rappresentazione mentale di nomi e verbi: uno
Transcript
rappresentazione mentale di nomi e verbi: uno
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA FACOLTA’ DI PSICOLOGIA Corso di laurea in Psicologia RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E VERBI: UNO STUDIO NEUROPSICOLOGICO SU PAZIENTI AFASICI. Relatore: chiar.mo prof. Claudio Luzzatti Crepaldi Davide matr. N° 598565 A.A. 2002-2003 “…ogni vita, la si riceve da qualcun altro, strumento nelle mani di Dio, datore di ogni bene.” Enzo Bianchi “La strada è sempre meglio della locanda.” Miguel de Cervantes “L’avvicinamento più grande alla realtà, alla comprensione, si fa non nella luce meridiana delle definizioni, ma nel buio crepuscolare dell’indefinizione, nel tenue, ma percepibile sconforto che lo accompagna e nella tolleranza di non lasciarsene sopraffare.” Leonardo Ancona 1 2 3 INDICE RIASSUNTO ABSTRACT INTRODUZIONE 7 8 9 PARTE I 1. CONCETTI INTRODUTTIVI 15 1. NOMI E VERBI IN LINGUISTICA 15 1. LE CATEGORIE LESSICALI 1.1 Le “classi” di parole 1.2 Criteri di definizione 1.3 Quante e quali? 1.4 Nomi e verbi 2. SOTTOCLASSI DI NOMI E VERBI 2.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali” 2.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi 2.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi 3. DIFFERENZE LINGUISTICHE TRA NOMI E VERBI 3.1 I tratti binari 3.2 Tratti comuni e tratti specifici 3.3 Il tratto [relazione] 4. ALTRE DIFFERENZE TRA NOMI E VERBI 4.1 Il caso grammaticale 4.2 Il movimento sintattico 16 16 16 19 21 22 23 24 25 35 35 38 39 41 42 44 2. CONCETTI LINGUISTICI O COSTRUTTI DELLA MENTE? 49 3. L’AFASIA 1. AFASIA E SINDROMI AFASICHE 1.1 Afasie non-fluenti 1.1.1 Afasia di Broca 1.1.2 Afasia globale 1.1.3 Afasia transcorticale motoria 1.1.4 Afasia doppia transcorticale 1.2 Afasie fluenti 52 52 54 54 55 56 57 57 3 1.2.1 Afasia di Wernicke 1.2.2 Afasia di conduzione 1.2.3 Afasia amnestica 1.2.4 Afasia transcorticale sensoriale 2. PATOLOGIA E NORMALITÀ 58 58 59 60 61 2. LA LETTERATURA SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI 66 1. GLI STUDI SU PAZIENTI AFASICI 1.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia 1.2 Le variabili lessicali 1.3 Il locus funzionale del deficit 1.3.1 Deficit sintattico 1.3.2 Deficit morfologico 1.3.3 Deficit semantico 1.3.4 Deficit lessicale 1.3.5 Deficit fonologico 1.4 Conclusione 68 68 71 74 75 79 80 89 95 96 2. GLI STUDI DI LOCALIZZAZIONE ANATOMICA 96 PARTE II 3. ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE AD UN TEST DI DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI 102 1. L’ANALISI QUALITATIVA 102 1. INTRODUZIONE 2. ANALISI QUALITATIVA DEI PROTOCOLLI 2.1 Materiali e metodi 2.2 Risultati 2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi 2.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi 2.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi 2.3 Discussione 2.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi 2.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia 2.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia 2.4 Profili di singoli soggetti 2.4.1 Due profili contrapposti 2.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi 2.5 Conclusioni 103 108 110 117 117 119 128 129 129 135 138 139 140 141 143 2. VERIFICA DELLE IPOTESI DI BIRD ET AL. (2000) 147 1. MATERIALI E METODI 2. RISULTATI 150 150 4 3. DISCUSSIONE 4. CONCLUSIONE 4. STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN UN GRUPPO DI PAZIENTI AFASICI ATTRAVERSO UN TEST DI RECUPERO LESSICALE IN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF) 151 154 156 1. MATERIALI E METODI: IL TEST DI RECUPERO LESSICALE DI NOMI E VERBI IN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF) 160 1.1 Il materiale 161 1.2 La somministrazione 162 1.3 La randomizzazione 163 1.4 Le variabili semantico-lessicali 164 1.5 I sottogruppi di item 166 1.6 Pregi e difetti 167 2. MATERIALI E METODI: UNA NUOVA BATTERIA DI DENOMINAZIONE 168 2.1 Quale test di denominazione usare? 169 2.2 La costruzione della nuova batteria 170 2.2.1 La base di partenza 170 2.2.2 Lo studio pilota 171 2.2.3 La selezione degli item 175 2.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali 181 2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione 183 3. MATERIALI E METODI: SOGGETTI E SOMMINISTRAZIONE DEI TEST 184 3.1 Soggetti 184 3.2 Materiale e somministrazione del compito 185 4. RISULTATI 187 4.1 Il test di denominazione su figura 187 4.2 Il test RNV-CF 191 4.3 Denominazione e RNV-CF a confronto 192 5. DISCUSSIONE 198 6. CONCLUSIONI 209 5. DISCUSSIONE GENERALE 211 6. APPENDICE 216 BIBLIOGRAFIA 237 5 6 RIASSUNTO Gli studi neuropsicologici su pazienti afasici hanno fornito dati importanti per la comprensione della struttura dell’apparato linguistico mentale: in particolare, la scoperta della possibile dissociazione tra le capacità di recupero lessicale di nomi e verbi nei pazienti afasici ha aperto un interessante dibattito sulla rappresentazione mentale di queste due classi lessicali.. Alcuni autori sostengono, infatti, che le categorie di nome e verbo non siano rappresentate a livello mentale, ma riflettano differenze di tipo semantico; altri, invece, ritengono che l’informazione relativa a queste classi lessicali sia davvero rappresentata nel sistema linguistico mentale, secondo alcuni a livello sintattico, secondo altri a livello morofologico piuttosto che lessicale o fonologico. Lo scopo di questo lavoro è di fornire un contributo sperimentale al dibattito in corso, dopo aver considerato gli elementi che la letteratura neuropsicologica offre e dopo aver riflettuto sulle basi linguistiche della distinzione nomi-verbi. Questo contributo sperimentale è stato ottenuto attraverso una rianalisi, di tipo qualitativo e quantitativo, di alcuni dati già presenti e discussi in letteratura e attraverso la somministrazione ad un gruppo di pazienti afasici di due nuovi test di recupero lessicale da noi costruiti. I risultati ottenuti sembrano indicare che il deficit all’origine della dissociazione è da collocarsi a livello lessicale piuttosto che semantico o sintattico e che tale deficit non è sempre uguale nei diversi pazienti dissociati, potendo collocarsi sia ad un livello lessicale-sintattico (il livello del lemma) sia ad un livello più periferico, lessicale-fonologico (il livello del lessema). 7 ABSTRACT Neuropsychological studies provided important evidences regarding the organization of lexical representations and the underlying conceptual structure. For instance, it has been shown that aphasic patients may undergo a lexical damage that is specific for grammatical classes, like nouns and verbs. The interpretation of this phenomenon is not obvious: many authors have proposed different accounts, each of which refers to a specific level of language analysis (semantic, syntactic, lexical or phonological level). The aim of the present study is to provide an experimental contribution to the debate upon the functional locus of the deficit causing noun-verb dissociation, by testing a group of aphasic patients for lexical retrieval. We will also supply an overview of linguistic and theoretical basis of the distinction between nouns and verbs and explore the neuropsychological literature upon noun-verb dissociation and its interpretation. Our results indicate that the noun-verb dissociation is a consequence of a lexical impairment that can occur either at the lemma level (i.e. a level at which lexical-syntactic information like theta-roles or argument structure are stored) or at the lexeme level (i.e. a more peripheral stage involved in storing the words’ phonological structure). 8 INTRODUZIONE Il lessico mentale è uno degli argomenti che sono stati maggiormente dibattuti negli ultimi anni di ricerca neurolinguistica. Molti autori hanno indagato la struttura di questo costrutto, peraltro non nuovo nella storia della psicologia: che dovesse esistere da qualche parte nella mente un “magazzino” che contenesse le “immagini delle parole” era già chiaro e comunemente accettato dagli studiosi della seconda metà dell’ottocento (Wernicke, 1874; Lichtheim, 1885; Freud, 1891). Non si può, però, certo dire che ai tempi di Broca, Wernicke e Lichtheim, si parlasse di un lessico mentale come lo intendiamo noi oggi; le immagini delle parole, infatti, altro non erano che engrammi motori o pattern uditivi, legati in modo stretto ad un contesto associazionistico senso-motorio. Soltanto con l’avvento della linguistica moderna si è cominciato a parlare di un livello lessicale del linguaggio, intendendo con esso un livello intermedio tra quello concettuale-semantico e quello fonologico-articolatorio; in questo senso, le parole sono considerate puri simboli (significanti, secondo la terminologia semiotica), etichette che acquisiscono senso e utilità solo in quanto riconosciute dai parlanti come associate a determinati concetti. Interpretato in questo modo, il lessico è diventato negli ultimi decenni un riferimento costante per l’interpretazione clinica dei sintomi delle sindromi afasiche e un argomento di ricerca estremamente dibattuto in psicologia cognitiva e neuropsicologia. 9 In particolare, ci si è riferiti al lessico mentale per interpretare un fenomeno clinico di grande interesse, emerso circa vent’anni fa (Baxter, Warrington, 1985): la dissociazione tra nomi e verbi in afasia. Esso consiste in prestazioni differenti con le due classi lessicali ottenute in compiti linguistici che coinvolgono nomi e verbi, come la denominazione di figure, il completamento di frasi, il compito di fluenza, l’associazione di parole a figure. Le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno sono ormai molto forti: si è visto, certo, che molte delle dissociazioni riportate nel passato in letteratura sono dovute al mancato bilanciamento delle principali variabili lessicali (immaginabilità e frequenza d’uso, ad esempio), ma si è anche dimostrato come altri casi siano, invece, interpretabili solo come dei veri effetti di classe grammaticale. Tutti i ricercatori sono, quindi, d’accordo sul fatto che esista il fenomeno della dissociazione nomi-verbi; molto meno accordo c’è, però, sul modo di spiegarlo. Alcuni, infatti, ritengono che la classe grammaticale non sia rappresentata a livello lessicale e che il fenomeno sia da spiegare in termini di rappresentazioni semantiche; altri ritengono, invece, che la dissociazione sia genuinamente lessicale e che, quindi, sia necessario studiare il modo in cui la categoria grammaticale è rappresentata nel lessico; altri ancora fanno risalire la dissociazione-meglio-nomi a problemi di natura sintattica che impediscono agli afasici di processare in modo corretto i verbi, più complessi dei nomi morfosintatticamente. Come si può vedere, il panorama è molto variegato e le ipotesi interpretative sono molte e di natura piuttosto differente tra loro. 10 Noi indagheremo il fenomeno della dissociazione attraverso la riconsiderazione dei risultati ottenuti da Luzzatti et al. nel loro lavoro del 2002 e attraverso la somministrazione ad un campione di pazienti afasici di un compito di recupero lessicale e di un nuovo compito di denominazione di figure da noi costruito; prima di affrontare la parte sperimentale, però, riassumeremo le principali basi teoriche e storiche del problema. La tesi sarà, quindi, organizzata in due parti: una introduttiva in cui affronteremo, come detto, gli aspetti teorici (capitolo 1) e storici (capitolo 2) della questione della dissociazione nomi-verbi e una sperimentale in cui, invece, parleremo del nostro lavoro con i pazienti (capitoli 3 e 4) e trarremo le conclusioni dai dati che sono emersi (capitolo 5). Prima di cominciare, però, desidero ringraziare i miei “compagni di viaggio”, coloro che in questi due anni mi sono stati vicini con entusiasmo, pazienza, discrezione, interesse, disponibilità… in un parola, con amore. Ringrazio Silvia perché la serenità che mi hanno dato due braccia sempre pronte a stringermi e darmi coraggio è stata fondamentale e perché la sua voce sa ricordarmi di tornare bambino e recuperare la semplicità e la gioia che a volte perdo. Ringrazio il papà e la mamma perché è molto più facile studiare quando c’è qualcuno che ti prepara la cena, ti rifà il letto e và a fare la spesa anche per te: spero di diventare capace come voi di servire gli altri con gratuità in tutto, nelle grandi e nelle piccole cose. Ringrazio Luca perché mi riempie ogni giorno il cuore di gioia con la sua spensieratezza e la sua energia. 11 Ringrazio Laura, don Marco, Marco e Paolo perché se oggi riesco a donare un po’ di amore agli altri è solo perché essi me ne hanno dato una quantità enorme in tanti anni di vita insieme. Ringrazio gli amici che hanno camminato con me verso Santiago, insegnandomi che c’è una gioia grandissima nella condivisione della fatica e nel dono gratuito. Ringrazio tutti i miei amici, la Compagnia Filodrammatica “Entrata di Sicurezza” e tutti coloro che ho conosciuto in questi anni di studi perché hanno rinnovato continuamente in me la gioia e lo stupore dell’amicizia. Ringrazio tutti coloro con cui ho condiviso l’esperienza educativa in oratorio e i ragazzi cui ho tentato di dare qualcosa di me: quasi tutte le mie convinzioni, idee e passioni sono nate educando. Si dice che un regalo inaspettato valga doppio: forse non è così, ma sicuramente la gioia che esso dà è grandissima. In questi due anni ho conosciuto persone che avrebbero potuto non donarmi nulla…ed invece mi hanno travolto di generosità! Ringrazio Lorenzo Montali, Chiara Ripamonti, Emanuela Bricolo, Roberta Daini, Michele Burigo, Alberto Gallace, Lola De Hevia e gli altri ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca che hanno creato intorno a me un bellissimo clima di accoglienza, ideale per lavorare bene. Ringrazio le logopediste che mi hanno aiutato a raccogliere i dati sui pazienti afasici: in particolare, Mariarosa Colombo per la sua capacità di impegnarsi per gli altri, Graziella Ghirardi per la tenerezza con cui accompagna i pazienti e Giusy Zonca per la sua travolgente allegria. Ringrazio Silvia Aggujaro per la spontaneità che ha reso il nostro lavoro insieme più divertente, oltre che molto costruttivo. 12 Ringrazio Gennaro Chierchia per la paterna pazienza e disponibilità che mi ha mostrato in questi due anni: la semplicità con cui sa donare le sue conoscenze agli altri è davvero uno straordinario e preziosissimo dono. Ringrazio Saskia Arduino per l’enorme aiuto che mi ha dato nei primi passi del mio cammino, notoriamente i più difficili: il suo appoggio e la sua competenza sono davvero stati fondamentali per questa tesi. Infine, ringrazio Claudio Luzzatti perché non si è limitato ad assistere il mio lavoro, ma ha voluto costruirlo insieme a me. E’ stato sempre presente quando avevo bisogno di lui e mi ha continuamente donato il suo entusiasmo, la sua partecipazione e la sua disponibilità: in questo contesto imparare tanto è stato non solo molto facile, ma piacevole e divertente. Mi sono dilungato nei ringraziamenti volutamente, perché sono convinto che un uomo nella sua vita possa fare ben poco da solo, ma sia capace di cose incredibili se riconosce l’amore che gli altri quotidianamente gli danno. Quali grandi doni ho ricevuto! Questa tesi non è altro che il frutto di questi doni, che mi hanno davvero riempito di gioia e che spero di aver custodito e fatto maturare in modo adeguato. 13 PARTE I Come già anticipato, ci occuperemo in questa prima parte della tesi degli aspetti teorici e storici del problema della dissociazione nomi-verbi. In particolare, nel primo capitolo introdurremo i concetti teorici di nome e verbo da un punto di vista linguistico; inoltre, descriveremo le principali sindromi afasiche e discuteremo del problema metodologico dell’indagine sulla struttura della mente condotta con esperimenti su pazienti cerebrolesi. Nel secondo capitolo, invece, ci soffermeremo più specificamente sul fenomeno della dissociazione nomi-verbi, analizzando il contributo della ricchissima letteratura neuropsicologica e neurocognitiva sull’argomento. Parte I Capitolo 1 CONCETTI INTRODUTTIVI Capitolo 2 LA LETTERATURA SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI 14 1 CONCETTI INTRODUTTIVI 1. Nomi e verbi in linguistica Questa tesi si occupa dell’organizzazione mentale dei nomi e dei verbi; i concetti di nome e di verbo verranno dunque considerati come costrutti mentali. Storicamente, però, essi non sono nati in ambito psicologico, ma sono stati “presi in prestito” dalla linguistica, scienza con cui la psicologia ha iniziato da qualche decennio ad intrattenere rapporti sempre più stretti. Mi sembra quindi necessario, prima di occuparci dei costrutti mentali nome e verbo, osservare e conoscere i corrispettivi costrutti linguistici, da cui storicamente derivano. Ci porremo, perciò, qualche domanda su come queste categorie lessicali siano emerse nella ricerca linguistica, su quali siano i dati che giustificano la loro distinzione, su quali rapporti intrattengano da un punto di vista puramente linguistico e su quale sia il loro status semantico. 15 1. Le categorie lessicali 1.1 Le “classi” di parole Le parole si “comportano” tutte allo stesso modo? Vanno tutte incontro agli stessi fenomeni? Detto in altri termini, sono tutte dello “stesso tipo”? La risposta è evidentemente no: ci sono delle parole che indicano azioni (camminare), altre che indicano oggetti (sedia) e altre che sembrano non indicare né azioni né oggetti (senza); ancora, ci sono parole che possono stare in certe posizioni e altre no, ci sono parole che indicano relazioni e altre non relazionali. Le parole non sono quindi tutte uguali: ma allora, è possibile raggruppare le parole in classi? E’ possibile costruire un modello con queste classi? Le classi sono disgiunte e complementari tra loro? Corrispondono a quelle che ci hanno insegnato a scuola? Inoltre, queste categorie funzionali sono costrutti prettamente linguistici o sono anche categorie della mente? Per rispondere a queste domande dobbiamo provare a costruire queste categorie e vedere che cosa succede. 1.2 Criteri di definizione Un primo tentativo di costruire queste “classi” potrebbe essere fatto cercando delle caratteristiche necessarie e sufficienti che definiscano ciascuna delle ipotetiche categorie. 16 Percorrendo questa strada si scopre, innanzitutto, che non è possibile trovare un criterio inerente1 che, da solo, renda conto della distinzione tra due classi (nome e verbo, ad esempio) disgiunte tra loro2. Per chiarire meglio, uso un esempio: è conoscenza comune (utilizzata in maniera proficua anche nell’insegnamento delle basi della grammatica ai bambini) che i nomi indichino oggetti e i verbi, invece, azioni. Questo è sicuramente vero, in generale3; non possiamo, però, usare questo criterio, da solo, per determinare univocamente se una parola sia un nome o un verbo; infatti, non riusciremmo a spiegare perché “gioia” sia un nome o perché “temere” sia un verbo. Allora potremmo usare, invece di un solo criterio, alcuni criteri in modo congiunto. In questo modo, è possibile definire meglio le classi lessicali, ma non descrivere perfettamente le nostre intuizioni di parlanti. Ad esempio, un verbo potrebbe essere una parola che indica un’azione oppure una parola astratta e relazionale: secondo questo criterio, “temere” sarebbe ben classificato, ma non “soffrire” (che non indica un’azione vera e propria, è astratto, ma non relazionale) o “relazione” (che non indica un’azione, è astratto, è relazionale, ma non è un verbo!). Negli esempi fatti finora, abbiamo considerato soltanto criteri semantici e abbiamo visto che non è possibile definire le classi lessicali che intuitivamente 1 un criterio inerente è un criterio fondato su proprietà della parola che non si riferiscono alla struttura della frase; sono proprietà di questo tipo tutte le proprietà “semantiche” (come, ad esempio, denotare un’entità concreta o astratta) e alcune proprietà “morfo-sintattiche” (come la coniugazione del verbo o l’essere regolare o meno). 2 questa mi sembra essere l’intuizione dei parlanti: non esistono parole che siano contemporaneamente nome e verbo e, quindi, le due classi sono disgiunte. 3 ed è probabilmente stato così anche nell’evoluzione del linguaggio umano. 17 ciascun parlante conosce con un insieme definito di caratteristiche necessarie e sufficienti. Provando ad usare criteri di altro tipo, scopriamo, però, che esistono delle prove molto affidabili per decidere l’appartenenza di una parola ad una certa classe (almeno per i nomi, i verbi, le preposizioni e gli aggettivi); questi criteri sono così potenti che quasi possono essere considerati necessari e sufficienti. Essi non sono, però, semantici, ma distribuzionali4. Ad esempio, in italiano, un verbo può precedere direttamente un nome proprio all’interno di un sintagma5, mentre un nome non può farlo, ma ha bisogno di una preposizione interposta: (1) (2) (3) Mario tradisce Maria *Il tradimento Maria da parte di Mario Il tradimento di Maria da parte di Mario Esistono, poi, caratteristiche sub-lessicali che possono differenziare parole di classi diverse: ad esempio, solo certe parole (gli aggettivi) possono essere modificate con il suffisso -issimo/a/i/e. Anche questi criteri sono molto affidabili. 4 “distribuzionale” è il contrario di “inerente”; un criterio distribuzionale, infatti, si riferisce al comportamento della parola nella frase (ad esempio, il fatto che un verbo sia transitivo o intransitivo oppure il fatto che possa essere preceduto o seguito da certi elementi e non da altri). Si potrebbe notare che “distribuzionale” equivale a “sintattico”: questo è in parte vero, ma preferisco conservare la dizione “distribuzionale” per indicare che questi criteri sono “ingenui”, ateorici; ciascuno di noi, infatti, ne ha una familiarità tale che è in grado di capirli e usarli con facilità anche senza avere mai studiato sintassi. 5 quest’ultima specificazione è importante. Infatti è possibile dire: “Sotto il sole Maria suda”. In questa frase, il nome sole precede direttamente il nome Maria: i due nomi, però, appartengono a due sintagmi diversi. Se così non fosse, la frase sarebbe non-grammaticale. Il concetto di sintagma è uno dei più importanti nella linguistica moderna; lo definiremo e studieremo più avanti (pagina 27). Per ora sia sufficiente dire che il sintagma è l’entità linguistica sopralessicale più piccola, è fortemente strutturato al suo interno ed ha una struttura costante, indipendente dalla “categoria” di appartenenza del sintagma stesso. 18 Riassumendo, non è possibile dividere le parole in classi lessicali disgiunte e complementari sulla base di criteri puramente semantici (o comunque, inerenti). E’ possibile, invece, individuare delle caratteristiche di tipo morfologico e distribuzionale che sono proprie di certi gruppi di parole e non di altri; sulla base di questi criteri, e di quelli inerenti citati sopra, diventa relativamente facile per un linguista (e per tutti i parlanti nativi di una lingua) distinguere parole di diverse classi lessicali. Ogni classe di parole potrebbe, quindi, essere descritta come un insieme di caratteristiche di diverso tipo (semantiche, morfologiche, distribuzionali), ciascuna con un diverso livello di “affidabilità”, dove per “affidabilità” si intende il grado di condivisione di quella caratteristica da parte delle parole che fanno parte di quella categoria: ad esempio, il tratto “essere potenzialmente preceduto da un determinante” è condiviso da tutti i nomi, mentre il tratto “indicare un oggetto” è proprio della maggioranza dei nomi, ma non di tutti. Come si vede, quindi, le categorie lessicali non sono descrivibili tramite un numero definito di tratti necessari e sufficienti, ma tramite delle caratteristiche, alcune molto “tipiche” o molto “affidabili” (quasi a raggiungere lo status di necessità-sufficienza), altre meno “tipiche”, perché non condivise da tutti i componenti della classe. 1.3 Quante e quali? Abbiamo visto quali caratteristiche necessariamente hanno le classi in cui potremmo raggruppare le parole che hanno un comportamento simile tra loro. 19 Questo è tutto quello che possiamo fare semplicemente osservando il linguaggio così come si presenta a noi ogni giorno. Infatti, se volessimo stabilire quante classi lessicali esistono e quali sono queste classi, avremmo bisogno di guardare il linguaggio attraverso la “lente” di una teoria. Mi spiego meglio: abbiamo visto che le differenze esistenti tra parole diverse sono moltissime. Quali di queste differenze dobbiamo allora considerare per tentare una classificazione? A meno di non procedere a caso, non si può rispondere a questa domanda senza farsi guidare da un’ipotesi interpretativa, per quanto rudimentale, sul funzionamento del linguaggio. Da questo deriva che “lenti teoriche” diverse (applicate, magari, a lingue molto diverse tra loro) possono lasciare vedere un numero diverso di classi lessicali o tipi diversi di classi lessicali. Ma allora, il sistema di classificazione della linguistica moderna non è universale? E, forse, nemmeno l’unico possibile? E se non è l’unico possibile, ha uno status privilegiato solo per motivi storici e culturali? Rispondere a queste domande non è così semplice, anche per ragioni “affettive”; vogliamo molto bene ai nostri costrutti e alle nostre convinzioni ed è difficile chiedersi con serenità e obiettività se questi siano fondati. Nella scienza, però, ogni teoria è solo un modo possibile di spiegare i dati: può sempre succedere (ed in effetti è capitato spesso) che emergano modi alternativi di organizzare teoricamente le conoscenze e che questi risultino più efficaci di quelli che eravamo abituati ad usare. 20 1.4 Nomi e verbi Detto questo, pare che almeno alcune categorie lessicali non siano solo frutto dell’uso di una particolare teoria. La lingua è un mezzo di comunicazione che può servire a diversi scopi: ordinare, chiedere, mettere in atto qualcosa (un matrimonio, ad esempio), dichiarare uno stato di cose a proposito del mondo o di se stessi. A tutte queste funzioni sottostà la natura primariamente predicativa del linguaggio: attraverso il linguaggio, io posso affermare uno stato di cose, metterlo in atto, chiedere se sussiste, ordinare che venga instaurato, ma, in tutti questi casi, il nucleo comunicativo resta uno stato di cose, il fatto che qualcuno sia qualcosa (Graffi, 1994). Per questo, due elementi devono essere necessariamente presenti (anche se, a volte, possono restare inespressi fonologicamente) in ogni frase: un entità linguistica che serve per predicare qualcosa (di solito, il verbo) e una che serve per specificare i protagonisti della predicazione, cioè gli argomenti (di solito, il nome6). Questa considerazione, unita alla presenza praticamente costante di entità lessicali di tipo verbale e nominale nelle diverse lingue del mondo, assegna a nomi e verbi un ruolo privilegiato nel panorama delle categorie lessicali. Possiamo fare un’ultima, ma importante considerazione: in neuropsicologia esistono, con frequenza non trascurabile, doppie dissociazioni tra nomi e verbi, mentre non sono mai state rilevate dissociazioni significative tra avverbi ed aggettivi o tra preposizioni e congiunzioni. Anche questo, evidentemente, è un 6 più correttamente, il sintagma verbale e il sintagma nominale: introdurremo questi concetti tra poco. Vedi nota 5. 21 segno del fatto che nomi e verbi non siano classi grammaticali come le altre, ma abbiano qualcosa di “speciale”. 2. Sottoclassi di nomi e verbi Stabilito che è possibile distinguere tra diverse categorie di parole, diventa molto interessante indagare più a fondo la composizione interna di queste categorie, almeno di quelle che riteniamo essere praticamente universali (nome e verbo, appunto). Indagare più a fondo la composizione interna significa, almeno in una fase iniziale, chiedersi se sia possibile costruire delle sottoclassi di nomi e verbi. La risposta è sicuramente sì: ci sono molti possibili parametri seguendo i quali si possono costruire sottoclassi verbali e nominali. Le sottoclassi così formate sono, molto spesso, trasversali tra loro. Noi parleremo solo di alcune di esse, non tanto perché siano le più importanti in assoluto, quanto perché sono quelle, cognitivamente e neuropsicologicamente, più interessanti per i nostri fini. Non mi occuperò ora di giustificare la nostra scelta perché le sue ragioni emergeranno in modo evidente nei prossimi capitoli, quando parleremo della letteratura neuropsicologica a proposito di nomi e verbi e discuteremo il nostro esperimento. 22 2.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali” Una distinzione molto evidente a ciascun parlante è, ad esempio, quella che separa nomi astratti (come gioia o speranza) da nomi concreti (come “albero” o “sedia”). Queste categorie molto generali possono, poi, essere divise in ulteriori sottocategorie: ad esempio, una distinzione interna ai nomi concreti che si trova spesso negli studi psicologici sul lessico mentale è quella tra nomi naturali e nomi artificiali. I primi si riferiscono ad oggetti naturali (animali, piante, parti del corpo, ecc.), mentre i secondi si riferiscono a quegli oggetti che sono costruiti dall’uomo (tutti i manufatti, in sostanza). La ragione dell’insistenza degli studiosi di lessico mentale su queste sottocategorie è principalmente la loro rilevanza neuropsicologica: la dissociazione tra la capacità di denominare oggetti naturali e quella di denominare oggetti “artificiali” è stata una delle prime e più ricorrenti dissociazioni rilevate in pazienti afasici (Warrington, McCarthy, 1983; Hart, Berndt, Caramazza, 1985). Negli ultimi anni, poi, sono state avanzate teorie che tentano di spiegare queste dissociazioni (Bird et al., 2000, ad esempio), per cui la distinzione tra nomi naturali e artificiali ha acquisito anche una discreta importanza teorica, divenendo oggetto di dibattito tra gli studiosi (Shapiro, Caramazza, 2001; Bird, Howard, Franklin, 2001). 23 2.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi La classificazione dei verbi è almeno altrettanto ricca di quella dei nomi; anzi, in virtù della maggior complessità morfologica- e forse anche sintatticadei verbi stessi, le sottocategorie verbali sono probabilmente più numerose e più intricate di quelle nominali. Alcune sono molto familiari: ad esempio, la distinzione tra verbi ausiliari e verbi a contenuto (lessicali) oppure quella tra verbi della prima, seconda o terza coniugazione. Un’altra distinzione molto familiare (che useremo nel nostro studio) è quella tra verbi transitivi e verbi intransitivi. A scuola abbiamo tutti studiato che i verbi transitivi sono quelli che vogliono il complemento oggetto, mentre quelli intransitivi non lo possono reggere. Nei termini della sintassi generativa, questa distinzione transitivi-intransitivi va precisata meglio: i verbi transitivi, infatti, sono i verbi che possiedono almeno due argomenti e che danno un caso grammaticale strutturale al proprio argomento interno, mentre i verbi intransitivi sono quelli, ad uno o più argomenti, che non danno un caso grammaticale strutturale al proprio argomento interno. In questa definizione ho anticipato dei concetti che sono necessari per definire le due classi di verbi, ma che non ho ancora introdotto e spiegato: lo farò in parte nel prossimo paragrafo, in parte nel seguito del capitolo (per il concetto di argomento interno e di argomento esterno, vedi pagina 27; per quello di caso grammaticale, vedi pagina 40). 24 A costo di ripetermi un po’, mi sembra importante esplicitare le due differenze principali tra questi tipi di verbi: innanzi tutto, i transitivi hanno, di norma, più argomenti degli intransitivi, e secondariamente, i transitivi danno un caso al loro argomento interno mentre gli intransitivi non lo fanno. Soprattutto la prima differenza è importante perché permette di testare alcune ipotesi neuropsicologiche: ad esempio, quella per cui gli agrammatici manifestano maggiori difficoltà nel trattamento dei verbi transitivi, in quanto generalmente più ricchi di argomenti e, quindi, più complessi sintatticamente (Thompson, 2003; Thompson et al., 1995). 2.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi Tra i verbi intransitivi, si rende poi necessaria un’ulteriore, importante, distinzione. Esistono, infatti, dei verbi monoargomentali intransitivi che hanno dei comportamenti molto simili a quelli dei verbi transitivi: questi verbi sono chiamati inaccusativi7. Ad esempio, come i transitivi, ma al contrario degli altri intransitivi (che, d’ora in poi, chiamerò inergativi), i verbi inaccusativi permettono la costruzione di frasi contenenti l’elemento clitico “ne”: 7 il primo termine usato per designare questi verbi era “ergativo”, originariamente utilizzato nella descrizione di lingue non-indoeuropee. L’introduzione del termine “inaccusativo” è dovuta a Perlmutter (1978); in seguito a questa nuova denominazione, i verbi intransitivi non-ergativi sono stati chiamati “inergativi”. Oggi, gli studiosi sono piuttosto concordi nel ritenere più corretti i termini più recenti. 25 (4) inaccusativo: Molti ragazzi sono scivolati -> Ne sono scivolati molti (5) transitivo: Paolo ha mangiato molti biscotti -> Paolo ne ha mangiati molti (6) inergativo: Molti ragazzi hanno telefonato -> *Ne hanno telefonati molti Ancora, i verbi inaccusativi usano l’ausiliare essere, mentre gli inergativi e i transitivi attivi vogliono l’ausiliare avere. Infatti: (7) inaccusativo: Mario è scivolato (8) transitivo: Mario ha mangiato la torta (9) inergativo: Mario ha riso L’utilizzo dell’ausiliare essere è una caratteristica sintattica molto rilevante; ricorda da vicino, infatti, i verbi transitivi in forma passiva, che possiedono sempre questo ausiliare. Un’altra importante caratteristica di verbi inaccusativi è che, nella maggioranza dei casi, possiedono un elemento in posizione di soggetto che non è l’agente dell’azione: l’analogia con le forme passive diventa sempre più forte. (10) inaccusativo: Il palazzo è crollato (11) inaccusativo: Giovanni è caduto dalle scale (12) transitivo passivo: La torta è mangiata da Luca E’ possibile dare una spiegazione unica e coerente a queste “stranezze”? 26 Un elemento di guida importante per gli studiosi è stato l’uso dell’ausiliare essere, considerato “spia” di un fenomeno di movimento sintattico8. Consideriamo le tre frasi seguenti: (13) transitivo: Luca ha divorato la cena (14) inergativo: Luca ha dormito (15) inaccusativo: Luca è scivolato Nella loro forma superficiale, queste tre frasi sembrano strutturalmente identiche, a parte, ovviamente, per l’oggetto del verbo transitivo divorare che gli altri due verbi, monoargomentali, non possiedono. Ma allora come spieghiamo il diverso comportamento di dormire e scivolare? L’ipotesi più accreditata è che il verbo dormire possieda un argomento esterno, mentre il verbo scivolare non lo possieda. Ma cosa significa argomento esterno? Per rispondere a questa domanda dovrò necessariamente fare riferimento ad una teoria della sintassi; in particolare, mi farò aiutare da quella più diffusa e condivisa attualmente: la teoria X-barra. Questa teoria prevede che ogni sintagma sia strutturato su tre livelli; al livello zero (più “profondo”) si pongono solo la testa del sintagma e l’argomento interno della testa (complemento), mentre l’argomento esterno e gli altri 8 i fenomeni di movimento sintattico prevedono degli spostamenti di interi sintagmi o elementi lessicali nel passaggio dalla struttura profonda, dove la frase viene inizialmente costruita nella sua forma base, dichiarativa, alla struttura superficiale della frase stessa, che è la forma in cui la frase viene pronunciata (Cook e Newson, 1996). 