono gli scambi sintagmatici, che vengono commessi
molto più spesso di quelli paradigmatici, entrambi fanno all’incirca lo stesso
numero di parafasie semantiche e verbali.
Le uniche differenze riguardano la maggior frequenza di circonlocuzioni e
S/Ogg+Vppt negli afasici di Wernicke (probabilmente legate al fatto che questi
pazienti sono fluenti) e il maggior numero di risposte nulle sempre nei pazienti
con afasia di Wernicke.
137
Agrammatici e meccanismo dissociativo. In realtà, c’è un’altra differenza
tra i due gruppi di afasici che non risalta in modo esplicito dai profili d’errore.
Nel paragrafo 2.3.1 dicevamo che un requisito necessario per dare qualche
credito all’ipotesi di meccanismo dissociativo esposta a pagina 131 (deficit a
livello del lemma con perdita delle informazioni sulla classe grammaticale) era
la presenza di una correlazione negativa tra il numero di scivolamenti sul nome
e il numero totale di verbi prodotti nella denominazione delle azioni;
correlazione che non è stata trovata nell’intero campione di DMN dello studio.
In realtà, se consideriamo solo i DMN agrammatici, questa correlazione
inversa è presente (r = -.68, vedi pagina 127): il dato non raggiunge la
significatività statistica (p = .21), ma è così diverso da quello ottenuto con tutti i
DMN (r = -.24) e con i Wernicke (r = .21) da non poter essere trascurato.
Il dato è di difficile interpretazione: certo non prova che il meccanismo
dissociativo ipotizzato (lesione a livello del lemma con deficit delle etichette di
categoria lessicale) agisce davvero negli agrammatici e non nei Wernicke, ma
l’indicazione che fornisce va in questa direzione.
2.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia
L’interpretazione dei risultati riguardanti i DMV è più incerta data la
dimensione ridotta del campione.
138
In particolare, essendo un solo afasico di Wernicke dissociato a favore dei
verbi, devo considerare i dati ottenuti su di lui come dati non generalizzabili, ma
informativi solo su quel paziente.
Egli produce soprattutto risposte nulle (40%) e parafasie semantiche (23%),
dimostrando una capacità di produzione dei nomi non particolarmente brillante
(ha risposto con un nome al 57% degli item e nel 48% degli errori), ma
decisamente migliore di quella degli amnestici. Questi, infatti, producono un
nome solo il 38% delle volte che devono denominare un oggetto (il 19% degli
errori), mentre producono molte più risposte nulle (51%).
Questi dati non sembrano in grado di darci suggerimenti sul possibile
meccanismo dissociativo specifico in atto negli amnestici e nei dissociatimeglio-verbi con afasia di Wernicke né sembrano evidenziare asimmetrie simili
a quelle rilevate tra DMV e DMN e all’interno dei DMN tra amnestici,
agrammatici e Wernicke.
2.4 Profili di singoli soggetti
Tutti i dati discussi fino ad ora sono stati ottenuti su profili medi, costruiti,
cioè, aggregando i profili dei soggetti per sindrome afasica; era, perciò,
importante verificare la distribuzione dei profili dei singoli pazienti.
In particolare, volevamo dimostrare che:
 esistono davvero due principali tipi di profili d’errore differenti tra
loro: abbiamo, quindi, cercato se tra i profili singoli ce ne fosse
qualcuno paradigmatico per ciascuna delle due tendenze osservate
139
nei profili medi (quella a scivolare verso il nome e quella a produrre
parafasie o riposte nulle).
 ciascuno dei due profili è tipicamente presente in determinati tipi di
dissociazione e in determinati tipi di afasia.
2.4.1 Due profili contrapposti
Consideriamo la prestazione al compito di denominazione delle azioni dei
soggetti FC e GP (vedi Appendice).
Entrambi sono dissociati-meglio-nomi; FC ha un’afasia di Broca con
agrammatismo, mentre GP è uno di quei soggetti che non era stato possibile
classificare in una classica sindrome afasica.
In Tabella 7 sono riportati i loro profili.
Come si può vedere in modo piuttosto chiaro essi hanno una prestazione
abbastanza scadente e circa pari quantitativamente (30% di risposte corrette FC
e 37,5% GP).
I loro profili d’errore sono però nettamente diversi, essendo uno dominato
dagli scambi di categoria (produzione di nomi al posto di verbi) e uno
caratterizzato più dalle parafasie e dalle risposte nulle; mentre FC tende in modo
netto a produrre nomi al posto di verbi (N_V e S/Ogg costituiscono il 42% di
tutto il profilo) GP non presenta questa tendenza (i due errori citati sopra
riguardano solo il 7,5% delle risposte), ma riesce a produrre spesso un nome
anche quando sbaglia la denominazione (parafasie semantiche, parafasie verbali
e latenze, le quali prevedono la produzione di un nome scorretto o recuperato
dopo più di tre secondi dallo stimolo, coprono il 32,5% del profilo).
140
Abbiamo quindi visto come i due profili tipici rivelati dall’analisi dei
profili medi non siano un artefatto derivato dall’aggregazione dei dati, ma, al
contrario, caratterizzino una contrapposizione reale tra due modalità
“preferenziali“ di errore.
2.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi
Queste “modalità preferenziali” d’errore si associano davvero a determinati
tipi di afasia e di dissociazione come i profili aggregati sembrano suggerire?
Per rispondere a questa domanda abbiamo cercato di capire quanti tra i
componenti di ciascun gruppo manifestano un profilo d’errore in linea con
quello medio del gruppo stesso; i dati sono riassunti in Tabella 8.
Tabella 7: profili qualitativi d’errore di FC, paziente con agrammatismo e GP, non classificato.
R+
Latenza
N_V
S/Ogg
FC (Agr) num
12
2
9
8
1
1
3
0
0
3
1
0
perc
30
5
22,5
20
2,5
2,5
7,5
0
0
7,5
2,5
0
GP (NC) num
15
2
3
0
0
1
9
2
0
6
1
1
5
7,5
0
0
2,5
22,5
5
0
15
2,5
2,5
perc 37,5
S/Ogg+ Vppt Circ
PS-cat+
PV-cat+ Neol
Ø
Visivo Altro
141
Come si può vedere, la tendenza indicata dai profili aggregati non è sempre
confermata dai profili singoli.
Il gruppo dei DMV sembra essere il più omogeneo: cinque dei sei
componenti presentano un profilo d’errore “tipico”, mentre uno soltanto (APr) si
discosta da esso. Inoltre, il profilo di APr è diverso, ma non contrapposto a
quello medio dei DMV: in sostanza, non presenta molti scivolamenti sul verbo
(scambi sintagmatici).
Il gruppo degli amnestici DMN è costituito da soli due soggetti che, per
giunta, non si comportano nello stesso modo: il profilo del paziente AC è
dominato dalle parafasie, mentre quello di GM dalle risposte nulle. Per questa
ragione non è possibile parlare di un vero e proprio “profilo medio dei DMN
amnestici”.
Gli altri due gruppi di DMN non sembrano godere di omogeneità,
considerando che presentano al loro interno degli afasici con un profilo opposto
a quello previsto: è il caso, ad esempio, di LR, dissociato-meglio-nomi e afasico
di Wernicke, che presenta una netta prevalenza di risposte nulle e parafasie a
fronte di solo tre scivolamenti sul nome.
In conclusione, possiamo dire che le associazioni tra tipi di errore e tipo di
dissociazione/afasia che i profili medi aggregati ci hanno suggerito sembrano
essere relativamente affidabili (fatta eccezione per il gruppo dei DMN
amnestici): la maggioranza dei soggetti di ciascun gruppo si comporta, infatti,
come il profilo medio del gruppo stesso lascia prevedere. Esistono, tuttavia,
eccezioni significative e non rare che sottolineano come quelle associazioni non
siano assolute, ma siano piuttosto da considerare come semplici tendenze.
142
Tabella 8: i profili dei singoli pazienti rispettano quelli aggregati della classe cui appartengono?
GRUPPI
PROFILO MEDIO
N° TOTALE
N° PROFILI SOGGETTI CON PROFILI NON
TIPICI
TIPICI
DMV ai
nomi
Netta prevalenza di risposte nulle;
qualche parafasia semantica e
qualche circonlocuzione; nessuno
scivolamento su verbo.
6
5
Apr: molte parafasie, pochissime
risposte nulle
DMN
amnestici ai
verbi
Prevalenti risposte nulle e parafasie;
qualche latenza e scivolamento su
nome (non più della metà delle
parafasie).
2
0
GM: più risposte nulle che parafasie.
AC: più parafasie che risposte nulle.
3
LZ: più parafasie che scivolamenti
sul nome
MBI: stesso numero di parafasie e
scambi categoriali; molte risposte
nulle
4
LR: netta prevalenza di risposte nulle
e parafasie
CB: molte più parafasie che scambi
SM: stesso numero di parafasie e
scambi; molte risposte nulle
DMN
Prevalenza di scambi categoriali,
agrammatici (circa il doppio delle parafasie);
ai verbi
qualche latenza e risposta nulla.
DMN
Wernicke
ai verbi
Netta prevalenza di scambi
categoriali su parafasie (circa il
doppio delle parafasie);numero
consistente di risposte nulle.
5
7
2.5 Conclusioni
In conclusione, che cosa ci hanno detto i dati qualitativi a proposito delle
domande che ci eravamo posti all’inizio del lavoro?
Il risultato più evidente e forte (anche in senso statistico) sembra essere la
presenza di due diversi pattern di errore ricorrenti, uno caratterizzato dalla
tendenza a sbagliare producendo, però, una parola della giusta classe lessicale o
non producendo nulla e uno caratterizzato invece dalla tendenza a cambiare
143
classe grammaticale e a produrre comunque un lemma della classe lessicale
meno danneggiata.
L’interpretazione di questo dato può essere duplice, come abbiamo visto:
potrebbero dare origine a questo quadro sia due deficit cognitivi realmente
diversi sia un deficit cognitivo unico, che, però, ha due diversi meccanismi di
azione, dovuti, per esempio, alle differente organizzazione cognitiva delle
rappresentazioni lessicali di nomi e verbi.
I due quadri contrapposti, però, sono presenti anche all’interno della stessa
dissociazione (quella meglio-nomi), dove evidentemente la struttura cognitiva
colpita è la stessa (il magazzino dei verbi): di conseguenza, l’ipotesi secondo cui
le differenze qualitative emergono per via del diverso locus del deficit non può
essere sostenuta.
Esistono, dunque, due diversi meccanismi dissociativi: ma quali sono? che
caratteristiche hanno?
Qui i risultati sono meno chiari.
I profili d’errore caratterizzati dagli scambi sintagmatici ci hanno fatto
immaginare un deficit delle etichette lessicali a livello del lemma, che
comprometterebbe le informazioni a proposito della classe grammaticale e altre
informazioni sintattico-lessicali, come la griglia dei ruoli tematici; questo tipo di
disturbo sembra rendere conto degli scambi di categoria e della povertà di
circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt (a causa della perdita dei ruoli tematici; Berndt,
1997).
Questo tipo di disturbo si manifesta solo nei DMN e ciò è coerente col fatto
che un deficit a livello del lemma dovrebbe disturbare maggiormente i verbi a
144
causa della maggiore complessità delle informazioni sintattico-lessicali
contenute nei lemmi dei verbi.
Questa ipotesi ha tuttavia dei problemi: in particolare, prevedrebbe una
correlazione negativa tra la capacità generale di produrre un verbo e il numero di
scivolamenti sui lemmi della classe nome; correlazione che non esiste, se non
nel gruppo degli agrammatici DMN.
I profili ricchi di parafasie e risposte nulle e poveri di scambi sintagmatici ci
hanno invece suggerito un deficit più periferico.
Infatti, la mancanza di scivolamenti sulla classe opposta sembra testimoniare
una conservazione delle informazioni sulla categoria lessicale dei lemmi: questi
pazienti “sanno” che devono produrre un nome oppure che devono produrre un
verbo e sanno valutare, se non altro in modo implicito, se la parola che stanno
per dire è un nome o un verbo. Questa competenza fa intuire che il livello del
lemma deve essere in qualche modo risparmiato in questi pazienti.
Da ultimo, i profili medi dei diversi gruppi facevano pensare alla presenza di
associazioni tra il profilo qualitativo d’errore e il tipo di dissociazione e di
afasia; in particolare, sembrava che i DMV tendessero a fare scambi
paradigmatici, mentre i DMN con afasia di Wernicke e i DMN agrammatici
tendessero a fare scambi sintagmatici.
L’analisi dei singoli profili dei pazienti non ha confermato con chiarezza
queste associazioni, anzi ne ha ridimensionato la forza: esse sono tendenze
significative, rispettate dalla maggioranza dei soggetti, ma anche caratterizzate
da non rare eccezioni di un certo interesse teorico (come i soggetti LR,
Wernicke atipico, e LZ, agrammatico atipico).
Riassumendo, sembra che:
145
1. esistano due profili principali di errore, uno caratterizzato
prevalentemente da scambi categoriali, l’altro da parafasie
semantiche o verbali e da risposte nulle; essi testimoniano l’esistenza
per lo meno di due diversi meccanismi dissociativi, se non addirittura
di due diverse tipologie di dissociazione, originate da deficit di
diverso tipo.
2. i due meccanismi possano essere fatti risalire a deficit lessicali, ma a
livelli diversi: uno a livello del lemma (con relativa compromissione
delle etichette categoriali e delle informazioni sintattico-lessicali
come la griglia tematica, il numero o il tempo), l’altro ad un livello
più periferico (forse quello del lessema, dove non ci sono
informazioni lessicali-fonologiche).
3. il quadro d’errore spiegato con il deficit lessicale più periferico è
presente in ben 5 dei 6 pazienti afasici dissociati-meglio-verbi.
4. l’altro profilo, ricco di scambi sintagmatici, prevale nei dissociatimeglio-nomi, ma non si può dire che si associ con chiarezza ad esso
né ad alcuno dei sottogruppi che lo compongono (agrammatici e
afasici di Wernicke).
5. non sembrano esserci evidenti differenze nel modo di dissociare
degli agrammatici DMN rispetto agli afasici di Wernicke DMN,
nonostante molti indizi lo lasciassero prevedere; dobbiamo segnalare,
però, nei pazienti con agrammatismo e non in quelli con afasia di
Wernicke, la presenza di una buona correlazione tra capacità di
produzione dei verbi e numero di scivolamenti sul nome ad indicare
un deficit a livello del lemma.
146
2. Verifica delle ipotesi di Bird et al. (2000)
Abbiamo analizzato ancora i dati di Luzzatti et al. (2002) per verificare
l’ipotesi esplicativa della dissociazione nomi-verbi che Helen Bird, David
Howard e Sue Franklin hanno formulato nel loro lavoro del 2000.
Il loro studio è riassunto nel secondo capitolo: rimando ad esso per una
esposizione più completa dei presupposti teorici e delle verifiche sperimentali da
essi condotte. Qui, mi limiterò a ricordare le previsioni che scaturivano dal loro
ragionamento e a verificarle nei soggetti dell’esperimento di Luzzatti et al.
(2002).
Nel loro articolo del 2000, Why is a verb like an inanimate object?, Bird et
al. hanno sostenuto che la dissociazione nomi-verbi non è un vero fenomeno
categoriale, quanto piuttosto la conseguenza di una serie di fatti indipendenti tra
loro:
 a volte gli afasici manifestano un effetto di immaginabilità molto
ampliato dal danno cerebrale per cui denominano molto meglio
oggetti e azioni altamente immaginabili che oggetti e azioni non
facilmente immaginabili.
 nomi e verbi sono definiti semanticamente da un insieme di
caratteristiche (features) che possono essere sensoriali (sensory
features) o funzionali (functional features).
147
 lesioni cerebrali possono esitare in un danno relativamente selettivo
per le functional features piuttosto che per le sensory features e
viceversa.
 i nomi naturali, rispetto a quelli artificiali, sono maggiormente definiti
attraverso sensory features piuttosto che functional features.
 i nomi, nel loro complesso, sono definiti più dalle sensory features
che dalle functional features; al contrario, i verbi sono maggiormente
definiti attraverso functional features.
 nel loro insieme, i nomi sono più immaginabili dei verbi.
Secondo questi presupposti, si possono configurare quattro diversi scenari di
dissociazione in seguito ad un danno cerebrale:
1. DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES
danno prevalente ai nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti
artificiali; i nomi nel loro complesso dovrebbero essere penalizzati da
questo deficit, ma in realtà ciò non avviene perché la loro maggiore
immaginabilità compensa l’effetto della perdita delle sensory
features.
2. DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES
danno
netto dei nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti artificiali;
il deficit delle sensory features è molto profondo così che la maggior
immaginabilità dei nomi non compensa più il suo effetto, ma solo lo
attutisce: nomi denominati peggio dei verbi.
3. DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES
danno
prevalente ai nomi di manufatti rispetto ai nomi di oggetti naturali e
148
dei verbi rispetto ai nomi; generalmente, nomi di manufatti meglio
dei verbi per la loro maggiore immaginabilità.
4. DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO-LESSICALE
(con marcato effetto di immaginabilità)
nomi naturali e di
manufatti piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior
sensibilità all’immaginabilità creata dal deficit.
Nello studio di Luzzatti, per 3 dei 6 dissociati-meglio-verbi, l’effetto di
classe grammaticale spariva se l’analisi veniva effettuata al netto della frequenza
d’uso; allo stesso modo, per 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi, l’effetto di classe
grammaticale scompariva alla regressione logistica multivariata se i punteggi
venivano corretti per immaginabilità: in sostanza, soltanto due afasici DMV e
due afasici DMN sembravano essere “genuinamente” dissociati, al di là del forte
effetto di frequenza d’uso o di immaginabilità.
I due afasici DMN che restavano dissociati anche dopo la correzione per
immaginabilità dovrebbero essere, secondo Bird, proprio quei dissociati che
manifestano tale fenomeno non solo per un effetto di immaginabilità molto
marcato; ci deve essere, dunque, un danno selettivo delle functional features e,
perciò, ci aspettiamo che entrambi mostrino una dissociazione a favore dei nomi
naturali rispetto ai nomi artificiali.
Al contrario, se negli altri 18 dissociati-meglio-nomi è l’effetto di
immaginabilità a spiegare interamente la diversa prestazione ai nomi e ai verbi,
non dovremmo mai trovare dissociazioni-meglio-naturali.
Abbiamo cercato di verificare queste previsioni con una nuova analisi dei
dati raccolti su 58 pazienti (confronta Luzzatti et al., 2002).
149
1. Materiali e metodi
In questa analisi dei risultati raccolti su 58 pazienti afasici, non abbiamo
considerato solo coloro che erano risultati dissociati, ma tutti i pazienti che
erano stati sottoposti al compito di denominazione.
Ricordo brevemente le caratteristiche del campione e del compito.
Sono stati considerati per questo studio 58 pazienti afasici, 20 dei quali
erano dissociati-meglio-nomi e 6 dissociati-meglio-verbi.
Di questi 58 soggetti, 36 soffrivano di una forma afasica fluente (13 erano
afasici amnestici e 23 afasici di Wernicke), 15 di una forma afasica non-fluente
(6 pazienti erano anche agrammatici) e 7 erano pazienti che non era stato
possibile classificare con chiarezza.