27 elementi del sintagma (chiamati aggiunti) si situano al livello una barra (l’argomento esterno discende direttamente da X’’, occupando la posizione di specificatore). Possiamo rappresentare graficamente la struttura dei sintagmi come in figura 19. Per chiarirci ancora meglio le idee, rappresentiamo il seguente sintagma verbale (16) “Luca divorare la cena con grande foga” Figura 1: il sintagma secondo la teoria X-barra. X’’ Argomento esterno (specificatore) X’ X’ Aggiunto X TESTA DEL SINTAGMA Argomento interno (complemento) 9 accanto agli apici che indicano il livello, si usa la lettera X per indicare che questa struttura è uguale in tutti i sintagmi. Quando si conosce la natura del sintagma, determinata dall’entrata lessicale che si insedia nella posizione di testa, si sostituisce la X con l’iniziale della classe grammaticale della testa. Ad esempio, se diventa testa l’entrata lessicale “tavol-”, il sintagma diventa nominale e allora X, X’ e X’’ verranno sostituite da N, N’ e N’’. Similmente accade se, ad insediarsi nella posizione di testa, è un verbo o un aggettivo o una preposizione: parleremo allora di sintagma verbale (V’’ o VP, dall’inglese verbal phrase), di sintagma aggettivale (A’’ o AP, adjectival phrase) o di sintagma preposizionale (P’’ o PP, prepositional phrase). 28 La testa lessicale è “divorare”, l’argomento interno è “la cena” e l’argomento esterno “Luca” e l’aggiunto “con grande foga”. Graficamente, il sintagma si presenta come in figura 210. Come si può vedere, la testa è priva delle specifiche flessive di tempo e accordo: esse le verranno date soltanto quando si insedierà in una frase. Ecco come questo processo avviene. Secondo la teoria X-barra, la frase stessa è un sintagma (il sintagma flessivo o IP o I’’, dall’inglese inflectional phrase), alla cui testa si insediano Figura 2: rappresentazione grafica del sintagma verbale (16) V’’ V’ N’’ N Argomento esterno “Luca” V’ V “divorare” P’’ Aggiunto “con grande foga” N’’ Argomento interno “la cena” 10 In questo albero, ho rappresentato due sintagmi nominali e un sintagma preposizionale come se fossero entità terminali dell’albero; in altre parole, sintagmi non svolti, cioè, ancora al livello due barre. Questo non significa che quei sintagmi non sviluppino il livello una barra e il livello zero: la loro struttura è esattamente identica a quella di tutti gli altri sintagmi. Non ho rappresentato i due livelli più bassi solo per semplicità, dato che non sono rilevanti per la nostra discussione. Così succederà anche nel prosieguo di questo capitolo: quando saranno presenti negli alberi dei sintagmi di livello due barre come entità terminali, questo sarà dovuto a ragioni di semplicità e non al fatto che in quei sintagmi non siano presenti i livello una barra e il livello zero. 29 informazioni come l’accordo, il tempo o il modo del verbo, che non si realizzano con una parola. In questa struttura, il sintagma verbale finisce per occupare la posizione di argomento interno della testa flessiva (figura 3). Figura 3: rappresentazione sintagmatica della frase “Luca ha divorato la cena con grande foga”secondo la teoria X-barra11 I’’ Argomento esterno di IP I’ Aggiunto di IP V’’ I Accordo, tempo, modo V’ N’’ Argomento esterno “Luca” V’ V “ha divorato” P’’ Aggiunto “con grande foga” N’’ Argomento interno “la cena” 11 la teoria X-barra, nelle sue formulazioni più recenti, divide il sintagma flessivo (IP) in due sintagmi, il sintagma di tempo ( Tens) e il sintagma di accordo (Agr). Manterrò il termine IP (o I’’) perché più semplice e chiaro, oltre che sufficiente per i nostri scopi. Anche la struttura frasale, così come l’ho descritta qui, è semplificata rispetto alla formulazione standard della teoria X-barra: ancora più “in alto” nella struttura sintattica, esiste un ulteriore sintagma, il sintagma del complementatore (CP), di cui IP è argomento interno 30 Dopodiché l’argomento esterno della testa verbale, quello che occupa la posizione di soggetto, si sposta nella posizione di argomento esterno del sintagma flessivo (figura 4). La posizione canonica del soggetto nelle frasi attive è, quindi, quella indicata in figura 4; e quelli che ho descritto sopra sono gli “eventi” attraverso i quali il soggetto grammaticale arriva ad occupare quella posizione. Figura 4: il movimento del NP soggetto I’’ N’’ Argomento esterno “Luca” I’ I’ Aggiunto I Accordo, tempo, modo V’’ N’’ Argomento esterno “Luca” V’ V’ V “Ha divorato” P’’ Aggiunto “con grande foga” N’’ Argomento interno “la cena” 31 Ecco che ora possiamo rendere più chiaro il senso dell’inaccusatività I verbi transitivi e inergativi possiedono un vero argomento esterno, nel senso che il loro soggetto compie il tragitto canonico che abbiamo visto sopra: “nasce” come argomento esterno della testa verbale e poi muove ad argomento esterno della testa flessiva. I verbi inaccusativi, invece, non possiedono un vero argomento esterno; i loro soggetti nascono come argomenti interni del verbo (per intenderci, nella posizione dell’oggetto dei verbi transitivi) e, solo in un secondo tempo, muovono nella posizione di argomento esterno della testa verbale; da ultimo, subiscono il movimento verso la posizione di argomento esterno della testa flessiva, come tutti gli altri verbi. Si può forse fare un po’ di chiarezza con il confronto grafico tra la struttura dei verbi inergativi e la struttura dei verbi in accusativi (vedi figura 5). In sostanza, i verbi inaccusativi subiscono un movimento in più rispetto ai transitivi e agli inergativi. Questo movimento è esattamente uguale a quello compiuto dai complementi oggetto (gli argomenti interni) dei verbi transitivi che volgono al passivo: l’uso dell’ausiliare essere potrebbe rispecchiare questa analogia. Inoltre, i soggetti degli inaccusativi nascono nella posizione di argomento interno della testa verbale, cioè nella posizione dove nascono gli oggetti dei verbi transitivi: questo è coerente con il fatto che non sono quasi mai agenti delle azioni che il verbo denota e col fatto che possono essere cliticizzati con la particella “ne”. Questa interpretazione del comportamento dei verbi inaccusativi spiega, quindi, piuttosto bene i fenomeni linguistici di cui sono protagonisti. Inoltre, sul piano psicologico, lascia prevedere che: 32 Figura 5a e 5b: confronto tra gli alberi sintattici di un verbo inergativo e di un verbo inaccusativo 5a: Verbo inergativo “ dormire” I’’ N’’ Argomento esterno “Luca” I’ I Accordo, tempo, modo V’’ N’’ Argomento esterno “Luca” M2 V’ V “Ha dormito” I’’ 5b: Verbo inaccusativo:“scivolare” N’’ Argomento esterno “Luca” I’ I Accordo, tempo, modo M2 V’’ N’’ Argomento esterno “Luca” V’ V “È scivolato” N’’ Argomento interno “Luca” M1 33 il trattamento di questi verbi richieda, in generale e da un punto di vista più specificamente sintattico, un carico di risorse maggiore rispetto ai transitivi e agli inergativi per via del movimento ulteriore cui vanno incontro questo ulteriore movimento richieda un processamento psicologico diverso da quello necessario per trattare inergativi e transitivi per via della diversa natura dei movimenti M1 e M2 (figura 5) 12; se questo processamento fosse selettivamente colpito da un danno neurologico, causerebbe un deficit specifico per i verbi inaccusativi (vedi anche Thompson, 2003). La prima previsione è coerente col fatto che la prestazione ai verbi inaccusativi di alcuni gruppi di afasici (anomici e Wernicke), oltre che dei controlli normali, sia leggermente peggiore di quella agli altri tipi di verbi (Luzzatti et al., 2002). Le due previsioni, considerate insieme, porterebbero, inoltre, a pensare che gli agrammatici siano il gruppo di afasici più compromesso nella produzione e comprensione degli inaccusativi; in questa direzione vanno anche alcune interpretazioni dell’agrammatismo (Grodzinsky, 1986, 1995) che fanno riferimento proprio alla difficoltà nel trattare i fenomeni di movimento per spiegare i problemi sintattici di questi pazienti13. 12 a livello linguistico, infatti, i due movimenti di figura 5 sono di natura diversa: in M 1, NP muove dalla posizione di complemento a quella di argomento esterno dello stesso sintagma, mentre, in M2, si muove da un sintagma all’altro, sempre come argomento esterno. 13 Ogni movimento sintattico provoca la formazione di una “ traccia”, un “segno” che non ha realizzazione fonetica, ma resta nel posto da cui la parola o il sintagma si è mosso. Le tracce hanno una grande importanza perché giustificano il fatto che i posti abbandonati dagli elementi che si sono mossi non vengano occupati da nessun altro sintagma o parola: infatti, quei posti non restano vuoti, ma ospitano la traccia dell’elemento spostato. Secondo la Trance Deletion Hypotesis (TDH) di Grodzinsky (1986, 1995), gli agrammatici hanno difficoltà proprio a trattare queste tracce. 34 Questo è proprio ciò che Luzzatti et al. (2002) trovano: gli agrammatici (e anche gli altri afasici non-fluenti) denominano peggio i verbi inaccusativi rispetto a quelli inergativi. Torneremo in seguito sulla questione. 3. Differenze linguistiche tra nomi e verbi Nomi e verbi si distinguono sia per la loro diversa natura (come abbiamo visto nel paragrafo 1.4) che per alcune differenze di comportamento sotto diversi aspetti linguistici. Passeremo ora in rassegna alcune di queste differenze, facendoci aiutare da un sistema di descrizione delle entrate lessicali14 (EL) che è ormai applicato a molti campi della linguistica, dalla fonologia alla morfologia: il sistema dei tratti binari15. Nel paragrafo successivo, studieremo, invece, quelle differenze tra nomi e verbi che non vengono colte dal sistema dei tratti binari. 3.1 I tratti binari Il sistema dei tratti binari prevede che le entrate lessicali siano descritte come un insieme di valori binari, ciascuno associato ad un tratto, ad una 14 uso questo termine in modo del tutto scevro da significati teorici; per entrata lessicale (EL) intendo una “voce del vocabolario”, cioè una parola non flessa (in forma base). 15 per la verità, non mi atterrò strettamente alla sintassi dei tratti binari, ma utilizzerò quegli aspetti che ci aiutano a cogliere le differenze tra nomi e verbi. Questo perché a volte un’eccessiva attenzione alla forma appesantisce l’argomentazione. 35 proprietà, che ogni entrata lessicale può possedere (ed allora avrà valore positivo) oppure non possedere (ed allora avrà segno negativo). In definitiva, ogni EL è vista come un elenco di caratteristiche, dove, però, è stato individuato un insieme finito di parametri di riferimento rispetto ai quali valutare queste caratteristiche. Possiamo rendere più chiaro il concetto utilizzando due esempi di entrata lessicale, una nominale e una verbale, descritte attraverso dei tratti binari (Tabella 1). Consideriamo i primi due tratti, [verbo] e [nome]. Questi, valutati insieme, indicano la categoria cui appartiene l’entrata lessicale. Questi due tratti permettono, però, di descrivere solo quattro classi lessicali: verbo (+V e -N), nome (-V e +N), aggettivo (+V e +N) e preposizione (-V e –N) (Chomsky, 1970). Dobbiamo credere, dunque, che esse siano in qualche modo “privilegiate” rispetto alle altre? Dobbiamo pensare che possiedano qualcosa di speciale? Secondo la teoria X-barra, sì: infatti, le classi lessicali di nome, verbo, aggettivo e preposizione sono le uniche i cui componenti possono essere teste di sintagmi lessicali16. 16 I sintagmi lessicali sono quelli che veicolano non solo informazione sintattica (il tempo, l’accordo, il modo, ecc.), ma anche informazione semantica propria. Ad esempio, il sintagma nominale è un sintagma lessicale: “Il bambino di Maria” denota un'entità, il bambino, e ne “coinvolge” un’altra, Maria (informazione semantica). Al contrario, il sintagma dell’accordo garantisce che ci sia accordo tra il soggetto (o l’oggetto) e il verbo, inserendo il morfema adeguato, senza dirci nulla su chi siano il soggetto e il verbo (informazione sintattica). Sintagmi di questi tipo vengono chiamati funzionali (Cook e Newson, 1996). La testa di un sintagma lessicale è, invece, l’elemento lessicale principale, quello che trasmette al sintagma tutta una serie di informazioni, come il numero di argomenti, la classe grammaticale, il significato di base (che potrà poi essere modificato dagli altri elementi del sintagma), il tipo di sintagmi o parole che possono occupare determinate posizioni del sintagma. Il concetto di testa è, però, legato non tanto a queste proprietà, ma alla struttura del sintagma: è, infatti, sulla base di questa che si stabilisce chi sia la testa del sintagma (vedi pagina 26 e seguenti). 36 Prima di chiederci che cosa significhino gli altri tratti dell’esempio, introduciamo più approfonditamente una distinzione cui abbiamo già fatto riferimento nel paragrafo 1.2 (vedi nota 1 e 4). Alcuni linguisti (ad esempio, Scalise, 1994) dividono i tratti in due gruppi: inerenti e contestuali. Tabella 1: le entrate lessicali “tavolo” e “mangiare” descritte con i tratti binari. TAVOLO MANGIARE [verbo –] [verbo +] [nome +] [nome -] [regolarità +] [regolarità +] [concretezza +] [concretezza +] [I° coniugazione +] [II° coniugazione -] [III° coniugazione -] [animatezza -] [lessicalità +] [inaccusatività -] [zerovalenza +] [zerovalenza -] [monovalenza -] [monovalenza -] [bivalenza -] [bivalenza +] [trivalenza -] [trivalenza -] [relazione -] [relazione +] 37 Inerenti sono quei tratti che non fanno riferimento al “vicinato” linguistico delle parole nelle frasi, che possono essere evidenziate anche osservando la parola al di fuori di contesti sovralessicali; ad esempio, il significato è quasi sempre una caratteristica inerente. Sono, invece, contestuali quei tratti che possono essere indagati solo considerando il comportamento della parola nel contesto sintagmatico o frasale. Tenendo presente che alcuni tratti non sono chiaramente classificabili perché definiti in riferimento al contesto, ma anche a caratteristiche inerenti, seguiremo questa bipartizione nell’indagare i successivi tratti dell’esempio alla ricerca di altre differenze tra nomi e verbi. 3.2 Tratti comuni e tratti specifici Cominciamo osservando che alcuni tratti sono comuni a nomi e verbi, mentre altri sono specifici per gli uni o per gli altri. In particolare, sul versante inerente, sono condivisi i tratti di regolarità e concretezza, mentre non sono condivisi quelli di coniugazione e animatezza. Questa considerazione non sembra dirci granché, anche se bisogna fare qualche osservazione importante. Dapprima, il fatto che la coniugazione sia un tratto specifico dei verbi è proprio dell’italiano, ma non di tutte le lingue: in latino, ad esempio, anche i nomi appartengono a classi che si differenziano tra loro per il tipo di affissi usati 38 nella flessione della radice (le declinazioni), per cui potremmo dire che esiste per i nomi il tratto [declinazione] analogo al tratto [coniugazione] per i verbi17. La seconda osservazione è che non sempre tratti uguali hanno significati perfettamente corrispondenti per nomi e verbi. Ad esempio, per decidere se un nome è concreto oppure no, un buon criterio potrebbe essere la possibilità di toccare ciò che il nome denota; è evidente che questo criterio non è di nessuna utilità per i verbi, dal momento che tutti diremmo che il verbo “costruire” è molto concreto (rispetto ad “amare”, per esempio) benché nessuno di noi sia in grado di toccare il “costruire”. 3.3 Il tratto [relazione] Passando al versante prevalentemente contestuale, si può notare un’altra importante differenza tra nomi e verbi. Entrambi possiedono il tratto [relazione], però, mentre i verbi sono sempre relazionali, i nomi non lo sono necessariamente (Graffi, 1994). Il valore a questo tratto, quindi, è sempre [+] per i verbi, mentre varia per i nomi: essi, infatti, possono essere argomentali (e allora avranno segno positivo al tratto [relazione]) oppure non-argomentali (e allora avranno a quel tratto valore negativo). Si potrebbe obiettare che i verbi intransitivi stretti, cioè i verbi ad un solo argomento (ad esempio, cenare), non sono relazionali; questa obiezione è legittima se si usa il termine “relazione” nell’accezione comune, ma Graffi usa il 17 uso il tratto generico [coniugazione] e non i tratti più specifici usati sopra per comodità (vedi nota 15). 39 termine “relazionale” a proposito dei verbi per indicare che essi devono sempre saturare le proprie valenze. In altre parole, tutti gli argomenti predicati dal verbo devono essere sintatticamente18 presenti nella frase. Consideriamo gli esempi seguenti: (17) (18) Mario ha abbracciato Claudia *Mario ha abbracciato (19) L’abbraccio tra Mario e Claudia fu molto caloroso (20) L’abbraccio fu molto caloroso Di queste quattro frasi, solo (18) è non-grammaticale, probabilmente per il fatto che manca l’oggetto, cioè uno dei due protagonisti della relazione denotata; come si può vedere da (17), infatti, se aggiungo l’oggetto, la frase diviene corretta. Osservando, però, il quarto esempio, dove a denotare la stessa relazione (l’abbraccio) è un nome, si vede che, non soltanto uno, ma entrambi gli argomenti della relazione sono assenti: eppure la frase è grammaticale! Ecco, quindi, che la differenza diventa evidente: i verbi sono obbligati a realizzare i loro argomenti, pena la non-grammaticalità della frase. La stessa cosa non vale per i nomi che, anche quando sono relazionali, possono “permettersi” di non realizzare fonologicamente i propri argomenti (purché, dal contesto, sia intuibile la loro esistenza). 18 gli argomenti non devono essere necessariamente realizzati fonologicamente: è necessario soltanto che il verbo assegni ad una posizione sintattica (un nodo dell’albero) ciascuno dei suoi argomenti. I nodi cui la testa verbale ha assegnato un argomento potranno poi essere occupati da elementi fonologicamente nulli e quindi non essere espressi. 40 Ad esempio, madre è un nome strettamente relazionale: perché ci sia una madre ci deve essere un figlio, non si può essere madre senza un rapporto di maternità con un “oggetto” altro da sé, proprio figlio. Eppure la frase “la madre si comportò male in quella situazione” è perfettamente grammaticale, purché si possa capire dal contesto che un figlio esiste, anche se non viene citato esplicitamente. I nomi argomentali, quindi, a differenza dei verbi, possono apparire da soli, anche se, in quei casi, i loro argomenti devono essere chiaramente presenti nel contesto. I nomi non-argomentali, invece, possono -ma non devono- essere seguiti da “complementi di specificazione”: posso, infatti, dire sia “Il palazzo di Marco è crollato” che “Il palazzo è crollato”. Un ultima nota: nonostante, come si è visto, possiedano diverse regole di realizzazione degli argomenti, nomi e verbi fanno uso degli stessi tratti per specificare la natura “quantitativa” della relazione che denotano; detto in altro modo, indipendentemente dal fatto che siano obbligati a realizzarli oppure no, sia i nomi che i verbi fanno uso dei tratti [zerovalenza], [monovalenza], [bivalenza] e [trivalenza] per specificare quante entità coinvolga la loro predicazione. 4. Altre differenze tra nomi e verbi Ci sono altre differenze di comportamento tra nomi e verbi; il sistema dei tratti binari non può coglierle, però, appieno, così le analizzeremo a parte in 41 questo paragrafo, riferendoci a due fenomeni molto importanti in ambito sintattico: i fenomeni di caso e quelli di movimento. 4.1 Il caso grammaticale Consideriamo ora queste frasi: (21) Mario ha bevuto l’acqua (22) Mario ha chiesto di Maria (23) *Mario ha chiesto Maria Le prime due frasi sono corrette, mentre la terza è chiaramente nongrammaticale: perché? La differenza tra la (22) e la (23) sta tutta nella preposizione “di” prima del nome “Maria”: perché questa preposizione è così importante, tanto da decidere della grammaticalità della frase? Per rispondere a questa domanda è necessario notare che, nella (21), non c’è una preposizione prima del sintagma nominale “l’acqua”, eppure la frase è grammaticale; anzi, se ci fosse una preposizione, questa causerebbe la nongrammaticalità della frase (*Mario ha bevuto di l’acqua). La ragione di questa asimmetria và ricercata nei verbi che reggono le due proposizioni (bere e chiedere). Bere è un verbo biargomentale transitivo, mentre chiedere è biargomentale intransitivo. 42 La differenza tra i verbi biargomentali transitivi e intransitivi sta nel fatto che i transitivi assegnano un caso grammaticale strutturale all’oggetto, mentre gli intransitivi non lo fanno (vedi paragrafo 2.2). Un caso grammaticale strutturale è una sorta di “etichetta”, assegnata da teste lessicali col tratto [N-] (vedi pagina 36 e seguenti), a sintagmi nominali secondo certe regole che possono variare da lingua a lingua19. Questa “etichetta” può avere realizzazione morfologica e fonologica (ad esempio, in latino o in tedesco), oppure non avere nessun marker visibile; in questo secondo caso si parla di caso astratto20. A proposito dell’assegnazione dei casi, esiste una legge, il filtro del caso, che dice che ogni sintagma nominale dotato di realizzazione fonologica deve possedere un caso (astratto) (Cook e Newson, 1996). Ecco quindi spiegata la non-grammaticalità di (23): il SN “Maria”, essendo oggetto di un verbo intransitivo, non possiede caso. In (22), invece, la preposizione interposta tra verbo e oggetto fornisce caso a “Maria”, rendendo la frase accettabile. In (21) la preposizione non è necessaria perché il verbo è transitivo ed è quindi esso stesso a dare caso al suo oggetto, il SN “L’acqua”. Questa piccola digressione sul caso grammaticale mi serve per evidenziare una seconda differenza tra nomi e verbi, implicitamente già emersa. 19 ad esempio, alcune lingue richiedono l’adiacenza tra verbo e oggetto per l’assegnazione del caso, mentre altre non lo fanno (come il francese); o ancora, in molte lingue, i verbi assegnano il caso all’oggetto verso destra, ma in alcune altre, come il giapponese, la “direzione” dell’assegnazione del caso è contraria e il verbo assegna il caso all’oggetto che sta alla sua sinistra (Cook e Newson, 1996). 20 esistono varie prove dell’esistenza del caso astratto, tra cui una delle più evidenti è proprio quella che abbiamo preso ad esempio in questo contesto (il filtro del caso). 43 I nomi hanno bisogno di un caso per esprimersi fonologicamente, mentre i verbi non solo non hanno bisogno di caso, ma addirittura sono essi stessi ad assegnarlo! Questo evidenzia ancora quanto le entrate lessicali verbali e le entrate lessicali nominali (e, quindi, i sintagmi che vanno ad “abitare”) differiscano tra loro. 4.2 Il movimento sintattico E’ possibile notare un’ulteriore differenza tra nomi e verbi analizzando due tipi di movimento sintattico. Un primo fenomeno di movimento è il movimento del sintagma nominale, un esempio del quale, in realtà, abbiamo già visto parlando di inaccusatività: un sintagma nominale (NP)21 in posizione di oggetto ( complemento della testa verbale) si muove ad occupare la posizione di soggetto (specificatore della testa flessiva)22. Riporto l’esempio in figura 5b per chiarezza. Come si vede dall’albero, il NP che occupava la posizione di complemento della testa verbale muove nella posizione di specificatore di V’’ prima e in quella di specificatore di I’’ poi. Non solo gli oggetti dei verbi inaccusativi, ma anche gli oggetti dei verbi transitivi fanno questo tipo di movimento quando la frase è volta in forma passiva: il NP che, 21 riprendo qui la legenda di nota 9: VP è il sintagma verbale ( Verbal Phrase), NP il sintagma nominale, AP il sintagma aggettivale, PP il sintagma preposizionale e IP il sintagma flessivo. Per il concetto e la struttura del sintagma, si veda pagina 27 e seguenti. 22 i concetti di complemento e specificatore sono introdotti a pagina 27. 44 nella forma attiva, si trova in posizione di oggetto si sposta nella posizione di soggetto (figura 6). Ora dovrebbe essere chiara la dinamica del movimento; resta, però, aperta una domanda: perché mai questi SN dovrebbero spostarsi? Che cosa provoca il loro movimento? Figura 5b: albero sintattico di una frase contenente un verbo inaccusativo. I’’ N’’ Argomento esterno “Luca” I’ I Accordo, tempo, modo M2 V’’ N’’ Argomento esterno “Luca” V’ V “È scivolato” N’’ Argomento interno “Luca” M1 45 Per capire, soffermiamoci sui verbi inaccusativi, quelli cioè che non possiedono un argomento esterno: di fatto, ogni verbo che non possiede argomento esterno non assegna caso al suo argomento interno. Da qui, ricordando il filtro del caso (vedi pagina 43), deduciamo che il NP è costretto a muoversi da quella posizione! Infatti, restando nel “luogo di nascita”, sarebbe privo del caso necessario per la sua realizzazione fonologica. Dunque il NP si muove alla ricerca del caso grammaticale, andando trovarlo dalla testa flessiva, la quale, essendo una testa [N-], può dare un caso ai NP. E questo vale anche per il passivo: il verbo transitivo in questa forma, infatti, perde la capacità di dare il caso accusativo al suo oggetto, costringendolo a “migrare”. Anche i verbi vanno incontro a fenomeni di movimento, ma di tipo diverso rispetto a quelli cui sottostanno i NP. Consideriamo l’esempio: (24) “Luca legge spesso questi libri” la cui struttura sintattica è rappresentata in figura 7. Come si può vedere, la testa verbale si muove dalla sua posizione naturale alla posizione di testa flessiva. Questa posizione è già occupata dalle specifiche di tempo, accordo e modo (anche se queste non hanno, di per sé, realizzazione fonologica), ma questo non impedisce il movimento. 46 Figura 6: albero sintattico di una frase in forma passiva. I’’ N’’ Argomento esterno “Luca” I’ I Accordo, tempo, modo, FORMA PASSIVA N’’ Argomento esterno “Luca” V’’ V’ V “È stato interrogato” N’’ Argomento interno “Luca” L’interpretazione della struttura sintattica della frase potrebbe sembrare un po’ arbitraria, ma in realtà non lo è; infatti, ipotizzare un movimento è l’unico modo per giustificare il fatto che il verbo (una testa di sintagma) preceda l’avverbio (il suo specificatore). In italiano, infatti, la struttura del sintagma (vedi pagina 28) è tale per cui la testa sta sempre in seconda posizione, preceduta dal suo argomento esterno di sinistra, lo specificatore appunto; per cui la nostra frase di esempio, così come sintatticamente nasce, dovrebbe essere “Luca spesso legge questi libri”23. 23 questa frase ( Luca spesso legge questi libri ) non è del tutto non-grammaticale, ma viene prodotta molto meno spesso della forma col movimento (Luca legge spesso questi libri): potremmo dire, dunque, che è una forma insolita. 47 Figura 7: il movimento della testa verbale. I’’ N’’ Argomento esterno “Luca” I Accordo, tempo, modo “legge” I’ V’’ Argomento esterno “spesso” V “legge” V’ N’’ Argomento interno “questi libri” Osservando i due movimenti in modo comparato emergono subito delle differenze: il movimento di NP è un movimento di un intero sintagma, mentre il movimento del verbo coinvolge solo la testa, lasciando fermo il resto del sintagma. il luogo di destinazione del NP mosso è una posizione della struttura sintattica vuota (come, ad esempio, lo specificatore del sintagma flessivo), mentre il verbo và ad occupare una posizione che, sebbene 48 non sia occupata da elementi che, di per sé, avranno una realizzazione fonologica, contiene comunque qualcosa. Anche qui, però, la cosa più interessante è il perché del movimento. L’ipotesi più probabile è che il verbo si sposti per raggiungere le specifiche di tempo, accordo, modo e forma per potersi realizzare fonologicamente: infatti, il verbo deve essere coniugato prima di essere espresso. Possiamo, quindi, immaginare che il verbo “vada a prendersi” le proprie specifiche flessive, andando ad insediarsi nella loro posizione di nascita. Detto questo, la più grande differenza tra il movimento di NP e il movimento della testa verbale sembra essere proprio la causa: mentre il nome si vede costretto alla migrazione da una legge che gli impedisce di realizzarsi senza ricevere un caso da una testa [N-], il verbo si muove “attivamente” alla ricerca della propria flessione. 2. Concetti linguistici o costrutti della mente? All’inizio del precedente capitolo abbiamo detto che ci saremmo occupati dei costrutti mentali di nome e verbo; fino ad ora, però, abbiamo indagato in modo piuttosto approfondito soltanto i rispettivi concetti linguistici. E’ giunto il momento di scoprire le carte: vi è corrispondenza biunivoca tra unità linguistiche e unità di elaborazione mentale? La risposta è evidentemente no (o almeno, non necessariamente), anche se riteniamo che tra le due entità ci sia qualche relazione. 49 Più in particolare, riteniamo che un comportamento concreto “prodotto” da una certa struttura mentale debba riflettere in qualche modo le caratteristiche della struttura mentale stessa. Il modo in cui le proprietà della mente si riflettono nelle sue manifestazioni è, però, tutt’altro che trasparente; non ci illudiamo, quindi, che sia sufficiente trovare dei buoni principi organizzativi ed esplicativi di un comportamento per capire la struttura dell’apparato mentale che l’ha prodotto. Non possiamo, in altre parole, fare un’attenta analisi funzionale di un fenomeno, costruire una teoria esplicativa dei dati e poi semplicemente affermare che anche la mente funziona secondo quei principi e quelle modalità: le teorie dei comportamenti non sono necessariamente teorie della mente. Però, è piuttosto evidente, per il fatto stesso che ogni nostro comportamento scaturisce da qualche struttura mentale, che i fenomeni manifesti possiedano principi organizzativi e caratteristiche che, in qualche modo, derivano dalla mente. Il problema allora si sposta e diventa: come è possibile indagare il tipo di relazione che lega le caratteristiche dei fenomeni con le caratteristiche degli apparati mentali che hanno contribuito a produrli? Noi crediamo che un buon metodo sia quello di partire da un’analisi funzionale descrittiva ed esplicativa (non necessariamente di tipo psicologico) di un dato concreto, per poi assumere che i processi mentali all’origine del dato stesso abbiano proprio quelle caratteristiche o caratteristiche molto simili. Questo non perché crediamo davvero che ci sia una totale trasparenza tra livello mentale e livello comportamentale (abbiamo appena affermato il contrario!), ma perché è la base di partenza più solida che abbiamo: in ormai qualche decennio di ricerca cognitiva abbiamo sviluppato dei solidi strumenti 50 per l’analisi funzionale dei fenomeni psicologici, senza considerare l’aiuto che in questo senso ci possono dare discipline come la scienza computazionale, l’informatica, la linguistica, la teoria dei sistemi, ecc. Avendo questa base solida, è possibile poi affrontare la fase sperimentale della nostra ricerca: controllare le ipotesi emerse sul piano puramente funzionale descrittivo-interpretativo al banco di prova del comportamento in condizione sperimentale. Noi sappiamo che, molto probabilmente, le nostre ipotesi iniziali, proprio perché presuppongono la trasparenza tra il livello mentale e quello comportamentale, non saranno corrette; ma questo non importa più di tanto perché sarà l’esperimento stesso a dirci come migliorare le nostre idee. Passo dopo passo, esperimento dopo esperimento, ci avvicineremo alla reale organizzazione della struttura mentale che stiamo indagando; la strada è probabilmente molto lunga, ma sembra metodologicamente giusta e, quindi, promettente. Con questo spero di avervi almeno in parte convinto dell’utilità e dell’importanza delle prime pagine di questa tesi: per studiare la struttura mentale dell’apparato linguistico è necessario riferirsi continuamente al livello funzionale descrittivo-interpretativo che la scienza linguistica odierna ci offre. Necessario, ma non sufficiente: senza testare a livello comportamentale, in modo controllato e sperimentale, le ipotesi emerse in quel campo, esse restano per la psicologia delle promesse incompiute. Cercheremo di scongiurare questa eventualità nella seconda parte della tesi. 51 3. L’afasia Dopo aver raccolto molti suggerimenti dalla linguistica, dobbiamo dunque passare alla sperimentazione sul piano comportamentale delle ipotesi psicologiche che da quei suggerimenti sono nate. In particolare, il nostro studio -il nostro confrontarci con la realtà dei comportamenti umani- sarà di tipo neuropsicologico: più precisamente, indagheremo le prestazioni di alcuni pazienti afasici ad un test di recupero lessicale. Questo ci obbliga ad affrontare, seppur molto brevemente, due questioni: che cosa è l’afasia? Quali forme cliniche di afasia esistono? Quali sono le loro principali caratteristiche? perché indaghiamo la struttura della mente “normale” in pazienti cerebrolesi, afasici, in cui presumibilmente il sistema cognitivo è danneggiato? Questo metodo di indagine è legittimo e affidabile? 1. Afasia e sindromi afasiche L’afasia è un disturbo della comunicazione verbale conseguente ad una lesione cerebrale acquisita che interessa uno o più componenti del processo di comprensione e produzione di messaggi verbali. Questa definizione contiene i quattro elementi fondamentali che caratterizzano l’afasia nell’ampio mondo dei disturbi della comunicazione: 52 l’afasia è un disturbo della comunicazione verbale, non della comunicazione in toto; le componenti comunicative non-verbali possono essere risparmiate e, in qualche caso, utilizzate come strategia compensativa spontanea. il disturbo afasico consegue ad un danno organico cerebrale, solitamente focale e localizzato nell’emisfero sinistro. la lesione responsabile dell’afasia non è congenita, ma acquisita; colpisce, cioè, individui che avevano già sviluppato una normale competenza linguistica e comunicativa. il disturbo afasico riguarda una o più componenti del sistema linguistico: esistono forme di afasia piuttosto selettive accanto a forme molto gravi che compromettono quasi tutti i livelli linguistici. La classificazione attuale delle afasie più diffusa è una classificazione di tipo sindromico, frutto dell’integrazione tra i modelli anatomo-clinici ottocenteschi, i dati e le osservazioni emerse in un secolo di pratica clinica e i più recenti sviluppi dell’analisi linguistica funzionale. Essa si basa innanzitutto su una distinzione di tipo quasi esclusivamente quantitativo: la distinzione tra afasie fluenti e afasie non-fluenti. Queste due forme si distinguono fondamentalmente per la quantità di eloquio emesso nell’unità di tempo e per la lunghezza delle locuzioni prodotte: la quantità è paragonabile a quella dei controlli normali per gli afasici fluenti ed è molto minore per gli afasici non-fluenti, mentre, per ciò che riguarda la lunghezza delle locuzioni, le frasi dei non-fluenti sono significativamente più brevi di quelle prodotte dai fluenti e dai controlli normali. 53 Questa prima distinzione è utile clinicamente, ma è solo preliminare: afasie fluenti e non-fluenti, infatti, si distinguono ulteriormente in sindromi più specifiche sulla base di criteri di tipo qualitativo. 