I soggetti sono stati sottoposti ad un compito di denominazione di oggetti
(30) e azioni (40) le cui caratteristiche metriche sono esposte a pagina 104.
I risultati sono stati analizzati nel modo quantitativo classico, classificando
le risposte attraverso la dicotomia corretto/sbagliato: in particolare, abbiamo
concentrato la nostra attenzione sulla rilevazione delle dissociazioni nomi/verbi
e delle dissociazioni oggetti naturali/oggetti artificiali.
2. Risultati
I risultati sono riassunti in Tabella 9.
Come si può vedere, soltanto uno dei sei dissociati-meglio-verbi è anche
dissociato-meglio-artificiali, come l’ipotesi birdiana vorrebbe.
150
Allo stesso modo, soltanto uno dei venti dissociati-meglio-nomi è anche
dissociato-meglio-naturali.
3. Discussione
Soltanto un soggetto sui sei dissociati-meglio-verbi è anche dissociato a
favore dei nomi artificiali: nel modello di Bird et al. questo è difficile da
giustificare, dato che la dissociazione a favore dei verbi, essendo essi meno
immaginabili dei nomi, è necessariamente legata ad un deficit degli aspetti
sensoriali (sensory features) dei concetti e questo deficit non può che esitare,
sempre nel modello birdiano, in una ulteriore dissociazione a favore dei nomi
artificiali rispetto a quelli naturali.
Tabella 9: dissociazioni nomi-verbi e dissociazioni oggetti naturali-oggetti artificiali.
Come si vede, le ipotesi di Bird non sono verificate.
artificiali > naturali artificiali = naturali artificiali < naturali TOTALE
nomi < verbi
1 (17%)
5 (83%)
0
6
nomi = verbi
2 (6%)
27 (84%)
3 (10%)
32
nomi > verbi
5 (25%)
14 (70%)
1 (5%)
20
TOTALE
8
46
4
58
151
Le previsioni di Bird et al., dunque, sembrano non essere confermate da
questi dati.
Per spiegare l’assenza in quasi tutti i DMV della dissociazione-meglioartificiali bisognerebbe ipotizzare che una maggiore immaginabilità (o l’effetto
di una qualche altra variabile lessicale o sub-lessicale) dei nomi naturali abbia
compensato il deficit: questo, però, non è possibile dato che l’immaginabilità e
le altre variabili lessicali sono bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella
batteria utilizzata (Tabella 10).
Allo stesso modo, l’associazione presunta tra migliore prestazione ai nomi
rispetto ai verbi e migliore prestazione ai nomi naturali rispetto a quelli
artificiali non è verificata: solo un soggetto su 20 (5%) manifesta entrambe le
dissociazioni.
Questo potrebbe significare, nella prospettiva birdiana, che i nostri
dissociati-meglio-nomi siano in realtà pazienti con una grande sensibilità
all’immaginabilità e non pazienti con una vera dissociazione “semantica” dovuta
al danno delle sensory features.
Tabella 10: variabili lessicali bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella batteria di
Luzzatti et al. (2002)
Media nomi Media nomi
artificiali
naturali
p (K-S)
FU
7,40
5,87
n.s.
IMM
6,27
6,37
n.s.
AOA
3,97
3,76
n.s.
FAM
5,60
5,50
n.s.
152
Questa ipotesi potrebbe essere vera: infatti, l’analisi della regressione
logistica univariata evidenzia come tutti i 20 soggetti dissociati-meglio-nomi
subiscano un effetto di immaginabilità, mentre soltanto due dei 6 pazienti che
denominavano meglio i verbi avevano un effetto immaginabilità significativo.
Di fatto, quindi, tutti i pazienti DMN mostrano un marcato effetto di
immaginabilità: è del tutto plausibile che la loro dissociazione sia dovuta a
questo, come dovremmo sostenere se assumessimo la prospettiva di Bird,
Howard e Franklin.
Inoltre, se osserviamo l’esito dell’analisi della regressione logistica
multivariata (che analizza, invece che ciascuna variabile singolarmente, tutte le
variabili insieme), ci accorgiamo che in ben 18 dissociati-meglio-nomi l’effetto
di classe grammaticale sparisce se viene corretto per l’immaginabilità: in altre
parole, anche le analisi statistiche supportano l’idea che la diversa prestazione
nella denominazione di nomi e verbi sia, in questi 18 afasici, dovuta ad un forte
effetto di immaginabilità e non alla diversa classe grammaticale delle parole.
Ora, però, osserviamo il rovescio della medaglia: l’analisi della regressione
logistica multivariata ci ha detto anche che due pazienti sono davvero dissociatimeglio-nomi, nel senso che, per loro, l’immaginabilità non basta a spiegare la
differente prestazione nella denominazione degli oggetti e delle azioni.
Se l’immaginabilità non spiega interamente la dissociazione, dobbiamo
ipotizzare che qualcosa d’altro lo faccia: secondo l’ipotesi di Bird, questo
“qualcosa d’altro” non può che essere il danno delle functional features.
Ma se è così, allora questi due pazienti (UB e RB) dovrebbero mostrare
anche la dissociazione-meglio-naturali: ciò, però, non accade. Infatti, UB
denomina correttamente 12 dei 15 oggetti artificiali e 14 dei 15 oggetti naturali
153
(p = .59 n.s. al p esatto di Fisher), mentre RB denomina correttamente 10 dei 15
oggetti artificiali e 11 dei 15 oggetti naturali (p = .5 n.s. al p esatto di Fisher).
In conclusione, nessuna delle tre ipotesi formulate all’inizio del paragrafo
sulla base del modello birdiano della dissociazione nomi-verbi sembra essere
confermata dai risultati di Luzzatti et al. (2002).
4. Conclusione
In questa sezione, abbiamo controllato alcune previsioni che scaturiscono
dall’interpretazione teorica della dissociazione nomi-verbi formulata da Bird,
Howard e Franklin nel loro lavoro del 2000.
Essi sostengono che un deficit selettivo ai verbi non debba essere visto come
la manifestazione di una organizzazione separata a livello semantico o lessicale
dei nomi e dei verbi nel sistema cognitivo, ma come conseguenza di un forte
effetto di immaginabilità e della diversa distribuzione delle caratteristiche
sensoriali e funzionali che definiscono i concetti dei nomi e dei verbi.
Questa ipotesi ha originato tre previsioni che abbiamo controllato sui dati
ottenuti in un test di denominazione di azioni e oggetti (confronta Luzzatti et al.,
2002): nessuna di esse ha retto alla verifica sperimentale.
Ne dobbiamo dedurre che l’interpretazione di Bird non può spiegare i
pazienti qui considerati; essi sembrano meglio inquadrabili in una spiegazione
teorica che faccia riferimento, oltre che alle differenze di immaginabilità e
frequenza d’uso, al livello lessicale e che preveda una distinzione tra nomi e
verbi basata non soltanto su differenze di natura semantica (come erano quelle
154
fondate sulla dicotomia sensory/functional features), ma anche di natura
sintattica (ad esempio, riguardanti la struttura argomentale).
155
4
STUDIO SULLA
DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN
UN GRUPPO DI PAZIENTI
AFASICI ATTRAVERSO UN TEST
DI RECUPERO LESSICALE IN UN
COMPITO DI COMPLETAMENTO
DI FRASI (RNV-CF)32
La nuova analisi dei risultati ottenuti dal compito di denominazione condotto
da Luzzatti et al. (2002) ha fornito preziose indicazioni a proposito del
meccanismo patologico attraverso cui emerge la dissociazione e a proposito del
locus funzionale del deficit.
Abbiamo visto che i dati propendono a favore di un deficit non semantico
(per lo meno, non nei termini in cui lo ipotizzavano Bird, Howard e Franklin) e,
32
Per questo capitolo ringrazio in modo particolare la dott.ssa Lisa Saskia Arduino che si è
occupata direttamente della preparazione della prima lista dei verbi per il test di denominazione
e della lista degli item per il test RNV-CF e che mi ha guidato e accompagnato con pazienza ed
entusiasmo nella raccolta e nell’elaborazione dei dati normativi delle due batterie.
Ringrazio, inoltre, il prof. Claudio Luzzatti, il prof. Fabio Madeddu e il dott. Lorenzo
Montali e per il tempo che mi hanno concesso al termine delle loro lezioni per lo svolgimento
dello studio pilota e il prof. Pietro Rizzi per l’aiuto che ci ha dato nella preparazione dei disegni.
Inoltre, ringrazio i servizi di Recupero e Rieducazione Funzionale dell’ospedale di Legnano,
dell’ospedale di Passirana di Rho e del Centro Medico della Fondazione S. Maugeri a
Montescano e il servizio di neurospicologia dell’ospedale Valduce di Costamasnaga. In
particolare, ringrazio Mariarosa Colombo, Graziella Ghirardi, Mariangela Taricco, Giusy Zonca
e Mariagrazia Inzaghi
156
molto probabilmente, non sempre uguale in tutti i pazienti, almeno a giudicare
dai modi molto diversi di sbagliare che i dissociati manifestano.
In particolare abbiamo ipotizzato che il deficit che provoca la dissociazione
possa intervenire a livello del lemma, compromettendo le etichette che
specificano la categoria grammaticale e le informazioni sintattico-lessicali come
la griglia tematica, il numero o la persona (confronta Levelt, 1999); in questo
senso vanno dati come il gran numero di scambi categoriali, la difficoltà nel
costruire strutture frasali (poche circonlocuzioni) e l’importanza del fattore
immaginabilità.
In alternativa, il disturbo potrebbe avvenire ad un livello lessicale più
periferico (quello del lessema), senza quindi compromettere le informazioni
sulla classe grammaticale, come testimoniano i pochi scambi sintagmatici, la
netta prevalenza di scambi paradigmatici e l’importanza dell’effetto frequenza
riscontrati in alcuni dissociati.
Questo secondo tipo di deficit è manifestato in particolare da 5 dei 6 pazienti
dissociati-meglio-nomi (DMN); il primo, invece, quello cioè che coinvolge il
livello del lemma, non sembra associarsi in modo chiaro a nessuno dei gruppi di
soggetti afasici coinvolti nello studio.
In particolare, eravamo interessati al confronto tra i dissociati-meglio-verbi
(DMV) con afasia di Wernicke e i dissociati-meglio-verbi con agrammatismo:
nell’analisi qualitativa, non sembrano emergere elementi che distinguano con
chiarezza i meccanismi di dissociazione in atto in questi due tipi di afasia.
A questi dati, và aggiunto quello sottolineato già nello studio di Luzzatti et
al. (2002), oltre che in molti altri studi presenti in letteratura: l’immaginabilità è
un fattore importante nel determinare la prestazione al compito di
157
denominazione dei pazienti DMN, al punto che in qualche caso (addirittura in
18 pazienti su 20 in alcuni lavori) la differente prestazione ai nomi e ai verbi
sembra essere un effetto secondario dell’immaginabilità piuttosto che un
“genuino” effetto di classe grammaticale.
Come si può vedere, i dati emersi dall’analisi qualitativa sono ricchi di
preziose informazioni per l’interpretazione del fenomeno della dissociazione
nomi-verbi e per la comprensione della struttura del sistema lessicale umano.
A questo punto, due sono i fattori che ci interessa indagare ulteriormente:
innanzitutto, vogliamo controllare le impressioni avute nell’analisi qualitativa a
proposito del fatto che il deficit a monte della dissociazione possa localizzarsi
sia a livello del lemma che a livello del lessema e poi vogliamo capire un po’
meglio l’intricata relazione che è emersa tra dissociazione nomi-verbi e
immaginabilità.
Per raggiungere il primo obiettivo, abbiamo deciso di usare un test di
recupero lessicale in un contesto frasale: le informazioni depositate a livello del
lemma sono, infatti, molto importanti per la costruzione della frase, mentre non
si può dire la stessa cosa per le informazioni conservate a livello del lessema.
Dunque, ci aspettiamo che l’utilizzo di un contesto frasale permetta un
miglioramento della prestazione ai verbi dei DMN con deficit a livello del
lemma, mentre non crei cambiamenti evidenti nella prestazione ai verbi dei
DMN con deficit a livello del lessema.
Per controllare, invece, il contributo alla dissociazione dato dal fattore
immaginabilità, abbiamo bisogno di un test in cui nomi e verbi siano
perfettamente bilanciati per questa variabile.
158
Ciò che ci aspettiamo è che queste due novità abbiano un effetto sul
recupero lessicale dei pazienti che testeremo. In particolare, se le indicazioni
emerse dall’analisi qualitativa sono veritiere, ci aspettiamo che:
1. alcuni pazienti manifestino una dissociazione solo in test non
bilanciati tra nomi e verbi per immaginabilità, non mostrando più
questa caratteristica se testati con prove bilanciate.
2.
almeno alcuni dissociati-meglio-nomi presentino un miglioramento
della prestazione ai verbi in un test che preveda un contesto sintattico
di aiuto rispetto alla semplice prova di denominazione di figure.
Da quanto detto sopra a proposito delle prove che vogliamo impiegare in
questo studio, emerge con chiarezza che il test di denominazione
tradizionalmente usato per valutare le capacità di recupero lessicale non è
adeguato ai nostri scopi: ciò di cui abbiamo bisogno è, infatti, un test di recupero
lessicale che permetta un buon bilanciamento tra nomi e verbi per
immaginabilità e che coinvolga un contesto frasale, caratteristiche che il test di
denominazione su figura non possiede.
159
1. MATERIALI E METODI: il test di recupero lessicale di nomi e verbi in
un compito di completamento di frasi (RNV-CF)
In letteratura (anche in quella sulla dissociazione nomi-verbi) è stato spesso
usato il test di completamento di frasi come test di recupero lessicale in un
contesto sintattico (Berndt et al., 1997): questo tipo di prova, utilizzando come
cue non più una figura, ma una frase incompleta, permette inoltre di utilizzare
item a bassa immaginabilità con i quali sembra intuitivamente più abbordabile il
bilanciamento nomi-verbi per questa variabile.
Il difetto principale di questo test, dal nostro punto di vista, è la vasta
possibilità di risposta che il paziente afasico ha di fronte allo stimolo. Ad
esempio, nelle frasi utilizzate per elicitare un nome, si fornisce un soggetto e un
verbo e si chiede al paziente di produrre il complemento oggetto: quasi tutti i
verbi, però, permettono l’uso di molti complementi oggetti diversi, rendendo in
questo modo impossibile decidere a priori una sola risposta corretta. Questa
caratteristica rende impossibile il bilanciamento pre-somministrazione per le
variabili lessicali.
Inoltre, questo test è caratterizzato da un effetto facilitatorio ben noto: l’uso
di frasi da completare (“Si pianta il chiodo con il…”) facilita la produzione
lessicale nei pazienti afasici; è dunque possibile che gli stessi soggetti abbiano
prestazioni piuttosto diverse ad un test di questo tipo rispetto al più classico test
di denominazione di figure, pur valutando entrambi la capacità di recupero
lessicale.
Abbiamo quindi deciso di modificare il test di completamento di frasi, in
modo da favorire la presenza di un’unica risposta corretta: così nasce il test di
recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di completamento di frasi
160
(d’ora in avanti, R N V - C F ), di cui ora descriverò le caratteristiche,
concentrandomi prima sulle caratteristiche di ogni singolo item e poi sulla
struttura complessiva del test.
1.1 Il materiale
Ciascun item di questo test è costituito da due frasi che descrivono lo stesso
evento, una utilizzando un nome, una utilizzando il verbo corrispondente.
Ad esempio, due coppie di frasi usate nel test sono le seguenti:
(25)
“Dalla finestra si vede piovere”
(26)
“Dalla finestra si vede la pioggia”
(27)
“L’atleta si allena nel lancio della palla”
(28)
“L’atleta si allena a lanciare la palla”
Chiameremo stimolo o elemento critico il nome/verbo che cambia classe
grammaticale da una frase all’altra.
Queste due frasi vengono presentate su uno schermo accompagnate da una
figura che rappresenta la situazione descritta in esse e vengono, inoltre, lette
dall’esaminatore.
La prima frase di ogni coppia viene presentata interamente, mentre la
seconda presenta una lacuna in corrispondenza dello stimolo critico (Figura 14):
il soggetto viene poi invitato a completare oralmente la frase con l’elemento
mancante (lo stimolo critico, appunto).
161
Ciascuna coppia di frasi genera, poi, due item: infatti, al soggetto viene
chiesto di completare una frase col verbo avendo ascoltato e visto la frase
completa col nome, ma anche di completare la frase con un nome avendo
ascoltato e visto la frase completa col verbo.
In questo modo, dalle 45 coppie di frasi si costituiscono 90 trial: in 45 di essi
viene chiesto al paziente di produrre un nome, mentre negli altri 45 gli viene
chiesto di produrre un verbo.
1.2 La somministrazione
Il soggetto è seduto di fronte allo schermo di un computer: su di esso
compaiono gli stimoli della prova che, come abbiamo visto, sono costituiti dalle
due frasi e dal disegno. La prima frase è completa e ha lo stimolo critico
colorato di blu (se è un verbo) o di rosso (se è un nome), mentre la seconda
presenta dei puntini di sospensione in corrispondenza dello stimolo critico,
anch’essi colorati di blu o di rosso a seconda che sottendano un nome o un
verbo.
L’esaminatore legge quindi la prima frase sottolineando con l’intonazione lo
stimolo critico, poi legge la seconda in cui questo è omesso: il compito del
paziente è quello di completare la frase producendo proprio l’elemento critico,
cioè, il nome corrispondente al posto del verbo della prima frase o il verbo
corrispondente al posto del nome della prima frase.
162
1.3 La randomizzazione
Come abbiamo detto prima, ciascuna coppia di frasi viene presentata al
paziente nelle due direzioni: si chiede, in pratica, di completare la frase col
Figura 14: quattro esempi di stimolo fornito ai pazienti nella somministrazione del test RNV-CF:
in due di essi lo stimolo critico è in ultima posizione, mentre nelle altre due è in penultima. Le
frasi sottostanti le figure vengono lette dall’esaminatore.
Alla donna piace il pattinaggio
Alla donna piace ………
I soldati videro l’esplosione della bomba
I soldati videro ……… la bomba
Ho proposto al ragazzo di camminare
Ho proposto al ragazzo una ………
Abbiamo sentito starnutire il signore
Abbiamo sentito lo …….. del signore
163
nome partendo da quella col verbo e viceversa.
Ai 90 trial così costruiti si aggiungono tre coppie di frasi, utilizzate come
esempio, anch’esse somministrate nelle due direzioni: nel complesso, quindi, 90
trial più 6 esempi.
Essendo il test piuttosto lungo ed essendo esso costituito da trial simmetrici,
abbiamo deciso di spezzarlo in due sessioni, ciascuna da 45 item.
La prima sessione è composta dalla spiegazione del compito, da 3 item di
esempio da nome a verbo, dalle prime 23 coppie di frasi somministrate da nome
a verbo, da 3 item di esempio da verbo e nome e dalle altre 22 coppie di frasi
somministrate da verbo a nome; la seconda sessione ha una struttura speculare,
essendo composta dalla spiegazione del compito, 3 item di esempio da verbo a
nome, le prime 23 coppie della prima sessione, somministrate, però, da verbo a
nome, 3 item di esempio da nome a verbo e le ultime 22 coppie della prima
sessione somministrate questa volta da nome a verbo.
Questa struttura è stata pensata in modo che ciascuna coppia di frasi
compaia una sola volta in ogni sessione.
Ciascuna delle due sessioni richiede circa 45 minuti di tempo.
1.4 Le variabili semantico-lessicali
Per ciascun item della batteria sono state considerate la lunghezza e la
frequenza d’uso orale della parola target, oltre all’immaginabilità del concetto
sottostante.
164
Abbiamo misurato la lunghezza contando il numero di lettere e sillabe che
costituivano ciascun item; abbiamo tratto, invece, la frequenza d’uso, dal
Lessico di Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993).
Per l’immaginabilità è stato necessario sottoporre gli item al giudizio di un
gruppo di soggetti di controllo: abbiamo presentato a 21 soggetti normali
volontari (6 uomini e 15 donne di età compresa tra i 19 e i 35 anni) un elenco
scritto contenente i 45 nomi e i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF. Nomi
e verbi erano randomizzati all’interno di un'unica lista.
A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7.
Ai soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di valutarla sulla base
della facilità e velocità con cui evocava un’immagine mentale attribuendole un
punteggio crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che l’1 corrispondeva ad
una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il 7 ad una grande
facilità. Non venivano dati limiti di tempo e si ricordava ai soggetti di utilizzare
possibilmente l’intera griglia.
Il risultato della raccolta di questi dati è riassunto in Tabella 11.
Come possiamo vedere, nomi e verbi sono ottimamente bilanciati per
immaginabilità.
Come ulteriore controllo, abbiamo confrontato l’immaginabilità di ogni
Tabella 11: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi del test RNV-CF.
Nomi (n=45)
Frequenza d'uso orale
Verbi (n=45)
t Test
p
11,02 ± 15,28 36,53 ± 77,66
-2,16
<.05
Immaginabilità
4,30 ± 0,92
4,52 ± 0,68
-1,28
n.s.
Lunghezza in lettere
7,71 ± 2,41
8,06 ± 1,54
0,24
n.s.
Lunghezza in sillabe
3,09 ± 0,97
3,47 ± 0,59
0,001
n.s.
165
nome con quella del proprio verbo corrispondente: nessuna delle 45 coppie
risulta sbilanciata per immaginabilità, come era lecito aspettarsi vista l’identità
di significato tra nome e verbo all’interno della stessa coppia (nessun confronto
dà un valore t superiore a .65, ampiamente non significativo).
Nomi e verbi differiscono, invece, per frequenza d’uso, che risulta maggiore
nei verbi rispetto ai nomi (36,53 contro 11,02; p < .05)
1.5 I sottogruppi di item
Tra i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF, ci sono 22 verbi transitivi,
14 verbi inergativi e 9 verbi inaccusativi.
I nomi, invece, sono stati classificati con criteri diversi rispetto a quelli
utilizzati solitamente in letteratura.
Il test RNV-CF, infatti, utilizza come stimoli nomi e verbi relati non solo
semanticamente, ma anche morfologicamente.
In altre parole, le coppie di nomi e verbi inserite nel nostro test che denotano
lo stesso evento intrattengono anche una relazione morfologica tra loro (vedi
Appendice per l’elenco completo degli item; qui basti qualche esempio in
aggiunta a quelli precedenti: ballare e ballo, bombardare e bombardamento,
correre e corsa).
Temevano, quindi, che i risultati fossero influenzati da questo fattore e che
essi fossero informativi più sulle capacità morfologiche dei pazienti che su
quelle di recupero lessicale.
Per controllare questo aspetto, abbiamo classificato le coppie nome-verbo in
tre categorie sulla base della relazione morfologica che intrattengono: una classe
166
(Der) è costituita da nomi derivati per mezzo di un vero e proprio processo
morfologico di aggiunta di suffissi derivazionali deverbali come -zione, -aggio, mento, una seconda classe (PP) è costituita da nomi la cui forma fonologica è
uguale a quella del participio passato del verbo corrispondente (ad esempio,
cadere/caduta o correre/corsa) e una terza classe (1PS) è costituita, invece, da
nomi la cui forma fonologica è uguale a quella della prima persona singolare del
verbo corrispondente (ad esempio, cantare/canto o lanciare/lancio).
In sede di analisi dei risultati, questa classificazione ci consentirà di
individuare quei pazienti che cadono particolarmente ai nomi derivati, cosa che
ci aspettiamo da parte di coloro che hanno problemi morfologici e che cercano
di risolvere questo compito derivando il nome dal verbo, piuttosto che
recuperandolo dal magazzino lessicale.
1.6 Pregi e difetti
La batteria RNV-CF ci permette, in conclusione, di testare la dissociazione
nomi-verbi in un contesto bilanciato per immaginabilità.
Inoltre, il test RNV-CF fornisce un costrutto frasale in cui la parola deve
essere inserita: questa contestualizzazione del recupero lessicale è molto
interessante per via del fatto che ci permette di verificare se la dissociazione che
emerge nel recupero di parole isolate persiste in una struttura frasale. Questa,
infatti, fornisce una cornice su cui il sistema cognitivo potrebbe basare le sue
strategie di compensazione di eventuali difetti lessicali (e magari fare
scomparire o diminuire la differenza tra nomi e verbi).
167
A fronte di questi vantaggi, il test RNV-CF presenta anche dei problemi: ad
esempio, il mancato bilanciamento per frequenza oppure la difficoltà intrinseca
nella spiegazione del compito, durante la quale bisogna necessariamente riferirsi
ai termini “nome” e “verbo” che non tutti gli afasici potrebbero comprendere
con chiarezza.
Infine, ricordiamo il problema costituito dal fatto che i pazienti afasici
potrebbero cercare di rispondere derivando morfologicamente il nome dal verbo
corrispondente o viceversa: per questa ragione, abbiamo classificato gli item a
seconda della loro struttura morfologica, preparandoci ad un controllo di questo
fattore, almeno a posteriori.
2. MATERIALI E METODI: una nuova batteria di denominazione su figura
I risultati che saranno ottenuti col test appena descritto non sono tanto
informativi di per sé: sono, invece, molto preziosi se confrontati con quelli
ottenuti dagli stessi pazienti ad un compito di recupero lessicale standard come
quello di denominazione su figura.
Infatti, per i nostri scopi, non è molto importante sapere come si comportano
in assoluto i pazienti nel recupero di nomi e verbi quando devono completare
una frase e quando l’immaginabilità dei nomi e dei verbi è ben bilanciata; ciò
che a noi interessa osservare è se il contesto frasale o l’immaginabilità bilanciata
facilitano il paziente dissociato oppure no.
Ciò che noi ci chiediamo è se quei pazienti che alla denominazione di figure
risultano dissociati lo sono ancora in un compito piuttosto diverso, dove è
168
presente una struttura frasale e dove nomi e verbi hanno all’incirca la stessa
immaginabilità.
Per questa ragione è necessario sottoporre i pazienti anche ad un test di
denominazione di figure.
2.1 Quale test di denominazione usare?
Abbiamo quindi bisogno di un test di denominazione che contenga figure di
oggetti e figure di azioni e che sia pensato e tarato per confrontare la prestazione
dei pazienti ai nomi e ai verbi: prove di questo tipo non sono presenti in
letteratura (e in commercio).
Avremmo potuto utilizzare di nuovo la batteria usata da Luzzatti et al.
(2002): essa, però, conteneva degli item che si erano rivelati un po’
problematici. Alcune figure di azioni erano relativamente ambigue (elicitavano
nei pazienti afasici due o tre risposte più o meno con la stessa frequenza; questo
può diventare un problema se le alternative di scelta sono verbi di categorie
diverse) e, tra gli oggetti naturali, erano presenti item che rappresentavano parti
del corpo (orecchio, gamba e piede), le quali hanno anche una rappresentazione
cinestesica e non sono quindi del tutto paragonabili agli altri oggetti naturali.
Dato che non abbiamo trovato in letteratura un test con le caratteristiche che
chiedevamo e che la batteria di Luzzatti et al. (2002) aveva dei difetti cui
intendevamo cercare di porre rimedio, abbiamo scelto di costruire ex-novo un
test di denominazione di azioni e oggetti.
169
2.2 La costruzione della nuova batteria
2.2.1 La base di partenza
Per ciò che riguarda i nomi, esistono ampi database (con le relative figure),
appositamente costruiti per i test di denominazione; in questi database sono
presenti i dati normativi per le principali variabili lessicali e per i più importanti
parametri specifici del test di denominazione (come l’accordo sul nome, di cui
parleremo più avanti), raccolti in genere su campioni ampi e rappresentativi.
Utilizzare i nomi di uno di questi database ci avrebbe garantito una serie di
vantaggi:
 avremmo avuto un ampia scelta per gli item nominali.
 di tutti questi item avremmo avuto già i dati normativi: questi, infatti,
erano stati raccolti su soggetti italiani, con un range d’età piuttosto
ampio e con una cultura confrontabile a quella dei pazienti afasici
che avremmo testato nel nostro studio.
 di questi item avremmo avuto i disegni, anch’essi già testati su
gruppi di controllo.
Tra i database di nomi presenti in letteratura, abbiamo scelto il PD/DPSS, di
Lotto, Dell’Acqua e Job (2000).
Esso è composto da 266 nomi con le relative figure e i dati normativi: essi
comprendevano tutte le variabili lessicali che avevamo deciso di includere nella
batteria (frequenza, età di acquisizione soggettiva, lunghezza in lettere e sillabe,
name agreement) tranne l’immaginabilità.
170
Inoltre, in questo database, i nomi sono classificati per categoria semantica
di appartenenza.
Per ciò che riguarda i verbi, invece, data la mancanza di database appositi,
abbiamo preparato una prima lista di 123 item con i relativi disegni da cui poi,
attraverso uno studio pilota, avremmo tratto i verbi della nuova batteria.
Questa lista conteneva 26 verbi transitivi, 22 verbi inergativi, 18 verbi con
forma sia transitiva che inergativa, 23 verbi inaccusativi, 9 verbi di transitivi, 16
verbi riflessivi inerenti, 7 verbi riflessivi e 2 verbi atmosferici.
Come vedremo, in questa prima lista avevamo incluso molti verbi in più
rispetto a quelli che poi abbiamo inserito nella batteria e avevamo considerato
anche più categorie verbali; questo, in parte perché sapevamo che molti item
non avrebbero soddisfatto i requisiti che chiedevamo, in parte per avere più
possibilità di scelta nel bilanciamento delle variabili lessicali e in parte perché
non volevamo a priori escludere la possibilità di inserire altre categorie di verbi
nella lista finale.
2.2.2 Lo studio pilota
Creato questo primo set di 389 item (123 verbi e 266 nomi), il passo
successivo è stato quello di scegliere tra questi gli item della batteria definitiva.
Le variabili che abbiamo considerato nello studio sono l’accordo sul nome
(name agreement), la frequenza d’uso orale, l’immaginabilità, la lunghezza in
lettere e in sillabe, l’età di acquisizione soggettiva, la tipicità della figura.
171
La scelta di queste variabili è legata soprattutto a ciò che la letteratura riporta
a proposito dei test di denominazione, in particolare nell’ambito della
dissociazione nomi-verbi.
La tipicità della figura è, invece, una variabile meno usata in letteratura: con
essa intendiamo una misura della “bontà” della figura stessa, cioè una misura
che riflette quanto questa si avvicina all’immagini prototipica di un certo
oggetto.
Come abbiamo detto prima, erano già stati condotti degli studi-pilota per le
figure dei nomi: in questi studi erano state incluse tutte le variabili che avevamo
deciso di considerare tranne l’immaginabilità e la tipicità della figura (Lotto,
Dell’Acqua e Job, 2000).
Dato che il campione di riferimento era paragonabile al nostro per cultura (i
dati normativi del PD/DPSS sono stati raccolti a Padova) e piuttosto ampio
numericamente (88 soggetti), anche se non perfettamente distribuito per età
anagrafica (tutti i soggetti erano studenti universitari), abbiamo deciso di tenere i
dati ottenuti su quel campione e raccogliere ex-novo solo i dati mancanti, cioè
quelli che si riferiscono a tutte le variabili per i verbi e all’immaginabilità per i
nomi.
Materiali e metodi. Lo studio delle variabili strutturali, lessicali e semanticolessicali, è stato condotto seguendo due metodologie generali.
I valori di frequenza d’uso orale per i verbi sono stati tratti dal Lessico di
Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993), mentre la lunghezza
degli item è stata calcolata attraverso il conteggio del numero delle lettere e
delle sillabe.
172
Per le altre variabili, invece, è stato necessario testare dei soggetti:
descriverò ora singolarmente la metodologia usata per ciascuna variabile.
Accordo sulla denominazione di verbi. Abbiamo mostrato, una per volta, le
123 figure che rappresentavano le azioni a 37 soggetti volontari, di età compresa
tra i 20 e i 52 anni; a ciascuno di loro era stato chiesto di osservare con
attenzione i disegni e di scrivere su un foglio il verbo corrispondente all’azione
raffigurata.
Immaginabilità dei nomi e dei verbi. Per valutare questa variabile, abbiamo
presentato ad un campione di 19 soggetti normali volontari (15 donne e 4
uomini di età compresa tra i 18 e i 52 anni) una lista di 266 nomi e 123 verbi (in
totale, 389 item).
A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7. Ai
soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di esprimere la facilità e la
velocità con cui ne evocavano un’immagine mentale tramite un punteggio
crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che il valore “1” corrispondeva ad
una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il valore “7” ad una
grande facilità.
Età d’acquisizione per i verbi. L’indagine si è svolta su un campione di 20
soggetti (17 donne e 3 uomini) di età compresa tra i 20 e i 45 anni.
A ciascuno di essi veniva presentata la lista dei 123 verbi, seguita da una
griglia a 9 spazi, ciascuno numerato da 1 a 9: ad ogni spazio numerato
corrispondeva una range d’età. Nel complesso, la scala partiva dal numero 1 che
era associato all’età di 0-2 anni e arrivava al numero 9 che corrispondeva a 13
anni e oltre.
173
Ai soggetti veniva chiesto di leggere ogni parola e di stimare l’età a cui
pensavano di avere appreso questa e il sottostante significato; quindi, dovevano
segnare sulla griglia lo spazio numerato associato all’età stimata.
Tipicità della figura per nomi e verbi. Lo studio ha coinvolto 23 soggetti
non-afasici volontari, 15 donne e 8 uomini, con un’età compresa tra i 17 e i 32
anni; con 12 di essi abbiamo raccolto i dati sui verbi e con 11 i dati sui nomi:
ciascun soggetto ha valutato soltanto gli item di una delle due classi
grammaticali.
Ai soggetti è stata consegnata la lista dei nomi o quella dei verbi: accanto ad
ogni item era posta una griglia con 7 spazi, numerati in modo crescente da 1 a 7.
La consegna era di leggere la parola e immaginarsi, nel modo più prototipico
possibile, l’oggetto o l’azione rappresentata: dopo di che, veniva mostrata ai
soggetti la figura e veniva chiesto loro di valutare quanto questa corrispondesse
a quella che si erano precedentemente immaginati; veniva, inoltre, specificato
che 1 doveva essere barrato in caso di corrispondenza nulla, mentre 7 doveva
essere scelto in caso di altissima corrispondenza.
Risultati. Abbiamo, dunque, raccolto per ciascuno dei 389 item oggetto di
studio i valori normativi per le variabili di accordo sul nome, immaginabilità,
età di acquisizione soggettiva, tipicità del disegno, frequenza d’uso, lunghezza
in lettere e lunghezza in sillabe.
Questi dati sono poi stati utilizzati per la costruzione della batteria definitiva.
174
2.2.3 La selezione degli item
Dall’ampio elenco di 123 verbi e 266 nomi, abbiamo selezionato 50 nomi e
50 verbi che andassero a costituire la batteria definitiva che avremmo
somministrato ai pazienti.
La scelta di questi 100 item è stata guidata da una serie di obiettivi:
 aumentare il numero degli item della batteria rispetto allo studio di
Luzzatti et al. (2002).
 evitare di inserire item problematici, ad esempio a causa di figure
ambigue o con un basso accordo sul nome oppure a causa di una
rappresentazione mentale particolare (come le parti del corpo).
 inserire tra i nomi un ugual numero di oggetti naturali e di oggetti
artificiali.
 inserire tra i verbi un numero il più possibile confrontabile di
transitivi, inaccusativi e inergativi in modo da favorire un confronto
delle prestazioni dei pazienti per queste tre classi di verbi.
 bilanciare il più possibile i diversi gruppi di item (nomi/verbi, nomi
naturali/nomi artificiali, verbi transitivi/inergativi/inaccusativi) per le
variabili che avevamo precedentemente misurato.
Ci aspettavamo di raggiungere con relativa facilità i primi quattro obiettivi e
di dover faticare molto per soddisfare il quinto: come vedremo, le nostre
previsioni erano giuste.
175
La batteria finale è composta, come abbiamo già detto, da 50 nomi e 50
verbi (l’elenco completo con i dati normativi per ciascun item si trova in
Appendice a questo capitolo).
Tra i 50 nomi, 25 sono artificiali (denotano oggetti costruiti dall’uomo) e 25
sono naturali (denotano animali e vegetali); tra i 50 verbi, 20 sono transitivi
(possiedono un argomento interno cui assegnano il caso grammaticale, vedi
capitolo 1, pagina 20), 17 sono inergativi (non danno caso al loro argomento
interno, vedi capitolo 1, pagina 20) e 13 sono inaccusativi (non possiedono un
argomento esterno, vedi capitolo 1, pagina 23).
Vediamo ora, una variabile per volta, i risultati del bilanciamento (Tabella
12, Tabella 13 e Tabella 14).
Accordo sul nome. Più che per bilanciare i gruppi di item, questa variabile è
stata usata per escludere dalla batteria alcuni nomi o verbi che non erano
univocamente denominati dai soggetti normali.
Nel test, infatti, sono stati inserite soltanto quelle figure che risultavano
denominate con lo stesso nome/verbo da almeno l’85% dei soggetti di controllo.
Inoltre, il test con cui abbiamo raccolto i dati sul name agreement (che di
fatto non era altro che un test di denominazione scritta) è stato utilizzato come
prova di controllo; le risposte non maggioritarie che hanno raggiunto il 5% di
frequenza sono state considerate risposte alternative corrette nella versione
finale del test.
Frequenza d’uso. La frequenza d’uso di nomi e verbi non è perfettamente
bilanciata, ma la loro differenza non è statisticamente significativa (13,82 ±
21,22 la media dei verbi, 8,48 ± 15,69 quella dei nomi). La stessa cosa vale per
176
il confronto tra verbi inaccusativi e verbi inergativi (18,38 ± 20,82 contro 6,94 ±
13,90) e tra questi ultimi e i verbi transitivi (6,94 ± 13,90 contro 16,70 ± 26,12).
La frequenza d’uso è invece bilanciata tra verbi inaccusativi e verbi
transitivi (18,38 ± 20,82 contro 16,70 ± 26,12; p = .84) e tra nomi di oggetti
naturali e nomi di oggetti artificiali (6,28 ± 14,08 contro 10,68 ± 17,18; p =
.32).
Immaginabilità. Questa variabile ha costituito il principale problema sin
dall’inizio della costruzione della batteria. Sapevamo che i nomi sono
mediamente più immaginabili dei verbi e che bilanciare questa variabile sarebbe
Tabella 12: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi.