1.1 Afasie non-fluenti Le afasie non-fluenti sono tipicamente caratterizzate da alcuni disturbi che determinano la scarsa fluenza dell’eloquio: problemi articolatori, disprosodia (disturbo del ritmo e della melodia del linguaggio), difficoltà di produzione dell’eloquio (che si manifesta con sforzo, a volte notevole, nel corso della produzione orale). Inoltre, le frasi sono brevi, spesso presentano omissioni delle parole grammaticali (le preposizioni, ad esempio) o sostituzioni delle forme flesse con forme meno marcate morfo-sintatticamente (forme base o di citazione). Le sindromi afasiche che più spesso possiedono questi sintomi e, quindi, più spesso si associano ad una fluenza molto bassa sono quattro. 1.1.1 Afasia di Broca L’afasia di Broca, nella sua forma più tipica, è caratterizzata da un eloquio ridotto e dalla presenza di un disturbo dell’articolazione non paretico, chiamato anartria o aprassia articolatoria. Sempre sul versante della produzione, può essere presente l’agrammatismo, un fenomeno per cui l’afasico semplifica e riduce le strutture grammaticali: i verbi non sono declinati, i funtori 54 grammaticali sono spesso omessi, l’ordine delle parole può essere alterato, vengono prodotte pochissime o nessuna frase subordinata, ecc. Ancora, sono spesso presenti anomie e parafasie fonemiche. La comprensione sembra preservata o molto poco danneggiata in conversazioni informali, ma si dimostra piuttosto deficitaria a prove specifiche, soprattutto con frasi sintatticamente complesse. Le prove di transcodificazione sono solo parzialmente colpite, purché non coinvolgano la produzione orale; la copia è preservata, mentre la ripetizione presenta di solito gli stessi problemi del linguaggio spontaneo. La lettura ad alta voce può essere relativamente risparmiata: quando non lo è, presenta le caratteristiche tipiche di una dislessia fonologico-profonda. La letteratura classica ha nel passato riferito una localizzazione lesionale frontale postero-inferiore; di fatto, però, la maggioranza dei casi presenta lesioni assai più ampie, solitamente estese anche alle aree parietali e temporali (Mohr, 1976, Mohr et al., 1978; Lecours at al., 1985; Alexander, Naeser, Palumbo, 1990). 1.1.2 Afasia globale L’afasia globale è la forma più grave di afasia non-fluente in quanto colpisce praticamente tutti gli aspetti della produzione e della comprensione linguistica. Quest’ultima è, a volte, parzialmente risparmiata nelle conversazioni su argomenti familiari in contesti “naturali”, ma si rivela fortemente deficitaria a qualsiasi test formale. 55 La produzione è nulla, talvolta costituita da frammenti sillabici ripetuti (recurring utterences) o da stereotipie. Il linguaggio scritto e le prove di transcodificazione sono anch’esse gravemente compromesse (qualche paziente può riuscire ancora a produrre la propria firma). La lesione è solitamente molto ampia, coinvolgendo tutte le aree linguistiche dell’emisfero sinistro (zone perisilviane fronto-temporo-parietali). 1.1.3 Afasia transcorticale motoria E’ una forma di afasia molto particolare (simile all’afasia dinamica di Luria) e non frequentissima. Il paziente è in grado di svolgere bene quasi tutti i compiti linguistici, ma il suo eloquio è caratterizzato da grave inerzia, cioè tendenza a non utilizzare il linguaggio: Lichtheim interpretava già alla fine del secolo scorso questo quadro come una disconnessione tra le rappresentazioni concettuali e quelle lessicali. In sostanza, quindi, il paziente tende a non usare spontaneamente il linguaggio o ad usare solo parole isolate o frasi molto brevi e dimostra una notevole dissociazione tra la capacità di descrivere un evento e la capacità di denominare o di ripetere frasi anche lunghe e complesse. La comprensione è solitamente normale, sia a livello lessicale che sintattico. La lesione è tipicamente frontale premotoria, quindi con relativo risparmio dell’area di Broca. 56 1.1.4 Afasia doppia transcorticale Concettualmente, questo quadro consiste nell’isolamento completo, sia in produzione che in comprensione, tra linguaggio e rappresentazioni concettuali. E’ una forma piuttosto rara, caratterizzata clinicamente da una forte dissociazione tra la prestazione nelle prove di ripetizione (conservate) e la prestazione alle prove di comprensione e produzione, entrambe gravemente compromesse. La lesione che provoca questo quadro solitamente coinvolge le aree perisilviane anteriori e posteriori, con un risparmio relativo delle aree di Broca e Wernicke. 1.2 Afasie fluenti Come abbiamo detto prima, nelle forme fluenti di afasia l’eloquio non è rallentato né scarso, ma paragonabile quantitativamente a quello dei normali. I sintomi clinici generali formano un quadro simmetrico e opposto a quello delle forme non-fluenti: non ci sono disturbi articolatori, la prosodia è conservata, le frasi sono relativamente lunghe ed elaborate dal punto di vista sintattico, la propensione a parlare è normale, a volte anche troppo marcata (questi pazienti sono frequentemente logorroici). Inoltre, un tratto tipico dei pazienti fluenti è la grande ricchezza di parafasie verbali e/o fonemiche e di neologismi che rendono il loro eloquio incomprensibile (quando le parafasie e i neologismi sono molto frequenti, fino a costituire interamente l’eloquio del paziente, si parla di gergo). 57 1.2.1 Afasia di Wernicke Nonostante sia storicamente una delle prime sindromi afasiche ad essere entrata nella pratica clinica, l’afasia di Wernicke ha un quadro piuttosto eterogeneo. Nella sua forma più tipica, la produzione verbale è abbondante, caratterizzata da errori fonemici, che vanno dalle frequenti parafasie, ai neologismi, fino al gergo fonemico. Molto frequenti sono anche gli errori lessicali (anomie, parafasie semantiche e verbali, fino al gergo). Caratteristica di questi pazienti è una certa inconsapevolezza del fatto che ciò che essi producono è incomprensibile all’interlocutore: questa inconsapevolezza molto spesso non è totale, ma li porta comunque a sottovalutare il proprio disturbo. La comprensione è di solito anch’essa compromessa, ma presenta una gravità molto variabile (espressione della gravità generale della sindrome). Ripetizione, lettura ad alta voce e dettato sono frequentemente compromesse. La lesione tipica di questo quadro è situata nella prima circonvoluzione temporale, nella sua parte medio-posteriore (area di Wernicke). 1.2.2 Afasia di conduzione La produzione è simile a quella dei Wernicke, ma, in questo caso, prevalgono gli errori fonemici; frequenti sono le conduites d’approche, tentativi 58 successivi, solitamente progressivamente migliori, di superare e correggere le difficoltà fonologiche per arrivare alla parola target. Ripetizione e lettura presentano un quadro simile, con molte parafasie fonemiche, anomie e qualche parafasia verbale. L’elemento classico e distintivo di questa sindrome è il netto contrasto tra una capacità di ripetizione piuttosto deficitaria e una buona comprensione, soprattutto in contesti informali e nel colloquio clinico: nei termini della linguistica moderna, si potrebbe dire che questo tipo di afasia presenta un deficit a livello fonologico con risparmio lessicale e sintattico. La sede lesionale non è chiaramente evidente: i classici addebitarono il deficit ad una lesione del fascicolo arcuato, ma possono esitare in questo quadro anche lesioni corticali del giro sovramarginale e dell’insula. 1.2.3 Afasia amnestica Questa forma di afasia è caratterizzata da una prevalente compromissione della capacità di denominazione, a fronte di prestazioni solitamente meno deficitarie negli altri ambiti. L’eloquio è dunque fluente, ma spesso interrotto da anomie e reso prolisso e complicato dalle frequenti circonlocuzioni, giri di parole che l’afasico usa per spiegarsi quando non riesce a recuperare la parola target. Le difficoltà lessicali portano spesso il paziente ad utilizzare parole passepartout (come “cosa”, “roba”, “fare”), parole, cioè, molto “leggere” semanticamente, poco specifiche, utilizzate in luogo di quelle più corrette, ma più ricche di significato, che questi pazienti non riescono a recuperare. 59 La comprensione, la lettura e gli altri compiti di transcodificazione sono solitamente conservati. Anche per questa sindrome, la lesione non è facilmente identificabile: sembra, però, che le aree più spesso lese in questi pazienti siano quelle temporoparieto-occipitali, posteriori all’area di Wernicke, corrispondenti alle aree 37 e 39 di Broadmann. 1.2.4 Afasia transcorticale sensoriale L’afasia transcorticale sensoriale è caratterizzata da una produzione fluente, ricca di parafasie verbali ed anomie che possono arrivare a destrutturate completamente l’eloquio, rendendolo incomprensibile (gergo verbale). Simmetricamente all’afasia di conduzione, il tratto tipico di questa sindrome è la dissociazione tra una conservata ripetizione (buona anche con frasi lunghe e sintatticamente complesse) e una comprensione molto compromessa, soprattutto a livello lessicale-semantico: potremmo dire che questa sindrome è caratterizzata da un deficit lessicale-semantico marcato con relativo risparmio della fonologia. La lettura e la scrittura presentano solitamente un pattern parallelo al linguaggio orale, con una compromissione non molto grave, ma centrata soprattutto sul livello lessicale-semantico. Le aree coinvolte nelle lesioni che esitano in questo quadro sono molto simili a quelle dell’afasia amnestica; l’unica possibile differenza sta nel fatto che, in questo caso, la lesione delle aree 37 e 39 di Broadmann è più estesa. 60 2. Patologia e normalità L’ultimo argomento di questo capitolo è la questione metodologica posta all’inizio del paragrafo: perché indagare la struttura della mente in pazienti cerebrolesi? Gli studi neuropsicologici vengono utilizzati di solito con due obiettivi: 1. lo studio delle aree cerebrali che sono coinvolte nei processi cognitivi. 2. lo studio dei processi cognitivi di per sé, a livello puramente funzionale. Per ciò che riguarda il primo scopo, il senso degli studi neuropsicologici è abbastanza evidente: se devo studiare come si associano aree cerebrali e prestazioni cognitive, l’indagine delle capacità mentali dei pazienti cerebrolesi non è solo un metodo di indagine, ma il metodo di indagine principale (fino a qualche anno fa, prima che la tecnologia permettesse gli studi funzionali in vivo, era anche l’unico). Ciò non significa, però, che questa metodologia sia perfetta: nonostante il metodo sia utilizzato da più di un secolo e mezzo (Bouillaud ne parlava già nel 1825) e sia stato lungo questo arco di tempo perfezionato -con la revisione, ad esempio, del concetto di localizzazione e di funzione (vedi, ad esempio, Luria, 1977)- ancora oggi ci sono dei dubbi e delle questioni irrisolte, oltre ad alcuni assunti necessari per ritenere i dati ottenuti su pazienti informativi a proposito della mente normale. 61 Prima di vedere quali sono, riflettiamo un po’ sul secondo obiettivo degli studi sui pazienti, quello puramente funzionale. La storia è ricchissima di esempi dell’importanza della ricerca neuropsicologica per la psicologia cognitiva: basti pensare all’ambito degli studi sulla memoria, dove l’esistenza di pazienti con memoria a lungo termine preservata a fronte di un chiaro deficit di memoria a breve termine ha mandato in crisi i modelli sequenziali come quello proposto da Atkinson e Shiffrin nel 1968, portando alla formulazione di modelli paralleli che si sono rivelati più adeguati a rendere conto non solo dei dati neuropsicologici stessi, ma anche dei dati ottenuti su soggetti normali. Lo stesso argomento di questa tesi è prevalentemente funzionale (noi ci chiediamo, infatti, come sono organizzati i concetti di nome e verbo nella mente più che chiederci se ci sono delle aree cerebrali specifiche che si occupano di trattarli) eppure è emerso da dati neuropsicologici, cioè dall’esigenza di spiegare come mai degli afasici possano mostrare delle ottime capacità di denominare nomi, ma non verbi e viceversa. Generalizzando, i dati comportamentali che osserviamo nei pazienti cerebrolesi devono essere spiegati e previsti dai modelli cognitivi della mente normale: ecco allora che neuropsicologia e scienze cognitive appaiono legate l’un l’altra e risulta giustificato l’uso degli studi sui pazienti per l’indagine sulla struttura della mente. Questa affermazione mi permette di introdurre la prima delle questioni aperte a proposito del metodo neuropsicologico: infatti, ciò che abbiamo detto sopra è vero solo se assumiamo che la mente lesa mantenga un rapporto stretto con quella normale, in particolare se crediamo che la mente lesa si comporti come la mente normale senza le funzioni perse e non come una mente 62 organizzata in un nuovo ordine, poco prevedibile, comprendente magari nuove strutture, e non necessariamente simile a quello che la mente aveva precedentemente al danno cerebrale. Questo è l’assunto di costanza (Vallar, 2000), necessario se vogliamo dare un rilievo non solo clinico agli studi neuropsicologici. Un secondo assunto molto importante che i ricercatori neuropsicologi solitamente adottano, implicitamente presente già in quello di costanza, è quello di modularità: per dirla come Marr, “…any large computation should be split up into a collection of small, nearly indipendent, specialised subprocesses” (Vallar, 2000). Ogni nostra elaborazione mentale è costituita, dunque, di tante piccole elaborazioni più specifiche, ciascuna delle quali, aggiungiamo noi, è svolta da un sotto-sistema mentale specializzato, relativamente indipendente dagli altri. Un ultimo assunto necessario è quello di corrispondenza tra l’organizzazione funzionale e l’organizzazione neurologica, secondo cui questi sotto-sistemi mentali sono implementati nel substrato neurale in modo che la proprietà della modularità sia conservata: infatti, se i sotto-sistemi mentali fossero a carico di circuiti cerebrali distribuiti e non separati, diffusi nella corteccia, non neurologicamente indipendenti e non cognitivamente specifici, nessuna lesione selettiva dei moduli mentali sarebbe possibile e i fenomeni comportamentali conseguenti non sarebbero più interpretabili in modo chiaro dalla scienza cognitiva né a livello funzionale né a livello localizzativo. Ogni ricerca neuropsicologica accetta questi assunti prima di generalizzare alla mente normale i propri risultati e prima di localizzare le funzioni: ma questi assunti non sono privi di insidie e, anche se sono sostenuti da una grande massa di dati a loro favore, non devono essere intesi in modo troppo rigido. 63 Ad esempio, il fatto che un danno neurologico focale porti praticamente sempre ad un danno cognitivo relativamente limitato, con alcune funzioni cognitive lese e altre risparmiate, è una prova forte a favore della modularità. Allo stesso modo, i dati provenienti dalla neurofisiologia dimostrano l’esistenza di circuiti neuronali altamente specializzati e anatomicamente identificabili, come quelli presenti nella corteccia visiva, selettivamente responsabili della percezione delle forme, piuttosto che del colore o del movimento (Cowey, 1985, Lueck et al., 1989): anche a livello neurologico, quindi, gli assunti di modularità e di specificità funzionale sono plausibili ed è quindi realistico che l’organizzazione neurologica rifletta quella mentalefunzionale (assunto di corrispondenza). Anche l’assunto di costanza è ben documentato: nella pratica clinica è molto raro trovare dei fenomeni qualitativamente così diversi dai normali da dover ipotizzare la formazione di strutture cognitive nuove. La riabilitazione stessa è sempre mirata al recupero o al compenso delle funzioni perse basato sull’utilizzo delle strutture conservate e precedentemente presenti, non su nuove strutture, siano esse emerse spontaneamente o costruite nella pratica riabilitativa. Questo non significa, però, che i tre assunti vadano accettati sempre nel loro significato più stretto. Ad esempio, non dobbiamo considerare i moduli mentali come realmente del tutto indipendenti: quelli che, pur con compiti diversi e specifici, partecipano allo stesso processo cognitivo devono essere in qualche modo in contatto, devono passarsi informazioni l’un l’altro; di conseguenza, nessun modulo potrà restare del tutto indifferente ai danni subiti dai moduli funzionalmente “confinanti”. 64 Allo stesso modo, all’assunto di corrispondenza non chiediamo di giustificare una mappatura precisa e puntuale di ogni struttura mentale in una certa area cerebrale: già a partire dagli anni settanta (vedi Luria, 1977) si è diffusa l’idea che non siano singole aree cerebrali a farsi carico di singoli compiti mentali, ma piuttosto complessi circuiti, che è certamente possibile individuare, ma non in modo così lineare come i localizzazionisti puri ritenevano: questi circuiti, infatti, si intrecciano, condividono moduli, coinvolgono strutture cerebrali anche molto lontane tra loro a livello anatomico. Infine, le prove accumulate negli ultimi anni sulla plasticità cerebrale (Basso e Pizzamiglio, 1999; Cappa e Vallar, 1992; Weiller, Chollet, Friston et al., 1992) invitano alla prudenza nell’interpretare il principio di costanza: è probabilmente vero che non si creano nuove strutture cognitive di alto livello dopo lesioni cerebrali, ma un certo grado di riorganizzazione funzionale e anatomica va messo in conto. Accettando, quindi, cum grano salis questi assunti, ci inoltriamo nella ricca almeno negli ultimi anni- letteratura neuropsicologica sui nomi e i verbi, prima di affrontare la parte sperimentale vera e propria: non camminiamo, infatti, su una strada inesplorata, ma abbiamo delle tracce promettenti da seguire. 65 2 LA LETTERATURA SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI Negli ultimi vent’anni molti autori si sono occupati della dissociazione nomi-verbi. Più in generale, l’interesse verso questo fenomeno rispecchia l’attenzione sempre maggiore che gli studiosi hanno riservato alle dissociazioni tra classi di parole nelle sindromi afasiche come “indizi” fondamentali per capire la struttura del sistema linguistico umano. L’esistenza di compromissioni dissociate in afasia è stata evidenziata in letteratura già molti anni fa (Head, 1926; Goldstein, 1948), ma l’importanza teorica che gli era conferita non era molta; al contrario, negli ultimi due decenni, ci sono state molte osservazioni di tali fenomeni e, soprattutto, un ricco dibattito teorico sul modo migliore di interpretarli. In questa direzione ha senza dubbio pesato lo sviluppo delle teorie linguistiche moderne e la collaborazione sempre più stretta tra psicologia e linguistica nello studio della mente. Sono state osservate e descritte dissociazioni tra oggetti naturali e oggetti artificiali (Warrington, McCarthy, 1983; Hart, Berndt, Caramazza, 1985), tra 66 nomi astratti e nomi concreti (Head, 1926), tra parole a contenuto e parolefuntore (Goodglass, Menn, 1985), tra oggetti indoor e outdoor (Gardner, 1973). Le proposte esplicative di questi fenomeni sono state molte e, come avremo modo di vedere più in dettaglio, hanno toccato quasi tutti i livelli linguistici, da quello semantico a quello lessicale a quello sintattico. Tra queste proposte, emergono in particolare due filoni interpretativi: alcuni autori hanno visto la dissociazione tra due categorie di parole come la prova di un’organizzazione separata di queste categorie a livello lessicale centrale o in uscita, mentre altri hanno fatto risalire le differenze di prestazione a differenze nei concetti semantici sottostanti alle etichette lessicali dissociate. Come vedremo, questa dicotomia interpretativa si riproporrà a proposito della dissociazione nomi-verbi. Essa è stata osservata e descritta per la prima volta in modo esplicito da Miceli, Silveri, Villa e Caramazza (1984); in realtà, già prima di allora si parlava di deficit dei verbi (Myerson, Goodglass, 1972), intendendo, però, un problema prettamente sintattico, un fenomeno tipico dell’agrammatismo associato alla semplificazione sintattica della frase e all’omissione dei funtori. Non era presente nessun accenno di riflessione a livello lessicale o semantico e di confronto con i nomi, tutte cose che appaiono dallo studio di Miceli et al. (1984) in avanti. Da allora, come abbiamo più volte sottolineato, tutta una serie di studi ha rafforzato le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno, ne ha sottolineato aspetti diversi e ha proposto ipotesi esplicative anche radicalmente differenti tra loro. In particolare, potremmo raggruppare la letteratura sull’argomento in base a tre grossi temi, strettamente legati tra loro: 67 1. l’associazione tra tipo di afasia e fenomeni dissociativi a favore dei verbi o dei nomi. 2. il ruolo delle variabili lessicali e semantiche. 3. il locus funzionale del deficit che crea la dissociazione. Inoltre, un po’ più recentemente, alcuni studi di neuroimmagine funzionale con soggetti normali si sono occupati di nomi e verbi con risultati a volte contrastanti rispetto a quelli degli studi neuropsicologici. Parleremo di questi lavori nella seconda parte del capitolo. 1. Gli studi su pazienti afasici 1.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia Già prima che in letteratura emergesse una riflessione esplicita sulla dissociazione tra nomi e verbi era noto che uno dei disturbi che caratterizzano il fenomeno agrammatico è la difficoltà di produzione dei verbi. Essi erano visti come entità primariamente sintattiche e la loro compromissione marcata nell’agrammatismo veniva ricollegata quasi sempre a disturbi di tipo sintattico. Parallelamente, i pazienti con afasia amnestica mostravano, in alcuni studi, il pattern opposto, con una difficoltà specifica nella produzione di nomi, sia in compiti di recupero di parole isolate che nel linguaggio spontaneo (Zingeser, Berndt, 1988, 1990). 68 Quest’idea dell’associazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo e tra dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica è rimasta piuttosto salda anche quando la dissociazione nomi-verbi ha smesso di essere interpretata come “effetto collaterale” di certe sindromi afasiche e ha iniziato ad essere studiata come fenomeno lessicale a sé stante. Recentemente, due studi si sono occupati di questi argomenti e sono giunti a conclusioni piuttosto simili. Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno sottoposto dieci pazienti afasici ad una serie di compiti che coinvolgevano la produzione e la comprensione di parole isolate (denominazione su figura e su definizione, denominazione di scene in videotape, completamento di frasi e lettura ad alta voce) e la produzione e comprensione di frasi (racconto di storie, descrizione di scene, produzione di frasi contenenti una parola target, associazione frase-figura e frase-videotape). Tre dei quattro pazienti agrammatici risultarono dissociatimeglio-nomi, mentre due dei tre afasici amnestici risultarono dissociati-meglioverbi; facevano parte dello studio, però, anche altri due afasici dissociatimeglio-nomi i quali non erano agrammatici. Gli autori deducono da questi risultati che la correlazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo non è perfetta (non parlano, invece, esplicitamente dell’associazione tra anomia e dissociazione-meglio-verbi). A sostegno di questa conclusione, Berndt et al. sottolineano come la dissociazione-meglio-nomi correli piuttosto bene con i deficit della struttura frasale (i dissociati-meglio-nomi producono meno frasi e frasi più semplici, oltre 69 24 che ricche di verbi semanticamente leggeri ), ma non altrettanto con i deficit morfologici, tipici dell’agrammatismo. Pur non essendo perfetta l’associazione tra agrammatismo e dissociazionemeglio-nomi, esiste un’evidente tendenza da parte degli agrammatici a mostrare un deficit più marcato per i verbi: quando questa tendenza è stata interpretata in termini causali, si è sempre ipotizzato che fosse il deficit agrammatico a determinare la dissociazione (Myerson, Goodglass, 1972). Berndt et al. (1997), invece, ipotizzano la relazione inversa; essi, infatti, sostengono che un deficit primariamente lessicale dei verbi, se occorre a livello 25 del lemma , cioè al livello in cui sono immagazzinate tutte le informazioni sintattiche legate alle etichette lessicali, può provocare problemi nella costruzione della struttura frasale (vedi anche Saffran, 1982); questo perché i verbi forniscono molte delle informazioni necessarie per una corretta realizzazione della cornice sintattica (i lemmi dei verbi specificano i ruoli tematici e la griglia di sottocategorizzazione, cioè il numero di argomenti retti dalla testa verbale e il tipo di sintagma in cui si devono realizzare). Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno effettuato uno studio su 58 pazienti afasici, i quali furono sottoposti ad un test di denominazione su figura. Di questi 58 pazienti, 26 risultarono dissociati, 20 a favore dei nomi e 6 a favore dei verbi; 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi erano pazienti con afasia amnestica e 5 dei 6 agrammatici che parteciparono allo studio erano dissociatimeglio-verbi. Visti da questa angolazione, i risultati sembrano confermare le 24 I verbi semanticamente leggeri sono quei verbi, come fare, ad esempio, che portano poca informazione semantica, che sono poco specificati avendo un significato piuttosto ampio, vago e applicabile in molto contesti diversi. 25 Parleremo più specificamente di lemma e della teoria dell’accesso lessicale di Levelt et al. nel paragrafo 1.3.4. 70 associazioni ipotizzate in letteratura; dobbiamo, però, considerare anche che gli afasici amnestici che parteciparono allo studio erano 13, per cui 8 di loro non mostravano l’attesa dissociazione-meglio-verbi; allo stesso modo, se è vero che 5 dei 6 agrammatici erano dissociati-meglio-nomi, è anche vero che 15 pazienti risultarono dissociati-meglio-nomi senza essere agrammatici. Anche da questo studio sembra, dunque, che non ci sia una vera e propria associazione sistematica tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo e dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica, pur essendo presente una certa tendenza da parte degli agrammatici ad avere maggiore difficoltà con i verbi e da parte degli afasici amnestici a cadere prevalentemente con i nomi. 1.2 Le variabili lessicali Molti studi riportano in letteratura l’importanza di considerare le variabili lessicali (in particolare frequenza, immaginabilità, lunghezza ed età di acquisizione) nell’interpretare i risultati di esperimenti che coinvolgano la produzione, la lettura e la comprensione di parole isolate (Bates, Burani, D’Amico, Barca, 2001). E’ noto, infatti, che le prestazioni dei soggetti normali e dei pazienti afasici siano influenzate da queste variabili in modo piuttosto importante. In particolare, l’immaginabilità e la frequenza d’uso sono state studiate in molto lavori che si occupavano di dissociazione nomi-verbi. Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno indagato l’effetto della frequenza d’uso in alcuni compiti di produzione di parole isolate. Nel compito di denominazione di figure e videotape, gli autori trovano un effetto 71 complessivo della frequenza d’uso nella prestazione degli 11 afasici e un effetto sul singolo soggetto in 4 dei 7 pazienti dissociati; in nessuno di questi 4 soggetti, però, la frequenza poteva spiegare interamente la dissociazione nomi-verbi, dato che ciascuno di essi denominava meglio i nomi a bassa frequenza che i verbi ad alta frequenza o viceversa, a seconda della direzione della dissociazione. In uno studio successivo, Berndt, Haendiges, Burton e Mitchum (2002) hanno sottoposto 7 soggetti afasici ad un compito di completamento di frasi; questo allo scopo di bilanciare nomi e verbi per immaginabilità, cosa molto difficile quando è necessario raffigurare gli oggetti e le azioni da denominare. I 7 soggetti che parteciparono allo studio erano stati sottoposti precedentemente ad un compito di denominazione di figure e di lettura di parole singole ad alta e bassa immaginabilità: 5 di essi erano risultati dissociati-meglionomi e altrettanti avevano mostrato un effetto di immaginabilità (3 di questi facevano parte del gruppo dei dissociati). Entrambi i pazienti dissociati-meglio-nomi, i quali non avevano mostrato un effetto di immaginabilità in lettura, continuavano ad essere dissociati al compito di completamento di frasi (anche se per uno dei due le differenza non era più statisticamente significativa), ma non sensibili all’effetto di immaginabilità. Dei 3 afasici dissociati-meglio-nomi che mostravano anche l’effetto di immaginabilità in lettura, uno (ML) continuava ad essere molto dissociato nel completamento, mostrando in aggiunta un forte effetto di immaginabilità; questo effetto era indipendente dalla dissociazione visto che ML denominava i nomi ad alta immaginabilità meglio dei verbi ad alta immaginabilità e i nomi a bassa immaginabilità meglio dei verbi a bassa immaginabilità. Gli altri due soggetti avevano una dissociazione più ridotta di quella che mostravano in denominazione di figure, ma non erano più sensibili 72 all’immaginabilità, che quindi non può essere indicata come la causa della diminuita dissociazione. Il paziente DS, invece, che non era dissociato alla denominazione, ma aveva un forte effetto di immaginabilità in lettura, univa queste due caratteristiche nel completamento di frasi: per Berndt et al. questo paziente è decisivo nel completare la doppia dissociazione e mostrare così che i due effetti, quello di classe grammaticale e quello di immaginabilità, sono indipendenti e che nessuno dei due può essere fatto risalire all’altro. Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno anch’essi indagato l’effetto dell’immaginabilità oltre a quello di frequenza, ottenendo un risultato molto interessante. Essi hanno sottoposto 58 pazienti afasici ad un test di denominazione di figure trovando una forte associazione tra l’effetto frequenza e la superiorità ai verbi e l’effetto di immaginabilità e la superiorità ai nomi: infatti, la frequenza risultava un predittore significativo all’analisi di Regressione Logistica (McCullugh, Nelder, 1983) solo per 11 dei 58 soggetti, ma per ben 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi, mentre l’immaginabilità era significativa in 29 dei 58 pazienti, ma in tutti i 20 dissociati-meglio-nomi. Un altro risultato importante trovato dagli autori è quello per cui, sottoponendo i dati a regressione logistica bivariata, in ben 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi il fattore categoria grammaticale non è più significativo, mentre lo è ancora quello di immaginabilità. Con la stessa procedura, si vede come la prestazione di 3 dei 6 dissociati-meglio-verbi non sia più significativamente influenzata dalla classe grammaticale, mentre continui ad esserlo dalla frequenza. Sembra, quindi, che la prestazione della maggioranza dei dissociati dello studio di Luzzatti et al. (2002) dipenda, più che dalla categoria grammaticale, da 73 alcune variabili lessicali che, tramite il loro effetto, creano una dissociazione “apparente”. Gli autori sottolineano, però, il fatto che 2 dissociati-meglio-nomi e 3 dissociati-meglio-verbi siano realmente tali (cioè, anche nell’analisi bivariata il fattore classe grammaticale è significativo); questo significa che il fenomeno della dissociazione nomi-verbi non è sempre riducibile all’effetto delle variabili lessicali, ma esiste indipendentemente da esse. Chiarello, Shears e Lund (1999) hanno condotto un ampio studio sull’immaginabilità e sono giunti alla conclusione che i processi attraverso cui i soggetti valutano l’immaginabilità dei nomi e dei verbi sono diversi. Nei loro dati, le valutazioni di immaginabilità dei nomi correlavano molto bene con il tempo che il soggetto impiegava per emettere il giudizio; questo suggerisce che i soggetti in quel caso valutassero la facilità e la velocità con cui generavano un’immagine mentale dell’oggetto cui il nome si riferiva. Questa correlazione era molto più debole per i verbi, lasciando pensare, appunto, che i processi nei due casi fossero diversi. Tutto ciò è molto importante perché indica che l’immaginabilità dei nomi non è solo più alta di quella dei verbi, ma riflette diversi processi qualitativi sottostanti la produzione del giudizio o forse addirittura diversi processi di generazione delle immagini mentali. 1.3 Il locus funzionale del deficit Il fatto che un paziente afasico produca o comprenda meglio i nomi dei verbi che cosa ci dice a proposito dei suoi disturbi linguistici? 74 La domanda non è banale perché sono effettivamente molte le risposte possibili. Tutti i modelli cognitivi del linguaggio, infatti, prevedono il passaggio, sia in produzione che in comprensione, da tre livelli di processing: quello fonologico, quello lessicale e quello semantico. Inoltre, le informazioni linguistiche devono essere processate sintatticamente ed esistono evidenze che mostrano come anche la produzione di parole isolate comporti il recupero di alcune informazioni sintattiche (Thompson, Lange, Schneider, Shapiro, 1997). E’ quindi possibile, almeno in linea teorica, che a ciascuno di questi livelli sia rappresentata la divisione tra nomi e verbi e sia presente il deficit che provoca la dissociazione. Nei prossimi paragrafi, descriveremo gli studi che si sono occupati del problema del locus del deficit, iniziando da quelli che ipotizzano un problema sintattico, passando poi per gli studi che pongono il danno a livello morfologico, semantico, lessicale e fonologico. 1.3.1 Deficit sintattico Le spiegazioni della dissociazione nomi-verbi che sono state proposte in letteratura e che riconducono il deficit al livello sintattico sono di due tipi: un’ipotesi sostiene che alcuni afasici abbiano un generico disturbo sintattico della costruzione della frase il quale, unito ai disturbi morfologici, causa l’agrammatismo e, insieme, il deficit ai verbi; 75 questi ultimi sono visti in quest’ottica come entità meramente sintattiche, con un ruolo centrale nella strutturazione della frase. altre ipotesi più recenti precisano maggiormente il deficit all’origine del disturbo dei verbi, riferendosi a volte a problemi nell’assegnazione dei ruoli tematici che le entrate lessicali verbali prevedono, a volte a difficoltà più periferiche, nella realizzazione degli stessi ruoli tematici. Il disturbo è quindi localizzato, in questo contesto, più verso il versante lessicale, ponendosi all’interfaccia tra i due livelli. La prima ipotesi esplicativa è stata la più diffusa (praticamente, l’unica) fino alla metà degli anni ottanta, quando il progresso della linguistica generativa e la sua influenza in campo psicologico hanno favorito la nascita di interpretazioni più precise. Gli elementi su cui questa idea è basata sono fondamentalmente due, uno di carattere teorico e uno di tipo sperimentale: 1. il verbo ha un ruolo cruciale nella costruzione sintattica della frase e ha una complessità morfologica molto maggiore di quella dei nomi. 2. agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi si associano spesso nei disturbi dei pazienti afasici. Le interpretazioni sintattiche più recenti discendono dalla prima, essendone, in sostanza, delle versioni più precise e più raffinate linguisticamente (Marshall, Chiat, 1996). 