Variabile
Verbi (n=50)
Nomi (n=50)
t Test
p
Frequenza d'uso orale
13,82 ± 21,22
8,48 ± 15,69
1,45
.15
Immaginabilità
4,58 ± 0,77
6,01 ± 0,39
-11,84
<.01
Lunghezza in lettere
8,08 ± 1,41
7,08 ± 1,77
3,17
<.01
Lunghezza in sillabe
3,42 ± 0,57
3,02 ± 0,84
2,88
<.01
Età d'acquisizione
3,76 ± 1,14
3,40 ± 1,03
1,66
.10
Tipicità della figura
5,63 ± 0,80
5,81 ± 0,94
1,29
.20
Tabella 13: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi, inergativi e inaccusativi e confronti
statistici (test t).
Transitivi (n=20)
Inergativi(n=17)
Inaccusativi(n=13)
T-Ie (p)
16,70 ± 26,12
6,94 ± 13,90
18,38 ± 20,82
.16
.84
.06
Immaginabilità
4,65 ± 0,60
4,99 ± 0,79
3,93 ± 0,57
.14
.001
<.001
Lunghezza in lettere
8,20 ± 1,54
8,05 ± 1,43
7,92 ± 1,26
.77
.59
.78
Lunghezza in sillabe
3,50 ± 0,69
3,29 ± 0,47
3,46 ± 0,52
.30
.86
.36
Età d'acquisizione
3,78 ± 1,07
3,64 ± 1,04
3,88 ± 1,42
.69
.82
.60
Tipicità della figura
5,57 ± 0,84
5,66 ± 0,84
5,65 ± 0,76
.75
.78
.98
Frequenza d'uso orale
T-Ia (p) Ie-Ia (p)
177
stato molto difficile in un test in cui gli item devono essere raffigurabili: anche
le indicazioni della letteratura andavano in questa direzione (Bird et al., 2000;
Luzzatti et al., 2002).
Il risultato del nostro lavoro non ha smentito le previsioni: l’immaginabilità
non è bilanciabile tra nomi e verbi (6,01 ± 0,39 contro 4,58 ± 0,77; p < .01).
Inoltre, il vincolo della raffigurabilità degli item e del buon accordo sul
nome, ci ha costretti ad introdurre nelle versione finale della batteria dei verbi
che non garantiscono il bilanciamento di questa variabile nemmeno tra verbi
transitivi e verbi inergativi e tra questi ultimi e i verbi inaccusativi (vedi Tabella
13).
Nomi di oggetti naturali e nomi di oggetti artificiali sono, invece, ben
bilanciati (5,93 ± 0,35 contro 6,08 ± 0,43; p = .16).
Lunghezza. I nomi inseriti nella versione finale della batteria sono più lunghi
dei verbi in modo statisticamente significativo (8,08 ± 1,77 contro 7,08 ± 1,41 in
lettere e 3,42 ± 0,84 contro 3,02 ± 0,57 in sillabe; in entrambi i confronti p <
.01); al contrario, i tre gruppi di verbi, transitivi, inergativi e inaccusativi sono
bilanciati per questa variabile in modo piuttosto buono (vedi Tabella 13), come
anche i due gruppi di nomi (vedi Tabella 14).
A che cosa è dovuta questo differenza di lunghezza tra nomi e verbi?
Bilanciare i due gruppi per lunghezza ci avrebbe costretto ad avere un
bilanciamento peggiore per le altre variabili, in particolare per frequenza ed età
di acquisizione: dovevamo scegliere a chi dare la priorità.
178
Tabella 14: variabili semantico-lessicali per i nomi di oggetti naturali e i nomi di
oggetti artificiali.
Naturali (n=25)
Artificiali (n=25)
t Test
p
Frequenza d'uso orale
6,28 ± 14,08
10,68 ± 17,18
0,99
.32
Immaginabilità
5,93 ± 0,35
6,08 ± 0,43
1,44
.16
Lunghezza in lettere
7,04 ± 1,88
7,12 ± 1,69
0,16
.87
Lunghezza in sillabe
3,16 ± 0,85
2,88 ± 0,83
-1,25
.21
Età d'acquisizione
3,34 ± 0,82
3,46 ± 1,20
0,42
.67
Tipicità della figura
5,87 ± 1,01
5,74 ± 0,87
-0,73
.46
La scelta è caduta sull’età di acquisizione e sulla frequenza d’uso per via del
fatto che in letteratura ci sono dei dati che indicano nella lunghezza una
variabile importante in contesti di lettura ad alta voce, ma meno decisiva in caso
di prove di denominazione (Bates et al., 2001); inoltre, questa variabile
interviene ad un livello piuttosto periferico della produzione linguistica (livello
fonologico-segmentale) dove probabilmente tutte le informazioni sulla categoria
lessicale sono già state elaborate. Al contrario, come nel secondo capitolo
abbiamo più volte sottolineato, la frequenza sembra avere un ruolo chiave nelle
prove di denominazione di oggetti e azioni (Berndt et al., 1997; Luzzatti et al.,
2002).
Età di acquisizione. L’età di acquisizione dei nomi è lievemente inferiore a
quella dei verbi, ma non in modo statisticamente significativo (3,76 ± 1,14 per i
verbi, 3,40 ± 1,03 per i nomi; p > .05). I tre gruppi verbali hanno invece valori
medi di età di acquisizione del tutto confrontabili (3,78 ± 1,07 la media dei
transitivi, 3,64 ± 1,04 quella degli inergativi e 3,88 ± 1,42 quella degli
179
inaccusativi); la stessa cosa si può dire per i nomi di oggetti naturali e i nomi di
manufatti (3,34 ± 0,82 contro 3,46 ± 1,20; p = .67).
Tipicità della figura. Questa variabile è perfettamente bilanciata tra i tre
gruppi verbali (5,57 ± 0,84 la media dei verbi transitivi, 5,66 ± 0,84 quella dei
verbi inergativi, 5,65 ± 0,76 quella dei verbi inaccusativi) e tra i due gruppi di
nomi (i nomi di oggetti naturali hanno una media di 5,87 ± 1,01 e i nomi di
manufatti hanno una media di 5,74 ± 0,87; p = .46), mentre è presente una
differenza, anche se non molto marcata, tra i nomi e i verbi (5,63 ± 0,80 contro
5,81 ± 0,94; p = .20).
Nel complesso, abbiamo raggiunto quasi tutti gli obiettivi che ci eravamo
proposti all’inizio della costruzione della batteria: gli item hanno tutti un alto
name agreement, non sono teoricamente problematici (come erano i nomi di
parti del corpo nella vecchia batteria) e il loro numero non è né troppo piccolo
(il che ci avrebbe impedito di fare delle analisi statistiche affidabili sui risultati),
né troppo grande (il che avrebbe richiesto uno sforzo notevole ai pazienti
sottoposti al test).
La batteria, inoltre, contiene nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali in
ugual numero e verbi transitivi, inergativi e inaccusativi in numero simile.
I nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali sono bilanciati tra loro per
tutte la variabili lessicali; i verbi transitivi, i verbi inergativi e i verbi
inaccusativi sono anch’essi ben bilanciati tra loro, tranne che per
l’immaginabilità.
Il bilanciamento tra nomi e verbi, invece, è stato raggiunto per le variabili di
età d’acquisizione, accordo sulla figura e frequenza, ma non per lunghezza e
immaginabilità.
180
2.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali
Per cercare di porre rimedio al mancato bilanciamento dell’immaginabilità e
della lunghezza, abbiamo selezionato dall’insieme dei 50 nomi inclusi nella
batteria tre sottogruppi di item, ciascuno dei quali fosse bilanciato con uno dei
tre gruppi di verbi (transitivi, inergativi e inaccusativi).
In altre parole, abbiamo costruito tre liste di nomi: una costituita da 18 item,
bilanciata con il gruppo dei 20 verbi transitivi, una da 17 item, bilanciata con il
gruppo dei 17 verbi inergativi e una da 12 item, bilanciata col gruppo dei 13
verbi inaccusativi.
I nomi inseriti in queste tre liste sono stati presi dall’insieme dei 50 che
costituiscono la batteria di denominazione complessiva in modo che non fosse
necessario sottoporre ai pazienti degli item in più.
La procedura che, in questo modo, diventa possibile utilizzare è la seguente:
si testano i pazienti con i 100 item della batteria complessiva, si confronta la
prestazione ai 50 nomi con quella ai 50 verbi per evidenziare l’eventuale
dissociazione e si esegue un’analisi statistica dei risultati: nel caso questa metta
in evidenza un significativo effetto di lunghezza o un significativo effetto di
immaginabilità, è possibile confrontare la prestazione nei tre singoli gruppi di
verbi con i rispettivi gruppi di nomi bilanciati anche per queste due variabili.
In questo modo, è sempre possibile avere un controllo ulteriore del fattore
classe grammaticale al netto delle variabili di frequenza d’uso o di
immaginabilità.
In Tabella 15, 16 e 17 troviamo i risultati del bilanciamento, con i valori
medi delle variabili semantico-lessicali nei tre gruppi di verbi e nelle tre
sottoliste di nomi.
181
Tabella 15: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati
Nomi (n=18)
Verbi transitivi (n=20)
t Test
p
15,89 ± 21,89
16,70 ± 26,12
0,10
.91
Immaginabilità
5,95 ± 0,42
4,65 ± 0,60
-7,65
<.001
Lunghezza in lettere
7,78 ± 2,07
8,20 ± 1,54
0,71
.47
Lunghezza in sillabe
3,39 ± 0,98
3,50 ± 0,69
0,40
.68
Età d'acquisizione
3,57 ± 1,15
3,78 ± 1,07
0,57
.57
Tipicità della figura
5,82 ± 0,93
5,57 ± 0,84
-1,01
.31
Frequenza d'uso orale
Tabella 16: variabili semantico-lessicali per i verbi inaccusativi e un sottogruppo di nomi
bilanciati
Nomi (n=12)
Verbi inaccusativi (n=13)
t Test
p
20,58 ± 25,61
18,38 ± 20,82
-0,23
.81
Immaginabilità
5,99 ± 0,44
3,93 ± 0,57
-10,04
<.001
Lunghezza in lettere
7,75 ± 2,09
7,92 ± 1,26
0,25
.80
Lunghezza in sillabe
3,33 ± 0,89
3,46 ± 0,52
0,44
.66
Età d'acquisizione
3,50 ± 1,39
3,88 ± 1,42
0,67
.50
Tipicità della figura
5,88 ± 0,81
5,65 ± 0,76
-0,80
.43
Frequenza d'uso orale
Come si vede, la lunghezza, sia in lettere che in sillabe, è ora bilanciata tra
sottogruppi di verbi e sottogruppi di nomi; le altre variabili lessicali sono
anch’esse bilanciate, ma l’immaginabilità dei nomi è ancora maggiore
dell’immaginabilità dei verbi in tutte e tre le sottobatterie.
182
2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione
Data l’assenza di un test di denominazione di azioni e oggetti che
soddisfacesse i nostri bisogni e dati i difetti della batteria utilizzata per la
raccolta dei dati su cui abbiamo condotto l’analisi qualitativa e il controllo
dell’ipotesi di Bird et al. (2000), abbiamo costruito una nuova batteria di
denominazione.
Partendo da una lista iniziale di 266 nomi e 123 verbi, attraverso la
misurazione delle principali variabili semantico-lessicali per ciascun item,
abbiamo selezionato 50 verbi e 50 nomi con cui abbiamo costituito il nuovo test.
Tra i nomi sono presenti 25 item che rappresentano oggetti naturali e 25 item
che rappresentano oggetti artificiali; tra i 50 verbi, invece, 20 sono transitivi, 17
inergativi e 13 inaccusativi.
Per quello che riguarda il bilanciamento delle variabili semantico-lessicali,
possiamo dire che la frequenza d’uso, l’età di acquisizione e la tipicità della
figura presentano valori medi simili (o comunque, non significativamente
Tabella 17: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati
Nomi (n=17)
Verbi inergativi (n=17)
t Test
p
10,18 ± 18,44
6,94 ± 13,90
-0,61
.54
Immaginabilità
5,84 ± 0,44
4,99 ± 0,79
-3,94
<.001
Lunghezza in lettere
7,88 ± 2,06
8,05 ± 1,43
0,29
.77
Lunghezza in sillabe
3,35 ± 1,00
3,29 ± 0,47
-0,22
.82
Età d'acquisizione
3,53 ± 1,07
3,64 ± 1,04
0,31
.93
Tipicità della figura
5,83 ± 0,90
5,66 ± 0,84
-0,69
.49
Frequenza d'uso orale
183
diversi) nei diversi sottogruppi di item. Non si è riusciti neppure questa volta a
bilanciare nomi e verbi per immaginabilità: i nomi sono significativamente più
immaginabili dei verbi e i verbi inaccusativi meno immaginabili dei verbi
transitivi e inergativi.
Anche la lunghezza in lettere e in sillabe non è perfettamente bilanciata tra
nomi e verbi, mentre lo è tra sottotipi di verbo e tra nomi di oggetti naturali e
nomi di manufatti.
Da ultimo, abbiamo costruito tre sottogruppi di nomi, cercando di far sì che
ciascuno di essi fosse bilanciato con uno dei tre sottogruppi verbali (verbi
transitivi, inergativi e inaccusativi) anche per quelle variabili che non erano
perfettamente bilanciate nel confronto tra tutti i 50 nomi e tutti i 50 verbi: ciò è
stato possibile per la lunghezza in lettere e in sillabe, ma non per
l’immaginabilità.
3. MATERIALI E METODI: soggetti e somministrazione dei test
3.1 Soggetti
Hanno partecipato allo studio 39 pazienti afasici: di questi, 21 soffrivano di
una forma di afasia fluente, 8 di una forma di afasia non-fluente, 7 avevano una
sindrome afasica residua, mentre non era stato possibile classificare 3 pazienti
lungo il parametro fluente/non-fluente.
Tra i 21 afasici fluenti, 12 soffrivano di afasia amnestica e 9 di afasia di
Wernicke, mentre, tra gli 8 pazienti non-fluenti, 5 soffrivano dei sintomi tipici
dell’agrammatismo (vedi Tabella 18).
184
Di questi 39 soggetti, 13 sono stati sottoposti anche al test RNV-CF: al test di
denominazione su figura, 10 di essi erano risultati dissociati-meglio-nomi
(DMN), 1 era risultato dissociato-meglio-verbi (DMV) e 2 non dissociati (ND).
La composizione del campione di pazienti che è stato sottoposto al test RNVCF è descritta in Tabella 19: 4 pazienti soffrivano di una forma afasica fluente, 4
erano afasici non-fluenti, 3 soffrivano di una sindrome afasica residua e 2 erano
afasici che non era stato possibile classificare secondo la fluenza dell’eloquio.
Dei 4 afasici non-fluenti, 2 erano pazienti agrammatici.
3.2 Materiale e somministrazione del compito
Tutti i soggetti che hanno partecipato allo studio sono stati sottoposti al test
di denominazione su figura che abbiamo descritto nel secondo paragrafo di
questo capitolo; rimando dunque ad esso per le caratteristiche del compito,
ricordando qui soltanto che la batteria è composta da 50 figure di oggetti e 50
figure di nomi ed è bilanciata tra nomi e verbi per le variabili di frequenza d’uso
orale,
Tabella 18: composizione del campione che è stato sottoposto al test di denominazione.
Numerosità
Età media
Scolarità media
Afasia amnestica
12
53,5
7,6
Sindrome residua afasica
7
49,3
7,4
Afasia di Broca
3
49,5
9
Afasia di Broca con Agrammatismo
5
45,6
10,2
Afasia di Wernicke
9
64
7,6
Non classificabili
3
59
8,3
TOTALE
39
53,4
8,4
185
Tabella 19: composizione del campione che è stato sottoposto al test RNV-CF.
Numerosità
Età media
Scolarità media
Afasia amnestica
4
54,7
7,8
Sindrome residua afasica
3
54,3
7
Afasia di Broca
2
63,5
8
Afasia di Broca con Agrammatismo
2
35
12
Non classificabili
2
61,5
6,5
TOTALE
13
54,2
8,3
età d’acquisizione e tipicità della figura, ma non per le variabili di lunghezza e
immaginabilità.
Il test RNV-CF è invece stato descritto nel primo paragrafo di questo
capitolo: lì si possono trovare le sue principali caratteristiche, discusse e
commentate in modo ampio. Qui ricorderemo semplicemente che il test prevede
la somministrazione di 45 item verbali e 45 item nominali e che questa batteria è
bilanciata tra nomi e verbi per immaginabilità e lunghezza, ma non per
frequenza d’uso orale.
La procedura prevedeva la somministrazione del compito di denominazione
a tutti i soggetti e del test RNV-CF solo ad alcuni pazienti, quelli di maggior
interesse, ad esempio per la presenza di una dissociazione tra nomi di oggetti
naturali e nomi di manufatti oppure per la presenza di effetti molto marcati di
qualche variabile semantico-lessicale oppure ancora per il tipo di afasia: la
somministrazione del RNV-CF avveniva, comunque, in una sessione successiva
rispetto a quella in cui era stato svolto il compito di denominazione su figura.
186
4. RISULTATI
4.1 Il test di denominazione su figura
Dopo avere sottoposto i pazienti afasici al test di denominazione, abbiamo
analizzato i risultati ottenuti, confrontando, per ciascun soggetto, la prestazione
ai verbi con quella ai nomi e la prestazione ai nomi di oggetti naturali con quella
ottenuta ai nomi di manufatti.
I risultati di questa analisi sono riassunti in Tabella 21 (in Appendice
abbiamo riportato la Tabella completa dei risultati con i valori percentuali
ottenuti da ogni singolo soggetto e il valore del chi quadrato per i confronti in
questione).
Tipo di afasia. Come si può vedere, dei 39 pazienti considerati, ben 25
risultano dissociati-meglio-nomi, mentre 1 soltanto è dissociato-meglio-verbi; i
restanti 13 soggetti presentano prestazioni confrontabili nelle due categorie
lessicali.
E’ piuttosto interessante guardare il modo in cui gli afasici dissociati si
distribuiscono tra la diverse sindromi afasiche.
Alcuni dati spiccano con chiarezza: ad esempio, tutti i pazienti non-fluenti
con agrammatismo sono dissociati-meglio-nomi.
Questo risultato non è certo nuovo in letteratura (vedi capitolo 2); è stato
individuato, infatti, già molti anni fa (Myerson, Goodglass 1972; McCarthy,
Warrington, 1985), in un periodo in cui era molto diffusa l’idea che un disturbo
selettivo dei verbi è parte del pattern di errori tipico dell’agrammatismo.
187
In questa chiave, va sottolineata un’altra evidenza che emerge dai nostri dati:
dei 25 dissociati-meglio-nomi solo 5 sono agrammatici. Se è dunque vero che
tutti gli agrammatici sono dissociati-meglio-nomi, non è vero che tutti i
dissociati-meglio-nomi sono agrammatici (confronta Luzzatti et al., 2002).
Un altro dato interessante indica che ben 7 dei 9 pazienti con afasia di
Wernicke che hanno partecipato allo studio sono dissociati-meglio-nomi.
Il nostro unico paziente dissociato-meglio-verbi soffre di afasia amnestica,
in accordo con la tendenza spesso indicata in letteratura.