76 Oltre che su una più avanzata elaborazione teorica, esse si basano su alcuni dati sperimentali che dimostrano l’esistenza di pazienti con un deficit selettivo dell’assegnazione degli argomenti del verbo in produzione e della comprensione dei ruoli tematici associati al verbo stesso (Marshall, Chiat, Pring, 1997; Byng, 1988). Queste evidenze a favore dei disturbi selettivi dei ruoli tematici e della loro realizzazione sono ritenute da alcuni ricercatori non particolarmente forti (Druks, 2002), anche se effettivamente spiegano bene e in modo economico i disturbi di alcuni pazienti. Le spiegazioni sintattiche condividono, però, un limite molto evidente: esse spiegano l’emergere della dissociazione-meglio-nomi, ma non della dissociazione-meglio-verbi. Tutte ricorrono alla presenza di un problema sintattico che colpisce i verbi, o perché più complessi o perché caratterizzati da un processing specifico (ruoli tematici, ad esempio), ma nessuna ipotizza la possibilità di un deficit sintattico selettivo per i nomi. Questo significa che esse spiegano la prestazione di certi dissociati, ma non di tutti: devono perciò essere affiancate necessariamente da altre ipotesi esplicative che giustifichino la dissociazione opposta. Questa strada è stata effettivamente seguita da alcuni ricercatori, come Marshall e Chiat (1996), i quali hanno proposto che disturbi sintattici dei ruoli tematici causino la dissociazione-meglio-nomi e disturbi semantici della “conoscenza percettiva” siano all’origine della dissociazione-meglio-verbi. Un ultimo appunto che è possibile fare a queste ipotesi interpretative si basa sulla forza delle prove sperimentali. 77 Esse, come abbiamo detto prima, sono state evidenziate più volte e, dunque, sono molto solide, ma non ci sembrano così stringenti nel provare un danno a livello sintattico: sono possibili, infatti, ipotesi alternative. Ad esempio, il fatto che l’agrammatismo si associ con la dissociazionemeglio-nomi non prova necessariamente l’origine sintattica del deficit: è ugualmente possibile che coesistano due deficit separati, uno sintattico e uno lessicale indipendente dal primo (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza, 1984). O ancora, essendo che le correlazioni non rivelano nulla sull’esistenza di una causalità e, soprattutto, sulla sua direzione, si potrebbe anche interpretare i dati in senso opposto, ipotizzando che sia un deficit lessicale per i verbi a causare almeno qualche sintomo agrammatico e non viceversa (Berndt et al., 1997b). Esiste un’altra spiegazione della dissociazione nomi-verbi che fa risalire il problema ad un deficit sintattico: essa è stata proposta di recente da Naama Friedmann (2000). Questa ipotesi fa ampio riferimento alle teorie linguistiche attuali, ma, a differenza della spiegazione di Marshall e Chiat, non è una versione moderna, rivista e corretta delle spiegazioni sintattiche tradizionali che hanno dominato fino agli anno ’80: essa non si basa, infatti, sugli stessi dati sperimentali e non fa riferimento ad aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi, ma a fenomeni puramente sintattici. Secondo Friedmann, il danno selettivo dei verbi è legato ad un deficit dell’albero sintattico, per cui tutti i nodi posizionati al di sopra del Tense Phrase 26 (traducibile con “sintagma del tempo”) vengono distrutti o sottospecificati : questo deficit impedirebbe ai pazienti afasici di muovere il verbo all’interno 26 Il concetto di “ albero sintattico ” è stato introdotto nel primo capitolo; il sintagma del tempo è uno dei due sintagmi in cui è stato recentemente diviso il sintagma inflessionale (IP) di cui abbiamo parlato nel primo capitolo: esso porta le informazioni temporali per l’accordo del verbo. 78 dell’albero sintattico e di fletterlo correttamente, causando un disturbo selettivo per questa categoria grammaticale. 1.3.2 Deficit morfologico Una delle caratteristiche tipiche dell’agrammatismo è il deficit morfologico, caratterizzato dall’omissione dei funtori grammaticali e dalle difficoltà di produzione dei morfemi legati, derivazionali e flessivi. L’associazione tra agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi può quindi dare adito ad interpretazioni del deficit verbale anche nei termini di un danno morfologico. Quest’idea è stata avanzata da alcuni ricercatori, tra cui Saffran, Schwartz e Marin (1980) e Saffran (1982), i quali hanno sostenuto che la dissociazionemeglio-nomi emerge a causa di un danno ai morfemi grammaticali; una posizione più articolata è stata assunta da Friedmann (2000), la quale sostiene, come abbiamo visto, che un disturbo dell’albero sintattico, impedendo il movimento della testa verbale, renda impossibile la corretta flessione del verbo. Queste interpretazioni soffrono degli stessi limiti di quelle sintattiche, in quanto giustificano solo la dissociazione-meglio-nomi e si fondano su dati sperimentali molto solidi (ancora una volta, l’associazione agrammatismodissociazione-meglio-nomi), ma interpretabili in molti modi diversi. Shapiro e Levine (1990) e Shapiro, Shelton e Caramazza (2000) descrivono, poi, un paziente con afasia amnestica, dissociato-meglio-verbi, il quale mostra un deficit marcato della morfologia nominale (non riusciva a produrre l’affisso del plurale), ma non ha problemi con la morfologia del verbo. 79 Gli autori non usano, però, questo dato per argomentare che un deficit morfologico specifico per i nomi possa, da solo, causare una dissociazione; in effetti, la dissociazione si manifesta anche in compiti che non hanno nulla di morfologico, come la denominazione di oggetti, e, in ogni caso, il danno morfologico non è una costante di tutti i dissociati-meglio-verbi, ma un deficit specifico di alcuni di questi pazienti. Resta, quindi, il problema principale di queste ipotesi esplicative: un deficit morfologico isolato e selettivo può, secondo alcuni autori, causare una dissociazione-meglio-nomi, ma non una dissociazione-meglio-verbi, nonostante ci siano evidenze che un deficit morfologico per i nomi possa far parte del quadro patologico di alcuni pazienti afasici DMV. 1.3.3 Deficit semantico E’ possibile spiegare la dissociazione nomi-verbi riferendosi al livello semantico? E’ possibile che la distinzione tra nomi e verbi sia rappresentata a questo livello nel sistema cognitivo? Nome e verbo sono, in realtà, due concetti sintattico-lessicali, nel senso che costruiscono, in senso stretto, una contrapposizione tra gruppi di parole che si fonda sul comportamento sintattico e sulla distribuzione nella frase (vedi cap. 1). Sembrerebbe, quindi, impossibile sostenere che la distinzione tra nomi e verbi sia rappresentata a livello semantico nel sistema cognitivo umano. Però, tipicamente, i nomi sono etichette lessicali che denotano oggetti, mentre i verbi molto spesso rappresentano azioni: è quindi possibile ricondurre la distinzione nomi-verbi (una distinzione, come abbiamo visto, sintattico80 lessicale) alla distinzione oggetti-azioni (una distinzione semantica). Facendo questa operazione, diventa del tutto naturale riferire al livello dei significati e dei concetti il deficit che produce la dissociazione nomi-verbi in afasia. 27 Ancora, si potrebbe sostenere, assumendo un approccio composizionale al significato (Breedin et al., 1998), che i diversi concetti si basino principalmente su caratteristiche definenti percettive piuttosto che non percettive o viceversa: in questo senso, banana sarebbe definito principalmente da caratteristiche percettive (è gialla, ha forma allungata), mentre il concetto di bottiglia si fonderebbe più su caratteristiche funzionali (le bottiglie hanno forme e colori molto diversi: il nucleo concettuale che definisce il significato sembra essere più il fatto che serve per contenere liquidi). Se fosse così, sarebbe piuttosto intuitivo sostenere che i nomi naturali, in quanto rappresentano oggetti non costruiti dall’uomo, si riferiscano a concetti fondati più sulle proprietà percettive, mentre i nomi artificiali e i verbi, in quanto denotano strumenti o azioni, si riferiscano a concetti basati principalmente su caratteristiche funzionali. Ecco allora che un deficit semantico selettivo delle proprietà funzionali o percettive dei concetti simulerebbe una dissociazione tra nomi e verbi. Grazie a queste due argomentazioni è possibile ricondurre i deficit dei nomi o dei verbi a problemi di natura semantica. Questo tipo di considerazioni, in modo più o meno esplicito, sono il fondamento delle ipotesi esplicative che sono state proposte in letteratura per rendere conto della dissociazione nomi-verbi attraverso un disturbo semantico: non è possibile porre la distinzione a livello semantico riferendosi direttamente 27 L’approccio composizionale è basato sull’assunto che i significati depositati nel nostro sistema semantico non siano unità monolitiche e indivisibili, ma siano costruiti da una serie di caratteristiche elementari (features) che, sommandosi le une alle altre, determinano i diversi concetti. 81 a nomi e verbi, bisogna prima ricondurre questi costrutti ad altre distinzioni, che hanno davvero a che fare con il mondo dei significati e dei concetti. Queste argomentazioni teoriche sono intrinsecamente coerenti e sicuramente plausibili, ma nascondono un pericolo: interpretate in modo rigido, ci dicono che i costrutti di nome e verbo non sono necessari, essendo riconducibili ad altre e più basilari distinzioni. Potremmo addirittura dire, in quest’ottica, che la distinzione nome-verbo non è rappresentata nel nostro sistema linguistico. Un altro elemento a favore di queste ipotesi esplicative consiste nel fatto che sono particolarmente economiche: infatti, fanno risalire ad un unico meccanismo quasi tutte le dissociazioni tra classi di parole che sono state osservate in letteratura (o almeno spiegano in un unico modo le due dissociazioni principali, quella nomi-verbi e quella oggetti animati-oggetti inanimati). La prima spiegazione di una dissociazione in termini semantici risale alla metà degli anni ottanta, grazie al lavoro di Elizabeth Warrington e dei suoi collaboratori (Warrington, McCarthy, 1983; Warrington, Shallice, 1984) a proposito della dissociazione tra nomi di oggetti viventi e nomi di oggetti non viventi. Essa si fondava due assunti (che poi sono stati ripresi per spiegare la dissociazione nomi-verbi): 1. la conoscenza concettuale è organizzata nella mente secondo il tipo (visiva, olfattiva, motoria, funzionale, ecc.). 2. le proprietà funzionali e sensoriali sono differentemente importanti nel definire i concetti degli oggetti viventi e degli oggetti non viventi. 82 Questi due assunti sono stai ripresi, con qualche piccola modifica e con qualche aggiunta, da Bird, Howard e Franklin (2000) per rendere conto della dissociazione nomi-verbi. La spiegazione birdiana della dissociazione prevede che siano all’opera due meccanismi: il primo è quello legato all’immaginabilità cui, secondo gli autori, molti afasici diventano estremamente sensibili dopo il danno cerebrale. Secondo Bird et al., questo fattore è così importante che la maggioranza delle dissociazioni-meglio-nomi sono in realtà dovute ad esso; gli autori, infatti, si spingono a dire: “We would even go as far as to claim that “true” verb deficits do not exist”. A fianco dell’immaginabilità opera l’altro fattore che crea la dissociazione e cioè la diversa distribuzione delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei concetti denotati dai nomi e nei concetti denotati dai verbi; se a questo aggiungiamo che le caratteristiche sensoriali e funzionali possono essere lese da un danno cerebrale in modo relativamente selettivo, ecco spiegata la dissociazione nomi-verbi in entrambe le direzioni. Sotto questo “secondo fattore” si nascondono alcuni assunti che è bene esplicitare: i concetti sono organizzati nella mente in modo composizionale (vedi nota 27). l’informazione semantica è immagazzinata secondo la modalità di acquisizione. le informazioni semantiche funzionali e sensoriali mantengono un certo grado di indipendenza (funzionale e anatomica), dato che possono essere lese selettivamente. 83 Da ultimo, Bird et al. sostengono che anche i nomi di oggetti animati e i nomi di oggetti inanimati hanno una diversa distribuzione nelle caratteristiche semantiche che li definiscono, essendo i primi definiti più da proprietà sensoriali e i secondi più da proprietà funzionali; questo è molto importante perché fa prevedere delle associazioni tra tipi diversi di dissociazione che saranno usati da Bird et al. per dimostrare la loro teoria, ma che saranno anche il tallone d’Achille dell’ipotesi, secondo i suoi critici. Riassumendo, se combiniamo i due fattori che sono all’origine delle dissociazioni secondo Bird et al. (2000), otteniamo 4 diversi scenari dissociativi possibili in seguito ad un danno cerebrale: 1. DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES: danno prevalente ai nomi di oggetti viventi rispetto ai nomi di oggetti inanimati; i nomi, nel complesso, dovrebbero essere penalizzati da questo deficit, ma la loro maggiore immaginabilità compensa l’altro effetto: nomi denominati come i verbi. 2. DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES: danno prevalente ai nomi animati rispetto ai nomi inanimati; il deficit delle sensory features è molto profondo così che la maggior immaginabilità dei nomi non compensa più il suo effetto, ma solo lo attutisce: nomi denominati peggio dei verbi. 3. DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES: danno prevalente dei nomi inanimati rispetto ai nomi animati e dei verbi rispetto ai nomi; generalmente, nomi di manufatti meglio dei verbi per la loro maggiore immaginabilità. 84 4. DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO CON MARCATO EFFETTO DI IMMAGINABILITA’: nomi animati e inanimati piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior sensibilità all’immaginabilità creata dal deficit. La teoria di Bird et al. (2000) prevede, quindi, che: 1. molte dissociazioni-meglio-nomi scompaiano con un controllo severo del fattore immaginabilità. 2. nelle dissociazioni “sopravvissute” ci sia un’associazione tra deficit degli oggetti inanimati e deficit dei verbi e tra deficit degli oggetti animati e deficit dei nomi. 3. i pazienti dissociati-meglio-nomi (che non subiscono un forte effetto di immaginabilità) mostrino un deficit della conoscenza o del processing delle caratteristiche funzionali dei concetti ; viceversa, i dissociati-meglio-verbi dovrebbero avere dei problemi nel processare e recuperare le proprietà sensoriali dei concetti. Queste previsioni sono state controllate da Bird et al. (2000) sia attraverso una revisione della letteratura che attraverso l’analisi di sei pazienti afasici dissociati nelle due direzioni. La prima previsione è stata confermata in modo piuttosto chiaro, sia in letteratura che nei pazienti (ma anche in altri studi, vedi Luzzatti et al., 2002), mentre le altre due sollevano qualche dubbio. Infatti, per ciò che riguarda la seconda previsione, i tre pazienti verb-spared di Bird et al. (2000) (i quali non erano dissociati-meglio-verbi probabilmente per 85 l’effetto di immaginabilità) mostravano, nel complesso, una migliore prestazione con i nomi inanimati, ma nessuno dei tre singolarmente aveva questo effetto. Per ciò che riguarda la terza previsione, essa è confermata, in un compito di produzione di definizioni, dalla prestazione dei verb-spared (la proporzione di caratteristiche sensoriali fornita da essi era molto bassa), ma non dalla prestazione dei dissociati-meglio-nomi, che producevano più caratteristiche sensoriali nel definire gli oggetti animati, ma non nel definire quelli inanimati. Gli autori spiegano questo fatto con la tendenza a produrre solo le caratteristiche essenziali dei concetti, per via della non-fluenza molto marcata di questi pazienti; la spiegazione è plausibile, ma è data a posteriori e sembra costruita ad hoc. Questi risultati sono ritenuti sufficienti da Bird et al. per confermare la loro ipotesi esplicativa. Nel complesso, l’ipotesi del deficit selettivo delle sensory/functional features mostra alcuni limiti: innanzitutto, come altri ricercatori hanno argomentato (Shapiro, Caramazza, 2001a), le evidenze sperimentali a sostegno della teoria non sono molto solide. In particolare, oltre ai problemi nei dati proposti dagli stessi autori a prova della loro ipotesi, alcuni studi che hanno dimostrato la diversa distribuzione delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei concetti di nomi e verbi, come quello di Farah e McClelland (1991), hanno usato una definizione di caratteristiche funzionali troppo restrittiva, escludendo quelle caratteristiche come il luogo di vita e la categoria di appartenenza che definiscono in modo importante anche gli oggetti viventi, ma che non sono sensoriali (Shapiro, Caramazza, 2001b). 86 Introducendo una definizione più ampia di caratteristiche funzionali, Caramazza e Shelton (1998) non trovano evidenti differenze nella distribuzione di proprietà sensoriali e funzionali tra concetti denotati da nomi e concetti denotati da verbi. Un altro problema per queste teorie, è la presenza di pazienti con deficit dell’elaborazione delle informazioni visive che non sono dissociati-meglio-verbi e meglio-inanimati (Coltheart et al., 1998); inoltre, esistono pazienti dissociatimeglio-inanimati che non mostrano un deficit prevalente delle informazioni sensoriali (Laiacona et al., 1993). Altre evidenze sperimentali non facilmente spiegabili nella teoria di Bird, Howard e Franklin sono le dissociazioni più specifiche, ad esempio, tra animali e frutta/verdura (Hart, Gordon, 1992) e i deficit specifici per categorie molto ristrette, come i cibi. Esse possono essere spiegate solo ipotizzando ad hoc ulteriori differenze nelle distribuzioni delle caratteristiche semantiche, che ancora non sono state dimostrate sperimentalmente. Il dato, però, che è stato impugnato più volte come la prova decisiva contro l’ipotesi di Bird et al. è la presenza di alcuni pazienti che mostrano la dissociazione solo in output o solo in input, oppure solo nel linguaggio scritto o in quello orale (Caramazza, Hillis, 1991); inoltre, sono stati descritti dei pazienti con una dissociazione a favore dei verbi nella denominazione orale, ma con una dissociazione opposta nella denominazione scritta (Hillis, Caramazza, 1995). Assumendo che il sistema semantico sia unico e che serva sia la modalità scritta che quella orale, oltre che essere punto di passaggio comune nel processing della comprensione e della produzione, non è possibile localizzare il deficit a livello semantico e spiegare queste dissociazioni tra modalità e compiti 87 diversi (in alcuni pazienti, la dissociazione è addirittura doppia; Rapp, Caramazza, 2002). In realtà, sono proprio Caramazza e i suoi colleghi, i principali critici dell’ipotesi birdiana, a suggerire una soluzione del problema; essi, infatti, suggeriscono che, ipotizzando un danno non solo semantico, ma anche lessicale nella sola modalità scritta (o orale), si potrebbe rendere conto dei disturbi dei pazienti con dissociazioni selettive del linguaggio scritto (o orale). Questa ipotesi è, però, molto poco economica (prevede due loci funzionali lesi invece che uno) ed inoltre difficilmente sostenibile considerando che i pazienti, nella modalità meno danneggiata, avevano performance praticamente normali, cosa poco probabile in presenza di un danno al sistema semantico (Shapiro, Caramazza, 2001a). Inoltre, se consideriamo i pazienti con la doppia dissociazione nomi-verbi nel linguaggio orale e scritto, anche assumendo l’ipotesi esplicativa suggerita da Shapiro e Caramazza, dobbiamo accettare che la categoria grammaticale sia in qualche modo rappresentata nel lessico fonologico e ortografico di uscita, al di fuori, quindi, del sistema semantico. Riassumendo, l’ipotesi del deficit semantico (Bird et al., 2000) mantiene un fascino molto grande perché è particolarmente economica, anche se non sembra essere sostenuta solidamente dai dati sperimentali; in particolare, esisterebbero alcuni pazienti con una dissociazione solo in modalità orale o solo in modalità scritta o solo in input o solo in output, mentre altri addirittura sembrerebbero mostrare una doppia dissociazione nomi-verbi in diverse modalità: questi soggetti sembrano rendere molto poco probabile l’ipotesi per cui il fenomeno dissociativo emerge a causa di un problema semantico. 88 1.3.4 Deficit lessicale Come abbiamo detto all’inizio del paragrafo precedente, le categorie di nome e verbo sono, di fatto, delle categorie di parole, di etichette verbali, che sono state classificate così per rendere conto del loro diverso comportamento in contesti sintattici (capitolo 1). Da qui deriva che il livello in cui più naturalmente si potrebbe collocare la loro rappresentazione è quello lessicale o lessicale-sintattico. Di fatto, questa posizione è quella maggiormente condivisa dai ricercatori che si sono occupati di dissociazione nomi-verbi fino ad oggi (Druks, 2002). Il primo a proporre un’ipotesi di questi tipo è stato Miceli; egli, insieme al suo gruppo di collaboratori, ha proposto già nel 1984 che la scarsa prestazione ai verbi che caratterizzava gli agrammatici non fosse parte del pattern di deficit sintattici che compongono l’agrammatismo, ma fosse da ricondurre ad un disturbo lessicale aggiuntivo e indipendente (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza, 1984; Miceli, Silveri, Nocentini, Caramazza, 1988). Per la precisione, nel lavoro del 1988, gli autori specificano che il disturbo deve essere localizzato nel lessico fonologico di uscita, il quale è organizzato secondo la categoria grammaticale; questa ipotesi emerse sulla base di quello che, ancora oggi, sembra essere il dato sperimentale più forte a favore di un deficit lessicale relativamente periferico e cioè la dissociazione tra produzione e comprensione di nomi/verbi trovata in alcuni pazienti. In questo filone si sono poi inseriti nuovi studi, più recenti, i quali, descrivendo nuove dissociazioni tra modalità e tra input e output, hanno riproposto con sempre maggior forza questo schema interpretativo (Caramazza, Hillis, 1991; Hillis, Caramazza, 1995). 89 Dall’inizio degli anni novanta, sono stati descritti pazienti con deficit selettivi dei verbi in denominazione e lettura, ma non in scrittura (Caramazza, Hillis, 1991), pazienti con deficit ai verbi in scrittura su dettato, ma non in denominazione e lettura (Caramazza, Hillis, 1991), pazienti con deficit ai nomi in produzione orale e ai verbi in comprensione scritta (Hillis, Caramazza, 1995), pazienti con deficit ai nomi in produzione orale e ai verbi in produzione scritta, sia in contesti di recupero di parole isolate che in contesti frasali (Rapp, Caramazza, 2002); come si può vedere, è possibile costruire doppie dissociazioni praticamente tra tutti i lessici ortografici e fonologici, di input e di output. Questo modo di interpretare la dissociazione nomi-verbi, benché basato sulla prestazione di pochi pazienti, ha una grossa ricaduta sui modelli linguistici umani: infatti, questa prospettiva implica che le categorie grammaticali siano rappresentate in modo ridondante in ogni lessico mentale, sia in quello ortografico che in quello fonologico in uscita, sia in quello ortografico che in quello fonologico in entrata. La rappresentazione delle categorie grammaticali contiene tutte quelle informazioni sintattiche che dal lessico sono recuperate per costruire la struttura della frase: se ipotizziamo che essa sia rappresentata nei lessici periferici, diventa superfluo avere un livello lessicale più centrale, comune ai lessici ortografici e fonologici di input e output, che veicola proprio quelle informazioni sintattiche che possiedono già i lessici periferici stessi. Questo livello lessicale-sintattico centrale è, in realtà, ipotizzato da molti modelli della produzione del linguaggio, tra cui quello di Levelt, Roelofs e Meyer (1999). 90 Questo modello prevede due livelli lessicali: uno centrale, utilizzato sia in produzione che in comprensione, costituito da lemmi, nodi lessicali direttamente collegati col sistema semantico, che portano tutta una serie di informazioni sintattiche, come la categoria lessicale, le specifiche sui ruoli tematici e la 28 griglia di sottocategorizzazione e morfologiche, come la persona, il tempo e il numero. I lemmi non possiedono invece nessuna informazione fonologica. Questa è situata al secondo, e più periferico, livello lessicale, quello dei lessemi: queste etichette sono, appunto, primariamente fonologiche e contengono informazioni come la qualità dei fonemi e la struttura metricoaccentuativa della parola da produrre. Esistono due sistemi di lessemi, uno specifico per la produzione e uno specifico per la comprensione: questi due magazzini possono comunicare direttamente tra loro. Al di là dei particolari, la cosa importante è che in questo modello, costruito sulla base di dati ottenuti solo su soggetti normali, la distinzione nome-verbo esiste solo ad un livello lessicale centrale, comune al sistema di comprensione e a quello di produzione: esso dunque non contempla la possibilità di doppie dissociazioni come quelle descritte nella letteratura neuropsicologica. Per questa ragione, Rapp e Caramazza (2002) argomentano contro alcuni assunti della teoria di Levelt et al. (1999): 1. essi sostengono che le informazioni sulla classe grammaticale possono essere rappresentate amodalmente in modo indipendente dalla semantica e dalla forma fonologica delle parole (come avviene 28 La griglia di sottocategorizzazione contiene le informazioni necessarie per realizzare gli argomenti del verbo, come, ad esempio, il sintagma tramite cui ciascun ruolo tematico deve essere realizzato. 91 nel modello di Levelt), ma non devono essere legate a nessun livello lessicale centrale, analogo a quello del lemma. 2. il livello del lemma non esiste, o comunque deve essere prevista la possibilità che le forme fonologiche delle parole vengano attivate direttamente dai rispettivi concetti semantici. 3. i lessici contenenti le forme fonologiche delle parole devono essere specifici per modalità e organizzati secondo la classe grammaticale degli elementi che ne fanno parte. Accettando questi assunti, è effettivamente possibile spiegare le doppie dissociazioni citate sopra. In sostanza, in questa prospettiva, il livello del lemma non esiste e le informazioni lessicali-sintattiche, che nel modello leveltiano erano integrate nel sistema lessicale, ora sono spostate in un livello di elaborazione sintattica, sicuramente comunicante col sistema lessicale (tanto che i lessici sono organizzati secondo principi sintattici, i.e. la classe grammaticale), ma sostanzialmente esterno e indipendente da esso (Caramazza, Miozzo, 1997). Esiste qualche evidenza neuropsicologica che testimoni l’esistenza del livello del lemma? Berndt, Mitchum, Haendiges e Sandson (1997a; 1997b) sostengono che il deficit che provoca la dissociazione nomi-verbi deve essere collocato a livello lessicale: si chiedono, però, se il deficit sia a livello del lessema o a livello del lemma. Gli autori cercano di rispondere a questo quesito analizzando il disturbo di 10 pazienti afasici con una serie di compiti di produzione e di comprensione di parole isolate e di frasi. 92 Dall’analisi della prestazione dei pazienti ai compiti che avevano a che fare con parole isolate emerge che, in produzione, 5 soggetti erano dissociati-meglionomi, 2 erano dissociati-meglio-verbi e 3 non erano dissociati; inoltre, c’era un effetto di frequenza d’uso nella prestazione complessiva del gruppo (oltre che in 4 casi singoli), un alto numero di errori semantici e una comprensione non dissociata in tutti i 7 pazienti dissociati in produzione. Questi risultati non sono chiari: l’alto numero di errori semantici suggerisce, infatti, un danno a livello del lemma, mentre l’effetto frequenza (dovuto alla forma fonologica delle parole) e la comprensione intatta portano a pensare, invece, ad un problema a livello del lessema. Berndt et al. continuano allora l’indagine, utilizzando stavolta compiti che coinvolgono il processing di frasi; questo perché se il deficit dei dissociatimeglio-nomi fosse a livello del lemma, argomentano gli autori, esso dovrebbe compromettere la struttura di tutta la frase, in quanto la struttura argomentale del verbo stesso e le indicazioni per la realizzazione dei ruoli tematici sarebbero danneggiate. Un deficit del lessema, al contrario, non causerebbe questi effetti collaterali, in quanto interverrebbe ad un livello in cui la cornice sintattica della frase è già stata definita. Ai dieci afasici venne chiesto, quindi, di raccontare una storia e di descrivere delle scene rappresentate visivamente: la prestazione dei pazienti rivelò una correlazione tra deficit ai verbi e difficoltà nella costruzione della frase di tipo puramente strutturale, non morfologico. Questo dato suggerisce che il deficit lessicale che causa la dissociazione sia a livello del lemma: per controllare questa ipotesi, i soggetti vennero sottoposti ad un compito di produzione di frasi da una parola target, in cui lo 93 sperimentatore diceva un verbo (o un nome) al paziente e gli chiedeva di costruire con esso una frase. In questo compito il lemma con cui hanno difficoltà i dissociati viene fornito dall’esterno e con esso tutto il bagaglio di informazioni sintattiche necessarie alla buona costruzione della frase; per questa ragione, i dissociati con lesione lemmatica dovrebbero trarre vantaggio da questa condizione e comportarsi meglio che negli altri compiti, mentre la prestazione dei dissociati con lesione lessematica non dovrebbe cambiare. Due dissociati-meglio-nomi dimostrarono il miglioramento atteso: Berndt et al. interpretano questi risultati come prova del fatto che, per questi due pazienti, il deficit lessicale è situato a livello del lemma. A riprova di ciò, questi due pazienti mostravano una difficoltà relativamente selettiva nella comprensione delle frasi reversibili rispetto a quelle non-reversibili (indice di un problema con i ruoli tematici, rappresentati a livello del lemma). Altri due dissociati-meglio-nomi continuarono ad avere una prestazione molto bassa, con grossi problemi nella costruzione della frase: gli autori sostengono che questi pazienti hanno un problema sintattico di costruzione della frase indipendente dal lessico. L’ultimo paziente con un deficit dei verbi, invece, continuava a costruire frasi con una buona struttura sintattica, mantenendo, però, la sua difficoltà nel produrre verbi: questo quadro è interpretato come il risultato comportamentale di un deficit del livello dei lessemi. Riassumendo, per Berndt et al. (1997), il deficit che causa la dissociazione nomi-verbi è di tipo lessicale e può colpire sia il livello del lemma, producendo difficoltà anche nella strutturazione della frase, sia il livello del lessema. 94 1.3.5 Deficit fonologico Alcuni studi (ad esempio, Kelly, 1992) hanno dimostrato che, nella lingua inglese, nomi e verbi differiscono in una serie di caratteristiche fonologiche, come la lunghezza media, il pattern accentuativo (nelle parole bisillabiche) e la qualità di vocali. Questo fa legittimamente sorgere l’ipotesi che le differenze osservate tra nomi e verbi possano essere meglio attribuite a difficoltà con particolari tratti fonologici piuttosto che a problemi con una specifica classe grammaticale (Rapp, Caramazza, 2002). Questa ipotesi incontra almeno due difficoltà: 1. innanzitutto, le differenze fonologiche tra nomi e verbi non si tramutano sempre in differenze ortografiche (si pensi alla qualità delle vocali e al pattern accentuativo che, ortograficamente, non è rappresentato) eppure la dissociazione emerge anche in compiti scritti in alcuni pazienti (KSR in Rapp, Caramazza, 2002) 2. la dissociazione emerge anche in compiti che coinvolgono nomi e verbi perfettamente omofoni e identici ortograficamente (in inglese questa condizione è realizzata molto spesso: si pensi a hammer e to hammer, rock e to rock, fish e to fish) dove, ovviamente, tutte le variabili fonologiche sono bilanciate (Rapp, Caramazza, 2002). E’ quindi piuttosto difficile pensare a questo come a un meccanismo capace di spiegare tutte le dissociazioni, anche se esso potrebbe avere un ruolo almeno in alcuni pazienti. 95 1.4 Conclusione Come abbiamo avuto occasione di vedere, la letteratura ha fornito molti dati su cui riflettere, sia a proposito del ruolo delle variabili lessicali che a proposito del rapporto tra dissociazione nomi-verbi e sindromi afasiche. Ma l’elemento che più ha interessato i ricercatori e che ha più importanza per le sue implicazioni sui modelli linguistici della mente è sicuramente il locus funzionale della lesione che causa la dissociazione. Le ipotesi possibili in linea teorica (ed anche quelle proposte in base ai dati sperimentali) sono moltissime, ma la letteratura sembra affermare che le due più accreditate siano quella lessicale e quella semantica: semplificando molto il problema, a favore della prima giocano alcuni dati sperimentali piuttosto stringenti, come le dissociazioni per modalità e per input/output, mentre a favore della seconda gioca soprattutto il fattore economia, essendo piuttosto controverse le evidenze sperimentali su cui è fondata. 2. Gli studi di localizzazione anatomica Alcuni autori si sono occupati del fenomeno della dissociazione nomi-verbi anche da un punto di vista localizzativo: si sono chiesti, in sostanza, se esistessero delle aree cerebrali prevalentemente associate al recupero o al trattamento di queste due classi lessicali. Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda sono si due tipi: quelli che usano il metodo della correlazione anatomo-clinica e lavorano quindi 96 su pazienti cerebrolesi e quelli che utilizzano le tecniche elettrofisiologiche e di neuroimmagine in vivo, lavorando quindi su soggetti normali. Gli studi sui pazienti cerebrolesi. Gli studi che utilizzano il metodo della correlazione anatomo-clinica sembrano indicare un quadro relativamente definito: esso associa una lesione frontale, in particolare a livello dell’opercolo, dell’insula, delle aree pre-centrali inferiori e delle aree pre-motorie e prefrontali, ad un deficit più marcato nella produzione dei verbi e un deficit temporale, sia anteriore che inferiore, ad un problema relativamente selettivo per i nomi. In questa direzione vanno i dati provenienti da molti studi, tra cui quello di Tranel et al. (2001) e quello di Glosser e Donofrio (2001). Non mancano, però, dati contrastanti con questo quadro: nello stesso studio di Tranel et al. (2001) viene sottolineato come esistano pazienti con un deficit più marcato ai nomi che presentano lesioni pre-motorie/pre-frontali oppure della corteccia occipitale mesiale sinistra; ancora, alcuni studi (Hillis, Caramazza, 1995) mostrano invece come pazienti con ampie lesioni frontali sinistre presentino una buona produzione orale di verbi. Da ultimo, alcuni ricercatori sottolineano che anche lesioni al lobo parietale posteriore, andando a colpire le rappresentazione mentali dei programmi motori, influiscono sulla produzione verbale dei pazienti cerebrolesi, a volte causando una dissociazione-meglio-nomi, anche se forse non di origine strettamente lessicale (De Renzi, Lucchelli, 1988). Gli studi sui soggetti normali. Il quadro degli studi che utilizzano tecniche elettrofisiologiche o di neuroimmagine sembra essere un po’ meno definito. 