Da ultimo notiamo che, nonostante la letteratura indichi una forte
associazione tra afasia amnestica e dissociazione-meglio-verbi, nel nostro studio
abbiamo trovato ben 5 afasici amnestici dissociati-meglio-nomi.
Tabella 20: associazione tra tipo di afasia e tipo di dissociazione al test di
denominazione di figure (DMN = dissociati-meglio-nomi; DMV = dissociatimeglio-verbi; ND = non dissociati).
DMN
DMV
ND
TOTALE
Broca
1
0
2
3
Broca con agrammatismo
5
0
0
5
Wernicke
7
0
2
9
Amnestici
5
1
6
12
Sindrome residua afasica
4
0
3
7
Non classificabili
3
0
0
3
TOTALE
25
1
13
39
188
Per ciò che riguarda la dissociazione tra nomi di oggetti naturali e nomi di
manufatti, 5 pazienti mostravano di saper denominare meglio le figure di questi
ultimi; nessun paziente, al contrario, aveva una dissociazione a favore dei nomi
naturali.
Dei 5 dissociati-meglio-artificiali, 3 erano anche dissociati-meglio-nomi
(vedi Tabella 21); per ciò che riguarda il tipo di afasia, invece, 2 avevano una
sindrome afasica residua, due un’afasia non-fluente (uno presentava anche i
sintomi dell’agrammatismo) e uno un’afasia di Wernicke.
Variabili semantico-lessicali. Per scoprire se i pazienti del nostro campione
presentassero qualche effetto legato a queste variabili, abbiamo condotto
un’analisi per casi singoli utilizzando la tecnica della Regressione Logistica
(McCullagh, Nelder, 1983).
I risultati dettagliati di questa analisi, contenenti i valori delle statistiche e le
probabilità associate, si trovano in Appendice: i dati sono, inoltre, riassunti in
Tabella 22.
Come si può vedere da essa, l’immaginabilità non è significativa nell’unico
paziente afasico DMV, è significativa in 5 dei 13 pazienti ND ed è significativa
anche in tutti i 25 pazienti DMN; la frequenza d’uso, invece, è significativa
nell’unico DMV, ma in uno solo dei 25 pazienti DMN.
L’età di acquisizione è risultata un predittore statisticamente importante per
18 dei 25 DMN, per l’unico DMV, ma per soli 4 pazienti sui 13 non dissociati;
da ultimo, la lunghezza degli item è significativa in 13 dei 25 DMN e in 3 dei 13
pazienti ND, mentre non è significativa nel dissociato-meglio-verbi
189
Tabella 21: compito di denominazione su figura: dissociazioni tra nomi di
oggetti naturali (Nat) e nomi di oggetti artificiali (Art) e dissociazioni tra nomi
e verbi.
DMN
DMV
ND
TOTALE
Art > Nat
3
0
2
5
Nat > Art
0
0
0
0
Nat = Art
22
1
11
34
TOTALE
25
1
13
39
.
Sembra dunque che anche dai nostri soggetti, come da quelli di Luzzatti et
al. (2002), sia emersa la grande importanza dell’effetto di immaginabilità per i
dissociati-meglio-nomi; nel contempo, invece, sembra che la frequenza d’uso
orale degli item non sia cruciale nel prevedere la prestazione di questi pazienti.
Rispetto alla letteratura sull’argomento rappresenta, invece, una novità il
ruolo importante dell’età di acquisizione soggettiva: essa è un predittore
significativo in ben 18 dei 25 DMN e nell’unico DMV; allo stesso modo, la
lunghezza non è citata spesso in letteratura come variabile importante nello
spiegare la prestazione dei pazienti dissociati ad un compito di denominazione
di figure, eppure si rivela un predittore significativo in più della metà dei DMN.
A proposito delle variabili cruciali per i DMV non possiamo dire molto dato
che, nel nostro campione, soltanto un afasico è risultato dissociato-meglio-verbi:
questo paziente presenta un importante effetto di frequenza d’uso, allineandosi
così anch’esso ai risultati descritti in Luzzatti et al. (2002).
Un ultimo dato da sottolineare è quello per cui in ben 21 dei 25 afasici
dissociati-meglio-nomi l’effetto di classe grammaticale non è più statisticamente
190
significativo in un modello bivariato in cui è presente anche il fattore
immaginabilità: detto in altro modo, la dissociazione nomi-verbi non è più
presente quando i dati vengono corretti per immaginabilità, ad indicare che
probabilmente un forte effetto di immaginabilità creava delle “apparenti”
dissociazioni tra nomi e verbi che, in realtà, non hanno una base legata alla
categoria grammaticale delle parole.
Questa “scomparsa” della dissociazione nomi-verbi dopo una correzione dei
dati per le variabili lessicali si verifica solo con l’immaginabilità: infatti, in
nessun paziente la frequenza d’uso, l’età di acquisizione o la lunghezza
dell’item eliminano l’effetto di classe grammaticale in un modello bivariato.
4.2 Il test RNV-CF
La Tabella 23 riassume nel complesso i risultati ottenuti dai pazienti afasici
al test RNV-CF.
Tabella 22: compito di denominazione su figura: numero di pazienti dissociatimeglio-nomi (DMN), dissociati-meglio-verbi (DMV) e non dissociati (ND) per cui
sono risultate significative le seguenti variabili semantico-lessicali all’Analisi di
Regressione Logistica.
DMN (%)
DMV (%)
ND (%)
TOTALE (%)
Immaginabilità
25 (100%)
0
5 (38%)
30 (77%)
Frequenza d'uso
1 (4%)
1 (100%)
4 (31%)
6 (15%)
Età d'acquisizione
18 (72%)
1 (100%)
4 (31%)
23 (59%)
Lunghezza
13 (52%)
0
3 (23%)
16 (41%)
TOTALE
25 (100%)
1 (100%)
13 (100%)
39 (100%)
191
Come si può vedere, soltanto 5 pazienti sono risultati ancora dissociati in
questo test, uno per ogni gruppo afasico (un paziente con afasia amnestica, un
paziente con afasia di Broca, uno con afasia di Broca e agrammatismo, uno con
una sindrome afasica residua e uno non classificato).
Tra questi 5 pazienti, non c’è il dissociato-meglio-verbi che, in questo
compito, mostra una prestazione simile nelle due classi grammaticali.
Anche l’effetto “morfologico” che avevamo previsto non è così dirompente
come ci si poteva aspettare: un solo paziente (il numero 22), infatti, mostra una
prestazione significativamente peggiore con i nomi derivati stricto sensu (DER)
rispetto ai nomi con forma fonologica identica alla prima persona singolare del
verbo (1PS) o con forma fonologica identica al participio passato (PP).
Curiosamente, questo unico paziente è proprio
quello
che
mostrava
la
dissociazione-meglio-verbi alla denominazione di figure.
4.3 Denominazione e RNV-CF a confronto
Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai verbi. Scorrendo i risultati, si nota
subito come i dissociati-meglio-nomi (DMN) abbiano nel complesso delle
prestazioni ai verbi migliori nel test RNV-CF rispetto a quelle che hanno
mostrato nella denominazione di figure (Figura 15) .
Infatti, mentre la media delle percentuali di risposte corrette al test di
denominazione dei DMN è del 36%, la stessa media è del 59% al RNV-CF (t
test = 5,08; p < .001).
192
Tabella 23: risultati dei pazienti afasici sottoposti al test RNV-CF (Legenda: N° = numero del
paziente; Diss Den = tipo di dissociazione al compito di denominazione su figura; Af = tipo di afasia;
%N = percentuale di risposte corrette ai nomi; %V = percentuale di risposte corrette ai verbi; 1PS
= nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbo corrispondente; PP = nomi con
forma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi ottenuti dal verbo per
aggiunta di un suffisso derivazionale; N vs V e DER vs PP+1PS = confronto statistico delle
prestazioni con queste categorie di item).
RNV-CF
%N
N° Diss Den
22
V>N
1
12
18
3
5
4
9
15
16
17
13
25
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N=V
N=V
N vs V
Af
A
1PS
59
PP
33
DER
5
TOT
29
%V
47
chi2
P
A
A
A
NC
NC
SAR
SAR
B+
B+
BSAR
B-
65
65
41
88
24
82
88
82
24
41
17
47
67
67
50
83
33
50
100
100
17
50
50
50
55
64
64
77
32
77
91
82
9
64
9
50
60
64
53
82
29
76
91
84
15
53
18
49
89
76
47
27
42
78
80
87
38
27
47
49
9,87
.001
DER vs PP+1PS
chi2
12,42
p
<.001
28,00 <.001
5,68 <.01
6,67 <.01
11,07 <.001
Questo fenomeno non si verifica con i dissociati-meglio-verbi (DMV) e i
non dissociati (ND): essi, infatti, sembrano svolgere i due compiti con la stessa
accuratezza per quello che riguarda gli item verbali (54% alla denominazione e
47% al RNV-CF; p > .05).
Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai nomi. Questo effetto facilitatorio
del test RNV-CF è completamente ribaltato con i nomi: infatti, i DMN hanno
delle prestazioni con questa classe grammaticale peggiori al RNV-CF rispetto al
test di denominazione su figura (Figura 15).
193
La differenza è, però, un po’ meno marcata rispetto a quella che caratterizza
le prestazioni con i verbi: in media, i DMN fanno correttamente il 76% degli
item nominali alla denominazione, mentre hanno una percentuale di risposte
corrette del 60% al RNV-CF (t test = 2,17; p = .05).
Studio per casi singoli. Osservando in modo comparato la prestazione di
ciascun paziente afasico partecipante allo studio (Tabella 25), si nota
immediatamente che, dei 10 soggetti risultati dissociati-meglio-nomi al test di
denominazione di figure, soltanto due conservano la dissociazione al test RNV-
Figura 15: percentuali di risposte corrette dei dissociati-meglio-nomi (DMN) al
compito di denominazione e al test RNV-CF.
194
CF; in questo test infatti, 6 DMN non sono più dissociati, mentre due altri
pazienti DMN addirittura risultano dissociati-meglio-verbi!
Un altro aspetto molto interessante della prestazione al RNV-CF dei DMN è
che i due fenomeni evidenziati dai dati aggregati (il miglioramento ai verbi e il
peggioramento ai nomi) si manifestano con chiarezza anche nell’osservazione di
ogni singolo paziente.
In Tabella 24 sono riassunte le prestazioni ai due test di tutti i 13 soggetti
che hanno svolto entrambi i compiti: come si può vedere da essa, i pazienti 1, 5,
12, 16 e 18 mostrano proprio una prestazione migliore ai verbi del test RNV-CF
rispetto ai verbi del test di denominazione su figura e viceversa una prestazione
peggiore ai nomi del test RNV-CF rispetto ai nomi del test di denominazione su
figura. In tre casi (5, 12 e 18), questi due fenomeni fanno si che i soggetti non
siano più dissociati, mentre in due casi (1 e 16) addirittura ribaltano la
dissociazione, con l’effetto di rendere DMV due soggetti che erano DMN al test
di denominazione di figure.
Proseguendo nell’analisi dei profili dei singoli pazienti, notiamo che altri 4
soggetti (i numeri 4, 9, 15 e 17) mostrano una prestazione migliore ai verbi del
RNV-CF rispetto ai verbi del test di denominazione, ma non una prestazione
peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto a quelli del test di denominazione su
figura: anche qui, in tre casi (4, 9 e 15) il miglioramento ai verbi fa sì che i
pazienti non siano più dissociati, mentre in un caso (17) esso non è sufficiente a
portare la percentuale di verbi corretti al livello di quella dei nomi (il soggetto
resta quindi dissociato-meglio-nomi).
195
Tabella 24: prestazione dei soggetti ai nomi e ai verbi del test di denominazione a
confronto con le prestazioni degli stessi soggetti ai nomi e ai verbi del test RNV-CF (N° =
numero del paziente; Diss Den = tipo di dissociazione al test di denominazione su figura; Den
= prestazioni al test di denominazione si figura; RNV-CF = prestazioni al test di Recupero di
Nomi e Verbi in un compito di Completamento di Frasi).
NOMI
N°
1
5
12
16
18
4
9
15
17
3
22
13
25
Diss Den
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
V>N
N=V
N=V
Den
84
78
86
60
88
82
78
82
46
78
18
54
64
RNV-CF
60
29
64
15
53
76
91
84
53
82
29
18
49
chi2
6,86
23,06
6,00
19,67
13,99
0,59
3,06
0,10
0,51
0,26
1,58
13,35
2,20
p
<.01
<.001
.01
<.001
<.001
n.s
n.s
n.s
n.s
n.s
n.s
<.001
n.s
Den
44
32
48
16
38
46
58
46
4
28
44
42
50
VERBI
RNV-CF chi2
21,05
89
1,06
42
7,56
76
5,79
38
0,73
47
10,06
78
5,31
80
17,28
87
9,68
27
0,02
27
0,07
47
0,79
47
0,01
49
p
<.001
n.s.
<.01
.01
n.s.
.001
.01
<.001
<.005
n.s
n.s
n.s
n.s
Dei 10 dissociati-meglio-nomi alla denominazione, un paziente soltanto (il
numero 3) non si “adegua” all’andamento generale: egli presenta delle
percentuali di risposte corrette quasi identiche a quelle ottenute al compito di
denominazione, sia con i verbi che con i nomi.
Riassumendo, sembra quindi che 9 dei 10 pazienti afasici che mostravano un
deficit selettivo dei verbi al compito di denominazione manifestino, al test RNVCF, un netto miglioramento della prestazione con i verbi e, nella maggioranza
dei casi, un peggioramento della prestazione con i nomi. Al contrario, un
paziente afasico DMN alla denominazione (il numero 3) ha delle prestazioni ai
due test del tutto confrontabili.
C’è una nota importante da fare a proposito del comportamento al RNV-CF
dei 10 DMN: noi ci aspettavamo che un elemento fondamentale nel determinare
il comportamento dei pazienti a questo test, fosse il fatto che l’effetto di classe
grammaticale restasse oppure no significativo anche dopo la correzione dei
196
punteggi per immaginabilità. Infatti, questo elemento distingueva, secondo noi
(ma non solo secondo noi, vedi Luzzatti et al., 2002), i dissociati “forti” da
quelli “deboli”, quelli cioè per cui non era solo la classe grammaticale, ma anche
(e, forse, soprattutto) l’immaginabilità a determinare la diversa prestazione ai
nomi e ai verbi.
Questo non è accaduto! Infatti, la presenza di una prestazione migliore ai
verbi del nuovo test è trasversale ai due gruppi, così come la caduta della
percentuale di risposte corrette ai nomi.
Passiamo ora ad analizzare la prestazione dell’unico DMV (il numero 22)
che faceva parte del nostro campione.
Al test RNV-CF, egli si comporta nuovamente meglio con i verbi che con i
nomi in modo piuttosto evidente anche se non statisticamente significativo (47%
contro 29%; p = .08).
La mancata significatività statistica (sottolineo, però, che rimane un chiaro
trend) è da attribuirsi ad una percentuale di risposte corrette ai nomi leggermente
più alta, trascinata dalla notevole prestazione ai nomi della categoria 1PS (ben
59% di risposte corrette), cioè a quei nomi la cui forma fonologica è identica
alla prima persona singolare del verbo corrispondente: come vedremo in
discussione, questo indica una strategia risolutiva di tipo morfologico, che ha
successo solo con i nomi più facili da questo punto di vista (gli 1PS, appunto).
La prestazione al RNV-CF dei due pazienti non dissociati al compito di
denominazione non è omogenea: un soggetto (il numero 25) presenta una
prestazione del tutto confrontabile con quella ottenuta denominando le figure
(resta, quindi, non dissociato), mentre un altro (il numero 13) presenta una
percentuale di risposte corrette ai nomi molto più bassa rispetto al compito di
denominazione di figure: ciò lo rende in questo test dissociato-meglio-verbi.
197
Anche in questo caso, c’è il sospetto che la scadente prestazione ai nomi
consegua ad un tentativo da parte del paziente di compensare il proprio deficit
lessicale con una strategia di risoluzione fondata sull’applicazione di routines
morfologiche. In particolare, sembra che il paziente ipergeneralizzi il paradigma
cadere/caduta con una conseguente prestazione buona a questi item (i nomi PP),
ma scadente agli altri (i nomi DER e 1PS).
5. DISCUSSIONE
Come possiamo spiegare questo quadro? Che cosa ci dicono questi risultati a
proposito della dissociazione nomi-verbi presente nel nostro gruppo di 13
pazienti afasici?
Come abbiamo visto sopra, i 10 pazienti che mostravano una dissociazionemeglio-nomi al test di denominazione di figure si sono divisi in tre gruppi:
1. due soggetti sono ancora dissociati-meglio-nomi al test RNV-CF.
2. sei soggetti non mostrano più alcuna dissociazione in questo test.
3. due soggetti mostrano addirittura una dissociazione opposta, a favore
dei verbi.
Inoltre, il dissociato-meglio-verbi al test di denominazione (il numero 22)
non mostra più anch’esso alcuna dissociazione al test RNV-CF.
Potremmo, quindi, dire che:
198
1. i due pazienti che risultano DMN ad entrambi i test mostrano un
effetto di classe grammaticale molto forte, indipendente dal fattore
immaginabilità e dall’utilizzo di un contesto frasale di sostegno.
2. sei pazienti mostrano, invece, un effetto di classe grammaticale
prevalentemente legato all’effetto di immaginabilità tanto che,
quando essa è bilanciata tra nomi e verbi, non dissociano più; a
questo effetto và aggiunto quello legato alla presenza di una struttura
sintattica di sostegno e di un nome semanticamente, lessicalmente e
morfologicamente relato al verbo target che potrebbe avere aiutato il
recupero lessicale, quello dei verbi in particolare.
3. due pazienti sembrano così sensibili alle modifiche introdotte nel
compito RNV-CF rispetto al test di denominazione (immaginabilità
bilanciata e contesto frasale) che non solo non mostrano più una
dissociazione-meglio-nomi, ma addirittura ne rivelano una opposta
(meglio-verbi): l’immaginabilità bilanciata e la presenza del nome
relato hanno permesso un tale miglioramento del recupero lessicale
dei verbi che esso è diventato migliore del recupero lessicale dei
nomi.
4. il paziente dissociato-meglio-verbi sembra ottenere grande beneficio
dalla presenza del verbo relato: esso gli consente, almeno in alcuni
casi, di utilizzare una strategia morfologica di risoluzione del
compito che permette un miglioramento sensibile del recupero
lessicale dei nomi (soprattutto dei nomi 1PS, quelli più trasparenti
morfologicamente) il quale a sua volta fa scomparire la
dissociazione.
199
199
Tabella 25: confronto, paziente per paziente, delle prestazioni al test di denominazione su figura e al test RNV-CF.
DENOMINAZIONE DI FIGURE
Risultati
Variabili lessicali
Freq
Imm
%N
N° Af Art Nat
22 A 20 16
13 SR 72 36
25 B- 80 48
1 A 84 84
16 B+ 52 68
5 NC 80 76
12 A 84 88
18 A 88 88
4 SR 88 76
9 SR 92 64
15 B+ 100 68
17 B- 52 40
3 NC 84 72
Art-Nat
Art>Nat
Art>Nat
Art>Nat
Art>Nat
RNV-CF
TOT %V
18
44
Diss
V>N
Wald p
Wald
5,18 <.05
10,16 .001
5,2 <.05
54
64
42
50
N=V
N=V
84
60
78
86
88
82
78
82
46
78
44
16
32
48
38
46
58
46
4
28
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
21,27
20,93
15,2
12,32
11,36
14,26
9,51
17,17
14,4
16,09
An. bvariata
N-V + Imm
p
Wald
<.001 0,13
<.001 0,25
<.001 4,78
<.001 4,01
.001 11,71
<.001 1,27*
<.005 0,55
<.001 0,28
<.001 3,05*
<.001 4,05
p
n.s.
n.s.
<.05
<.05
.001
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
<.05
Risultati
Analisi univariata
N-V
DER vs 1PS+PP
%N
1PS
59
PP DER TOT
33
5
29
%V
47
Diss
N=V
chi2
p
17
47
50
50
9
50
18
49
47
49
V>N 11,07 <.001
N=V
65
24
24
65
41
82
88
82
41
88
67 55
17
9
33 32
67 64
50 64
50 77
100 91
100 82
50
64
83 77
60
15
29
64
53
76
91
84
53
82
89
38
42
76
47
78
80
87
27
27
V>N 9,87 .001
V>N 5,68 <.01
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N>V 6,67 <.01
N>V 28,00 <.001
chi2
12,42
Legenda: N° = numero del paziente; ; Af = tipo di afasia; Diss = superiorità dei verbi o dei nomi; Art-Nat = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi di
manufatti; A = afasia amnestica; B- = afasia di Broca senza agrammatismo; B+ = afasia di Broca con agrammatismo; W = afasia di Wernicke; SAR = sindrome
afasica residua; NC = afasia non classificabile; %N = percentuale di nomi corretti; %V = percentuale di verbi corretti; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza
d’uso orale; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald; 1PS = nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbo
corrispondente; PP = nomi con forma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi derivati dal verbo per aggiunta di un suffisso
derivazionale.
200
p
<.001
In questa interpretazione iniziale, però, l’azione dei due fattori che ci
proponevamo di studiare col test RNV-CF (l’immaginabilità e il contesto frasale)
è ancora confusa: i due effetti si intersecano e si sovrappongono non
permettendoci di coglierli entrambi con chiarezza. Vogliamo provare a
distinguerli meglio.
Il ruolo dell’immaginabilità. Il fatto che molti soggetti con dissociazione tra
nomi e verbi al compito di denominazione di figure non mostrino più questo
fenomeno al test RNV-CF potrebbe essere interpretato come prova del fatto che le
prestazioni al test di denominazione di figure conseguivano non ad un effetto di
classe grammaticale, ma al diverso gradiente di immaginabilità: di conseguenza,
in una prova dove le due categorie grammaticali sono perfettamente bilanciate per
questo aspetto, non vi sarebbe ragione di aspettarsi che la dissociazione sia ancora
presente.
Contro questa interpretazione vanno, però, due elementi.
Innanzitutto, il test RNV-CF è composto da nomi la cui immaginabilità media
(4,30) è inferiore a quella dei nomi che fanno parte del test di denominazione e da
verbi la cui immaginabilità media è invece quasi uguale a quella dei verbi della
prova di denominazione (4,52 contro 4,58): da ciò discende che, se fosse solo il
fattore immaginabilità a creare la dissociazione in denominazione, dovremmo
aspettarci una prestazione peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test
di denominazione, ma una prestazione ai verbi del RNV-CF confrontabile con
quella ottenuta dai pazienti ai verbi della prova di denominazione di figure. Al
contrario, ciò che si verifica è si il peggioramento ai nomi, ma anche un netto
miglioramento ai verbi: evidentemente, questo ultimo fenomeno non può essere
spiegato riferendosi al fattore immaginabilità.
201
Secondariamente, ci sono alcuni pazienti per cui, al test di denominazione,
l’effetto di classe grammaticale non è più significativo se i dati vengono corretti
per immaginabilità: ciò significa che in loro l’effetto di immaginabilità incide in
modo cospicuo nel determinare la dissociazione nomi-verbi.
Come è evidente, da questi soggetti, e solo da loro, ci saremmo aspettati la
riduzione dell’effetto di classe grammaticale al compito RNV-CF, ma così non è
andata: infatti, non dissociano al nuovo test anche pazienti che ritenevamo avere
un disturbo cognitivo per i verbi indipendente del fattore immaginabilità (il cui
effetto di classe grammaticale, cioè, restava significativo anche dopo la correzione
dei dati per immaginabilità), mentre, viceversa, nel RNV-CF continua ad avere
una prestazione migliore ai nomi un paziente che, al compito di denominazione,
sembrava subire un grande effetto di immaginabilità.
Sembra, quindi, che il numero ridotto di dissociati-meglio-nomi al test RNVCF sia solo in parte spiegabile con il bilanciamento dell’immaginabilità.
Il ruolo del contesto frasale e del verbo/nome relato. Come abbiamo detto nel
paragrafo precedente, se potevamo aspettarci da parte dei DMN una percentuale
minore di risposte corrette ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test di
denominazione per via della minore immaginabilità, ci ha piuttosto sorpreso il
miglioramento della prestazione dei DMN ai verbi.
Ricordo ancora, infatti, che questi ultimi non hanno nel test RNV-CF
un’immaginabilità diversa rispetto al test di denominazione: ci deve quindi essere
qualche caratteristica del test RNV-CF, diversa dall’immaginabilità, che ha
favorito il miglioramento ai verbi da parte dei DMN.
Questa caratteristica potrebbe essere la struttura del compito.
202
Il test RNV-CF, infatti, presuppone che sia fornito dall’esaminatore al paziente
afasico un nome relato al verbo target, sia semanticamente che
morfologicamente, (“Dalla finestra si vede la pioggia; dalla finestra si vede …”)
ed inoltre un contesto frasale, sia nella frase di esempio che l’esaminatore legge
(“Dalla finestra si vede la pioggia”), sia nella frase da completare (“Dalla finestra
si vede la …”).
Queste due caratteristiche del test RNV-CF sembrano favorire una prestazione
migliore ai verbi: in che modo?
Io vedo almeno tre possibilità, a proposito delle quali cercherò di dimostrare
che una è molto più probabile ed economica delle altre.
Innanzitutto, come avevamo ipotizzato a pagina 166 e seguenti, i pazienti
potrebbero cercare di risolvere il compito per via morfologica: in questo caso,
prenderebbero il nome, ne ricaverebbero la radice e ci aggiungerebbero il suffisso
verbale. Se così fosse, è chiaro che il nome relato fornito nella prima frasestimolo permetterebbe il miglioramento della prestazione ai verbi che abbiamo
osservato.
L’ipotesi è, però, piuttosto improbabile per due ragioni, una teorica e una
sperimentale:
1. consideriamo, infatti, la non-trasparenza del sistema morfologico
italiano: il procedimento ipotizzato è piuttosto dispendioso e necessita
di capacità morfologiche molto fini, che i pazienti afasici spesso non
hanno. Certo, esistono degli studi che dimostrano delle notevoli
capacità residue di applicazione di regole morfologiche, soprattutto
flessive, in pazienti agrammatici (Luzzatti, De Bleser, 1996), ma la
203
morfologia derivazionale sembra essere molto più complessa di quella
flessiva o, se non altro, meno predicibile.
2. La ragione sperimentale per cui questa ipotesi è improbabile è la
seguente: se i pazienti avessero usato una strategia simile a quella
ipotizzata, avremmo dovuto ragionevolmente aspettarci una
prestazione migliore con i verbi che hanno una relazione morfologica
più semplice e più trasparente col nome corrispondente (quelli del
gruppo 1PS e PP). Questo non si verifica in nessuno dei 10 DMN!
La seconda possibilità è che l’attivazione del nome corrispondente, causata
dall’ascolto (e/o lettura) della frase stimolo, faciliti l’accesso lessicale al verbo
target: il nome letto dall’esaminatore è, infatti, semanticamente (ma anche
morfologicamente, lessicalmente e, molto spesso, fonologicamente) relato al
verbo target ed è quindi ragionevole che, in un sistema a rete come quello
ipotizzato da tutti i modelli lessicali più recenti, incluso quello di Levelt et al.
(1999), la sua attivazione si diffonda ai nodi vicini, tra cui c’è molto
probabilmente il verbo target.
Se fosse così, però, dovremmo notare un effetto simmetrico nel passaggio dal
verbo al nome: l’ascolto del verbo relato pre-attiva il nome target, che diventa più
semplice da recuperare, con un conseguente miglioramento della prestazione ai
nomi nel RNV-CF rispetto ai nomi nel compito di denominazione.
Come abbiamo già descritto, però, ai nomi del test RNV-CF non si hanno
prestazioni migliori rispetto ai nomi del test di denominazione né da parte dei
DMN né da parte dell’unico DMV.
204
L’ultima ipotesi è quella per cui la struttura frasale e l’ascolto del nome
corrispondente fornisca al paziente afasico una facilitazione nel recupero della
struttura argomentale del verbo, un danno della quale potrebbe essere all’origine
della bassa prestazione ai verbi nel compito di denominazione.
E’ noto, infatti, che i nomi derivati da un verbo (come quelli presenti nel RNVCF) conservino la struttura argomentale del verbo stesso, anche se, come
dicevamo nel capitolo 1, non sono obbligati a realizzarla: l’ascolto del nome, per
di più in un contesto frasale, potrebbe quindi fornire al paziente quelle
informazioni che i suoi lemmi verbali non hanno più, o possiedono solo
parzialmente. La struttura frasale, fornita dalla frase da completare, potrebbe poi
ulteriormente facilitare l’inserimento del verbo.
In questo quadro, diventa spiegabile anche il fatto che l’ascolto del verbo
relato non sia, invece, facilitatorio nella produzione del nome. La struttura
argomentale, infatti, non è così indispensabile per recuperare i nomi: quand’anche
(come in questo test) essi ne posseggano una, non è strettamente necessario che
essa si dispieghi nella struttura sintattica della frase, come invece sono tenute a
fare le griglie tematiche dei verbi (vedi capitolo 1).
Questa ipotesi rende conto anche di un altro dato importante, quello per cui
soltanto i pazienti che sono risultati DMN al test di denominazione di figure
mostrano prestazioni peggiori ai verbi di questo test rispetto ai verbi del test
RNV-CF; infatti, i pazienti DMV e non dissociati, non avendo un deficit selettivo
per i verbi, paiono conoscere già la struttura argomentale dei verbi che devono
produrre e non hanno quindi bisogno di recuperarla dal nome relato ascoltato
nella frase stimolo.
205
Nel complesso, sembra, dunque, che le nostre previsioni siano state rispettate:
nel primo paragrafo di questo capitolo, infatti, avevamo detto che
l’immaginabilità bilanciata tra nomi e verbi e il contesto frasale in cui i soggetti
dovevano inserire la parola-target avrebbero avuto un effetto nelle prestazioni dei
nostri pazienti.
Come abbiamo visto, così è stato: con l’immaginabilità bilanciata molti
soggetti non hanno più manifestato nel test RNV-CF la dissociazione-meglionomi che li caratterizzava nel test di denominazione di figure; inoltre, l’effetto
facilitatorio del nome relato e del contesto frasale in cui i soggetti dovevano
inserire la parola-target ha favorito un generale miglioramento del recupero
lessicale dei verbi da parte dei DMN.
Questi due effetti, agendo in modo combinato, hanno fatto sì che alcuni
soggetti, dissociati-meglio-nomi al test di denominazione di figure, non
risultassero più dissociati al test RNV-CF o addirittura mostrassero in questa
prova una dissociazione-meglio-verbi.
L’interpretazione del deficit dei pazienti. Sulla base di queste considerazioni,
possiamo tentare un’interpretazione del deficit funzionale dei 13 pazienti che, nel
nostro studio, sono stati sottoposti sia al test di denominazione di figure che al test
RNV-CF.
I 9 pazienti DMN che migliorano la prestazione ai verbi nel
RNV-CF
sembrano mostrare un deficit a livello del lemma che colpisce selettivamente i
verbi ed in particolar modo la loro struttura argomentale. Inoltre, sono sensibili
all’immaginabilità degli item (come suggeriscono i dati di Luzzatti at al., 2002, e i
206
nostri dati sul compito di denominazione, i due aspetti del deficit potrebbero
essere legati).
Questi due elementi fanno sì che questi pazienti crollino ai nomi nel RNV-CF
a causa della loro bassa immaginabilità (e forse a causa del fatto che, essendo
nomi derivati da verbi, possiedono anch’essa una griglia tematica) e che invece
migliorino la loro prestazione ai verbi grazie all’aiuto che l’ascolto del nome
corrispondente dà loro nel recupero della struttura argomentale e all’effetto
facilitatorio della struttura frasale in cui il verbo target deve essere inserito.
Nel nostro campione è presente anche un paziente DMN in denominazione di
figure (il numero 3) che, però, non mostra né il miglioramento ai verbi né il
peggioramento ai nomi: come interpretare il suo deficit?
Nei fatti, la sua prestazione resta del tutto indifferente al contesto frasale e alla
presenza del nome deverbale: ciò potrebbe indicare che le informazioni da essi
fornite sono già presenti nel suo sistema cognitivo, che non sarebbe quindi leso
nella griglia argomentale a livello del lemma, ma ad un livello più periferico.
Egli, però, manifestava al test di denominazione un forte effetto di
immaginabilità che non può essere scomparso all’improvviso: ciò fa prevedere
quasi con certezza un peggioramento ai nomi nel RNV-CF in quanto essi sono
meno immaginabili di quelli compresi nel test di denominazione su figura.
Questo peggioramento, come abbiamo visto, non si è verificato, lasciando
pensare che qualcosa nel test RNV-CF abbia facilitato in questo paziente il
recupero dei nomi, compensando così l’effetto peggiorativo della bassa
immaginabilità.
207
Da ultimo, i tre pazienti non dissociati-meglio-nomi (13, 22 e 25) non
manifestano nessun miglioramento ai verbi: come abbiamo già anticipato, questo
è poco sorprendente dato che ciò che il contesto frasale e il nome corrispondente
possono fornire loro (la struttura argomentale), essi lo possiedono già.
Per ciò che riguarda i nomi, due dei tre soggetti (il numero 13 e il numero 22)
manifestano un effetto di tipo morfologico (entrambi hanno una prestazione
piuttosto scadente ai nomi DER, il paziente numero 13 va molto male anche con i
nomi 1PS): questo indica probabilmente l’uso di una strategia di risoluzione del
compito basata sul tentativo di generare il nome a partire dal verbo tramite
l’aggiunta di un suffisso di derivazione (questa strategia è chiaramente inefficace
in assenza di un’adeguata conoscenza lessicale della forma nominale corretta: ad
esempio, da cacciare posso derivare non solo caccia, ma anche cacciagione,
cacciamento, ecc.).
Nel complesso, non si vedono cambiamenti evidenti nelle prestazioni dei
pazienti, al di fuori di quelle create dall’effetto morfologico di cui abbiamo
appena parlato.
In generale, possiamo quindi dire che l’utilizzo di un contesto frasale e la
presenza di un elemento della classe grammaticale opposta corrispondente al
target non è stato di alcun aiuto per questi pazienti: le informazioni di tipo
sintattico-lessicale e sintattico puro che questi elementi portavano con sé
evidentemente non sono serviti loro per migliorare la produzione dei nomi. Ciò
indica con tutta probabilità che il loro disturbo è presente ad un livello più
periferico rispetto al livello del lemma che, invece, sembra proprio essere il locus
della lesione che ha colpito i 9 pazienti DMN descritti in precedenza.
208
6. CONCLUSIONI
I dati raccolti dalla somministrazione del test di denominazione su figura e del
test RNV-CF ad un gruppo di 13 afasici, sembra indicare la presenza di due gruppi
ben distinti per il livello a cui è possibile porre il danno funzionale
neurolinguistico.
Un primo gruppo di pazienti afasici risulta DMN al compito di
denominazione, mentre nel RNV-CF mostra un miglioramento della prestazione
con i verbi e un peggioramento con i nomi.
La migliore prestazione ai verbi nel RNV-CF è stata attribuita ad una
facilitazione nel recupero della griglia tematica dovuta alla presenza del nome
derivato dal verbo e di una struttura frasale in cui inserire il verbo target.
La peggior prestazione ai nomi sembra, invece, essere legata alla più bassa
immaginabilità che questi ultimi hanno nel test RNV-CF e al fatto che i nomi
presenti in questo compito sono derivati da un verbo, e dunque possiedono
anch’essi una griglia tematica.
Il quadro complessivo sembra dunque condurre ad un deficit a livello del
lemma, che colpisce in particolar modo la struttura argomentale e che, di
conseguenza, trae notevole giovamento dalla presenza di una struttura frasale o
dalla presenza di elementi che aiutano il recupero dei ruoli tematici legati ad
ogni verbo.
Un altro gruppo di pazienti, che sono risultati al compito di denominazione su
figura dissociati-meglio-verbi o non dissociati, non ha tratto alcun vantaggio dal
contesto frasale in cui deve essere effettuato il recupero lessicale nel RNV-CF.
209
Inoltre, la prestazione ai nomi è stata confrontabile nei due test, nonostante gli
item nominali del RNV-CF fossero meno immaginabili di quelli presenti nella
batteria di denominazione e possedessero una struttura argomentale: anche questo
dato è indice di una bassa sensibilità agli elementi di tipo lessicale-sintattico,
come la struttura argomentale, appunto.
Nel complesso, sembra quindi che il deficit funzionale di questi pazienti sia da
collocare ad un livello più periferico, di tipo lessicale-fonologico, paragonabile
al livello del lessema di Levelt, Roelofs e Meyer (1997).
A questi due gruppi di pazienti, si aggiunge un soggetto (il numero 3), il cui
deficit è difficilmente interpretabile in uno dei quadri, essendo caratterizzato da
elementi tipici del deficit lessicale-fonologico (i verbi non migliorano al RNVCF), ma anche da caratteristiche di origine non chiara (qualche elemento del test
RNV-CF facilita il recupero dei nomi, in modo da compensare l’effetto negativo
della ridotta immaginabilità).
210
5
DISCUSSIONE GENERALE
Negli ultimi vent’anni, l’interesse per le dissociazioni tra classi lessicali in
afasia è notevolmente aumentato: molti sono infatti i contributi che si sono
occupati di questi fenomeni e, soprattutto, delle loro implicazioni sulla struttura
del lessico mentale. In questo quadro, la dissociazione senz’altro più studiata è
stata quella tra nomi e verbi.
Tale dissociazione ha posto notevoli problemi di interpretazione: diversi
autori hanno proposto punti di vista anche molto differenti tra loro e la letteratura
è tutt’altro che concorde nell’indicare il locus funzionale della lesione che causa
la dissociazione. Non solo, ma anche alcuni dati sperimentali, che fino a pochi
anni fa erano ritenuti certi, sono stati messi in dubbio negli studi più recenti.
Il nostro lavoro si pone in questa cornice con l’obiettivo di dare un contributo
sperimentale al dibattito in corso, dopo avere riflettuto sulle basi linguistiche della
distinzione nomi-verbi e sulla letteratura neuropsicologica che si è interessata a
questo argomento.
In particolare, ci proponevamo di capire meglio il livello funzionale a cui
interviene il deficit che sta all’origine della dissociazione nomi-verbi.