97 Sono riportati in letteratura, infatti, sia dati che confermano i risultati degli studi su pazienti cerebrolesi sia dati che confutano l’ipotesi dell’associazione tra aree frontali e verbi e tra aree temporali e nomi. Nello studio di Perani et al. (1999), ad esempio, si nota, in corrispondenza della denominazione di azioni, un’attivazione delle aree pre-motorie e prefrontali, ma anche un’attivazione temporale laterale. L’associazione tra aree frontali e deficit ai verbi sembra essere quella che trova più conferme nei dati sui soggetti normali: in questa direzione vanno, infatti, i risultati di Damasio et al. (2001), di Chao e Martin (2000) e di Hillis et al. (2002). L’associazione tra produzione dei nomi e aree temporali ha ricevuto sia conferme che smentite: Perani et al. (1999) non hanno rilevato nessuna area associata in modo particolare alla denominazione di oggetti, mentre Hillis et al. (2002) hanno sottolineato un’attivazione notevole dei giri temporale superiore e medio dell’emisfero di sinistra in corrispondenza del recupero lessicale di nomi. Uno studio particolare è quello di Martin et al. (1996): esso conferma l’associazione ipotizzata tra lobo temporale sinistro e produzione di nomi, ma evidenzia un ruolo importante nella denominazione dei verbi non tanto del lobo frontale sinistro, ma delle aree temporali più posteriori, al confine con il lobo occipitale e quello parietale. Un ultimo studio che mi preme sottolineare è quello di Joan Sereno (1999), la quale, utilizzando la tecnica dei tempi di reazione e della presentazione dello stimolo in un solo emicampo visivo in compiti di categorizzazione e decisione lessicale, ha dimostrato come i nomi presentati nell’emicampo sinistro siano processati altrettanto velocemente di quelli presentati nell’emicampo destro: i verbi, al contrario, sono processati in modo significativamente più lento se 98 presentati nell’emicampo sinistro. Questo indica che la competenza dell’emisfero destro per quello che riguarda i verbi è piuttosto limitata (risultati simili sono stati ottenuti da Pugh et al., 1997). In conclusione, la letteratura sembra suggerire un’associazione tra aree frontali e processamento dei verbi e tra aree temporali e processamento dei nomi; si intuisce, inoltre, anche se non in modo chiaro, un ruolo del lobo parietale posteriore e della parte posteriore del lobo temporale nell’elaborazione dei verbi. 99 PARTE II Dopo avere descritto e commentato le fondamenta sulle quali vogliamo poggiare la nostra costruzione, in questa seconda parte della tesi, ci occuperemo del nostro lavoro sperimentale. Esso è costituito da due parti: 1. una nuova analisi qualitativa e quantitativa dei risultati ottenuti su 26 pazienti afasici dissociati nomi-verbi in un precedente compito di denominazione su figura (Luzzatti et al., 2002). 2. la somministrazione di un nuovo test di denominazione e di un test che valuta il recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di completamento di frasi, dove gli item appartenenti alle due categorie lessicali sono bilanciati per immaginabilità. La seconda parte del lavoro sperimentale ci ha permesso di chiarire l’intricata relazione tra dissociazione nomi-verbi e immaginabilità emersa già da tempo in letteratura e riproposta dall’analisi qualitativa dei dati di Luzzatti et al. (2002); inoltre, il contesto frasale in cui si svolgeva il test di recupero lessicale ci ha aiutato a confermare le ipotesi sul locus funzionale del deficit che erano 100 emerse anch’esse dall’analisi qualitativa descritta nel terzo capitolo di questa tesi. Per poter condurre queste ulteriori analisi è stato necessario costruire una batteria di completamento di frasi che ha permesso un bilanciamento migliore dell’immaginabilità tra nomi e verbi e una nuova batteria di denominazione, costituita da 50 figure di azioni e 50 figure di oggetti. La scansione dei capitoli rispetta lo schema fin qui esposto: nel terzo capitolo ci occuperemo della nuova analisi dei risultati ottenuti da un precedente compito di denominazione (Luzzatti et al., 2002), mentre nel quarto descriveremo le procedure attraverso cui abbiamo costruito le due nuove batterie e discuteremo dei risultati ottenuti dalla somministrazione di queste nuove batterie ad una serie di pazienti afasici non selezionati; infine, nel quinto capitolo daremo uno sguardo complessivo ai dati ottenuti e trarremo le conclusioni del nostro lavoro. Parte II Capitolo 3 ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE AD UN TEST I DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI Capitolo 4 STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMIVERBI IN UN GRUPPO DI PAZIENTI AFASICI ATTRAVERSO UN TEST DI RECUPERO LESSICALE IN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF) Capitolo 5 DISCUSSIONE GENERALE 101 3 ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE AD UN TEST DI DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI La prima parte del mio lavoro sperimentale è consistita in una rilettura e un’ulteriore approfondimento dei dati emersi nell’esperimento di Luzzatti et al. (2002), attraverso un’analisi qualitativa delle risposte dei pazienti e una rianalisi quantitativa ad hoc, pensata per testare le previsioni sulla dissociazione nomiverbi fatte da Bird, Howard e Franklin (2000), secondo cui la dissociazione emerge a causa di un disturbo semantico. 1. L’analisi qualitativa L’analisi qualitativa è consistita nella classificazione degli errori commessi da ciascun soggetto: abbiamo, in sostanza, costruito dei profili più approfonditi delle prestazioni dei singoli pazienti, in cui le informazioni presenti non erano più solo la correttezza o meno delle risposte, ma anche i tipi di errore commessi. 102 Questa analisi è stata condotta con l’obiettivo di raccogliere ulteriori dati che potessero chiarire i risultati quantitativi e guidare la nuova ricerca. In particolare, l’analisi quantitativa dei dati di Luzzatti et al. (2002) aveva lasciato aperti alcuni quesiti: 1. quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai nomi piuttosto che ai verbi o viceversa? 2. questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi? 3. se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e per tipo di afasia oppure no? Prima di cercare di rispondere a queste domande, riassumerò nella prima parte del capitolo materiali, metodi e risultati dell’esperimento di Luzzatti et al. (2002), in modo da chiarire il punto di partenza del nostro lavoro. 1. Introduzione Il lavoro di Luzzatti et al. si proponeva di indagare alcuni aspetti della dissociazione nomi-verbi poco chiari in letteratura (vedi capitolo 2), in particolare: l’esistenza di associazioni tra tipo di afasia e prevalente deficit dei nomi o dei verbi. la presenza di differenze nelle prestazioni dei soggetti dissociati tra tipi di verbo (transitivi, inaccusativi e inergativi). 103 i meccanismi all’origine della dissociazione. All’esperimento parteciparono 45 soggetti normali di controllo e 58 afasici, 36 dei quali erano fluenti (13 amnestici e 23 Wernicke); 15 erano invece afasici non-fluenti (di cui sei erano agrammatici), mentre sette erano afasici che non era stato possibile classificare in modo chiaro. Tutti i soggetti vennero sottoposti ad un compito di denominazione di figure che rappresentavano azioni e oggetti: in particolare, furono utilizzate 30 figure raffiguranti oggetti (15 naturali e 15 artificiali) e 40 figure raffiguranti azioni (16 raffiguravano verbi transitivi, 12 verbi inergativi e 12 verbi inaccusativi). Ogni disegno venne valutato da 42 soggetti normali: tutte le figure usate nello studio erano state denominate correttamente da almeno il 95% dei controlli. Per ciascun item furono calcolati i valori delle principali variabili lessicali: frequenza d’uso orale, età di acquisizione, familiarità ed immaginabilità. La batteria finale risultò bilanciata tra nomi e verbi per età di acquisizione e familiarità; poiché alcuni item furono eliminati dalla versione finale a causa di un name agreement inferiore al valore preliminarmente deciso, la frequenza orale dei verbi era leggermente più alta di quella dei nomi (Mann-Whitney test: p =.045). D’altra parte, era stato del tutto impossibile bilanciare l’immaginabilità di nomi e verbi da denominare (i nomi erano più immaginabili dei verbi; MannWhitney test: p <.001). Per quello che riguarda, invece, il bilanciamento della batteria tra tipi di verbo, transitivi, inergativi ed inaccusativi risultarono avere frequenza, familiarità, età di acquisizione ed immaginabilità non significativamente differenti , tranne in due confronti: l’età di acquisizione degli inergativi era più bassa di quella dei transitivi (Mann-Whitney test: p =.04) e l’immaginabilità 104 degli inaccusativi più bassa di quella degli intransitivi (Mann-Whitney test: p =.03). Vennero condotti due tipi di analisi: una a livello di gruppo e una per casi singoli. L’analisi per casi singoli aveva l’obiettivo di capire il ruolo delle diverse variabili nella prestazione di ogni singolo soggetto attraverso l’Analisi di Regressione Logistica (McCullagh, Nelder, 1983), sia univariata (considerando, cioè, una singola variabile per volta) che multivariata (considerando invece più variabili contemporaneamente). I risultati emersi sono i seguenti: 1. a livello di gruppo, i pazienti afasici non-fluenti mostrarono una compromissione nel recupero lessicale più marcata con i verbi che con i nomi (p<.001). Anche gli afasici fluenti avevano livelli di compromissione diversi, ma in modo meno evidente e a favore dei nomi (p =.05). Gli agrammatici, in particolare, denominarono correttamente il 33% dei verbi e il 70% dei nomi. 2. nei non-fluenti vi era una prestazione molto peggiore con i verbi inaccusativi rispetto ai transitivi e agli inergativi (p<.001); gli agrammatici, inoltre, si comportarono peggio con i verbi transitivi che con i verbi inaccusativi e inergativi, anche se la differenza non risultò statisticamente significativa (p =.12) 3. attraverso la regressione logistica univariata, si vide che la frequenza d’uso orale aveva effetto su solo 11 dei 58 pazienti, ma su ben 5 dei 6 dissociati con superiorità ai verbi; parallelamente, l’immaginabilità 105 aveva effetti su solo 29 dei 58 pazienti, ma su tutti i 20 dissociati meglio-nomi. 4. attraverso l’analisi della regressione multivariata, si vide, inoltre, che la prestazione di 3 dei 6 dissociati meglio-verbi non dipendeva più significativamente dalla classe grammaticale dell’item, se nel modello veniva introdotta la frequenza d’uso; inoltre, la prestazione di 18 dei 20 dissociati meglio-nomi non dipendeva più dalla classe grammaticale se nel modello veniva inserito il fattore immaginabilità. 5. per quanto riguarda il rapporto tra tipo di afasia e dissociazione, si notò che 5 dei 6 dissociati meglio-verbi erano amnestici e che 5 dei 6 agrammatici mostravano una superiorità dei nomi. Inoltre, dei 7 amnestici dissociati, ben 5 lo erano a favore dei verbi e degli 8 Wernicke dissociati, soltanto uno aveva una superiorità ai verbi. Come si può vedere, i dati emersi permettono di dare risposte, seppure parziali, ai quesiti che Luzzatti et al. si ponevano all’inizio dello studio. Innanzitutto, è stata ancora una volta verificata l’esistenza del fenomeno della dissociazione nome-verbo negli afasici: la dissociazione è stata osservata in entrambe le direzioni (doppia dissociazione), cioè sia a favore dei verbi che a favore dei nomi. L’associazione tra agrammatismo e superiorità dei nomi è stata trovata anche in questo studio, così come quella tra afasie fluenti (in particolare, afasia amnestica) e superiorità dei verbi. L’interpretazione di questo dato è complessa, perché le “regole” associative in questione non sono biunivoche: se è vero che quasi tutti gli agrammatici hanno un deficit più marcato ai verbi, non è vero che 106 tutti gli afasici con superiorità ai verbi sono agrammatici (solo 5 su 20), così come non è vero che tutti gli afasici amnestici (o quasi) sono dissociati meglioverbi (solo 5 su 13), nonostante quasi tutti i dissociati meglio-verbi soffrano di afasia amnestica. Questo indica che l’associazione esiste (almeno in questo campione), ma che la superiorità ai verbi e quella ai nomi non sono semplici fenomeni corollari dell’agrammatismo o della sindrome afasica amnestica; piuttosto, essi sembrano fenomeni complessi, trasversali alle diverse forme afasiche. Sono state trovate differenze tra tipo di verbo, come gli autori si aspettavano; Luzzatti et al. ipotizzano che la caduta ai transitivi degli agrammatici sia legata alla difficoltà di questi nel trattare verbi con molti argomenti (e i transitivi ne hanno sempre almeno due, al contrario di inergativi e inaccusativi). Al contrario, la caduta dei non-fluenti agli inaccusativi potrebbe essere legata alla struttura quasi-passiva di questi verbi, probabilmente “registrata” a livello del lemma. Da ultimo, è risultato evidente il ruolo delle variabili lessicali: frequenza e immaginabilità spiegano buona parte delle dissociazioni, ma non tutte. Proprio su questo Luzzatti et al. si appoggiano per dimostrare che la dissociazione non è (o almeno non è solo) un artefatto derivato dal non-bilanciamento delle batterie, creato, quindi, dai diversi valori di immaginabilità, frequenza, lunghezza ed età d’acquisizione che si associano a nomi e verbi. Inoltre, è difficile anche pensare che la dissociazione (in particolare, quella a favore dei nomi) sia l’effetto di un deficit sintattico che impedisce agli agrammatici di trattare i verbi. Infatti, questa ipotesi mal si accorda col fatto che molti dissociati meglio-nomi non siano agrammatici o abbiano problemi sintattici piuttosto lievi; inoltre, mal si accorda col fatto che l’immaginabilità giochi un ruolo importante nello spiegare la maggior parte dei deficit verbali. 107 Altro dato molto interessante è quello per cui la variabile immaginabilità gioca un ruolo cruciale nella prestazione di tutti i dissociati meglio-nomi, ma in pochi dissociati meglio-verbi e, parallelamente, la frequenza d’uso sia un fattore significativo nelle prestazioni di quasi tutti i dissociati meglio-verbi, ma in pochissimi dissociati meglio-nomi. Date queste considerazioni, bisogna ammettere che, almeno in alcuni casi, la dissociazione sia un “vero” fenomeno lessicale, legato alla classe grammaticale, anche se questo non significa necessariamente che il lessico sia diviso in un lessico dei nomi e in un lessico dei verbi. In conclusione, Luzzatti et al. sostengono che la dissociazione nome-verbo in afasia sia un fenomeno legato alla classe grammaticale e che la sua origine non vada ricercata tanto in una suddivisione funzionale e anatomica del lessico mentale, quanto piuttosto nella diversa complessità sintattica (numero di argomenti, ad esempio) e nelle diverse caratteristiche semantiche (immaginabilità e frequenza d’uso) che sono proprie di nomi e verbi. 2. Analisi qualitativa dei protocolli Lo scopo di questa analisi è ottenere nuove informazioni sugli aspetti qualitativi della dissociazione nomi-verbi. Più specificamente, si vuole rispondere ad alcune domande: quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai nomi piuttosto che ai verbi o viceversa? questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi? 108 se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e per tipo di afasia oppure no? Un meccanismo patologico prevede necessariamente un certo tipo di errore piuttosto che altri: costruire dei profili d’errore può quindi esserci molto utile per risalire al tipo di disturbo che li ha causati e ai meccanismi attraverso i quali si sono manifestati. Ancora, se il tipo di disturbo che si nasconde dietro le dissociazioni di ciascuno dei pazienti fosse uno solo, allora dovremmo attenderci dei profili d’errore omogenei nei diversi soggetti; in caso contrario, non ci stupiremmo di osservare fenomeni qualitativi anche molto diversi tra loro negli errori dei dissociati. Da ultimo, se notassimo che certi fenomeni qualitativi si associano con maggior frequenza a certi tipi di dissociazione o a certi tipi di afasia, allora potremmo ipotizzare non solo l’esistenza di meccanismi patologici diversi, ma anche che questi diversi meccanismi dipendano appunto dal tipo di afasia o dal tipo di dissociazione. Se consideriamo, ad esempio, quali tipi di afasici mostrano una dissociazione-meglio-nomi tra i 58 testati, ci accorgiamo che in questo gruppo sono presenti sia afasici fluenti che afasici non-fluenti: essi hanno, per definizione, dei quadri patologici molto diversi tra loro ed è dunque ragionevole attendersi che mostrino qualche differenza anche nel dissociare tra nomi e verbi. Non sembra, però, che queste eventuali differenze emergano dall’analisi quantitativa (i due gruppi hanno gravità di dissociazione confrontabile e mostrano un forte effetto di immaginabilità, ma non di frequenza d’uso). 109 2.1 Materiali e metodi Sono stati considerati per questo studio 26 pazienti afasici. Di questi, 15 erano afasici fluenti, sei erano afasici non-fluenti e i restanti cinque soffrivano di una forma di afasia non classificabile lungo il parametro fluente/non fluente. Dei 21 pazienti cui era stata attribuita una diagnosi, sette pazienti furono classificati come amnestici, otto come afasici di Wernicke, cinque come agrammatici e uno come afasico non-fluente non agrammatico. Da ultimo, 20 erano dissociati-meglio-nomi (DMN) e sei erano dissociati-meglio-verbi (DMV). I soggetti sono stati sottoposti ad un test di denominazione di oggetti (30) e azioni (40), le cui caratteristiche sono esposte a pagina 104. Le risposte dei soggetti vennero classificate secondo una griglia che comprendeva undici possibili tipi di errore. Le alternative erano le seguenti (vedi anche Tabella 3): Tabella 2: composizione del campione di afasici che ha partecipato allo studio (DMN=dissociati-meglio-nomi; DMV=dissociati-meglio-verbi). DMN DMV TOTALE AMNESTICI 2 5 7 WERNICKE 7 1 8 BROCA NON AGRAMMATICI 1 0 1 BROCA CON AGRAMMATISMO 5 0 5 NON CLASSIFICABILI 5 0 5 TOTALE 20 6 26 110 1. Risposta corretta (R+): il soggetto denomina correttamente l’oggetto o l’azione target. 2. Latenza: il soggetto denomina correttamente il target, ma solo dopo un intervallo di almeno tre secondi. 3. Scambio nome/verbo (N_V): il soggetto produce un nome al posto di un verbo o un verbo al posto di un nome con un legame semantico tra gli elementi scambiati. 4. Produzione di un argomento del verbo (S/Ogg): il paziente, al posto di un verbo, produce un nome che, indipendentemente dal suo legame semantico col target, è un suo possibile argomento esterno (soggetto) o complemento. Il legame tra le entrate lessicali scambiate, in questo caso, è principalmente di natura sintattica piuttosto che semantica. 5. Produzione di un argomento del verbo insieme ad un verbo leggero (S/Ogg+Vppt): il soggetto si comporta come nel caso dell’errore descritto sopra, ma produce inoltre un verbo semanticamente leggero. 6. Circonlocuzione (Circ): il soggetto non riesce a denominare il target e cerca di farlo capire attraverso un giro di parole. 7. Parafasia semantica (PS-cat+): il soggetto produce un elemento della classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo), ma non denomina il target, bensì un oggetto (o un’azione) semanticamente relato. 8. Parafasia verbale (PV-cat+): il soggetto produce un elemento della classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo), ma non relato semanticamente al target; in questa classe è stata inclusa anche la produzione di elementi lessicali della categoria giusta, ma 111 semanticamente leggeri, cioè con un significato molto generico, al confine con le parole passe-partout. 9. Forma neologistica verbale derivata da nome (Neol): questo tipo di errore è stato rilevato solo nella denominazione delle azioni e consiste nella produzione di una forma verbale neologistica, morfologicamente corretta, ottenuta per derivazione da un nome (di solito, relato semanticamente al verbo target; ad esempio, fuocare per bruciare). 10. Risposta nulla (ø): il soggetto non da risposta, produce una frase incomprensibile o senza senso oppure produce solo elementi stereotipati. 11. Errore visivo: il soggetto sbaglia la denominazione dell’oggetto perché non capisce o interpreta male il disegno. La scelta di questo schema di correzione è dovuta all’esigenza di classificare tutte le riposte dei soggetti, sottolineando, però, alcuni tipi di errore che ci sembravano significativi, importanti per capire il meccanismo attraverso il quale la dissociazione tra nomi e verbi emerge. In questa prospettiva, i primi due tipi di risposta testimoniano un risparmio della capacità di accesso al magazzino lessicale29 (quello dei verbi se si stanno denominando azioni o quello dei nomi se si stanno denominando oggetti) anche se, in qualche caso, non completo, come può testimoniare il tempo di latenza Al contrario, lo scambio nome-verbo (N_V) e la produzione di un argomento del verbo (S/Ogg) provano una evidente difficoltà di accesso al magazzino in questione, tanto da costringere il paziente a scivolare su un item relato al target, ma della categoria grammaticale opposta; secondo una terminologia introdotta 29 Intendo per “ magazzino lessicale ” un termine puramente funzionale-linguistico che non sottende una divisione anatomica tra i lemmi verbali e quelli nominali. 112 da Saussure (1967) e Jakobson (1966), potremmo chiamare questi errori sintagmatici. Le parafasie, semantiche (PS) o verbali (PV) che siano, testimoniano, invece, una conservata capacità di accesso al magazzino lessicale in esame, il quale, però, non è perfettamente conservato; sempre seguendo Saussure e Jakobson, potremmo chiamare questi errori paradigmatici. Essi sottendono un tipo di deficit piuttosto diverso da quello sottolineato dagli scambi sintagmatici: in particolare, PS e PV rivelano una conservata capacità di produrre elementi della classe grammaticale in questione. Errori come la circonlocuzione (Circ) e la produzione di un argomento del verbo insieme ad un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) sono indici di un mancato accesso alla parola target, ma non ci permettono di decidere con chiarezza se si tratta di un errore sintagmatico o paradigmatico; essi sottolineano, però, che il paziente è riuscito a costruire una struttura frasale, per quanto semplice o scorretta, ed è riuscito a produrre un verbo, per quanto semanticamente leggero. La forma neologistica verbale derivata da nome (Neol) è un tipo di errore molto interessante, perché prova un deficit di accesso lessicale ai verbi, ma garantisce che il paziente sa che deve produrre un verbo (altrimenti non si sforzerebbe di costruirne uno) e che ha un sistema morfologico ancora piuttosto intatto. La risposta nulla caratterizza un deficit di accesso lessicale molto grave e l’assenza di un meccanismo di compenso; l’errore visivo, invece, è teoricamente meno rilevante per i quesiti che ci siamo posti. 113 Dopo avere classificato ogni singolo errore, abbiamo costruito i profili qualitativi di ciascun soggetto partecipante all’esperimento30. Fatto ciò, abbiamo raggruppato i dati per ottenere una sorta di “profilo qualitativo medio” dei DMV e dei DMN. Inoltre, all’interno di ciascuno dei due gruppi di dissociati, abbiamo costruito i profili medi dei gruppi di afasici presenti: amnestici e Wernicke per i DMV, amnestici, agrammatici e Wernicke per i DMN. Tutto ciò è stato fatto per analizzare questi profili alla ricerca di somiglianze ed eventuali simmetrie. 30 Le tabelle con i profili qualitativi d’errore completi di tutti i soggetti dissociati che hanno partecipato allo studio si trovano in Appendice. 114 Tabella 3: schema di classificazione delle risposte per l’analisi qualitativa. Nell’ultima colonna, dopo il nome e la definizione, si trovano esempi tratti dalle risposte dei pazienti che hanno partecipato allo studio. ERRORE DEFINIZIONE ESEMPIO ACCESSO CONSERVATO E MAGAZZINO LESSICALE CONSERVATO Risposta corretta (R+) Latenza (Lat) Il soggetto denomina correttamente l’oggetto o l’azione target. FOTOGRAFARE: "Sta fotografando" oppure “La ragazza fotografa” Il soggetto denomina correttamente il target, ma solo dopo un intervallo di almeno tre secondi. MARTELLO: "….martello" ACCESSO NON CONSERVATO; CAMBIO DI CATEGORIA Scambio nome/verbo (N_V) Il soggetto produce un nome al posto di un verbo o un verbo al posto di un nome con un legame semantico tra gli elementi scambiati. Produzione di un argomento del verbo (S/Ogg) Il soggetto, al posto di un verbo, produce un nome che, indipendentemente dal legame LEGARE: "la capra..la capra con la semantico col target, è un suo possibile argomento esterno (soggetto) o corda..f..." complemento. STARNUTIRE: "Ciu,Ciu..fazzoletto..fazzoletto ce l'ho" PSEUDO-STRUTTURA FRASALE; PRODUCE UN VERBO Circonlocuzione (Circ) Il soggetto non riesce a denominare il target PIOVERE: e cerca di farlo capire attraverso un giro di "…quando non c'è il sole" parole. 115 Tabella 3: continua. Produzione di un argomento del verbo insieme ad un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) Il soggetto, al posto di un verbo, produce un nome che, indipendentemente dal legame semantico col target, è un suo possibile SOLLEVARE: argomento esterno (soggetto) o "C'è il l'armadio…per..per complemento; produce, inoltre, un verbo andare.." semanticamente leggero. Dimostra una struttura frasale per quanto semplice o scorretta. ACCESSO CONSERVATO; MAGAZZINO DEFICITARIO Il soggetto produce un elemento della classe CADERE: grammaticale corretta (nome per nome o Parafasia semantica verbo per verbo), ma non denomina il "Sta..sta scivolando, sta (PS) scivolando questo ragazzo" target, bensì un oggetto (o un’azione) semanticamente relato. Il soggetto produce un elemento della classe CADERE: grammaticale corretta (nome per nome o "Stanno levando su.. questo sta verbo per verbo), ma non relato facendo" semanticamente al target. Parafasia verbale (PV) ACCESSO NON CONSERVATO; MORFOLOGIA VERBALE CONSERVATA Forma neologistica verbale derivata da nome (Neol) Il soggetto produce una forma neologistica verbale, morfologicamente corretta, ottenuta per derivazione da un nome (di solito, relato semanticamente al verbo target). BRUCIARE: "Fuocava.." ALTRI ERRORI Risposta nulla (ø) Il soggetto non da risposta, produce una frase incomprensibile o senza senso oppure produce solo elementi stereotipati. Errore visivo (EV) Il soggetto sbaglia la denominazione CAMPANA: dell’oggetto perché non capisce o interpreta "..berretto" male il disegno. SEGA: "…questa non la conosco.." 116 2.2 Risultati 2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi Risposte nulle. Un primo dato che risalta con chiarezza è la differenza di risposte nulle nella denominazione degli oggetti: i dissociati-meglio-verbi (DMV) commettono questo errore nel 49% dei casi, mentre i dissociati-meglionomi (DMN) solo nel 12% (t = 5,0; p < ,001). Il dato è relativamente scontato: i DMN sono tali proprio perché hanno difficoltà nel denominare oggetti. Se fosse tutto così semplice, però, troveremmo la stessa differenza, in maniera simmetrica, nelle risposte nulle ai verbi: sorprendentemente, invece, i DMN fanno un tale errore il 18% delle volte che tentano di denominare un’azione contro il 13% dei DMV (t = -.584; p = .565 n.s.; Figura 8). Scambi di categoria. Un altro dato abbastanza evidente è che i DMN producono un nome al posto di un verbo quando devono denominare un’azione nel 22% dei casi (13% N_V, 9% S/Ogg), mentre solo nel 3% dei casi i DMV fanno questo scambio: questa differenza è statisticamente significativa (t = 3,087; p = .005). 117 Figura 8: risposte nulle nella denominazione di azioni e oggetti: si noti l’evidente asimmetria. Ancora una volta, se i due profili d’errore fossero simmetrici, dovremmo aspettarci qualcosa di simile per l’errore opposto (verbo al posto di un nome quando si denomina un oggetto): questo, però, non accade dato che i DMV fanno questo scambio solo nell’uno per cento dei casi (mentre i DMN non lo fanno mai; t = 1,869; p = ,74, n.s.; Figura 9). Entrambe le asimmetrie osservate sono evidenziate in Tabella 4. Tabella 4: denominazione delle azioni dei DMN e denominazione degli oggetti dei DMV (i dati sono in percentuale); i profili non sono simmetrici. R+ N_V S/Ogg Ø DMV (oggetti) 23 1 0 49 DMN (azioni) 27 13 9 18 118 Figura 9: scambi di categoria nella denominazione di azioni e oggetti 2.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi Prima di iniziare ad osservare i risultati, faccio notare che, nel nostro studio, soltanto due pazienti con afasia amnestica sono dissociati-meglio-nomi; questo significa che tutto ciò che sottolineeremo a proposito di essi e del loro “profilo medio” non potrà essere esteso, se non con grande cautela e solo in via ipotetica, a tutti gli afasici amnestici. 119 Scambi categoriali. Ancora una volta, la differenza più evidente tra i gruppi confrontati sta nel numero di scambi di categoria lessicale: in questo caso, dato che stiamo parlando di dissociati-meglio-nomi, si tratta del numero di N_V e S/Ogg nella denominazione delle azioni. In sostanza, i due afasici amnestici commettono uno di questi due errori (producendo, quindi, un nome al posto di un verbo) il 3% delle volte che devono denominare un’azione, mentre gli afasici di Wernicke lo fanno nel 24% dei casi.31 Anche gli agrammatici fanno un gran numero di scambi di categoria nel denominare le azioni (26% dei casi): la differenza tra amnestici e agrammatici è, quindi, anch’essa molto marcata, pur se non statisticamente significativa (vedi nota 2). Come si può vedere, le attese differenze emergono, ma non distinguono gli agrammatici dagli afasici di Wernicke, bensì gli afasici amnestici dagli altri due gruppi. Risposte corrette, risposte nulle e parafasie. Come viene compensata questa grande differenza di scambi categoriali? Se confrontiamo amnestici e Wernicke (Tabella 5), sembra che il maggior numero di risposte corrette dei primi (43% contro 19%) compensi del tutto la differenza sottolineata sopra. 31 Data l’esiguità dei campioni, qualsiasi tipo di confronto statistico perde notevolmente in affidabilità: ci baseremo, quindi, soltanto su confronti qualitativi, senza l’appoggio di test statistici. L’esiguità dei campioni limita la validità statistica di questi risultati, che restano, però, a nostro avviso, molto importanti per i suggerimenti che possono dare sull’aspetto qualitativo del fenomeno della dissociazione nomi-verbi: le ipotesi sui meccanismi che causano questa dissociazione produrranno previsioni che potranno poi essere confermate o disattese da studi quantitativamente più estesi (e quindi statisticamente significativi). Inoltre, da un punto di vista epistemologico, l’esiguità del campione limita l’estendibilità dei risultati al gruppo di appartenenza, ma non la validità e l’importanza teorica del dato in sé. 120 Confrontando, invece, amnestici e agrammatici (Tabella 6), si nota che la differenza di scambi categoriali è compensata, oltre che dalle risposte corrette (43% gli amnestici, 38% gli agrammatici), anche dalle risposte nulle (15% contro 8%), dalla parafasie semantiche e verbali (17% contro 15%) e dalle produzioni di argomenti del verbo insieme a verbi leggeri (5% contro 1%). Percentuale di scambi categoriali sul totale degli errori. Se consideriamo solo le risposte scorrette (cosa che ci permette di avere dei dati “al netto” della capacità generale di denominare i verbi), il 5% degli errori commessi dagli amnestici alla denominazione di azioni è un errore che comporta la produzione di un nome semanticamente (N_V) o sintatticamente (S/Ogg) relato: errori di questo tipo costituiscono, invece, il 41% degli errori totali degli agrammatici e il 29% degli errori totali degli afasici di Wernicke. Comincia ad emergere una prima differenza tra afasici di Wernicke e agrammatici: la peggior prestazione media di questi ultimi fa sì che, se anche il numero di errori sintagmatici è confrontabile in assoluto, la percentuale di questi sia maggiore negli agrammatici. Tabella 5: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nella denominazione delle azioni dei DMN Amnestici (n=2) Wernicke (n=7) R+ N_V S/Ogg. 43 3 0 19 14 10 Ø PS-cat+ PV-cat+ 15 16 1 19 10 3 121 Tabella 6: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nella denominazione delle azioni dei DMN Amnestici (n=2) Agrammatici (n=5) R+ N_V S/Ogg. 43 3 0 38 16 10 Ø S/Ogg.+Vppt PS-cat+ PV-cat+ 15 5 16 1 8 1 12 3 Circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt. La differenza tra afasici di Wernicke e agrammatici che abbiamo appena sottolineato è compensata dalla diversa percentuale di quel tipo di errori che indicano la presenza di un verbo e di una struttura frasale, per quanto semplice e imperfetta. Come potevamo prevedere visti i marcati problemi sintattici dei pazienti con agrammatismo, questi ultimi producono una circonlocuzione o un argomento del verbo con un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) solo nel 7% dei loro errori; i pazienti con afasia di Wernicke, al contrario, fanno uno di questi due errori il 17% delle volte che sbagliano, essendo in questo molto più simili agli afasici amnestici (16% degli errori sono circonlocuzioni o S/Ogg+Vppt). Più parafasie o più scambi? Un altro dato interessante è quello per cui gli afasici di Wernicke, nella denominazione delle azioni, fanno molti più scambi di categoria (24% degli item, come abbiamo detto sopra) che parafasie semantiche o verbali (13%): in altre parole, quando sbagliano a denominare un’azione, molto più spesso producono un nome relato piuttosto che un verbo scorretto. Un andamento simile è manifestato dagli agrammatici: 26% di scambi contro 15% di parafasie semantiche e verbali. In entrambi i gruppi prevalgono, perciò, gli scambi che abbiamo chiamato a pagina 113, sintagmatici. Al contrario, gli afasici amnestici producono più spesso (17% degli item contro 3%) un verbo sbagliato piuttosto che un nome (Figura 10). 122 In sostanza, i dati presentati a proposito dei dissociati-meglio-nomi indicano che, mentre gli amnestici DMN tendono a sbagliare la denominazione delle azioni mantenendo la classe grammaticale del target (producendo, in maggioranza, scambi paradigmatici), gli afasici di Wernicke e gli agrammatici più spesso producono un nome, semanticamente o sintatticamente relato, al posto del verbo corretto, facendo, cioè, più scambi sintagmatici che paradigmatici. Inoltre, gli afasici di Wernicke e gli afasici amnestici producono anche molte circonlocuzioni e molti S/Ogg+Vppt, indicando una capacità relativamente conservata di costruzione della struttura frasale; questo tipo di errori è invece più raro negli agrammatici. Capacità generale di produrre verbi. Consideriamo, poi, tutti gli item (sia quelli corretti che quelli sbagliati) e contiamo il numero di volte che ciascun afasico DMN è riuscito, in assoluto, a produrre un verbo per un verbo, cioè ad accedere al magazzino lessicale dei verbi. In concreto, si tratta di considerare la frequenza totale di risposte corrette, latenze, parafasie semantiche e verbali, circonlocuzioni e S/Ogg+Vpp, cioè tutti quei tipi di risposta che presuppongono la produzione di un elemento della categoria corretta; ciò che si osserva è che gli amnestici accedono a quel magazzino nel 78% dei casi, gli agrammatici nel 64% e i Wernicke soltanto nel 51%. Gli afasici amnestici e quelli di Wernicke si comportano come potevamo prevedere in base agli altri risultati dell’analisi qualitativa. I primi producono spesso un verbo quando sbagliano e quindi ci aspettiamo che mostrino un accesso al magazzino lessicale dei verbi carente, ma non gravemente 123 Figura 10: scambi di categoria e parafasie semantiche (con categoria lessicale corretta) nella denominazione delle azioni da parte dei DMN. compromesso, mentre i secondi più frequentemente scivolano su un nome e, quindi, ci aspettiamo che abbiano maggiore difficoltà a produrre verbi in assoluto: queste previsioni sono verificate (Figura 11). Così non è per gli agrammatici, che, quando sbagliano, producono un nome al posto di un verbo come gli afasici di Wernicke, ma, in assoluto, dimostrano di sapere accedere meglio di loro al magazzino lessicale dei nomi (figura 11). Capacità generale di produrre verbi e scivolamenti sul nome. Le previsioni sopraccitate si basavano sull’assunto che un gran numero di scivolamenti verso 124 la categoria lessicale meno compromessa (i nomi) fosse indice di un accesso molto difficoltoso al magazzino maggiormente leso (quello dei verbi). Stimolati dal fatto che, come abbiamo visto, le previsioni fondate su questo assunto non sono sempre state confermate, ci siamo proposti di verificare la plausibilità dell’assunto stesso. Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione lineare e la retta di regressione tra quello che noi consideravamo un indice della capacità di accesso al magazzino dei verbi -il numero di scambi categoriali nella denominazione delle azioni (considerati come variabile indipendente)- e il numero di verbi Figura 11: denominazione delle azioni nei dissociati-meglio-nomi. Capacità generale di produrre verbi e scivolamenti sul nome sembrano non correlare inversamente. 125 realmente prodotti sul totale delle 40 azioni da denominare (variabile dipendente). Il risultato è molto chiaro: l’indice di Pearson (r) è assai basso. Esso, infatti, è di -.24, il che significa che il modello lineare di regressione spiega solo il 6% della varianza della variabile dipendente (r2 = .057; p = .31, n.s.; vedi Figura 12). In Figura 13, il coefficiente di correlazione lineare e la retta di regressione sono calcolati anche per il gruppo degli agrammatici e per gli afasici di Wernicke Figura 12: denominazione delle azioni di tutti i dissociati-meglio-nomi. Correlazione e regressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti: come si può vedere, la correlazione è molto bassa e il modello di regressione spiega solo il 6% della varianza totale dei dati 126 (non per gli afasici amnestici (due) e per l’afasico di Broca non agrammatico (uno solo) perché troppo poco numerosi): di fatto, nemmeno nei singoli gruppi di pazienti si vede l’attesa correlazione, anche se negli agrammatici emerge un trend (r2 = .46; p = .21 n.s.), che, invece, non si vede negli afasici di Wernicke (r2 = .045; p = .64 n.s.). Figura 13: denominazione delle azioni dei dissociati-meglio-nomi. Correlazione e regressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti nei singoli gruppi afasici: soltanto nel gruppo dei pazienti agrammatici si nota una correlazione tra le due grandezze ed è possibile costruire un modello lineare abbastanza predittivo. 127 2.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi Prima di osservare i dati, ricordo che questo gruppo è composto da cinque afasici amnestici e un solo afasico di Wernicke: ciò significa che, mentre il profilo dei primi è un “vero profilo medio”, da cui si possono, con la dovuta cautela (data la limitatezza numerica del campione), fare ipotesi generali su tutti gli afasici amnestici, il profilo del paziente con afasia di Wernicke è un profilo singolo, informativo solo su quel paziente; su di esso, è legittimo soltanto costruire ipotesi di lavoro sui meccanismi della dissociazione che agiscono su quel soggetto, non su tutti gli afasici di Wernicke. Scambi sintagmatici. Un primo dato interessante è quello per cui sia il paziente con afasia di Wernicke che i 5 pazienti con afasia amnestica non producono mai un verbo al posto di un nome quando devono denominare un oggetto: quando devono recuperare un’entrata lessicale della categoria più danneggiata, questi soggetti non ”scivolano” mai su un’entrata lessicale della classe opposta. Ricordiamo che, nei DMN, gli afasici di Wernicke erano proprio quelli che più massicciamente manifestavano questo fenomeno (lo “scivolamento” su un’entrata lessicale della categoria meno danneggiata): se la tendenza mostrata da questo paziente fosse confermata da altri afasici di Wernicke DMV, ecco che emergerebbe un’altra delle asimmetrie che caratterizzano la dissociazione nomiverbi. Scambi paradigmatici e risposte nulle. Un secondo elemento che emerge in modo piuttosto evidente è la differenza molto marcata tra il numero di parafasie 128 semantiche o verbali (scambi paradigmatici) e il numero di risposte nulle nel gruppo degli amnestici: 51% contro 11%. Questa differenza è presente anche nel paziente con afasia di Wernicke, ma in modo molto marcato (40% contro 23%). Sembra, quindi, che gli amnestici abbiano tendenzialmente maggiore difficoltà dell’afasico di Wernicke a produrre un nome. Questa impressione è confermata da un altro fatto: considerando solo gli errori (come abbiamo detto a pagina 121, questo ci aiuta ad avere dati al netto dell’entità del deficit generale di denominazione), il paziente con afasia di Wernicke produce un nome il 48% delle volte che sbaglia a denominare un oggetto, mentre gli amnestici, in media, hanno questo comportamento solo nel 19% dei casi (nel restante 80% fanno soprattutto risposte nulle). In conclusione, gli amnestici dissociati-meglio-verbi sembrano avere un accesso difficoltoso al “magazzino lessicale” dei nomi; il paziente con afasia di Wernicke, al contrario, sembra riuscire più facilmente a recuperare nomi, producendo, però, spesso parafasie semantiche o verbali. 2.3 Discussione 2.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi Diversi meccanismi di dissociazione? La domanda da cui siamo partiti nell’analisi qualitativa dei protocolli era la seguente: il disturbo selettivo per i nomi e quello selettivo per i verbi hanno le stesse caratteristiche oppure no? 129 Detto in altro modo, i fenomeni comportamentali che si verificano nei DMN e nei DMV sono simili oppure diversi? I nostri dati non rivelano profili d’errore simmetrici e speculari tra DMN e DMV , ma, al contrario, profili caratterizzati da fenomeni qualitativi differenti. I DMN fanno un numero significativamente più alto di scambi di categoria (sintagmatici) nella denominazione delle azioni rispetto a quanti ne facciano i DMV nella denominazione degli oggetti; i DMV, a loro volta, fanno molte più risposte nulle ai nomi di quante ne facciano i DMN ai verbi. E’ possibile dare due tipi di interpretazione alla diversità dei profili d’errore: potremmo dire che i dati testimoniano che la dissociazione-meglio- verbi e la dissociazione-meglio-nomi sono fenomeni realmente diversi tra loro, non due “aspetti” di un unico fenomeno; per questa ragione le caratteristiche dei profili d’errore dei DMN e dei DMV non sono speculari, ma qualitativamente differenti tra loro. alternativamente, potremmo sostenere che la diversità dei profili d’errore è causata da un deficit unitario, uguale nelle due dissociazioni; esso colpisce, però, due categorie grammaticali diverse, non solo nel senso di distinte, ma anche nel senso di strutturalmente differenti. Le due classi avrebbero proprietà, struttura e caratteristiche specifiche, diverse tra loro, tali da fare emergere pattern di errore diversi, pur essendo in atto il medesimo processo patologico. Scegliere tra le due spiegazioni è praticamente impossibile con i dati a disposizione; la seconda ipotesi è forse più economica da un punto di vista neuropsicologico, ma ha bisogno di appoggiarsi ad una teoria psicolinguistica 130 che spieghi quali differenze tra nomi e verbi possano causare un comportamento così diverso tra i DMV e i DMN nella classe grammaticale più danneggiata. Perché mai un afasico con problemi specifici ai nomi dovrebbe produrre risposte nulle o parafasie semantiche piuttosto che scivolare verso un verbo semanticamente relato? E, simmetricamente, quali caratteristiche dei verbi dovrebbero condurre i DMN a fare molti più scambi sintagmatici che paradigmatici? La risposta a queste domande è tutt’altro che banale: nessuna teoria psicolinguistica attuale giustifica in modo esplicito queste asimmetrie. Quale meccanismo di dissociazione? Il profilo d’errore medio dei DMN potrebbe essere spiegato nel modo seguente. Nell’esporre questa ipotesi, farò riferimento alla teoria dell’accesso lessicale di Levelt, Roelofs e Meyer (1999) (vedi capitolo 2); essa è la teoria dell’accesso lessicale più completa che abbiamo oggi a disposizione e si presta molto bene a spiegare gli scivolamenti verso la categoria meno danneggiata tipici dei DMN. Sottolineo, però, che il meccanismo che vado ad esporre è, in realtà, applicabile anche in contesti teorici dell’accesso lessicale diversi da quello di Levelt et al. (1999). Nel modello leveltiano, a livello del lemma, ogni nodo lessicale è legato ad una serie di nodi sintattici i quali specificano tutte le sue caratteristiche morfosintattiche, tra cui anche la classe lessicale. Potremmo ipotizzare che i DMN abbiano un disturbo, più o meno grave, di alcuni di questi nodi sintattici, in particolare proprio di quelli che specificano le “etichette di categoria lessicale”; questo deficit avrebbe conseguenze assai più eclatanti sull’elaborazione delle etichette verbali rispetto a quelle nominali, per 131 via del fatto che le prime sono molto più ricche di informazioni sintattiche (contengono, infatti, la griglia tematica del verbo e le regole di sottocategorizzazione). Nella teoria di Levelt at al. (1999), i nodi lessicali sottostanti alla rappresentazione dei verbi e quelli sottostanti alla rappresentazione dei nomi stanno in un unico magazzino lessicale e sono legati tra loro da legami associativi del tutto uguali a quelli che uniscono nomi con nomi e verbi con verbi. Stando così le cose, quando un afasico cercherà di denominare un’azione, il nodo lessicale corrispondente si attiverà, ma a volte esso non potrà essere recuperato a causa della lesione alla sua etichetta categoriale (“verbo”), senza la quale il lemma non può trovare una sistemazione nella frase. Quando il lemma di un verbo non è recuperabile, è probabile che si attivino i lemmi di altre parole, semanticamente relate a quella non recuperata. I nodi semanticamente relati sono, però, sia nomi che verbi: se le etichette lessicali dei nomi sono meno danneggiate, è più probabile che sarà selezionato un nome, che ne sarà recuperato il lessema (vedi teoria di Levelt et al. (1999) al capitolo 2) e la corrispondente sequenza fonologica; questo meccanismo porterà piuttosto spesso alla produzione di nomi relati al verbo-target. Ovviamente, essendo la lesione delle etichette lessicali verbo di entità variabile e, comunque, mai totale, potranno essere prodotte anche delle risposte corrette o delle parafasie semantiche. Questa ipotesi prevede necessariamente un numero piuttosto rilevante di scambi sintagmatici (N_V e S/Ogg) e non sembra, perciò, essere applicabile ai DMV. 132 Essi, infatti, come abbiamo visto, non producono quasi mai un verbo per un nome quando denominano gli oggetti: molto più frequentemente, non riescono a recuperare nulla oppure producono elementi stereotipati. Sembra, quindi, che i DMV “sappiano” in modo implicito di dover produrre un nome, cosa che permette loro di non scivolare mai sulla categoria opposta. Potremmo dire, quindi, che i DMV non hanno quel deficit che abbiamo ipotizzato nei DMN e cioè un problema a livello del lemma che causa la perdita delle informazioni riguardanti la classe lessicale: sembrerebbe che il loro deficit sia più periferico, più spostato verso il livello del lessema, e quindi non tale da compromettere le informazioni sulla categoria grammaticale. In questo senso và anche il dato per cui la variabile lessicale che più influenza la prestazione dei DMV è la frequenza (Luzzatti et al., 2002) che in letteratura è stata indicata come caratteristica non tanto del livello semantico o lessicale-sintattico, ma di un livello lessicale-fonologico (Berndt et al., 1997). Scivolamento sul nome e capacità di produrre verbi. Se davvero il problema dei DMN fosse a livello del lemma e si realizzasse nel modo ipotizzato, dovremmo aspettarci un numero tanto maggiore di scivolamenti sul nome quanto più è grave la lesione dell’etichetta verbo. In altre parole, più grande è il deficit delle etichette lessicali verbali, maggiore sarà la probabilità di selezionare nomi relati al target piuttosto che verbi relati al target in caso di errore. Ci aspettiamo, quindi, una correlazione negativa tra la capacità generale di produrre verbi e il numero di scivolamenti sul nome. Un modo piuttosto diretto per “misurare” la capacità generale di produrre verbi è contare il numero di volte che un paziente è riuscito a dire un verbo 133 quando doveva denominare un’azione, indipendentemente dal fatto che questo verbo fosse giusto o sbagliato. Concretamente, quindi, ci aspettiamo una correlazione negativa tra il numero di verbi prodotti in totale nel compito di denominazione delle azioni e il numero di scivolamenti sul nome rispetto al totale degli errori commessi: infatti, secondo il nostro modello esplicativo, meno verbi un paziente produce in totale, maggiore sarà il deficit all’etichetta lessicale verbo, maggiore la probabilità che, tra i nodi lessicali attivati dall’immagine del test di denominazione, ne sia selezionato uno nominale. In realtà, così non è! La correlazione tra le due grandezze è molto bassa (vedi Figura 12); non solo, ma nemmeno i modelli non-lineari (polinomiali di grado maggiore o uguale a due, logaritmici, esponenziali) riescono a spiegare più del 30% della varianza dei dati. Possiamo dire con realtiva certezza che le due variabili considerate sono indipendenti. Alla luce dei dati, quindi, sembra evidente che lo scambio sintagmatico (la produzione di un nome al posto di un verbo nella denominazione delle azioni) è un fenomeno indipendente dalla capacità generale di recuperare verbi. Ricordo ancora che, anche assumendo modelli psicolinguistici diversi da quello di Levelt et al. (1999), ad esempio modelli che prevedono due magazzini lessicali separati e interconnessi per nomi e verbi, l’osservazione non perde il suo valore teorico e resta interessante per la corretta interpretazione del fenomeno dissociativo. 134 2.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia Due profili differenti. Anche occupandoci delle sindromi afasiche e del loro rapporto con la dissociazione nomi-verbi ci imbattiamo in una contrapposizione tra due tipi di profili qualitativi piuttosto diversi. I due quadri d’errore che emergono sono gli stessi che si notavano nel confronto tra DMV e DMN: uno ricco di scambi sintagmatici e uno caratterizzato dalla tendenza alla produzione di scambi paradigmatici. Da una parte, abbiamo gli amnestici DMN che sembrano comportarsi nella denominazione delle azioni come i DMV facevano nella denominazione degli oggetti: essi fanno solo il 3% di scambi categoriali (il 5% di tutti gli errori commessi), producono più parafasie semantiche che scambi di classe (17% contro 3%) e riescono a produrre un verbo il 78% delle volte che devono denominare un’azione. Sull’altro versante si pongono gli afasici di Wernicke e agrammatici, i quali, al contrario, fanno più scambi categoriali che parafasie (rispettivamente, 24% contro 13% e 26% contro 15%) e scivolano su un nome molto più spesso degli afasici amnestici (nel 29% degli errori gli afasici di Wernicke, nel 41% errori gli agrammatici). Sembra, quindi, che anche all’interno della dissociazione-meglio-nomi siano presenti modi diversi di sbagliare, anche se non si associano, come avremmo previsto, uno agli agrammatici e uno agli afasici di Wernicke. Torneremo su questo punto tra poco, dopo aver sottolineato una prima conseguenza di questo dato. Ora non abbiamo più a che fare con due categorie lessicali diverse, ma con una sola: quindi, non può più essere avanzata l’ipotesi esplicativa di un unico 135 meccanismo di disturbo che dà origine a quadri d’errore diversi perché colpisce due componenti del sistema linguistico molto diverse tra loro. Dobbiamo necessariamente ammettere l’esistenza di due diversi meccanismi di comparsa del deficit principale. Agrammatici e afasici di Wernicke. Appurata l’esistenza di due meccanismi dissociativi diversi, occupiamoci di vedere se essi associano in modo preferenziale con qualcuna delle diverse sindromi afasiche. I dati ottenuti sottolineano un’evidente asimmetria tra la prestazione degli afasici amnestici da un lato e quella degli afasici di Wernicke e degli agrammatici dall’altro. Il gruppo degli afasici amnestici è, però, troppo piccolo per essere considerato rappresentativo e quindi non avrebbe molto senso discutere il confronto suggerito dai dati: i risultati emersi potrebbero essere causati dalla particolarità di questi due pazienti. Più interessante è sicuramente il confronto tra agrammatici e afasici di Wernicke sia per via della maggiore rappresentatività dei campioni che per alcune ragioni teoriche. Come abbiamo anticipato nell’introduzione, questi due gruppi hanno dei quadri patologici molto diversi tra loro: gli agrammatici sono pazienti afasici non fluenti, costruiscono strutture frasali molto semplici, hanno grosse difficoltà sintattiche e/o morfologiche, mentre gli afasici di Wernicke sono fluenti, sanno costruire anche frasi relativamente lunghe e complesse, manifestano problemi a livello soprattutto lessicale, fonologico e semantico, con relativo risparmio della sintassi (vedi pagine 54 e 58). 136 La diversità dei quadri sindromici non vieta, ovviamente, che entrambi manifestino una superiorità ai nomi, ma lascia legittimamente prevedere che il fenomeno emerga in modo differente. Inoltre, i pazienti considerati in questo studio manifestavano delle lesioni notevolmente differenti: gli agrammatici avevano lesioni perisilviane sinistre molto ampie che andavano praticamente a distruggere tutte le aree linguistiche, mentre gli afasici di Wernicke mostravano o lesioni corticali limitate alle aree temporo-parietali, nelle vicinanze del giro sovramarginale o lesioni esclusivamente sottocorticali in corrispondenza della corteccia insulare. A maggior ragione, quindi, ci aspettavamo delle differenze tra questi due gruppi: prevedevamo che gli agrammatici avrebbero fatto molti scambi di categoria e poche parafasie, che non avrebbero quasi mai costruito strutture frasali (poche circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt), che avrebbero mostrato un grosso effetto di immaginabilità (forse dovuto all’emergenza delle capacità linguistiche dell’emisfero destro), mentre gli afasici di Wernicke avrebbero mostrato buone strutture frasali, pochi scambi di categoria e molte parafasie. Considerando sia i risultati dell’analisi quantitativa che quelli dell’analisi qualitativa dei dati, non si notano le differenze attese: entrambi i gruppi manifestano l’effetto di immaginabilità e non di frequenza d’uso, per entrambi gli errori più comuni sono gli scambi sintagmatici, che vengono commessi molto più spesso di quelli paradigmatici, entrambi fanno all’incirca lo stesso numero di parafasie semantiche e verbali. Le uniche differenze riguardano la maggior frequenza di circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt negli afasici di Wernicke (probabilmente legate al fatto che questi pazienti sono fluenti) e il maggior numero di risposte nulle sempre nei pazienti con afasia di Wernicke. 137 Agrammatici e meccanismo dissociativo. In realtà, c’è un’altra differenza tra i due gruppi di afasici che non risalta in modo esplicito dai profili d’errore. Nel paragrafo 2.3.1 dicevamo che un requisito necessario per dare qualche credito all’ipotesi di meccanismo dissociativo esposta a pagina 131 (deficit a livello del lemma con perdita delle informazioni sulla classe grammaticale) era la presenza di una correlazione negativa tra il numero di scivolamenti sul nome e il numero totale di verbi prodotti nella denominazione delle azioni; correlazione che non è stata trovata nell’intero campione di DMN dello studio. In realtà, se consideriamo solo i DMN agrammatici, questa correlazione inversa è presente (r = -.68, vedi pagina 127): il dato non raggiunge la significatività statistica (p = .21), ma è così diverso da quello ottenuto con tutti i DMN (r = -.24) e con i Wernicke (r = .21) da non poter essere trascurato. Il dato è di difficile interpretazione: certo non prova che il meccanismo dissociativo ipotizzato (lesione a livello del lemma con deficit delle etichette di categoria lessicale) agisce davvero negli agrammatici e non nei Wernicke, ma l’indicazione che fornisce va in questa direzione. 2.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia L’interpretazione dei risultati riguardanti i DMV è più incerta data la dimensione ridotta del campione. 138 In particolare, essendo un solo afasico di Wernicke dissociato a favore dei verbi, devo considerare i dati ottenuti su di lui come dati non generalizzabili, ma informativi solo su quel paziente. Egli produce soprattutto risposte nulle (40%) e parafasie semantiche (23%), dimostrando una capacità di produzione dei nomi non particolarmente brillante (ha risposto con un nome al 57% degli item e nel 48% degli errori), ma decisamente migliore di quella degli amnestici. Questi, infatti, producono un nome solo il 38% delle volte che devono denominare un oggetto (il 19% degli errori), mentre producono molte più risposte nulle (51%). Questi dati non sembrano in grado di darci suggerimenti sul possibile meccanismo dissociativo specifico in atto negli amnestici e nei dissociatimeglio-verbi con afasia di Wernicke né sembrano evidenziare asimmetrie simili a quelle rilevate tra DMV e DMN e all’interno dei DMN tra amnestici, agrammatici e Wernicke. 2.4 Profili di singoli soggetti Tutti i dati discussi fino ad ora sono stati ottenuti su profili medi, costruiti, cioè, aggregando i profili dei soggetti per sindrome afasica; era, perciò, importante verificare la distribuzione dei profili dei singoli pazienti. In particolare, volevamo dimostrare che: esistono davvero due principali tipi di profili d’errore differenti tra loro: abbiamo, quindi, cercato se tra i profili singoli ce ne fosse qualcuno paradigmatico per ciascuna delle due tendenze osservate 139 nei profili medi (quella a scivolare verso il nome e quella a produrre parafasie o riposte nulle). ciascuno dei due profili è tipicamente presente in determinati tipi di dissociazione e in determinati tipi di afasia. 2.4.1 Due profili contrapposti Consideriamo la prestazione al compito di denominazione delle azioni dei soggetti FC e GP (vedi Appendice). Entrambi sono dissociati-meglio-nomi; FC ha un’afasia di Broca con agrammatismo, mentre GP è uno di quei soggetti che non era stato possibile classificare in una classica sindrome afasica. In Tabella 7 sono riportati i loro profili. Come si può vedere in modo piuttosto chiaro essi hanno una prestazione abbastanza scadente e circa pari quantitativamente (30% di risposte corrette FC e 37,5% GP). I loro profili d’errore sono però nettamente diversi, essendo uno dominato dagli scambi di categoria (produzione di nomi al posto di verbi) e uno caratterizzato più dalle parafasie e dalle risposte nulle; mentre FC tende in modo netto a produrre nomi al posto di verbi (N_V e S/Ogg costituiscono il 42% di tutto il profilo) GP non presenta questa tendenza (i due errori citati sopra riguardano solo il 7,5% delle risposte), ma riesce a produrre spesso un nome anche quando sbaglia la denominazione (parafasie semantiche, parafasie verbali e latenze, le quali prevedono la produzione di un nome scorretto o recuperato dopo più di tre secondi dallo stimolo, coprono il 32,5% del profilo). 140 Abbiamo quindi visto come i due profili tipici rivelati dall’analisi dei profili medi non siano un artefatto derivato dall’aggregazione dei dati, ma, al contrario, caratterizzino una contrapposizione reale tra due modalità “preferenziali“ di errore. 2.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi Queste “modalità preferenziali” d’errore si associano davvero a determinati tipi di afasia e di dissociazione come i profili aggregati sembrano suggerire? Per rispondere a questa domanda abbiamo cercato di capire quanti tra i componenti di ciascun gruppo manifestano un profilo d’errore in linea con quello medio del gruppo stesso; i dati sono riassunti in Tabella 8. Tabella 7: profili qualitativi d’errore di FC, paziente con agrammatismo e GP, non classificato. R+ Latenza N_V S/Ogg FC (Agr) num 12 2 9 8 1 1 3 0 0 3 1 0 perc 30 5 22,5 20 2,5 2,5 7,5 0 0 7,5 2,5 0 GP (NC) num 15 2 3 0 0 1 9 2 0 6 1 1 5 7,5 0 0 2,5 22,5 5 0 15 2,5 2,5 perc 37,5 S/Ogg+ Vppt Circ PS-cat+ PV-cat+ Neol Ø Visivo Altro 141 Come si può vedere, la tendenza indicata dai profili aggregati non è sempre confermata dai profili singoli. Il gruppo dei DMV sembra essere il più omogeneo: cinque dei sei componenti presentano un profilo d’errore “tipico”, mentre uno soltanto (APr) si discosta da esso. Inoltre, il profilo di APr è diverso, ma non contrapposto a quello medio dei DMV: in sostanza, non presenta molti scivolamenti sul verbo (scambi sintagmatici). Il gruppo degli amnestici DMN è costituito da soli due soggetti che, per giunta, non si comportano nello stesso modo: il profilo del paziente AC è dominato dalle parafasie, mentre quello di GM dalle risposte nulle. Per questa ragione non è possibile parlare di un vero e proprio “profilo medio dei DMN amnestici”. Gli altri due gruppi di DMN non sembrano godere di omogeneità, considerando che presentano al loro interno degli afasici con un profilo opposto a quello previsto: è il caso, ad esempio, di LR, dissociato-meglio-nomi e afasico di Wernicke, che presenta una netta prevalenza di risposte nulle e parafasie a fronte di solo tre scivolamenti sul nome. In conclusione, possiamo dire che le associazioni tra tipi di errore e tipo di dissociazione/afasia che i profili medi aggregati ci hanno suggerito sembrano essere relativamente affidabili (fatta eccezione per il gruppo dei DMN amnestici): la maggioranza dei soggetti di ciascun gruppo si comporta, infatti, come il profilo medio del gruppo stesso lascia prevedere. Esistono, tuttavia, eccezioni significative e non rare che sottolineano come quelle associazioni non siano assolute, ma siano piuttosto da considerare come semplici tendenze. 142 Tabella 8: i profili dei singoli pazienti rispettano quelli aggregati della classe cui appartengono? GRUPPI PROFILO MEDIO N° TOTALE N° PROFILI SOGGETTI CON PROFILI NON TIPICI TIPICI DMV ai nomi Netta prevalenza di risposte nulle; qualche parafasia semantica e qualche circonlocuzione; nessuno scivolamento su verbo. 6 5 Apr: molte parafasie, pochissime risposte nulle DMN amnestici ai verbi Prevalenti risposte nulle e parafasie; qualche latenza e scivolamento su nome (non più della metà delle parafasie). 2 0 GM: più risposte nulle che parafasie. AC: più parafasie che risposte nulle. 3 LZ: più parafasie che scivolamenti sul nome MBI: stesso numero di parafasie e scambi categoriali; molte risposte nulle 4 LR: netta prevalenza di risposte nulle e parafasie CB: molte più parafasie che scambi SM: stesso numero di parafasie e scambi; molte risposte nulle DMN Prevalenza di scambi categoriali, agrammatici (circa il doppio delle parafasie); ai verbi qualche latenza e risposta nulla. DMN Wernicke ai verbi Netta prevalenza di scambi categoriali su parafasie (circa il doppio delle parafasie);numero consistente di risposte nulle. 5 7 2.5 Conclusioni In conclusione, che cosa ci hanno detto i dati qualitativi a proposito delle domande che ci eravamo posti all’inizio del lavoro? Il risultato più evidente e forte (anche in senso statistico) sembra essere la presenza di due diversi pattern di errore ricorrenti, uno caratterizzato dalla tendenza a sbagliare producendo, però, una parola della giusta classe lessicale o non producendo nulla e uno caratterizzato invece dalla tendenza a cambiare 143 classe grammaticale e a produrre comunque un lemma della classe lessicale meno danneggiata. L’interpretazione di questo dato può essere duplice, come abbiamo visto: potrebbero dare origine a questo quadro sia due deficit cognitivi realmente diversi sia un deficit cognitivo unico, che, però, ha due diversi meccanismi di azione, dovuti, per esempio, alle differente organizzazione cognitiva delle rappresentazioni lessicali di nomi e verbi. I due quadri contrapposti, però, sono presenti anche all’interno della stessa dissociazione (quella meglio-nomi), dove evidentemente la struttura cognitiva colpita è la stessa (il magazzino dei verbi): di conseguenza, l’ipotesi secondo cui le differenze qualitative emergono per via del diverso locus del deficit non può essere sostenuta. Esistono, dunque, due diversi meccanismi dissociativi: ma quali sono? che caratteristiche hanno? Qui i risultati sono meno chiari. I profili d’errore caratterizzati dagli scambi sintagmatici ci hanno fatto immaginare un deficit delle etichette lessicali a livello del lemma, che comprometterebbe le informazioni a proposito della classe grammaticale e altre informazioni sintattico-lessicali, come la griglia dei ruoli tematici; questo tipo di disturbo sembra rendere conto degli scambi di categoria e della povertà di circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt (a causa della perdita dei ruoli tematici; Berndt, 1997). Questo tipo di disturbo si manifesta solo nei DMN e ciò è coerente col fatto che un deficit a livello del lemma dovrebbe disturbare maggiormente i verbi a 144 causa della maggiore complessità delle informazioni sintattico-lessicali contenute nei lemmi dei verbi. Questa ipotesi ha tuttavia dei problemi: in particolare, prevedrebbe una correlazione negativa tra la capacità generale di produrre un verbo e il numero di scivolamenti sui lemmi della classe nome; correlazione che non esiste, se non nel gruppo degli agrammatici DMN. I profili ricchi di parafasie e risposte nulle e poveri di scambi sintagmatici ci hanno invece suggerito un deficit più periferico. Infatti, la mancanza di scivolamenti sulla classe opposta sembra testimoniare una conservazione delle informazioni sulla categoria lessicale dei lemmi: questi pazienti “sanno” che devono produrre un nome oppure che devono produrre un verbo e sanno valutare, se non altro in modo implicito, se la parola che stanno per dire è un nome o un verbo. Questa competenza fa intuire che il livello del lemma deve essere in qualche modo risparmiato in questi pazienti. Da ultimo, i profili medi dei diversi gruppi facevano pensare alla presenza di associazioni tra il profilo qualitativo d’errore e il tipo di dissociazione e di afasia; in particolare, sembrava che i DMV tendessero a fare scambi paradigmatici, mentre i DMN con afasia di Wernicke e i DMN agrammatici tendessero a fare scambi sintagmatici. L’analisi dei singoli profili dei pazienti non ha confermato con chiarezza queste associazioni, anzi ne ha ridimensionato la forza: esse sono tendenze significative, rispettate dalla maggioranza dei soggetti, ma anche caratterizzate da non rare eccezioni di un certo interesse teorico (come i soggetti LR, Wernicke atipico, e LZ, agrammatico atipico). Riassumendo, sembra che: 145 1. esistano due profili principali di errore, uno caratterizzato prevalentemente da scambi categoriali, l’altro da parafasie semantiche o verbali e da risposte nulle; essi testimoniano l’esistenza per lo meno di due diversi meccanismi dissociativi, se non addirittura di due diverse tipologie di dissociazione, originate da deficit di diverso tipo. 2. i due meccanismi possano essere fatti risalire a deficit lessicali, ma a livelli diversi: uno a livello del lemma (con relativa compromissione delle etichette categoriali e delle informazioni sintattico-lessicali come la griglia tematica, il numero o il tempo), l’altro ad un livello più periferico (forse quello del lessema, dove non ci sono informazioni lessicali-fonologiche). 3. il quadro d’errore spiegato con il deficit lessicale più periferico è presente in ben 5 dei 6 pazienti afasici dissociati-meglio-verbi. 4. l’altro profilo, ricco di scambi sintagmatici, prevale nei dissociatimeglio-nomi, ma non si può dire che si associ con chiarezza ad esso né ad alcuno dei sottogruppi che lo compongono (agrammatici e afasici di Wernicke). 5. non sembrano esserci evidenti differenze nel modo di dissociare degli agrammatici DMN rispetto agli afasici di Wernicke DMN, nonostante molti indizi lo lasciassero prevedere; dobbiamo segnalare, però, nei pazienti con agrammatismo e non in quelli con afasia di Wernicke, la presenza di una buona correlazione tra capacità di produzione dei verbi e numero di scivolamenti sul nome ad indicare un deficit a livello del lemma. 146 2. Verifica delle ipotesi di Bird et al. (2000) Abbiamo analizzato ancora i dati di Luzzatti et al. (2002) per verificare l’ipotesi esplicativa della dissociazione nomi-verbi che Helen Bird, David Howard e Sue Franklin hanno formulato nel loro lavoro del 2000. Il loro studio è riassunto nel secondo capitolo: rimando ad esso per una esposizione più completa dei presupposti teorici e delle verifiche sperimentali da essi condotte. Qui, mi limiterò a ricordare le previsioni che scaturivano dal loro ragionamento e a verificarle nei soggetti dell’esperimento di Luzzatti et al. (2002). Nel loro articolo del 2000, Why is a verb like an inanimate object?, Bird et al. hanno sostenuto che la dissociazione nomi-verbi non è un vero fenomeno categoriale, quanto piuttosto la conseguenza di una serie di fatti indipendenti tra loro: a volte gli afasici manifestano un effetto di immaginabilità molto ampliato dal danno cerebrale per cui denominano molto meglio oggetti e azioni altamente immaginabili che oggetti e azioni non facilmente immaginabili. nomi e verbi sono definiti semanticamente da un insieme di caratteristiche (features) che possono essere sensoriali (sensory features) o funzionali (functional features). 147 lesioni cerebrali possono esitare in un danno relativamente selettivo per le functional features piuttosto che per le sensory features e viceversa. i nomi naturali, rispetto a quelli artificiali, sono maggiormente definiti attraverso sensory features piuttosto che functional features. i nomi, nel loro complesso, sono definiti più dalle sensory features che dalle functional features; al contrario, i verbi sono maggiormente definiti attraverso functional features. nel loro insieme, i nomi sono più immaginabili dei verbi. Secondo questi presupposti, si possono configurare quattro diversi scenari di dissociazione in seguito ad un danno cerebrale: 1. DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES danno prevalente ai nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti artificiali; i nomi nel loro complesso dovrebbero essere penalizzati da questo deficit, ma in realtà ciò non avviene perché la loro maggiore immaginabilità compensa l’effetto della perdita delle sensory features. 2. DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES danno netto dei nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti artificiali; il deficit delle sensory features è molto profondo così che la maggior immaginabilità dei nomi non compensa più il suo effetto, ma solo lo attutisce: nomi denominati peggio dei verbi. 3. DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES danno prevalente ai nomi di manufatti rispetto ai nomi di oggetti naturali e 148 dei verbi rispetto ai nomi; generalmente, nomi di manufatti meglio dei verbi per la loro maggiore immaginabilità. 4. DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO-LESSICALE (con marcato effetto di immaginabilità) nomi naturali e di manufatti piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior sensibilità all’immaginabilità creata dal deficit. Nello studio di Luzzatti, per 3 dei 6 dissociati-meglio-verbi, l’effetto di classe grammaticale spariva se l’analisi veniva effettuata al netto della frequenza d’uso; allo stesso modo, per 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi, l’effetto di classe grammaticale scompariva alla regressione logistica multivariata se i punteggi venivano corretti per immaginabilità: in sostanza, soltanto due afasici DMV e due afasici DMN sembravano essere “genuinamente” dissociati, al di là del forte effetto di frequenza d’uso o di immaginabilità. I due afasici DMN che restavano dissociati anche dopo la correzione per immaginabilità dovrebbero essere, secondo Bird, proprio quei dissociati che manifestano tale fenomeno non solo per un effetto di immaginabilità molto marcato; ci deve essere, dunque, un danno selettivo delle functional features e, perciò, ci aspettiamo che entrambi mostrino una dissociazione a favore dei nomi naturali rispetto ai nomi artificiali. Al contrario, se negli altri 18 dissociati-meglio-nomi è l’effetto di immaginabilità a spiegare interamente la diversa prestazione ai nomi e ai verbi, non dovremmo mai trovare dissociazioni-meglio-naturali. Abbiamo cercato di verificare queste previsioni con una nuova analisi dei dati raccolti su 58 pazienti (confronta Luzzatti et al., 2002). 149 1. Materiali e metodi In questa analisi dei risultati raccolti su 58 pazienti afasici, non abbiamo considerato solo coloro che erano risultati dissociati, ma tutti i pazienti che erano stati sottoposti al compito di denominazione. Ricordo brevemente le caratteristiche del campione e del compito. Sono stati considerati per questo studio 58 pazienti afasici, 20 dei quali erano dissociati-meglio-nomi e 6 dissociati-meglio-verbi. Di questi 58 soggetti, 36 soffrivano di una forma afasica fluente (13 erano afasici amnestici e 23 afasici di Wernicke), 15 di una forma afasica non-fluente (6 pazienti erano anche agrammatici) e 7 erano pazienti che non era stato possibile classificare con chiarezza. I soggetti sono stati sottoposti ad un compito di denominazione di oggetti (30) e azioni (40) le cui caratteristiche metriche sono esposte a pagina 104. I risultati sono stati analizzati nel modo quantitativo classico, classificando le risposte attraverso la dicotomia corretto/sbagliato: in particolare, abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla rilevazione delle dissociazioni nomi/verbi e delle dissociazioni oggetti naturali/oggetti artificiali. 2. Risultati I risultati sono riassunti in Tabella 9. Come si può vedere, soltanto uno dei sei dissociati-meglio-verbi è anche dissociato-meglio-artificiali, come l’ipotesi birdiana vorrebbe. 150 Allo stesso modo, soltanto uno dei venti dissociati-meglio-nomi è anche dissociato-meglio-naturali. 3. Discussione Soltanto un soggetto sui sei dissociati-meglio-verbi è anche dissociato a favore dei nomi artificiali: nel modello di Bird et al. questo è difficile da giustificare, dato che la dissociazione a favore dei verbi, essendo essi meno immaginabili dei nomi, è necessariamente legata ad un deficit degli aspetti sensoriali (sensory features) dei concetti e questo deficit non può che esitare, sempre nel modello birdiano, in una ulteriore dissociazione a favore dei nomi artificiali rispetto a quelli naturali. Tabella 9: dissociazioni nomi-verbi e dissociazioni oggetti naturali-oggetti artificiali. Come si vede, le ipotesi di Bird non sono verificate. artificiali > naturali artificiali = naturali artificiali < naturali TOTALE nomi < verbi 1 (17%) 5 (83%) 0 6 nomi = verbi 2 (6%) 27 (84%) 3 (10%) 32 nomi > verbi 5 (25%) 14 (70%) 1 (5%) 20 TOTALE 8 46 4 58 151 Le previsioni di Bird et al., dunque, sembrano non essere confermate da questi dati. Per spiegare l’assenza in quasi tutti i DMV della dissociazione-meglioartificiali bisognerebbe ipotizzare che una maggiore immaginabilità (o l’effetto di una qualche altra variabile lessicale o sub-lessicale) dei nomi naturali abbia compensato il deficit: questo, però, non è possibile dato che l’immaginabilità e le altre variabili lessicali sono bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella batteria utilizzata (Tabella 10). Allo stesso modo, l’associazione presunta tra migliore prestazione ai nomi rispetto ai verbi e migliore prestazione ai nomi naturali rispetto a quelli artificiali non è verificata: solo un soggetto su 20 (5%) manifesta entrambe le dissociazioni. Questo potrebbe significare, nella prospettiva birdiana, che i nostri dissociati-meglio-nomi siano in realtà pazienti con una grande sensibilità all’immaginabilità e non pazienti con una vera dissociazione “semantica” dovuta al danno delle sensory features. Tabella 10: variabili lessicali bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella batteria di Luzzatti et al. (2002) Media nomi Media nomi artificiali naturali p (K-S) FU 7,40 5,87 n.s. IMM 6,27 6,37 n.s. AOA 3,97 3,76 n.s. FAM 5,60 5,50 n.s. 152 Questa ipotesi potrebbe essere vera: infatti, l’analisi della regressione logistica univariata evidenzia come tutti i 20 soggetti dissociati-meglio-nomi subiscano un effetto di immaginabilità, mentre soltanto due dei 6 pazienti che denominavano meglio i verbi avevano un effetto immaginabilità significativo. Di fatto, quindi, tutti i pazienti DMN mostrano un marcato effetto di immaginabilità: è del tutto plausibile che la loro dissociazione sia dovuta a questo, come dovremmo sostenere se assumessimo la prospettiva di Bird, Howard e Franklin. Inoltre, se osserviamo l’esito dell’analisi della regressione logistica multivariata (che analizza, invece che ciascuna variabile singolarmente, tutte le variabili insieme), ci accorgiamo che in ben 18 dissociati-meglio-nomi l’effetto di classe grammaticale sparisce se viene corretto per l’immaginabilità: in altre parole, anche le analisi statistiche supportano l’idea che la diversa prestazione nella denominazione di nomi e verbi sia, in questi 18 afasici, dovuta ad un forte effetto di immaginabilità e non alla diversa classe grammaticale delle parole. Ora, però, osserviamo il rovescio della medaglia: l’analisi della regressione logistica multivariata ci ha detto anche che due pazienti sono davvero dissociatimeglio-nomi, nel senso che, per loro, l’immaginabilità non basta a spiegare la differente prestazione nella denominazione degli oggetti e delle azioni. Se l’immaginabilità non spiega interamente la dissociazione, dobbiamo ipotizzare che qualcosa d’altro lo faccia: secondo l’ipotesi di Bird, questo “qualcosa d’altro” non può che essere il danno delle functional features. Ma se è così, allora questi due pazienti (UB e RB) dovrebbero mostrare anche la dissociazione-meglio-naturali: ciò, però, non accade. Infatti, UB denomina correttamente 12 dei 15 oggetti artificiali e 14 dei 15 oggetti naturali 153 (p = .59 n.s. al p esatto di Fisher), mentre RB denomina correttamente 10 dei 15 oggetti artificiali e 11 dei 15 oggetti naturali (p = .5 n.s. al p esatto di Fisher). In conclusione, nessuna delle tre ipotesi formulate all’inizio del paragrafo sulla base del modello birdiano della dissociazione nomi-verbi sembra essere confermata dai risultati di Luzzatti et al. (2002). 4. Conclusione In questa sezione, abbiamo controllato alcune previsioni che scaturiscono dall’interpretazione teorica della dissociazione nomi-verbi formulata da Bird, Howard e Franklin nel loro lavoro del 2000. Essi sostengono che un deficit selettivo ai verbi non debba essere visto come la manifestazione di una organizzazione separata a livello semantico o lessicale dei nomi e dei verbi nel sistema cognitivo, ma come conseguenza di un forte effetto di immaginabilità e della diversa distribuzione delle caratteristiche sensoriali e funzionali che definiscono i concetti dei nomi e dei verbi. Questa ipotesi ha originato tre previsioni che abbiamo controllato sui dati ottenuti in un test di denominazione di azioni e oggetti (confronta Luzzatti et al., 2002): nessuna di esse ha retto alla verifica sperimentale. Ne dobbiamo dedurre che l’interpretazione di Bird non può spiegare i pazienti qui considerati; essi sembrano meglio inquadrabili in una spiegazione teorica che faccia riferimento, oltre che alle differenze di immaginabilità e frequenza d’uso, al livello lessicale e che preveda una distinzione tra nomi e verbi basata non soltanto su differenze di natura semantica (come erano quelle 154 fondate sulla dicotomia sensory/functional features), ma anche di natura sintattica (ad esempio, riguardanti la struttura argomentale). 155 4 STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN UN GRUPPO DI PAZIENTI AFASICI ATTRAVERSO UN TEST DI RECUPERO LESSICALE IN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF)32 La nuova analisi dei risultati ottenuti dal compito di denominazione condotto da Luzzatti et al. (2002) ha fornito preziose indicazioni a proposito del meccanismo patologico attraverso cui emerge la dissociazione e a proposito del locus funzionale del deficit. Abbiamo visto che i dati propendono a favore di un deficit non semantico (per lo meno, non nei termini in cui lo ipotizzavano Bird, Howard e Franklin) e, 32 Per questo capitolo ringrazio in modo particolare la dott.ssa Lisa Saskia Arduino che si è occupata direttamente della preparazione della prima lista dei verbi per il test di denominazione e della lista degli item per il test RNV-CF e che mi ha guidato e accompagnato con pazienza ed entusiasmo nella raccolta e nell’elaborazione dei dati normativi delle due batterie. Ringrazio, inoltre, il prof. Claudio Luzzatti, il prof. Fabio Madeddu e il dott. Lorenzo Montali e per il tempo che mi hanno concesso al termine delle loro lezioni per lo svolgimento dello studio pilota e il prof. Pietro Rizzi per l’aiuto che ci ha dato nella preparazione dei disegni. Inoltre, ringrazio i servizi di Recupero e Rieducazione Funzionale dell’ospedale di Legnano, dell’ospedale di Passirana di Rho e del Centro Medico della Fondazione S. Maugeri a Montescano e il servizio di neurospicologia dell’ospedale Valduce di Costamasnaga. In particolare, ringrazio Mariarosa Colombo, Graziella Ghirardi, Mariangela Taricco, Giusy Zonca e Mariagrazia Inzaghi 156 molto probabilmente, non sempre uguale in tutti i pazienti, almeno a giudicare dai modi molto diversi di sbagliare che i dissociati manifestano. In particolare abbiamo ipotizzato che il deficit che provoca la dissociazione possa intervenire a livello del lemma, compromettendo le etichette che specificano la categoria grammaticale e le informazioni sintattico-lessicali come la griglia tematica, il numero o la persona (confronta Levelt, 1999); in questo senso vanno dati come il gran numero di scambi categoriali, la difficoltà nel costruire strutture frasali (poche circonlocuzioni) e l’importanza del fattore immaginabilità. In alternativa, il disturbo potrebbe avvenire ad un livello lessicale più periferico (quello del lessema), senza quindi compromettere le informazioni sulla classe grammaticale, come testimoniano i pochi scambi sintagmatici, la netta prevalenza di scambi paradigmatici e l’importanza dell’effetto frequenza riscontrati in alcuni dissociati. Questo secondo tipo di deficit è manifestato in particolare da 5 dei 6 pazienti dissociati-meglio-nomi (DMN); il primo, invece, quello cioè che coinvolge il livello del lemma, non sembra associarsi in modo chiaro a nessuno dei gruppi di soggetti afasici coinvolti nello studio. In particolare, eravamo interessati al confronto tra i dissociati-meglio-verbi (DMV) con afasia di Wernicke e i dissociati-meglio-verbi con agrammatismo: nell’analisi qualitativa, non sembrano emergere elementi che distinguano con chiarezza i meccanismi di dissociazione in atto in questi due tipi di afasia. A questi dati, và aggiunto quello sottolineato già nello studio di Luzzatti et al. (2002), oltre che in molti altri studi presenti in letteratura: l’immaginabilità è un fattore importante nel determinare la prestazione al compito di 157 denominazione dei pazienti DMN, al punto che in qualche caso (addirittura in 18 pazienti su 20 in alcuni lavori) la differente prestazione ai nomi e ai verbi sembra essere un effetto secondario dell’immaginabilità piuttosto che un “genuino” effetto di classe grammaticale. Come si può vedere, i dati emersi dall’analisi qualitativa sono ricchi di preziose informazioni per l’interpretazione del fenomeno della dissociazione nomi-verbi e per la comprensione della struttura del sistema lessicale umano. A questo punto, due sono i fattori che ci interessa indagare ulteriormente: innanzitutto, vogliamo controllare le impressioni avute nell’analisi qualitativa a proposito del fatto che il deficit a monte della dissociazione possa localizzarsi sia a livello del lemma che a livello del lessema e poi vogliamo capire un po’ meglio l’intricata relazione che è emersa tra dissociazione nomi-verbi e immaginabilità. Per raggiungere il primo obiettivo, abbiamo deciso di usare un test di recupero lessicale in un contesto frasale: le informazioni depositate a livello del lemma sono, infatti, molto importanti per la costruzione della frase, mentre non si può dire la stessa cosa per le informazioni conservate a livello del lessema. Dunque, ci aspettiamo che l’utilizzo di un contesto frasale permetta un miglioramento della prestazione ai verbi dei DMN con deficit a livello del lemma, mentre non crei cambiamenti evidenti nella prestazione ai verbi dei DMN con deficit a livello del lessema. Per controllare, invece, il contributo alla dissociazione dato dal fattore immaginabilità, abbiamo bisogno di un test in cui nomi e verbi siano perfettamente bilanciati per questa variabile. 158 Ciò che ci aspettiamo è che queste due novità abbiano un effetto sul recupero lessicale dei pazienti che testeremo. In particolare, se le indicazioni emerse dall’analisi qualitativa sono veritiere, ci aspettiamo che: 1. alcuni pazienti manifestino una dissociazione solo in test non bilanciati tra nomi e verbi per immaginabilità, non mostrando più questa caratteristica se testati con prove bilanciate. 2. almeno alcuni dissociati-meglio-nomi presentino un miglioramento della prestazione ai verbi in un test che preveda un contesto sintattico di aiuto rispetto alla semplice prova di denominazione di figure. Da quanto detto sopra a proposito delle prove che vogliamo impiegare in questo studio, emerge con chiarezza che il test di denominazione tradizionalmente usato per valutare le capacità di recupero lessicale non è adeguato ai nostri scopi: ciò di cui abbiamo bisogno è, infatti, un test di recupero lessicale che permetta un buon bilanciamento tra nomi e verbi per immaginabilità e che coinvolga un contesto frasale, caratteristiche che il test di denominazione su figura non possiede. 159 1. MATERIALI E METODI: il test di recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di completamento di frasi (RNV-CF) In letteratura (anche in quella sulla dissociazione nomi-verbi) è stato spesso usato il test di completamento di frasi come test di recupero lessicale in un contesto sintattico (Berndt et al., 1997): questo tipo di prova, utilizzando come cue non più una figura, ma una frase incompleta, permette inoltre di utilizzare item a bassa immaginabilità con i quali sembra intuitivamente più abbordabile il bilanciamento nomi-verbi per questa variabile. Il difetto principale di questo test, dal nostro punto di vista, è la vasta possibilità di risposta che il paziente afasico ha di fronte allo stimolo. Ad esempio, nelle frasi utilizzate per elicitare un nome, si fornisce un soggetto e un verbo e si chiede al paziente di produrre il complemento oggetto: quasi tutti i verbi, però, permettono l’uso di molti complementi oggetti diversi, rendendo in questo modo impossibile decidere a priori una sola risposta corretta. Questa caratteristica rende impossibile il bilanciamento pre-somministrazione per le variabili lessicali. Inoltre, questo test è caratterizzato da un effetto facilitatorio ben noto: l’uso di frasi da completare (“Si pianta il chiodo con il…”) facilita la produzione lessicale nei pazienti afasici; è dunque possibile che gli stessi soggetti abbiano prestazioni piuttosto diverse ad un test di questo tipo rispetto al più classico test di denominazione di figure, pur valutando entrambi la capacità di recupero lessicale. Abbiamo quindi deciso di modificare il test di completamento di frasi, in modo da favorire la presenza di un’unica risposta corretta: così nasce il test di recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di completamento di frasi 160 (d’ora in avanti, R N V - C F ), di cui ora descriverò le caratteristiche, concentrandomi prima sulle caratteristiche di ogni singolo item e poi sulla struttura complessiva del test. 1.1 Il materiale Ciascun item di questo test è costituito da due frasi che descrivono lo stesso evento, una utilizzando un nome, una utilizzando il verbo corrispondente. Ad esempio, due coppie di frasi usate nel test sono le seguenti: (25) “Dalla finestra si vede piovere” (26) “Dalla finestra si vede la pioggia” (27) “L’atleta si allena nel lancio della palla” (28) “L’atleta si allena a lanciare la palla” Chiameremo stimolo o elemento critico il nome/verbo che cambia classe grammaticale da una frase all’altra. Queste due frasi vengono presentate su uno schermo accompagnate da una figura che rappresenta la situazione descritta in esse e vengono, inoltre, lette dall’esaminatore. La prima frase di ogni coppia viene presentata interamente, mentre la seconda presenta una lacuna in corrispondenza dello stimolo critico (Figura 14): il soggetto viene poi invitato a completare oralmente la frase con l’elemento mancante (lo stimolo critico, appunto). 161 Ciascuna coppia di frasi genera, poi, due item: infatti, al soggetto viene chiesto di completare una frase col verbo avendo ascoltato e visto la frase completa col nome, ma anche di completare la frase con un nome avendo ascoltato e visto la frase completa col verbo. In questo modo, dalle 45 coppie di frasi si costituiscono 90 trial: in 45 di essi viene chiesto al paziente di produrre un nome, mentre negli altri 45 gli viene chiesto di produrre un verbo. 1.2 La somministrazione Il soggetto è seduto di fronte allo schermo di un computer: su di esso compaiono gli stimoli della prova che, come abbiamo visto, sono costituiti dalle due frasi e dal disegno. La prima frase è completa e ha lo stimolo critico colorato di blu (se è un verbo) o di rosso (se è un nome), mentre la seconda presenta dei puntini di sospensione in corrispondenza dello stimolo critico, anch’essi colorati di blu o di rosso a seconda che sottendano un nome o un verbo. L’esaminatore legge quindi la prima frase sottolineando con l’intonazione lo stimolo critico, poi legge la seconda in cui questo è omesso: il compito del paziente è quello di completare la frase producendo proprio l’elemento critico, cioè, il nome corrispondente al posto del verbo della prima frase o il verbo corrispondente al posto del nome della prima frase. 162 1.3 La randomizzazione Come abbiamo detto prima, ciascuna coppia di frasi viene presentata al paziente nelle due direzioni: si chiede, in pratica, di completare la frase col Figura 14: quattro esempi di stimolo fornito ai pazienti nella somministrazione del test RNV-CF: in due di essi lo stimolo critico è in ultima posizione, mentre nelle altre due è in penultima. Le frasi sottostanti le figure vengono lette dall’esaminatore. Alla donna piace il pattinaggio Alla donna piace ……… I soldati videro l’esplosione della bomba I soldati videro ……… la bomba Ho proposto al ragazzo di camminare Ho proposto al ragazzo una ……… Abbiamo sentito starnutire il signore Abbiamo sentito lo …….. del signore 163 nome partendo da quella col verbo e viceversa. Ai 90 trial così costruiti si aggiungono tre coppie di frasi, utilizzate come esempio, anch’esse somministrate nelle due direzioni: nel complesso, quindi, 90 trial più 6 esempi. Essendo il test piuttosto lungo ed essendo esso costituito da trial simmetrici, abbiamo deciso di spezzarlo in due sessioni, ciascuna da 45 item. La prima sessione è composta dalla spiegazione del compito, da 3 item di esempio da nome a verbo, dalle prime 23 coppie di frasi somministrate da nome a verbo, da 3 item di esempio da verbo e nome e dalle altre 22 coppie di frasi somministrate da verbo a nome; la seconda sessione ha una struttura speculare, essendo composta dalla spiegazione del compito, 3 item di esempio da verbo a nome, le prime 23 coppie della prima sessione, somministrate, però, da verbo a nome, 3 item di esempio da nome a verbo e le ultime 22 coppie della prima sessione somministrate questa volta da nome a verbo. Questa struttura è stata pensata in modo che ciascuna coppia di frasi compaia una sola volta in ogni sessione. Ciascuna delle due sessioni richiede circa 45 minuti di tempo. 1.4 Le variabili semantico-lessicali Per ciascun item della batteria sono state considerate la lunghezza e la frequenza d’uso orale della parola target, oltre all’immaginabilità del concetto sottostante. 164 Abbiamo misurato la lunghezza contando il numero di lettere e sillabe che costituivano ciascun item; abbiamo tratto, invece, la frequenza d’uso, dal Lessico di Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993). Per l’immaginabilità è stato necessario sottoporre gli item al giudizio di un gruppo di soggetti di controllo: abbiamo presentato a 21 soggetti normali volontari (6 uomini e 15 donne di età compresa tra i 19 e i 35 anni) un elenco scritto contenente i 45 nomi e i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF. Nomi e verbi erano randomizzati all’interno di un'unica lista. A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7. Ai soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di valutarla sulla base della facilità e velocità con cui evocava un’immagine mentale attribuendole un punteggio crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che l’1 corrispondeva ad una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il 7 ad una grande facilità. Non venivano dati limiti di tempo e si ricordava ai soggetti di utilizzare possibilmente l’intera griglia. Il risultato della raccolta di questi dati è riassunto in Tabella 11. Come possiamo vedere, nomi e verbi sono ottimamente bilanciati per immaginabilità. Come ulteriore controllo, abbiamo confrontato l’immaginabilità di ogni Tabella 11: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi del test RNV-CF. Nomi (n=45) Frequenza d'uso orale Verbi (n=45) t Test p 11,02 ± 15,28 36,53 ± 77,66 -2,16 <.05 Immaginabilità 4,30 ± 0,92 4,52 ± 0,68 -1,28 n.s. Lunghezza in lettere 7,71 ± 2,41 8,06 ± 1,54 0,24 n.s. Lunghezza in sillabe 3,09 ± 0,97 3,47 ± 0,59 0,001 n.s. 165 nome con quella del proprio verbo corrispondente: nessuna delle 45 coppie risulta sbilanciata per immaginabilità, come era lecito aspettarsi vista l’identità di significato tra nome e verbo all’interno della stessa coppia (nessun confronto dà un valore t superiore a .65, ampiamente non significativo). Nomi e verbi differiscono, invece, per frequenza d’uso, che risulta maggiore nei verbi rispetto ai nomi (36,53 contro 11,02; p < .05) 1.5 I sottogruppi di item Tra i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF, ci sono 22 verbi transitivi, 14 verbi inergativi e 9 verbi inaccusativi. I nomi, invece, sono stati classificati con criteri diversi rispetto a quelli utilizzati solitamente in letteratura. Il test RNV-CF, infatti, utilizza come stimoli nomi e verbi relati non solo semanticamente, ma anche morfologicamente. In altre parole, le coppie di nomi e verbi inserite nel nostro test che denotano lo stesso evento intrattengono anche una relazione morfologica tra loro (vedi Appendice per l’elenco completo degli item; qui basti qualche esempio in aggiunta a quelli precedenti: ballare e ballo, bombardare e bombardamento, correre e corsa). Temevano, quindi, che i risultati fossero influenzati da questo fattore e che essi fossero informativi più sulle capacità morfologiche dei pazienti che su quelle di recupero lessicale. Per controllare questo aspetto, abbiamo classificato le coppie nome-verbo in tre categorie sulla base della relazione morfologica che intrattengono: una classe 166 (Der) è costituita da nomi derivati per mezzo di un vero e proprio processo morfologico di aggiunta di suffissi derivazionali deverbali come -zione, -aggio, mento, una seconda classe (PP) è costituita da nomi la cui forma fonologica è uguale a quella del participio passato del verbo corrispondente (ad esempio, cadere/caduta o correre/corsa) e una terza classe (1PS) è costituita, invece, da nomi la cui forma fonologica è uguale a quella della prima persona singolare del verbo corrispondente (ad esempio, cantare/canto o lanciare/lancio). In sede di analisi dei risultati, questa classificazione ci consentirà di individuare quei pazienti che cadono particolarmente ai nomi derivati, cosa che ci aspettiamo da parte di coloro che hanno problemi morfologici e che cercano di risolvere questo compito derivando il nome dal verbo, piuttosto che recuperandolo dal magazzino lessicale. 1.6 Pregi e difetti La batteria RNV-CF ci permette, in conclusione, di testare la dissociazione nomi-verbi in un contesto bilanciato per immaginabilità. Inoltre, il test RNV-CF fornisce un costrutto frasale in cui la parola deve essere inserita: questa contestualizzazione del recupero lessicale è molto interessante per via del fatto che ci permette di verificare se la dissociazione che emerge nel recupero di parole isolate persiste in una struttura frasale. Questa, infatti, fornisce una cornice su cui il sistema cognitivo potrebbe basare le sue strategie di compensazione di eventuali difetti lessicali (e magari fare scomparire o diminuire la differenza tra nomi e verbi). 167 A fronte di questi vantaggi, il test RNV-CF presenta anche dei problemi: ad esempio, il mancato bilanciamento per frequenza oppure la difficoltà intrinseca nella spiegazione del compito, durante la quale bisogna necessariamente riferirsi ai termini “nome” e “verbo” che non tutti gli afasici potrebbero comprendere con chiarezza. Infine, ricordiamo il problema costituito dal fatto che i pazienti afasici potrebbero cercare di rispondere derivando morfologicamente il nome dal verbo corrispondente o viceversa: per questa ragione, abbiamo classificato gli item a seconda della loro struttura morfologica, preparandoci ad un controllo di questo fattore, almeno a posteriori. 2. MATERIALI E METODI: una nuova batteria di denominazione su figura I risultati che saranno ottenuti col test appena descritto non sono tanto informativi di per sé: sono, invece, molto preziosi se confrontati con quelli ottenuti dagli stessi pazienti ad un compito di recupero lessicale standard come quello di denominazione su figura. Infatti, per i nostri scopi, non è molto importante sapere come si comportano in assoluto i pazienti nel recupero di nomi e verbi quando devono completare una frase e quando l’immaginabilità dei nomi e dei verbi è ben bilanciata; ciò che a noi interessa osservare è se il contesto frasale o l’immaginabilità bilanciata facilitano il paziente dissociato oppure no. Ciò che noi ci chiediamo è se quei pazienti che alla denominazione di figure risultano dissociati lo sono ancora in un compito piuttosto diverso, dove è 168 presente una struttura frasale e dove nomi e verbi hanno all’incirca la stessa immaginabilità. Per questa ragione è necessario sottoporre i pazienti anche ad un test di denominazione di figure. 2.1 Quale test di denominazione usare? Abbiamo quindi bisogno di un test di denominazione che contenga figure di oggetti e figure di azioni e che sia pensato e tarato per confrontare la prestazione dei pazienti ai nomi e ai verbi: prove di questo tipo non sono presenti in letteratura (e in commercio). Avremmo potuto utilizzare di nuovo la batteria usata da Luzzatti et al. (2002): essa, però, conteneva degli item che si erano rivelati un po’ problematici. Alcune figure di azioni erano relativamente ambigue (elicitavano nei pazienti afasici due o tre risposte più o meno con la stessa frequenza; questo può diventare un problema se le alternative di scelta sono verbi di categorie diverse) e, tra gli oggetti naturali, erano presenti item che rappresentavano parti del corpo (orecchio, gamba e piede), le quali hanno anche una rappresentazione cinestesica e non sono quindi del tutto paragonabili agli altri oggetti naturali. Dato che non abbiamo trovato in letteratura un test con le caratteristiche che chiedevamo e che la batteria di Luzzatti et al. (2002) aveva dei difetti cui intendevamo cercare di porre rimedio, abbiamo scelto di costruire ex-novo un test di denominazione di azioni e oggetti. 169 2.2 La costruzione della nuova batteria 2.2.1 La base di partenza Per ciò che riguarda i nomi, esistono ampi database (con le relative figure), appositamente costruiti per i test di denominazione; in questi database sono presenti i dati normativi per le principali variabili lessicali e per i più importanti parametri specifici del test di denominazione (come l’accordo sul nome, di cui parleremo più avanti), raccolti in genere su campioni ampi e rappresentativi. Utilizzare i nomi di uno di questi database ci avrebbe garantito una serie di vantaggi: avremmo avuto un ampia scelta per gli item nominali. di tutti questi item avremmo avuto già i dati normativi: questi, infatti, erano stati raccolti su soggetti italiani, con un range d’età piuttosto ampio e con una cultura confrontabile a quella dei pazienti afasici che avremmo testato nel nostro studio. di questi item avremmo avuto i disegni, anch’essi già testati su gruppi di controllo. Tra i database di nomi presenti in letteratura, abbiamo scelto il PD/DPSS, di Lotto, Dell’Acqua e Job (2000). Esso è composto da 266 nomi con le relative figure e i dati normativi: essi comprendevano tutte le variabili lessicali che avevamo deciso di includere nella batteria (frequenza, età di acquisizione soggettiva, lunghezza in lettere e sillabe, name agreement) tranne l’immaginabilità. 170 Inoltre, in questo database, i nomi sono classificati per categoria semantica di appartenenza. Per ciò che riguarda i verbi, invece, data la mancanza di database appositi, abbiamo preparato una prima lista di 123 item con i relativi disegni da cui poi, attraverso uno studio pilota, avremmo tratto i verbi della nuova batteria. Questa lista conteneva 26 verbi transitivi, 22 verbi inergativi, 18 verbi con forma sia transitiva che inergativa, 23 verbi inaccusativi, 9 verbi di transitivi, 16 verbi riflessivi inerenti, 7 verbi riflessivi e 2 verbi atmosferici. Come vedremo, in questa prima lista avevamo incluso molti verbi in più rispetto a quelli che poi abbiamo inserito nella batteria e avevamo considerato anche più categorie verbali; questo, in parte perché sapevamo che molti item non avrebbero soddisfatto i requisiti che chiedevamo, in parte per avere più possibilità di scelta nel bilanciamento delle variabili lessicali e in parte perché non volevamo a priori escludere la possibilità di inserire altre categorie di verbi nella lista finale. 2.2.2 Lo studio pilota Creato questo primo set di 389 item (123 verbi e 266 nomi), il passo successivo è stato quello di scegliere tra questi gli item della batteria definitiva. Le variabili che abbiamo considerato nello studio sono l’accordo sul nome (name agreement), la frequenza d’uso orale, l’immaginabilità, la lunghezza in lettere e in sillabe, l’età di acquisizione soggettiva, la tipicità della figura. 171 La scelta di queste variabili è legata soprattutto a ciò che la letteratura riporta a proposito dei test di denominazione, in particolare nell’ambito della dissociazione nomi-verbi. La tipicità della figura è, invece, una variabile meno usata in letteratura: con essa intendiamo una misura della “bontà” della figura stessa, cioè una misura che riflette quanto questa si avvicina all’immagini prototipica di un certo oggetto. Come abbiamo detto prima, erano già stati condotti degli studi-pilota per le figure dei nomi: in questi studi erano state incluse tutte le variabili che avevamo deciso di considerare tranne l’immaginabilità e la tipicità della figura (Lotto, Dell’Acqua e Job, 2000). Dato che il campione di riferimento era paragonabile al nostro per cultura (i dati normativi del PD/DPSS sono stati raccolti a Padova) e piuttosto ampio numericamente (88 soggetti), anche se non perfettamente distribuito per età anagrafica (tutti i soggetti erano studenti universitari), abbiamo deciso di tenere i dati ottenuti su quel campione e raccogliere ex-novo solo i dati mancanti, cioè quelli che si riferiscono a tutte le variabili per i verbi e all’immaginabilità per i nomi. Materiali e metodi. Lo studio delle variabili strutturali, lessicali e semanticolessicali, è stato condotto seguendo due metodologie generali. I valori di frequenza d’uso orale per i verbi sono stati tratti dal Lessico di Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993), mentre la lunghezza degli item è stata calcolata attraverso il conteggio del numero delle lettere e delle sillabe. 172 Per le altre variabili, invece, è stato necessario testare dei soggetti: descriverò ora singolarmente la metodologia usata per ciascuna variabile. Accordo sulla denominazione di verbi. Abbiamo mostrato, una per volta, le 123 figure che rappresentavano le azioni a 37 soggetti volontari, di età compresa tra i 20 e i 52 anni; a ciascuno di loro era stato chiesto di osservare con attenzione i disegni e di scrivere su un foglio il verbo corrispondente all’azione raffigurata. Immaginabilità dei nomi e dei verbi. Per valutare questa variabile, abbiamo presentato ad un campione di 19 soggetti normali volontari (15 donne e 4 uomini di età compresa tra i 18 e i 52 anni) una lista di 266 nomi e 123 verbi (in totale, 389 item). A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7. Ai soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di esprimere la facilità e la velocità con cui ne evocavano un’immagine mentale tramite un punteggio crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che il valore “1” corrispondeva ad una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il valore “7” ad una grande facilità. Età d’acquisizione per i verbi. L’indagine si è svolta su un campione di 20 soggetti (17 donne e 3 uomini) di età compresa tra i 20 e i 45 anni. A ciascuno di essi veniva presentata la lista dei 123 verbi, seguita da una griglia a 9 spazi, ciascuno numerato da 1 a 9: ad ogni spazio numerato corrispondeva una range d’età. Nel complesso, la scala partiva dal numero 1 che era associato all’età di 0-2 anni e arrivava al numero 9 che corrispondeva a 13 anni e oltre. 