Per raggiungere questo obiettivo abbiamo condotto due indagini sperimentali
di diverso tipo: dapprima, abbiamo riconsiderato da un punto di vista qualitativo i
211
risultati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002), in secondo luogo abbiamo
sottoposto 39 pazienti afasici ad un test di denominazione e 13 di questi 39
soggetti ad un test di completamento di frasi che abbiamo chiamato RNV-CF.
Il primo lavoro è consistito nella ripresa dei protocolli ottenuti sottoponendo
26 pazienti afasici dissociati ad un test di denominazione di azioni e oggetti:
abbiamo classificato qualitativamente gli errori di questi pazienti e abbiamo
studiato i “profili d’errore” di ciascun soggetto così ottenuti.
I risultati indicano l’esistenza di due profili d’errore principali, uno dominato
dagli scambi sintagmatici (nomi al posto di verbi o verbi al posto di nomi) e
l’altro dominato dagli scambi paradigmatici (nomi per nomi o verbi per verbi) e
dalle risposte nulle.
Le caratteristiche di questi profili sembrano indicare che il locus funzionale
del deficit all’origine della dissociazione non sia sempre uguale: infatti, mentre i
profili caratterizzati dagli scambi sintagmatici fanno pensare ad un deficit a livello
del lemma (vedi Levelt et al., 1999), i profili dominati dalle parafasie e dalle
risposte nulle lasciano pensare che il deficit intervenga a livello del lessema
(Levelt et al., 1999).
Inoltre, i dati emersi da questa analisi indicano che il danno a livello del
lessema caratterizza i dissociati-meglio-verbi, mentre quello a livello del lemma
sembra essere più frequente nei dissociati-meglio-nomi. A proposito di questi
ultimi, ci saremmo aspettati di rilevare delle differenze tra i DMN agrammatici e i
DMN con afasia di Wernicke: così non è stato, ad indicare che il deficit che causa
la dissociazione è trasversale a queste due sindromi afasiche e si manifesta in
entrambe con modalità simili.
212
La seconda parte del nostro lavoro sperimentale è invece consistita nella
somministrazione di due nuovi test da noi costruiti (un test di denominazione su
figura e il test RNV-CF) ad un campione di 39 pazienti afasici.
Anche i nuovi dati ottenuti in questo modo portano nella direzione che aveva
indicato l’analisi qualitativa dei protocolli e, in generale, la riconsiderazione dei
dati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002).
Riassumendo, questa “direzione” si costituisce di due fondamentali
affermazioni:
1. pur essendo possibile che l’effetto di immaginabilità o un disturbo
semantico sulla falsariga di quello ipotizzato da Bird et al. (2000)
causino, in qualche paziente, un’apparente dissociazione nomi-verbi, il
locus funzionale del deficit che, nella maggioranza dei soggetti,
provoca tale dissociazione va posto a livello lessicale.
2. il deficit lessicale all’origine della dissociazione può poi, a sua volta,
localizzarsi a livello del lemma, cioè ad un livello lessicale contenente
informazioni di natura sintattica (più spesso colpito nei DMN), oppure
ad un livello lessicale più periferico contenente informazioni
principalmente di tipo fonologico (più spesso colpito nei DMV).
Mi pare che queste due affermazioni abbiano alcuni interessanti risvolti sia in
campo clinico che in campo cognitivo, a proposito dei modelli neurolinguistici del
lessico.
Sul primo versante, la grande eterogeneità dei deficit che stanno all’origine
della dissociazione nomi-verbi invoca la necessità di un’attività diagnostica molto
213
precisa, che non si limiti ad indagare la prestazione dei pazienti ad un test di
denominazione su figura di oggetti e azioni, ma che approfondisca il locus del
deficit funzionale a monte del problema. In questa prospettiva, possono essere
molto utili prove che testino il recupero lessicale in contesti frasali (come il test
RNV-CF) o che richiedano la produzione di nomi e verbi bilanciati almeno per
immaginabilità e frequenza d’uso.
In linea con tutto ciò, il trattamento riabilitativo dei deficit selettivi per classe
grammaticale non può non tenere conto del livello a cui si colloca la lesione che
ha creato la dissociazione: nel caso si accerti un danno a livello del lemma, la
riabilitazione dovrebbe andare a insistere, oltre che sugli aspetti tradizionali del
trattamento dei disturbi del lessico, su aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi
quali la struttura argomentale dei verbi o il corretto utilizzo dei ruoli tematici.
Da un punto di vista cognitivo, i nostri dato depongono nettamente a favore
dell’esistenza di un livello lessicale in cui siano immagazzinate informazioni di
tipo sintattico (il livello del lemma ipotizzato da Levelt, Roelofs e Meyer (1999).
Si è molto dibattuto intorno a questo problema (Hillis, Caramazza, 1995;
Levelt et al., 1999; Rapp, Caramazza, 2002) e alcuni autori hanno anche
ipotizzato la non-necessità di tale livello, essendo possibile rappresentare la classe
grammaticale degli item a livello di ogni singolo lessico mentale periferico
(fonologico e ortografico, di entrata e di uscita).
A questo proposito, i dati neuropsicologici che abbiamo ottenuto e
commentato sembrano essere meglio inquadrabili in un modello lessicale che
preveda un “livello del lemma” centrale, dove sia rappresentata in modo unitario
e unico la classe grammaticale degli item, insieme ad altre informazioni che ad
214
essa sono legate (come appunto la griglia tematica o le regole di realizzazione
degli argomenti).
215
6
APPENDICE
Tabella 1: item e dati normativi della batteria di denominazione (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria;
FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe; EA=età di acquisizione
soggettiva; AN=accordo sul nome; IMM=immaginabilità; TIP=tipicità della figura).
N°
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
ITEM
cadere
fiorire/sbocciare
scoppiare
dimagrire
scivolare
volare
decollare
salire
Crescere/allungarsi
affogare/annegare
scendere
affondare
atterrare
ridere
sciare
nuotare
ruggire
bussare
marciare
piangere
brillare/luccicare/splendere
camminare
pattinare
sanguinare
starnutire
sbadigliare
fischiare
sparare
pregare
soffiare
legare/slegare
V/N
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
CAT
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
T
FREQ
62
0
9
9
14
17
1
35
44
1
44
2
1
41
0
0
0
0
4
24
1
18
0
1
0
1
3
9
41
9
40
LET
6
7
9
9
9
6
9
6
8
8
8
9
9
6
6
7
7
7
8
8
8
9
9
10
10
11
9
7
7
8
6
SIL
3
3
3
4
4
3
4
3
3
4
3
4
4
3
3
3
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
3
3
3
3
3
EA
1,75
3,55
3,75
5,90
2,85
2,85
6,00
2,85
3,20
4,30
2,55
5,05
5,85
2,26
4,40
3,85
4,15
3,40
5,45
1,80
4,80
2,11
4,50
4,10
2,90
3,50
3,75
4,20
4,50
2,35
3,55
AN
92%
92%
95%
95%
100%
91%
100%
97%
87%
100%
100%
95%
95%
100%
97%
100%
100%
95%
89%
100%
97%
97%
100%
92%
95%
95%
89%
92%
100%
100%
94%
IMM
4,32
3,63
3,79
2,89
4,53
4,37
4,42
4,21
2,68
4,32
4,16
3,89
3,89
5,58
5,53
5,95
3,39
5,42
4,32
5,05
3,58
5,84
5,21
4,53
4,84
5,74
4,53
4,26
5,89
5,32
4,47
216
TIP
4,17
4,83
5,17
5,75
5,33
5,25
6,42
5,50
5,42
6,42
5,92
6,92
6,42
6,25
6,42
6,42
6,75
5,75
6,33
5,58
3,83
4,83
6,08
6,17
5,50
5,50
3,83
5,83
5,92
5,25
5,17
Tabella 1: continua.
N°
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
72
73
74
75
76
77
78
79
ITEM
pelare/sbucciare
baciare
leccare
mordere/azzannare/morsicare
versare
scuotere/scrollare
gonfiare/pompare
lanciare
spingere
tagliare
imbucare/impostare
arrestare/ammanettare
sollevare
annaffiare
raccogliere
accarezzare
fotografare
guidare
salutare
candela
clessidra
fionda
fisarmonica
guanto
imbuto
manette
elicottero
pipa
arpa
coltello
cravatta
trattore
chitarra
stivale
piramide
cucchiaio
giacca
bottiglia
camion
scarpa
chiesa
divano
antenna
tavolo
banana
cammello
canguro
ciliegia
V/N
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
CAT
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Art
Nat
Nat
Nat
Nat
FREQ
0
1
0
0
22
0
7
22
13
39
6
9
3
0
39
0
8
14
111
0
0
0
0
0
0
0
1
1
2
2
2
2
3
3
4
7
9
11
12
17
34
36
56
59
0
0
0
0
LET
6
7
7
7
7
8
8
8
8
8
8
9
9
10
11
11
11
7
8
7
9
6
11
6
6
7
10
4
4
8
8
8
8
7
8
9
6
9
6
6
6
6
7
6
6
8
7
8
SIL
3
3
3
3
3
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
5
5
3
4
3
3
2
5
2
3
3
5
2
2
3
3
3
3
3
4
3
2
3
2
2
2
3
3
3
3
3
3
3
EA
4,95
2,50
2,85
2,60
3,95
5,45
3,95
3,16
3,15
2,95
5,70
5,10
4,40
4,05
3,90
2,65
4,45
4,60
1,80
2,73
6,13
4,40
4,80
2,93
3,80
5,1
4,0
3,60
5,73
2,33
3,93
3,00
4,26
3,53
4,73
2,00
3,33
1,87
3,1
2,1
2,86
2,5
5,0
2,07
2,33
3,93
3,86
2,93
AN
97%
100%
97%
100%
100%
94%
97%
100%
100%
95%
89%
97%
92%
97%
100%
100%
92%
100%
92%
100
95
90
86
100
100
98
98
100
100
100
98
95
100
100
98
100
98
98
93
100
100
93
95
98
100
93
98
81
IMM
3,95
5,53
4,37
5,06
4,95
3,74
4,42
4,53
4,22
5,00
3,95
4,00
4,26
4,89
4,16
5,63
5,05
5,58
5,42
6,53
5,95
5,21
5,32
6,32
5,95
5,79
5,79
5,89
5,53
6,47
6,26
5,79
6,47
5,84
6,11
6,53
6,11
6,58
6,00
6,16
6,21
6,47
5,00
6,37
6,26
5,68
5,63
6,53
217
TIP
6,33
5,92
4,58
5,00
6,58
3,83
4,25
5,67
5,42
5,50
6,33
6,58
5,58
6,67
4,50
5,17
6,50
5,83
6,08
6,18
5,91
6,18
5,64
5,09
6,09
6,27
5,36
6,18
6,00
5,73
6,36
4,55
6,00
5,18
6,27
6,91
5,64
6,18
5,09
4,64
5,09
5,64
4,73
6,73
6,45
4,82
5,64
5,91
Tabella 1: continua.
N°
80
81
82
83
84
85
86
87
88
89
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
100
ITEM
fragola
giraffa
gufo
rinoceronte
scoiattolo
zebra
ananas
elefante
ippopotamo
pavone
pinguino
pecora
carota
pappagallo
zucca
fungo
peperone
pomodoro
maiale
cavallo
cane
V/N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
CAT
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
Nat
FREQ
0
0
0
0
0
0
1
1
1
1
1
3
4
4
5
6
6
7
15
43
59
LET
7
7
4
11
10
5
6
8
10
6
8
6
6
10
5
5
8
8
6
7
4
SIL
3
3
2
5
4
2
3
4
5
3
3
3
3
4
2
2
4
4
3
3
2
EA
2,53
2,87
4,06
4,60
2,93
3,60
4,47
2,67
4,00
4,47
3,27
2,80
2,93
3,53
4,80
2,93
4,33
2,66
2,53
2,60
1,87
AN
100
98
90
93
93
95
100
100
83
98
95
98
100
90
86
93
95
100
98
100
100
IMM
6,53
5,74
5,47
5,58
5,68
5,79
6,42
6,21
5,68
5,32
5,74
5,95
6,21
5,79
5,53
6,00
5,95
6,47
5,95
6,16
6,16
Tabella 2: item e dati normativi del test RNV-CF (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria;
FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe;
IMM=immaginabilità).
N°
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
ITEM
volo
sbadiglio
lancio
starnuto
abbraccio
ballo
scoppio
canto
saluto
massaggio
sparo
crollo
bacio
arresto
salto
calcolo
V/N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
CAT
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
1PS
FREQ
13
0
0
0
15
5
4
10
41
0
0
2
61
0
11
32
LET
4
9
6
8
9
5
7
5
6
9
5
6
5
7
5
7
SIL
2
3
2
3
3
2
2
2
3
3
2
2
2
3
2
3
IMM
4,76
5,29
3,81
5,38
5,95
5,76
4,24
4,67
4,62
5,14
4,05
4,19
5,95
3,00
4,05
2,52
218
TIP
6,18
6,36
6,18
6,45
6,45
6,64
6,64
6,00
4,73
5,55
5,45
5,00
6,64
5,91
6,36
5,91
5,73
6,00
5,36
5,36
5,09
Tabella 2: continua.
N°
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
ITEM
soffio
pioggia
bombardamento
salvataggio
costruzione
evasione
ululato
camminata
nascita
potatura
rasatura
risata
pattinaggio
conversazione
interrogazione
giuramento
ruggito
preghiera
scrittura
partenza
lettura
esplosione
raccolta
pianto
caduta
applauso
corsa
morso
neve/nevicata
cadere
crollare
correre
partire
esplodere
volare
evadere
scoppiare
nascere
sparare
ridere
pattinare
conversare
ruggire
pregare
soffiare
sbadigliare
starnutire
V/N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
N
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
CAT
1PS
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
Der
PP
PP
PP
PP
PP
PP
Der/PP
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ia
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
Ie
FREQ
0
25
3
0
34
4
1
0
34
0
0
4
0
10
12
8
0
12
11
15
64
3
19
1
5
10
8
5
14
62
8
29
207
7
17
0
9
94
9
41
0
1
0
41
9
1
0
LET
6
7
13
11
11
8
7
9
7
8
8
6
11
13
15
10
7
9
9
8
7
10
8
6
6
8
5
5
6
6
8
7
7
9
6
7
9
7
7
6
9
10
7
7
8
11
10
SIL
2
2
5
4
4
4
4
4
3
4
4
3
4
5
6
4
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3
3
3
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3
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3
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3
3
4
3
4
3
3
3
3
4
4
3
3
3
4
4
IMM
2,90
6,19
4,48
4,19
3,86
3,05
4,19
4,48
5,29
3,76
3,76
4,33
4,48
4,14
4,38
2,81
4,19
3,14
4,14
3,24
3,40
5,00
3,00
4,71
4,00
4,86
4,24
4,10
6,24
4,57
4,24
5,33
4,24
4,52
4,10
3,19
4,10
3,62
4,90
5,52
5,33
4,52
4,24
4,57
4,24
5,19
5,05
219
Tabella 2: continua.
N°
64
65
66
67
68
69
70
71
72
73
74
75
76
77
78
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
89
90
ITEM
ululare
camminare
piangere
radere
interrogare
baciare
applaudire
mordere
arrestare
saltare
calcolare
scrivere
leggere
lanciare
raccogliere
bombardare
salvare
costruire
abbracciare
ballare
cantare
potare
salutare
massaggiare
nevicare
piovere
giurare
V/N
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
CAT
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T
T
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T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
T
A
A
D
Frq.Lip
0
18
24
3
15
1
2
0
9
22
11
420
263
22
39
0
22
39
17
17
11
7
111
0
4
10
22
LET
7
9
8
6
11
7
10
7
9
7
9
8
7
8
11
10
7
9
11
7
7
6
8
11
8
7
7
SYL
4
4
3
3
5
3
5
3
4
3
4
3
3
3
4
4
3
4
4
3
3
3
4
4
4
3
3
IMM
4,00
5,10
4,43
4,52
4,67
6,10
5,10
4,95
3,95
4,48
4,33
5,05
4,81
4,33
4,05
4,00
2,57
3,90
4,95
4,90
4,48
3,67
5,14
4,62
5,70
5,29
3,24
220
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246
Tabella 3: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-verbi (i dati sono percentuale).
N°
9
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
PV Amnestica verbi 57,5 0,0
/
/
10,0
10,0
2,5
nomi 16,7 0,0
/
/
80,0
3,3
0,0
totale 40,0 0,0
/
/
40,0
7,1
1,4
Latenza Circ
7,5
7,5
0,0
0,0
4,3
4,3
Visivo
5,0
0,0
2,9
Neol
0
0
0
Totale
100
100
100
Altro
/
/
/
N°
5
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
FG Amnestica verbi 45,0 0,0
/
/
12,5
25,0
0,0
nomi 10,0 0,0
/
/
60,0
13,3
0,0
totale 30,0 0,0
/
/
32,9
20,0
0,0
Latenza
2,5
0,0
1,4
Visivo Neol
0,0
2,5
3,3
0
1,4
1,429
Totale
100
100
100
Altro
/
/
/
N°
13
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
RM Amnestica verbi 67,5 0,0
/
/
2,5
12,5
0,0
nomi 43,3 0,0
/
/
33,3
13,3
3,3
totale 57,1 0,0
/
/
15,7
12,9
1,4
Latenza Circ
2,5
15,0
3,3
3,3
2,9
10,0
Visivo
0,0
0,0
0,0
Neol
0
0
0
Totale
100
100
100
Altro
/
/
/
N°
8
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
APr Amnestica verbi 65,0 2,5
/
/
2,5
22,5
2,5
nomi 36,7 6,7
/
/
13,3
16,7
0,0
totale 52,9 4,3
/
/
7,1
20,0
1,4
Latenza Circ
2,5
0,0
0,0
26,7
1,4
11,4
Visivo
2,5
0,0
1,4
Neol
0
0
0
Totale
100
100
100
Altro
/
/
/
221
Circ
12,5
13,3
12,9
Tabella 3: continua.
N°
7
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
DM Amnestica verbi 37,5 7,5
/
/
25,0
20,0
0,0
nomi 13,3 0,0
/
/
70,0
6,7
0,0
totale 27,1 4,3
/
/
44,3
14,3
0,0
Latenza Circ
5,0
5,0
10,0
0,0
7,1
2,9
Visivo
0,0
0,0
0,0
Neol
0
0
0
Totale
100
100
100
Altro
/
/
/
N°
20
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
GDP Wernicke verbi 40,0 7,5
/
/
27,5
15,0
0,0
nomi 16,7 0,0
/
/
40,0
23,3
0,0
totale 30,0 4,3
/
/
32,9
18,6
0,0
Latenza Circ
2,5
2,5
6,7
3,3
4,3
2,9
Visivo
2,5
0,0
1,4
Neol
0
0
0
Totale
97,5
90
94,3
Altro
2,5
10
5,7
Tabella 4: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-nomi (i dati sono percentuale).
N°
1
SIGLA AFASIA
AC Amnestica verbi
nomi
totale
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
40,0 2,5
0,0
5,0
7,5
25,0
2,5
73,3 0,0
0,0
0,0
6,7
13,3
0,0
54,3 1,4
0,0
2,9
7,1
20,0
1,4
Latenza
12,5
3,3
8,6
Circ Visivo
2,5
2,5
3,3
0,0
2,9
1,4
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
100,0
100,0
Altro
/
/
/
N°
6
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
GM Amnestica verbi 45,0
2,5
0,0
5,0
22,5
7,5
0,0
nomi 80,0
0,0
0,0
0,0
6,7
6,7
0,0
totale 60,0
1,4
0,0
2,9
15,7
7,1
0,0
Latenza
5,0
6,7
5,7
Circ Visivo
5,0
7,5
0,0
0,0
2,9
4,3
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
100,0
100,0
Altro
/
/
/
222
Tabella 4: continua.
N°
16
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
UB Wernicke verbi 47,5 20,0
10,0
0,0
0,0
10,0
2,5
nomi 86,7
0,0
0,0
0,0
0,0
3,3
0,0
totale 64,3 11,4
5,7
0,0
0,0
7,1
1,4
Latenza
5,0
3,3
4,3
Circ Visivo
0,0
2,5
3,3
0,0
1,4
1,4
Neol
2,5
0,0
1,4
Totale
100,0
96,7
98,6
Altro
/
3,3
1,4
N°
21
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
MC Wernicke verbi 10,0 22,5
20,0
15,0
7,5
7,5
2,5
nomi 70,0
0,0
0,0
0,0
13,3
3,3
0,0
totale 35,7 12,9
11,4
8,6
10,0
5,7
1,4
Latenza
7,5
0,0
4,3
Circ Visivo
7,5
0,0
6,7
0,0
7,1
0,0
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
93,3
97,1
Altro
/
6,7
2,9
N°
24
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
RD Wernicke verbi 7,5
27,5
22,5
12,5
12,5
0,0
0,0
nomi 56,7
0,0
0,0
0,0
3,3
26,7
3,3
totale 28,6 15,7
12,9
7,1
8,6
11,4
1,4
Latenza
7,5
10,0
8,6
Circ Visivo
10,0 0,0
0,0
0,0
5,7
0,0
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
100,0
100,0
Altro
/
/
/
N°
25
SIGLA AFASIA
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
RB Wernicke verbi 40,0 12,5
7,5
7,5
10,0
7,5
0,0
nomi 66,7
0,0
0,0
0,0
10,0 10,0
0,0
totale 51,4
7,1
4,3
4,3
10,0
8,6
0,0
Latenza
7,5
10,0
8,6
Circ Visivo
5,0
2,5
0,0
0,0
2,9
1,4
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
96,7
98,6
Altro
/
3,3
1,4
223
Tabella 4: continua.
N°
30
SIGLA
CB
AFASIA
Wernicke
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
verbi 15,0 7,5
5,0
10,0
20,0 22,5
7,5
nomi 46,7 0,0
0,0
0,0
23,3 16,7
0,0
totale 28,6 4,3
2,9
5,7
21,4 20,0
4,3
Latenza
2,5
10,0
5,7
Circ Visivo
10,0 0,0
3,3
0,0
7,1
0,0
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
100,0
100,0
Altro
/
/
/
N°
32
SIGLA
SM
AFASIA
Wernicke
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
verbi 10,0 5,0
5,0
2,5
50,0 12,5
0,0
nomi 46,7 0,0
0,0
0,0
26,7 13,3
10,0
totale 25,7 2,9
2,9
1,4
40,0 12,9
4,3
Latenza
5,0
0,0
2,9
Circ Visivo
10,0 0,0
0,0
3,3
5,7
1,4
Neol
0,0
0,0
0,0
Totale
100,0
100,0
100,0
Altro
/
/
/
N°
47
SIGLA
AFASIA
LZ Agrammatico verbi
nomi
totale
Latenza
7,5
13,3
10,0
Circ Visivo Neol Totale
2,5
7,5
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
1,4
4,3
0,0 100,0
224
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt
37,5 15,0 2,5
0,0
70,0 0,0
0,0
0,0
51,4 8,6
1,4
0,0
Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
22,5
5,0
0,0
13,3
3,3
0,0
18,6
4,3
Altro
/
/
/
Tabella 4: continua.
N°
48
SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
MBI Agrammatico verbi 35,0 12,5
nomi 83,3
0,0
totale 55,7
7,1
S/Ogg
2,5
0,0
1,4
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
22,5 10,0
2,5
0,0
0,0
6,7
0,0
0,0
12,9
8,6
1,4
Latenza
15,0
10,0
12,9
Circ Visivo Neol Totale
0,0
0,0
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
Altro
/
/
/
N°
49
SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
FC Agrammatico verbi 30,0 22,5
nomi 86,7
0,0
totale 54,3 12,9
S/Ogg
20,0
0,0
11,4
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
2,5
7,5
7,5
0,0
0,0
3,3
3,3
0,0
1,4
5,7
5,7
0,0
Latenza
5,0
3,3
4,3
Circ Visivo Neol Totale
2,5
2,5
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 96,7
1,4
1,4
0,0 98,6
Altro
/
3,3
1,4
N°
50
SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
FM Agrammatico verbi 40,0 15,0
nomi 70,0
0,0
totale 52,9
8,6
S/Ogg
15,0
0,0
8,6
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
5,0
15,0
2,5
0,0
6,7
0,0
0,0
0,0
5,7
8,6
1,4
Latenza
5,0
6,7
5,7
Circ Visivo Neol Totale
0,0
0,0
0,0 97,5
0,0
3,3
0,0 86,7
0,0
1,4
0,0 92,9
Altro
2,5
13,3
7,1
N°
51
SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
MP Agrammatico verbi 45,0 12,5
nomi 80,0
0,0
totale 60,0
7,1
S/Ogg
10,0
0,0
5,7
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
2,5
5,0
2,5
0,0
3,3
6,7
0,0
0,0
2,9
5,7
1,4
Latenza
5,0
10,0
7,1
Circ Visivo Neol Totale
15,0 2,5
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
8,6
1,4
0,0 100,0
Altro
/
/
/
225
Tabella 4: continua.
N° SIGLA
42 AF
R+ E-N/V
verbi 2,5
5,0
nomi 53,3
0,0
totale 24,3
2,9
S/Ogg
10,0
0,0
5,7
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
62,5
7,5
2,5
0,0
33,3
6,7
0,0
0,0
50,0
7,1
1,4
Latenza
2,5
3,3
2,9
Circ Visivo Neol Totale
5,0
0,0
0,0
97,5
0,0
0,0
0,0
96,7
2,9
0,0
0,0
97,1
Altro
2,5
3,3
2,9
N° SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
52 EM non classificabile verbi 27,5 15,0
nomi 56,7
0,0
totale 40,0
8,6
S/Ogg
15,0
0,0
8,6
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
20,0 12,5
2,5
0,0
30,0
0,0
0,0
0,0
24,3
7,1
1,4
Latenza
5,0
10,0
7,1
Circ Visivo Neol Totale
0,0
0,0
0,0
97,5
0,0
3,3
0,0 100,0
0,0
1,4
0,0
98,6
Altro
2,5
/
1,4
N° SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
53
FS non classificabile verbi 15,0 10,0
nomi 46,7 0,0
totale 28,6 5,7
S/Ogg
7,5
0,0
4,3
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
25,0 10,0
2,5
0,0
33,3 20,0
0,0
0,0
28,6 14,3
1,4
Latenza
5,0
0,0
2,9
Circ Visivo Neol Totale
25,0 0,0
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
14,3 0,0
0,0 100,0
Altro
/
/
/
N° SIGLA
AFASIA
R+ E-N/V
54 GP non classificabile verbi 37,5
7,5
nomi 70,0
0,0
totale 51,4
4,3
S/Ogg
0,0
0,0
0,0
S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
0,0
15,0 22,5
5,0
0,0
13,3 13,3
0,0
0,0
14,3 18,6
2,9
Latenza
5,0
3,3
4,3
Circ Visivo Neol Totale
2,5
2,5
0,0 97,5
0,0
0,0
0,0 100,0
1,4
1,4
0,0 98,6
Altro
2,5
/
1,4
226
AFASIA
Broca (-agr)
Tabella 4: continua.
N° SIGLA
AFASIA
57 MRdG non classificabile verbi
nomi
totale
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
45,0 12,5 2,5
0,0
2,5
12,5
2,5
70,0 0,0
0,0
0,0
0,0
3,3
3,3
55,7 7,1
1,4
0,0
1,4
8,6
2,9
Latenza
12,5
23,3
17,1
Circ Visivo Neol Totale
7,5
2,5
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 100,0
4,3
1,4
0,0 100,0
Altro
/
/
/
N°
58
R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+
5,0 32,5 20,0
0,0
30,0
2,5
0,0
53,3 0,0
0,0
0,0
23,3 10,0
0,0
25,7 18,6 11,4
0,0
27,1
5,7
0,0
Latenza
10,0
6,7
8,6
Circ Visivo Neol Totale
0,0
0,0
0,0 100,0
0,0
0,0
0,0 93,3
0,0
0,0
0,0 97,1
Altro
/
6,7
2,9
SIGLA
AFASIA
AP non classificabile verbi
nomi
totale
227
Tabella 5: profili di errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (DMN) e dei dissociati-meglio-verbi (DMV). I dati sono in percentuale.
a.
DMV
DMN
Denominazione delle azioni
R+
52
27
E-N/V
3
13
Ø
13
18
Circ
7
6
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+
2
4
18
1
2
7
12
3
Neol
0
0
S/Ogg S/Ogg+Vppt
0
0
9
3
Circ
8
1
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+
1
3
13
1
1
7
9
1
Neol
0
0
S/Ogg S/Ogg+Vppt
0
0
0
0
Altro
1
2
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+
1
4
15
1
1
7
10
2
Neol
0
0
S/Ogg S/Ogg+Vppt
0
0
5
2
Altro
1
2
b. Denominazione degli oggetti
DMV
DMN
R+
23
67
E-N/V
1
0
Ø
49
12
c. Denominazione degli oggetti e delle azioni
DMV
DMN
228
R+
40
43
E-N/V
2
8
Ø
29
15
Circ
7
4
Tabella 6: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (Wernicke, Agrammatici, Amnestici). I dati sono in percentuale.
a. Denominazione delle azioni
Amnestici
Agrammatici
Wernicke
R+ E-N/V
43
3
38
16
19
14
Ø
15
8
19
Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT
4
5
9
16
1
0
0
5
4
2
7
12
3
0
10
1
7
1
5
10
3
0
10
7
Altro
0
0
5
Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT
1
0
5
10
0
0
0
0
0
1
9
6
1
0
0
0
2
1
6
12
2
0
0
0
Altro
0
2
2
b. Denominazione degli oggetti
Amnestici
Agrammatici
Wernicke
R+
77
78
62
E-N/V
0
0
0
Ø
7
3
13
c. Denominazione degli oggetti e delle azioni
Amnestici
Agrammatici
Wernicke
229
R+
57
55
45
E-N/V
1
9
12
Ø
11
5
7
Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT
3
3
7
14
1
0
0
3
2
2
8
9
2
0
6
0
4
1
6
8
1
0
9
5
Altro
0
2
2
Tabella 7: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-verbi (Wernicke e Amnestici). I dati sono in percentuale.
a. Denominazione delle azioni
Amnestici
Wernicke
R+
55
40
E-N/V
2
8
Ø
11
28
Circ
8
3
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome
2
4
18
1
1
3
3
15
0
0
Circ
9
3
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome
1
3
11
0
0
0
7
23
0
0
b. Denominazione degli oggetti
Amnestici
Wernicke
R+
24
17
E-N/V
1
0
Ø
51
40
c. Denominazione degli oggetti e delle azioni
Amnestici
Wernicke
230
R+
41
30
E-N/V
2
4
Ø
28
33
Circ
8
3
Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome
1
3
15
1
0
1
4
19
0
0
Altro
10
Tabella 8: risultati dello studio per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposti al test di denominazione
%N
N°
22
1
3
4
5
7
9
10
12
15
16
17
18
19
20
23
26
27
29
32
33
35
36
231
Sup (N-V)
V>N
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
Sup (ArtNat)
Art>Nat
Art>Nat
Af
A
A
NC
SRA
NC
A
SRA
SRA
A
B+
B+
BA
W
A
NC
W
W
B+
W
B+
W
B+
Art Nat
20 16
84 84
84 72
88 76
80 76
92 84
92 64
68 68
84 88
100 68
52 68
52 40
88 88
68 68
84 64
72 80
68 64
72 48
92 88
72 64
40 64
84 76
84 84
N-V
TOT
18
84
78
82
78
88
78
68
86
82
60
46
88
68
74
76
66
60
90
68
52
80
84
%V
44
44
28
46
32
56
58
36
48
46
16
4
38
34
50
48
12
20
68
38
20
56
54
chi2
6,7
15,49
25,09
14,06
21,37
12,7
4,6
10,26
6,59
12,5
18,72
21,33
24,7
10,2
5,1
7,17
28,42
16,67
4,72
9,03
11,11
6,62
10,52
p
.01
.0001
<.0001
<.001
<.0001
<.001
<.05
.001
.01
<.001
<.0001
<.0001
<.0001
.001
.02
<.01
<.0001
<.0001
<.05
<.005
<.001
.01
.001
Art-Nat
chi2
p
4,2
<.05
8,7
<.005
Tabella 8: continua.
%N
N°
37
38
39
Sup (N-V)
N>V
N>V
N>V
2
6
8
11
13
14
21
24
25
28
30
31
34
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
Sup (ArtNat)
Art>Nat
Art>Nat
Art>Nat
N-V
Af
W
SRA
W
Art Nat
40 24
80 88
80 48
TOT
32
84
64
%V
12
62
26
A
SRA
A
SRA
SRA
A
A
A
BBW
A
W
72
100
56
88
72
64
68
92
80
12
96
56
32
70
100
54
88
54
52
76
88
64
10
86
52
26
52
96
52
72
42
50
66
82
50
16
72
52
20
68
100
52
88
36
40
84
84
48
8
76
48
20
chi2
5,83
6,14
14,59
p
.01
.01
.0001
Art-Nat
chi2
p
4,25
<.05
6,52
.01
5,56
.01
Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di
oggetti naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; %N, %V, Art, Nat = denominazione, rispettivamente, di nomi, verbi,
nomi di manufatti, nomi di oggetti naturali; N-V = confronto tra nomi e verbi; Art-Nat = confronto tra nomi di oggetti artificiali
e nomi di oggetti naturali.
232
Tabella 9: risultati dell'analisi per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposto al test di denominazione: ruolo delle variabili
semantico-lessicali (analisi univariata)
N°
22
1
3
4
5
7
9
10
12
15
16
17
18
19
20
23
26
27
29
32
33
35
36
233
Sup (N-V)
V>N
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
Sup (Art-Nat)
Art>Nat
Art>Nat
Af
A
A
NC
SRA
NC
A
SRA
SRA
A
B+
B+
BA
W
A
NC
W
W
B+
W
B+
W
B+
Imm
Wald
p
21,27
16,09
14,26
15,2
16,13
9,51
12,62
12,32
17,17
20,93
14,4
11,36
12,36
6,75
13,38
20,88
12,1
8,34
8,13
12,41
12,65
12,42
<.001
<.001
<.001
<.001
<.001
<.005
<.001
<.001
<.001
<.001
<.001
.001
<.001
<.01
<.001
<.001
.001
<.005
<.005
<.001
<.001
<.001
Freq
Wald
p
5,18
<.05
7,1
<.01
AoA
Wald
p
9,41
<.01
6,84
<.01
5,37
10,16
<.05
.001
8,87
6,68
6,84
14,32
5,26
3,88
10,4
15,5
6,38
18,5
4,96
4,74
<.005
.01
<.01
<.001
<.05
<.05
.001
<.001
.01
<.001
<.05
<.05
7,57
<.01
Let
Wald
11,03
5,07
p
Num Arg
chi2
p
.001
<.05
7,26
<.01
10,99
9,44
4,73
8,06
4,57
.001
<.005
<.05
.005
<.05
7,21
11,3
7,83
<.01
.001
.005
6,36
.01
5,11
<.05
7,63
4,06
<.01
<.05
Tabella 9: continua.
N°
37
38
39
Sup (N-V)
N>V
N>V
N>V
2
6
8
11
13
14
21
24
25
28
30
31
34
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
N=V
Sup (Art-Nat)
Art>Nat
Art>Nat
Art>Nat
Af
W
SRA
W
A
SRA
A
SRA
SRA
A
A
A
BBW
A
W
Imm
Wald
p
9,18
<.005
9
<.005
11,23
.001
8,95
<.005
7,67
5,01
<.01
<.05
Freq
Wald
p
5,78
10,16
6,53
15,11
Let
Wald
4,14
p
5,79
Num Arg
chi2
p
<.05
4,06
<.05
7,93
8,89
6,21
<.01
<.01
<.05
<.001
3,89
<.05
4,94
<.05
7,74
.005
.001
.01
5,2
10,06
.01
AoA
Wald
p
3,69
.05
6,47
.01
.01
<.05
<.005
7,23
<.01
11,65
3,75
.001
.05
Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti
naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let
= lunghezza in lettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del
test di Wald.
234
Tabella 10: risultati dell'analisi per casi singoli sui 26 pazienti afasici dissociati nomi-verbi: ruolo delle variabili semantico-lessicali
(analisi bivariata). Il valore del test di Wald e della probabilità associata in tabella si riferiscono al fattore classe grammaticale. Quando il
valore del test di Wald è seguito da un asterisco, il modello lineare ipotizzato spiega una porzione molto bassa della varianza dei dati tanto
che anche la varibile semantico-lessicale per la quale si covaria non è significativa in quel modello.
N°
22
1
3
4
5
7
9
10
12
15
16
17
18
19
20
23
26
27
29
32
33
35
235
Sup (N-V)
V>N
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
N>V
Sup (Art-Nat)
Art>Nat
Art>Nat
Af
A
A
NC
SRA
NC
A
SRA
SRA
A
B+
B+
BA
W
A
NC
W
W
B+
W
B+
W
N-V + Imm
Wald
0,13
4,05
1,27*
4,78
0,22
0,55
0,01
4,01
0,28
0,25
3,05*
11,71
0,66
1,13*
0,01
0,007
3,15*
0,67*
0,74*
0,22
0,18
p
n.s.
<.05
n.s.
<.05
n.s.
n.s.
n.s.
<.05
n.s.
n.s.
n.s.
.001
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
N-V + Freq
Wald
p
6,11
.01
12,05
.001
N-V + AoA
Wald
p
N-V + Let
Wald
P
14,19
<.001
6,8
13,33
<.01
<.001
18.09
9,78
<.001
<.005
7,17
13,17
11,52
18,01
14,59
19,98
9,38
5,16
6,67
22,36
14,01
5,6
<.01
<.001
.001
<.001
<.001
<.001
<.005
<.05
.01
<.001
<.001
.01
11,23
.001
14,53
12,25
18,27
7,24
4,69
<.001
<.001
<.001
<.01
<.05
21,59
10,18
4,19
<.001
.001
<.05
5,01
<.05
Tabella 10: continua.
N-V + Imm
N°
36
37
38
39
Sup (N-V)
N>V
N>V
N>V
N>V
Sup (Art-Nat)
Art>Nat
Af
B+
W
SRA
W
Wald
0,53
0,2
0,06
2,68*
N-V + Freq
p
n.s.
n.s.
n.s.
n.s.
Wald
N-V + AoA
p
N-V + Let
Wald
p
4,65
4,63
<.05
<.05
Wald
6,9
P
<.01
3,91
<.05
Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti naturali o
ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let = lunghezza in
lettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald.
236
237