173 Ai soggetti veniva chiesto di leggere ogni parola e di stimare l’età a cui pensavano di avere appreso questa e il sottostante significato; quindi, dovevano segnare sulla griglia lo spazio numerato associato all’età stimata. Tipicità della figura per nomi e verbi. Lo studio ha coinvolto 23 soggetti non-afasici volontari, 15 donne e 8 uomini, con un’età compresa tra i 17 e i 32 anni; con 12 di essi abbiamo raccolto i dati sui verbi e con 11 i dati sui nomi: ciascun soggetto ha valutato soltanto gli item di una delle due classi grammaticali. Ai soggetti è stata consegnata la lista dei nomi o quella dei verbi: accanto ad ogni item era posta una griglia con 7 spazi, numerati in modo crescente da 1 a 7. La consegna era di leggere la parola e immaginarsi, nel modo più prototipico possibile, l’oggetto o l’azione rappresentata: dopo di che, veniva mostrata ai soggetti la figura e veniva chiesto loro di valutare quanto questa corrispondesse a quella che si erano precedentemente immaginati; veniva, inoltre, specificato che 1 doveva essere barrato in caso di corrispondenza nulla, mentre 7 doveva essere scelto in caso di altissima corrispondenza. Risultati. Abbiamo, dunque, raccolto per ciascuno dei 389 item oggetto di studio i valori normativi per le variabili di accordo sul nome, immaginabilità, età di acquisizione soggettiva, tipicità del disegno, frequenza d’uso, lunghezza in lettere e lunghezza in sillabe. Questi dati sono poi stati utilizzati per la costruzione della batteria definitiva. 174 2.2.3 La selezione degli item Dall’ampio elenco di 123 verbi e 266 nomi, abbiamo selezionato 50 nomi e 50 verbi che andassero a costituire la batteria definitiva che avremmo somministrato ai pazienti. La scelta di questi 100 item è stata guidata da una serie di obiettivi: aumentare il numero degli item della batteria rispetto allo studio di Luzzatti et al. (2002). evitare di inserire item problematici, ad esempio a causa di figure ambigue o con un basso accordo sul nome oppure a causa di una rappresentazione mentale particolare (come le parti del corpo). inserire tra i nomi un ugual numero di oggetti naturali e di oggetti artificiali. inserire tra i verbi un numero il più possibile confrontabile di transitivi, inaccusativi e inergativi in modo da favorire un confronto delle prestazioni dei pazienti per queste tre classi di verbi. bilanciare il più possibile i diversi gruppi di item (nomi/verbi, nomi naturali/nomi artificiali, verbi transitivi/inergativi/inaccusativi) per le variabili che avevamo precedentemente misurato. Ci aspettavamo di raggiungere con relativa facilità i primi quattro obiettivi e di dover faticare molto per soddisfare il quinto: come vedremo, le nostre previsioni erano giuste. 175 La batteria finale è composta, come abbiamo già detto, da 50 nomi e 50 verbi (l’elenco completo con i dati normativi per ciascun item si trova in Appendice a questo capitolo). Tra i 50 nomi, 25 sono artificiali (denotano oggetti costruiti dall’uomo) e 25 sono naturali (denotano animali e vegetali); tra i 50 verbi, 20 sono transitivi (possiedono un argomento interno cui assegnano il caso grammaticale, vedi capitolo 1, pagina 20), 17 sono inergativi (non danno caso al loro argomento interno, vedi capitolo 1, pagina 20) e 13 sono inaccusativi (non possiedono un argomento esterno, vedi capitolo 1, pagina 23). Vediamo ora, una variabile per volta, i risultati del bilanciamento (Tabella 12, Tabella 13 e Tabella 14). Accordo sul nome. Più che per bilanciare i gruppi di item, questa variabile è stata usata per escludere dalla batteria alcuni nomi o verbi che non erano univocamente denominati dai soggetti normali. Nel test, infatti, sono stati inserite soltanto quelle figure che risultavano denominate con lo stesso nome/verbo da almeno l’85% dei soggetti di controllo. Inoltre, il test con cui abbiamo raccolto i dati sul name agreement (che di fatto non era altro che un test di denominazione scritta) è stato utilizzato come prova di controllo; le risposte non maggioritarie che hanno raggiunto il 5% di frequenza sono state considerate risposte alternative corrette nella versione finale del test. Frequenza d’uso. La frequenza d’uso di nomi e verbi non è perfettamente bilanciata, ma la loro differenza non è statisticamente significativa (13,82 ± 21,22 la media dei verbi, 8,48 ± 15,69 quella dei nomi). La stessa cosa vale per 176 il confronto tra verbi inaccusativi e verbi inergativi (18,38 ± 20,82 contro 6,94 ± 13,90) e tra questi ultimi e i verbi transitivi (6,94 ± 13,90 contro 16,70 ± 26,12). La frequenza d’uso è invece bilanciata tra verbi inaccusativi e verbi transitivi (18,38 ± 20,82 contro 16,70 ± 26,12; p = .84) e tra nomi di oggetti naturali e nomi di oggetti artificiali (6,28 ± 14,08 contro 10,68 ± 17,18; p = .32). Immaginabilità. Questa variabile ha costituito il principale problema sin dall’inizio della costruzione della batteria. Sapevamo che i nomi sono mediamente più immaginabili dei verbi e che bilanciare questa variabile sarebbe Tabella 12: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi. Variabile Verbi (n=50) Nomi (n=50) t Test p Frequenza d'uso orale 13,82 ± 21,22 8,48 ± 15,69 1,45 .15 Immaginabilità 4,58 ± 0,77 6,01 ± 0,39 -11,84 <.01 Lunghezza in lettere 8,08 ± 1,41 7,08 ± 1,77 3,17 <.01 Lunghezza in sillabe 3,42 ± 0,57 3,02 ± 0,84 2,88 <.01 Età d'acquisizione 3,76 ± 1,14 3,40 ± 1,03 1,66 .10 Tipicità della figura 5,63 ± 0,80 5,81 ± 0,94 1,29 .20 Tabella 13: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi, inergativi e inaccusativi e confronti statistici (test t). Transitivi (n=20) Inergativi(n=17) Inaccusativi(n=13) T-Ie (p) 16,70 ± 26,12 6,94 ± 13,90 18,38 ± 20,82 .16 .84 .06 Immaginabilità 4,65 ± 0,60 4,99 ± 0,79 3,93 ± 0,57 .14 .001 <.001 Lunghezza in lettere 8,20 ± 1,54 8,05 ± 1,43 7,92 ± 1,26 .77 .59 .78 Lunghezza in sillabe 3,50 ± 0,69 3,29 ± 0,47 3,46 ± 0,52 .30 .86 .36 Età d'acquisizione 3,78 ± 1,07 3,64 ± 1,04 3,88 ± 1,42 .69 .82 .60 Tipicità della figura 5,57 ± 0,84 5,66 ± 0,84 5,65 ± 0,76 .75 .78 .98 Frequenza d'uso orale T-Ia (p) Ie-Ia (p) 177 stato molto difficile in un test in cui gli item devono essere raffigurabili: anche le indicazioni della letteratura andavano in questa direzione (Bird et al., 2000; Luzzatti et al., 2002). Il risultato del nostro lavoro non ha smentito le previsioni: l’immaginabilità non è bilanciabile tra nomi e verbi (6,01 ± 0,39 contro 4,58 ± 0,77; p < .01). Inoltre, il vincolo della raffigurabilità degli item e del buon accordo sul nome, ci ha costretti ad introdurre nelle versione finale della batteria dei verbi che non garantiscono il bilanciamento di questa variabile nemmeno tra verbi transitivi e verbi inergativi e tra questi ultimi e i verbi inaccusativi (vedi Tabella 13). Nomi di oggetti naturali e nomi di oggetti artificiali sono, invece, ben bilanciati (5,93 ± 0,35 contro 6,08 ± 0,43; p = .16). Lunghezza. I nomi inseriti nella versione finale della batteria sono più lunghi dei verbi in modo statisticamente significativo (8,08 ± 1,77 contro 7,08 ± 1,41 in lettere e 3,42 ± 0,84 contro 3,02 ± 0,57 in sillabe; in entrambi i confronti p < .01); al contrario, i tre gruppi di verbi, transitivi, inergativi e inaccusativi sono bilanciati per questa variabile in modo piuttosto buono (vedi Tabella 13), come anche i due gruppi di nomi (vedi Tabella 14). A che cosa è dovuta questo differenza di lunghezza tra nomi e verbi? Bilanciare i due gruppi per lunghezza ci avrebbe costretto ad avere un bilanciamento peggiore per le altre variabili, in particolare per frequenza ed età di acquisizione: dovevamo scegliere a chi dare la priorità. 178 Tabella 14: variabili semantico-lessicali per i nomi di oggetti naturali e i nomi di oggetti artificiali. Naturali (n=25) Artificiali (n=25) t Test p Frequenza d'uso orale 6,28 ± 14,08 10,68 ± 17,18 0,99 .32 Immaginabilità 5,93 ± 0,35 6,08 ± 0,43 1,44 .16 Lunghezza in lettere 7,04 ± 1,88 7,12 ± 1,69 0,16 .87 Lunghezza in sillabe 3,16 ± 0,85 2,88 ± 0,83 -1,25 .21 Età d'acquisizione 3,34 ± 0,82 3,46 ± 1,20 0,42 .67 Tipicità della figura 5,87 ± 1,01 5,74 ± 0,87 -0,73 .46 La scelta è caduta sull’età di acquisizione e sulla frequenza d’uso per via del fatto che in letteratura ci sono dei dati che indicano nella lunghezza una variabile importante in contesti di lettura ad alta voce, ma meno decisiva in caso di prove di denominazione (Bates et al., 2001); inoltre, questa variabile interviene ad un livello piuttosto periferico della produzione linguistica (livello fonologico-segmentale) dove probabilmente tutte le informazioni sulla categoria lessicale sono già state elaborate. Al contrario, come nel secondo capitolo abbiamo più volte sottolineato, la frequenza sembra avere un ruolo chiave nelle prove di denominazione di oggetti e azioni (Berndt et al., 1997; Luzzatti et al., 2002). Età di acquisizione. L’età di acquisizione dei nomi è lievemente inferiore a quella dei verbi, ma non in modo statisticamente significativo (3,76 ± 1,14 per i verbi, 3,40 ± 1,03 per i nomi; p > .05). I tre gruppi verbali hanno invece valori medi di età di acquisizione del tutto confrontabili (3,78 ± 1,07 la media dei transitivi, 3,64 ± 1,04 quella degli inergativi e 3,88 ± 1,42 quella degli 179 inaccusativi); la stessa cosa si può dire per i nomi di oggetti naturali e i nomi di manufatti (3,34 ± 0,82 contro 3,46 ± 1,20; p = .67). Tipicità della figura. Questa variabile è perfettamente bilanciata tra i tre gruppi verbali (5,57 ± 0,84 la media dei verbi transitivi, 5,66 ± 0,84 quella dei verbi inergativi, 5,65 ± 0,76 quella dei verbi inaccusativi) e tra i due gruppi di nomi (i nomi di oggetti naturali hanno una media di 5,87 ± 1,01 e i nomi di manufatti hanno una media di 5,74 ± 0,87; p = .46), mentre è presente una differenza, anche se non molto marcata, tra i nomi e i verbi (5,63 ± 0,80 contro 5,81 ± 0,94; p = .20). Nel complesso, abbiamo raggiunto quasi tutti gli obiettivi che ci eravamo proposti all’inizio della costruzione della batteria: gli item hanno tutti un alto name agreement, non sono teoricamente problematici (come erano i nomi di parti del corpo nella vecchia batteria) e il loro numero non è né troppo piccolo (il che ci avrebbe impedito di fare delle analisi statistiche affidabili sui risultati), né troppo grande (il che avrebbe richiesto uno sforzo notevole ai pazienti sottoposti al test). La batteria, inoltre, contiene nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali in ugual numero e verbi transitivi, inergativi e inaccusativi in numero simile. I nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali sono bilanciati tra loro per tutte la variabili lessicali; i verbi transitivi, i verbi inergativi e i verbi inaccusativi sono anch’essi ben bilanciati tra loro, tranne che per l’immaginabilità. Il bilanciamento tra nomi e verbi, invece, è stato raggiunto per le variabili di età d’acquisizione, accordo sulla figura e frequenza, ma non per lunghezza e immaginabilità. 180 2.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali Per cercare di porre rimedio al mancato bilanciamento dell’immaginabilità e della lunghezza, abbiamo selezionato dall’insieme dei 50 nomi inclusi nella batteria tre sottogruppi di item, ciascuno dei quali fosse bilanciato con uno dei tre gruppi di verbi (transitivi, inergativi e inaccusativi). In altre parole, abbiamo costruito tre liste di nomi: una costituita da 18 item, bilanciata con il gruppo dei 20 verbi transitivi, una da 17 item, bilanciata con il gruppo dei 17 verbi inergativi e una da 12 item, bilanciata col gruppo dei 13 verbi inaccusativi. I nomi inseriti in queste tre liste sono stati presi dall’insieme dei 50 che costituiscono la batteria di denominazione complessiva in modo che non fosse necessario sottoporre ai pazienti degli item in più. La procedura che, in questo modo, diventa possibile utilizzare è la seguente: si testano i pazienti con i 100 item della batteria complessiva, si confronta la prestazione ai 50 nomi con quella ai 50 verbi per evidenziare l’eventuale dissociazione e si esegue un’analisi statistica dei risultati: nel caso questa metta in evidenza un significativo effetto di lunghezza o un significativo effetto di immaginabilità, è possibile confrontare la prestazione nei tre singoli gruppi di verbi con i rispettivi gruppi di nomi bilanciati anche per queste due variabili. In questo modo, è sempre possibile avere un controllo ulteriore del fattore classe grammaticale al netto delle variabili di frequenza d’uso o di immaginabilità. In Tabella 15, 16 e 17 troviamo i risultati del bilanciamento, con i valori medi delle variabili semantico-lessicali nei tre gruppi di verbi e nelle tre sottoliste di nomi. 181 Tabella 15: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati Nomi (n=18) Verbi transitivi (n=20) t Test p 15,89 ± 21,89 16,70 ± 26,12 0,10 .91 Immaginabilità 5,95 ± 0,42 4,65 ± 0,60 -7,65 <.001 Lunghezza in lettere 7,78 ± 2,07 8,20 ± 1,54 0,71 .47 Lunghezza in sillabe 3,39 ± 0,98 3,50 ± 0,69 0,40 .68 Età d'acquisizione 3,57 ± 1,15 3,78 ± 1,07 0,57 .57 Tipicità della figura 5,82 ± 0,93 5,57 ± 0,84 -1,01 .31 Frequenza d'uso orale Tabella 16: variabili semantico-lessicali per i verbi inaccusativi e un sottogruppo di nomi bilanciati Nomi (n=12) Verbi inaccusativi (n=13) t Test p 20,58 ± 25,61 18,38 ± 20,82 -0,23 .81 Immaginabilità 5,99 ± 0,44 3,93 ± 0,57 -10,04 <.001 Lunghezza in lettere 7,75 ± 2,09 7,92 ± 1,26 0,25 .80 Lunghezza in sillabe 3,33 ± 0,89 3,46 ± 0,52 0,44 .66 Età d'acquisizione 3,50 ± 1,39 3,88 ± 1,42 0,67 .50 Tipicità della figura 5,88 ± 0,81 5,65 ± 0,76 -0,80 .43 Frequenza d'uso orale Come si vede, la lunghezza, sia in lettere che in sillabe, è ora bilanciata tra sottogruppi di verbi e sottogruppi di nomi; le altre variabili lessicali sono anch’esse bilanciate, ma l’immaginabilità dei nomi è ancora maggiore dell’immaginabilità dei verbi in tutte e tre le sottobatterie. 182 2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione Data l’assenza di un test di denominazione di azioni e oggetti che soddisfacesse i nostri bisogni e dati i difetti della batteria utilizzata per la raccolta dei dati su cui abbiamo condotto l’analisi qualitativa e il controllo dell’ipotesi di Bird et al. (2000), abbiamo costruito una nuova batteria di denominazione. Partendo da una lista iniziale di 266 nomi e 123 verbi, attraverso la misurazione delle principali variabili semantico-lessicali per ciascun item, abbiamo selezionato 50 verbi e 50 nomi con cui abbiamo costituito il nuovo test. Tra i nomi sono presenti 25 item che rappresentano oggetti naturali e 25 item che rappresentano oggetti artificiali; tra i 50 verbi, invece, 20 sono transitivi, 17 inergativi e 13 inaccusativi. Per quello che riguarda il bilanciamento delle variabili semantico-lessicali, possiamo dire che la frequenza d’uso, l’età di acquisizione e la tipicità della figura presentano valori medi simili (o comunque, non significativamente Tabella 17: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati Nomi (n=17) Verbi inergativi (n=17) t Test p 10,18 ± 18,44 6,94 ± 13,90 -0,61 .54 Immaginabilità 5,84 ± 0,44 4,99 ± 0,79 -3,94 <.001 Lunghezza in lettere 7,88 ± 2,06 8,05 ± 1,43 0,29 .77 Lunghezza in sillabe 3,35 ± 1,00 3,29 ± 0,47 -0,22 .82 Età d'acquisizione 3,53 ± 1,07 3,64 ± 1,04 0,31 .93 Tipicità della figura 5,83 ± 0,90 5,66 ± 0,84 -0,69 .49 Frequenza d'uso orale 183 diversi) nei diversi sottogruppi di item. Non si è riusciti neppure questa volta a bilanciare nomi e verbi per immaginabilità: i nomi sono significativamente più immaginabili dei verbi e i verbi inaccusativi meno immaginabili dei verbi transitivi e inergativi. Anche la lunghezza in lettere e in sillabe non è perfettamente bilanciata tra nomi e verbi, mentre lo è tra sottotipi di verbo e tra nomi di oggetti naturali e nomi di manufatti. Da ultimo, abbiamo costruito tre sottogruppi di nomi, cercando di far sì che ciascuno di essi fosse bilanciato con uno dei tre sottogruppi verbali (verbi transitivi, inergativi e inaccusativi) anche per quelle variabili che non erano perfettamente bilanciate nel confronto tra tutti i 50 nomi e tutti i 50 verbi: ciò è stato possibile per la lunghezza in lettere e in sillabe, ma non per l’immaginabilità. 3. MATERIALI E METODI: soggetti e somministrazione dei test 3.1 Soggetti Hanno partecipato allo studio 39 pazienti afasici: di questi, 21 soffrivano di una forma di afasia fluente, 8 di una forma di afasia non-fluente, 7 avevano una sindrome afasica residua, mentre non era stato possibile classificare 3 pazienti lungo il parametro fluente/non-fluente. Tra i 21 afasici fluenti, 12 soffrivano di afasia amnestica e 9 di afasia di Wernicke, mentre, tra gli 8 pazienti non-fluenti, 5 soffrivano dei sintomi tipici dell’agrammatismo (vedi Tabella 18). 184 Di questi 39 soggetti, 13 sono stati sottoposti anche al test RNV-CF: al test di denominazione su figura, 10 di essi erano risultati dissociati-meglio-nomi (DMN), 1 era risultato dissociato-meglio-verbi (DMV) e 2 non dissociati (ND). La composizione del campione di pazienti che è stato sottoposto al test RNVCF è descritta in Tabella 19: 4 pazienti soffrivano di una forma afasica fluente, 4 erano afasici non-fluenti, 3 soffrivano di una sindrome afasica residua e 2 erano afasici che non era stato possibile classificare secondo la fluenza dell’eloquio. Dei 4 afasici non-fluenti, 2 erano pazienti agrammatici. 3.2 Materiale e somministrazione del compito Tutti i soggetti che hanno partecipato allo studio sono stati sottoposti al test di denominazione su figura che abbiamo descritto nel secondo paragrafo di questo capitolo; rimando dunque ad esso per le caratteristiche del compito, ricordando qui soltanto che la batteria è composta da 50 figure di oggetti e 50 figure di nomi ed è bilanciata tra nomi e verbi per le variabili di frequenza d’uso orale, Tabella 18: composizione del campione che è stato sottoposto al test di denominazione. Numerosità Età media Scolarità media Afasia amnestica 12 53,5 7,6 Sindrome residua afasica 7 49,3 7,4 Afasia di Broca 3 49,5 9 Afasia di Broca con Agrammatismo 5 45,6 10,2 Afasia di Wernicke 9 64 7,6 Non classificabili 3 59 8,3 TOTALE 39 53,4 8,4 185 Tabella 19: composizione del campione che è stato sottoposto al test RNV-CF. Numerosità Età media Scolarità media Afasia amnestica 4 54,7 7,8 Sindrome residua afasica 3 54,3 7 Afasia di Broca 2 63,5 8 Afasia di Broca con Agrammatismo 2 35 12 Non classificabili 2 61,5 6,5 TOTALE 13 54,2 8,3 età d’acquisizione e tipicità della figura, ma non per le variabili di lunghezza e immaginabilità. Il test RNV-CF è invece stato descritto nel primo paragrafo di questo capitolo: lì si possono trovare le sue principali caratteristiche, discusse e commentate in modo ampio. Qui ricorderemo semplicemente che il test prevede la somministrazione di 45 item verbali e 45 item nominali e che questa batteria è bilanciata tra nomi e verbi per immaginabilità e lunghezza, ma non per frequenza d’uso orale. La procedura prevedeva la somministrazione del compito di denominazione a tutti i soggetti e del test RNV-CF solo ad alcuni pazienti, quelli di maggior interesse, ad esempio per la presenza di una dissociazione tra nomi di oggetti naturali e nomi di manufatti oppure per la presenza di effetti molto marcati di qualche variabile semantico-lessicale oppure ancora per il tipo di afasia: la somministrazione del RNV-CF avveniva, comunque, in una sessione successiva rispetto a quella in cui era stato svolto il compito di denominazione su figura. 186 4. RISULTATI 4.1 Il test di denominazione su figura Dopo avere sottoposto i pazienti afasici al test di denominazione, abbiamo analizzato i risultati ottenuti, confrontando, per ciascun soggetto, la prestazione ai verbi con quella ai nomi e la prestazione ai nomi di oggetti naturali con quella ottenuta ai nomi di manufatti. I risultati di questa analisi sono riassunti in Tabella 21 (in Appendice abbiamo riportato la Tabella completa dei risultati con i valori percentuali ottenuti da ogni singolo soggetto e il valore del chi quadrato per i confronti in questione). Tipo di afasia. Come si può vedere, dei 39 pazienti considerati, ben 25 risultano dissociati-meglio-nomi, mentre 1 soltanto è dissociato-meglio-verbi; i restanti 13 soggetti presentano prestazioni confrontabili nelle due categorie lessicali. E’ piuttosto interessante guardare il modo in cui gli afasici dissociati si distribuiscono tra la diverse sindromi afasiche. Alcuni dati spiccano con chiarezza: ad esempio, tutti i pazienti non-fluenti con agrammatismo sono dissociati-meglio-nomi. Questo risultato non è certo nuovo in letteratura (vedi capitolo 2); è stato individuato, infatti, già molti anni fa (Myerson, Goodglass 1972; McCarthy, Warrington, 1985), in un periodo in cui era molto diffusa l’idea che un disturbo selettivo dei verbi è parte del pattern di errori tipico dell’agrammatismo. 187 In questa chiave, va sottolineata un’altra evidenza che emerge dai nostri dati: dei 25 dissociati-meglio-nomi solo 5 sono agrammatici. Se è dunque vero che tutti gli agrammatici sono dissociati-meglio-nomi, non è vero che tutti i dissociati-meglio-nomi sono agrammatici (confronta Luzzatti et al., 2002). Un altro dato interessante indica che ben 7 dei 9 pazienti con afasia di Wernicke che hanno partecipato allo studio sono dissociati-meglio-nomi. Il nostro unico paziente dissociato-meglio-verbi soffre di afasia amnestica, in accordo con la tendenza spesso indicata in letteratura. Da ultimo notiamo che, nonostante la letteratura indichi una forte associazione tra afasia amnestica e dissociazione-meglio-verbi, nel nostro studio abbiamo trovato ben 5 afasici amnestici dissociati-meglio-nomi. Tabella 20: associazione tra tipo di afasia e tipo di dissociazione al test di denominazione di figure (DMN = dissociati-meglio-nomi; DMV = dissociatimeglio-verbi; ND = non dissociati). DMN DMV ND TOTALE Broca 1 0 2 3 Broca con agrammatismo 5 0 0 5 Wernicke 7 0 2 9 Amnestici 5 1 6 12 Sindrome residua afasica 4 0 3 7 Non classificabili 3 0 0 3 TOTALE 25 1 13 39 188 Per ciò che riguarda la dissociazione tra nomi di oggetti naturali e nomi di manufatti, 5 pazienti mostravano di saper denominare meglio le figure di questi ultimi; nessun paziente, al contrario, aveva una dissociazione a favore dei nomi naturali. Dei 5 dissociati-meglio-artificiali, 3 erano anche dissociati-meglio-nomi (vedi Tabella 21); per ciò che riguarda il tipo di afasia, invece, 2 avevano una sindrome afasica residua, due un’afasia non-fluente (uno presentava anche i sintomi dell’agrammatismo) e uno un’afasia di Wernicke. Variabili semantico-lessicali. Per scoprire se i pazienti del nostro campione presentassero qualche effetto legato a queste variabili, abbiamo condotto un’analisi per casi singoli utilizzando la tecnica della Regressione Logistica (McCullagh, Nelder, 1983). I risultati dettagliati di questa analisi, contenenti i valori delle statistiche e le probabilità associate, si trovano in Appendice: i dati sono, inoltre, riassunti in Tabella 22. Come si può vedere da essa, l’immaginabilità non è significativa nell’unico paziente afasico DMV, è significativa in 5 dei 13 pazienti ND ed è significativa anche in tutti i 25 pazienti DMN; la frequenza d’uso, invece, è significativa nell’unico DMV, ma in uno solo dei 25 pazienti DMN. L’età di acquisizione è risultata un predittore statisticamente importante per 18 dei 25 DMN, per l’unico DMV, ma per soli 4 pazienti sui 13 non dissociati; da ultimo, la lunghezza degli item è significativa in 13 dei 25 DMN e in 3 dei 13 pazienti ND, mentre non è significativa nel dissociato-meglio-verbi 189 Tabella 21: compito di denominazione su figura: dissociazioni tra nomi di oggetti naturali (Nat) e nomi di oggetti artificiali (Art) e dissociazioni tra nomi e verbi. DMN DMV ND TOTALE Art > Nat 3 0 2 5 Nat > Art 0 0 0 0 Nat = Art 22 1 11 34 TOTALE 25 1 13 39 . Sembra dunque che anche dai nostri soggetti, come da quelli di Luzzatti et al. (2002), sia emersa la grande importanza dell’effetto di immaginabilità per i dissociati-meglio-nomi; nel contempo, invece, sembra che la frequenza d’uso orale degli item non sia cruciale nel prevedere la prestazione di questi pazienti. Rispetto alla letteratura sull’argomento rappresenta, invece, una novità il ruolo importante dell’età di acquisizione soggettiva: essa è un predittore significativo in ben 18 dei 25 DMN e nell’unico DMV; allo stesso modo, la lunghezza non è citata spesso in letteratura come variabile importante nello spiegare la prestazione dei pazienti dissociati ad un compito di denominazione di figure, eppure si rivela un predittore significativo in più della metà dei DMN. A proposito delle variabili cruciali per i DMV non possiamo dire molto dato che, nel nostro campione, soltanto un afasico è risultato dissociato-meglio-verbi: questo paziente presenta un importante effetto di frequenza d’uso, allineandosi così anch’esso ai risultati descritti in Luzzatti et al. (2002). Un ultimo dato da sottolineare è quello per cui in ben 21 dei 25 afasici dissociati-meglio-nomi l’effetto di classe grammaticale non è più statisticamente 190 significativo in un modello bivariato in cui è presente anche il fattore immaginabilità: detto in altro modo, la dissociazione nomi-verbi non è più presente quando i dati vengono corretti per immaginabilità, ad indicare che probabilmente un forte effetto di immaginabilità creava delle “apparenti” dissociazioni tra nomi e verbi che, in realtà, non hanno una base legata alla categoria grammaticale delle parole. Questa “scomparsa” della dissociazione nomi-verbi dopo una correzione dei dati per le variabili lessicali si verifica solo con l’immaginabilità: infatti, in nessun paziente la frequenza d’uso, l’età di acquisizione o la lunghezza dell’item eliminano l’effetto di classe grammaticale in un modello bivariato. 4.2 Il test RNV-CF La Tabella 23 riassume nel complesso i risultati ottenuti dai pazienti afasici al test RNV-CF. Tabella 22: compito di denominazione su figura: numero di pazienti dissociatimeglio-nomi (DMN), dissociati-meglio-verbi (DMV) e non dissociati (ND) per cui sono risultate significative le seguenti variabili semantico-lessicali all’Analisi di Regressione Logistica. DMN (%) DMV (%) ND (%) TOTALE (%) Immaginabilità 25 (100%) 0 5 (38%) 30 (77%) Frequenza d'uso 1 (4%) 1 (100%) 4 (31%) 6 (15%) Età d'acquisizione 18 (72%) 1 (100%) 4 (31%) 23 (59%) Lunghezza 13 (52%) 0 3 (23%) 16 (41%) TOTALE 25 (100%) 1 (100%) 13 (100%) 39 (100%) 191 Come si può vedere, soltanto 5 pazienti sono risultati ancora dissociati in questo test, uno per ogni gruppo afasico (un paziente con afasia amnestica, un paziente con afasia di Broca, uno con afasia di Broca e agrammatismo, uno con una sindrome afasica residua e uno non classificato). Tra questi 5 pazienti, non c’è il dissociato-meglio-verbi che, in questo compito, mostra una prestazione simile nelle due classi grammaticali. Anche l’effetto “morfologico” che avevamo previsto non è così dirompente come ci si poteva aspettare: un solo paziente (il numero 22), infatti, mostra una prestazione significativamente peggiore con i nomi derivati stricto sensu (DER) rispetto ai nomi con forma fonologica identica alla prima persona singolare del verbo (1PS) o con forma fonologica identica al participio passato (PP). Curiosamente, questo unico paziente è proprio quello che mostrava la dissociazione-meglio-verbi alla denominazione di figure. 4.3 Denominazione e RNV-CF a confronto Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai verbi. Scorrendo i risultati, si nota subito come i dissociati-meglio-nomi (DMN) abbiano nel complesso delle prestazioni ai verbi migliori nel test RNV-CF rispetto a quelle che hanno mostrato nella denominazione di figure (Figura 15) . Infatti, mentre la media delle percentuali di risposte corrette al test di denominazione dei DMN è del 36%, la stessa media è del 59% al RNV-CF (t test = 5,08; p < .001). 192 Tabella 23: risultati dei pazienti afasici sottoposti al test RNV-CF (Legenda: N° = numero del paziente; Diss Den = tipo di dissociazione al compito di denominazione su figura; Af = tipo di afasia; %N = percentuale di risposte corrette ai nomi; %V = percentuale di risposte corrette ai verbi; 1PS = nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbo corrispondente; PP = nomi con forma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi ottenuti dal verbo per aggiunta di un suffisso derivazionale; N vs V e DER vs PP+1PS = confronto statistico delle prestazioni con queste categorie di item). RNV-CF %N N° Diss Den 22 V>N 1 12 18 3 5 4 9 15 16 17 13 25 N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N=V N=V N vs V Af A 1PS 59 PP 33 DER 5 TOT 29 %V 47 chi2 P A A A NC NC SAR SAR B+ B+ BSAR B- 65 65 41 88 24 82 88 82 24 41 17 47 67 67 50 83 33 50 100 100 17 50 50 50 55 64 64 77 32 77 91 82 9 64 9 50 60 64 53 82 29 76 91 84 15 53 18 49 89 76 47 27 42 78 80 87 38 27 47 49 9,87 .001 DER vs PP+1PS chi2 12,42 p <.001 28,00 <.001 5,68 <.01 6,67 <.01 11,07 <.001 Questo fenomeno non si verifica con i dissociati-meglio-verbi (DMV) e i non dissociati (ND): essi, infatti, sembrano svolgere i due compiti con la stessa accuratezza per quello che riguarda gli item verbali (54% alla denominazione e 47% al RNV-CF; p > .05). Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai nomi. Questo effetto facilitatorio del test RNV-CF è completamente ribaltato con i nomi: infatti, i DMN hanno delle prestazioni con questa classe grammaticale peggiori al RNV-CF rispetto al test di denominazione su figura (Figura 15). 193 La differenza è, però, un po’ meno marcata rispetto a quella che caratterizza le prestazioni con i verbi: in media, i DMN fanno correttamente il 76% degli item nominali alla denominazione, mentre hanno una percentuale di risposte corrette del 60% al RNV-CF (t test = 2,17; p = .05). Studio per casi singoli. Osservando in modo comparato la prestazione di ciascun paziente afasico partecipante allo studio (Tabella 25), si nota immediatamente che, dei 10 soggetti risultati dissociati-meglio-nomi al test di denominazione di figure, soltanto due conservano la dissociazione al test RNV- Figura 15: percentuali di risposte corrette dei dissociati-meglio-nomi (DMN) al compito di denominazione e al test RNV-CF. 194 CF; in questo test infatti, 6 DMN non sono più dissociati, mentre due altri pazienti DMN addirittura risultano dissociati-meglio-verbi! Un altro aspetto molto interessante della prestazione al RNV-CF dei DMN è che i due fenomeni evidenziati dai dati aggregati (il miglioramento ai verbi e il peggioramento ai nomi) si manifestano con chiarezza anche nell’osservazione di ogni singolo paziente. In Tabella 24 sono riassunte le prestazioni ai due test di tutti i 13 soggetti che hanno svolto entrambi i compiti: come si può vedere da essa, i pazienti 1, 5, 12, 16 e 18 mostrano proprio una prestazione migliore ai verbi del test RNV-CF rispetto ai verbi del test di denominazione su figura e viceversa una prestazione peggiore ai nomi del test RNV-CF rispetto ai nomi del test di denominazione su figura. In tre casi (5, 12 e 18), questi due fenomeni fanno si che i soggetti non siano più dissociati, mentre in due casi (1 e 16) addirittura ribaltano la dissociazione, con l’effetto di rendere DMV due soggetti che erano DMN al test di denominazione di figure. Proseguendo nell’analisi dei profili dei singoli pazienti, notiamo che altri 4 soggetti (i numeri 4, 9, 15 e 17) mostrano una prestazione migliore ai verbi del RNV-CF rispetto ai verbi del test di denominazione, ma non una prestazione peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto a quelli del test di denominazione su figura: anche qui, in tre casi (4, 9 e 15) il miglioramento ai verbi fa sì che i pazienti non siano più dissociati, mentre in un caso (17) esso non è sufficiente a portare la percentuale di verbi corretti al livello di quella dei nomi (il soggetto resta quindi dissociato-meglio-nomi). 195 Tabella 24: prestazione dei soggetti ai nomi e ai verbi del test di denominazione a confronto con le prestazioni degli stessi soggetti ai nomi e ai verbi del test RNV-CF (N° = numero del paziente; Diss Den = tipo di dissociazione al test di denominazione su figura; Den = prestazioni al test di denominazione si figura; RNV-CF = prestazioni al test di Recupero di Nomi e Verbi in un compito di Completamento di Frasi). NOMI N° 1 5 12 16 18 4 9 15 17 3 22 13 25 Diss Den N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V V>N N=V N=V Den 84 78 86 60 88 82 78 82 46 78 18 54 64 RNV-CF 60 29 64 15 53 76 91 84 53 82 29 18 49 chi2 6,86 23,06 6,00 19,67 13,99 0,59 3,06 0,10 0,51 0,26 1,58 13,35 2,20 p <.01 <.001 .01 <.001 <.001 n.s n.s n.s n.s n.s n.s <.001 n.s Den 44 32 48 16 38 46 58 46 4 28 44 42 50 VERBI RNV-CF chi2 21,05 89 1,06 42 7,56 76 5,79 38 0,73 47 10,06 78 5,31 80 17,28 87 9,68 27 0,02 27 0,07 47 0,79 47 0,01 49 p <.001 n.s. <.01 .01 n.s. .001 .01 <.001 <.005 n.s n.s n.s n.s Dei 10 dissociati-meglio-nomi alla denominazione, un paziente soltanto (il numero 3) non si “adegua” all’andamento generale: egli presenta delle percentuali di risposte corrette quasi identiche a quelle ottenute al compito di denominazione, sia con i verbi che con i nomi. Riassumendo, sembra quindi che 9 dei 10 pazienti afasici che mostravano un deficit selettivo dei verbi al compito di denominazione manifestino, al test RNVCF, un netto miglioramento della prestazione con i verbi e, nella maggioranza dei casi, un peggioramento della prestazione con i nomi. Al contrario, un paziente afasico DMN alla denominazione (il numero 3) ha delle prestazioni ai due test del tutto confrontabili. C’è una nota importante da fare a proposito del comportamento al RNV-CF dei 10 DMN: noi ci aspettavamo che un elemento fondamentale nel determinare il comportamento dei pazienti a questo test, fosse il fatto che l’effetto di classe grammaticale restasse oppure no significativo anche dopo la correzione dei 196 punteggi per immaginabilità. Infatti, questo elemento distingueva, secondo noi (ma non solo secondo noi, vedi Luzzatti et al., 2002), i dissociati “forti” da quelli “deboli”, quelli cioè per cui non era solo la classe grammaticale, ma anche (e, forse, soprattutto) l’immaginabilità a determinare la diversa prestazione ai nomi e ai verbi. Questo non è accaduto! Infatti, la presenza di una prestazione migliore ai verbi del nuovo test è trasversale ai due gruppi, così come la caduta della percentuale di risposte corrette ai nomi. Passiamo ora ad analizzare la prestazione dell’unico DMV (il numero 22) che faceva parte del nostro campione. Al test RNV-CF, egli si comporta nuovamente meglio con i verbi che con i nomi in modo piuttosto evidente anche se non statisticamente significativo (47% contro 29%; p = .08). La mancata significatività statistica (sottolineo, però, che rimane un chiaro trend) è da attribuirsi ad una percentuale di risposte corrette ai nomi leggermente più alta, trascinata dalla notevole prestazione ai nomi della categoria 1PS (ben 59% di risposte corrette), cioè a quei nomi la cui forma fonologica è identica alla prima persona singolare del verbo corrispondente: come vedremo in discussione, questo indica una strategia risolutiva di tipo morfologico, che ha successo solo con i nomi più facili da questo punto di vista (gli 1PS, appunto). La prestazione al RNV-CF dei due pazienti non dissociati al compito di denominazione non è omogenea: un soggetto (il numero 25) presenta una prestazione del tutto confrontabile con quella ottenuta denominando le figure (resta, quindi, non dissociato), mentre un altro (il numero 13) presenta una percentuale di risposte corrette ai nomi molto più bassa rispetto al compito di denominazione di figure: ciò lo rende in questo test dissociato-meglio-verbi. 197 Anche in questo caso, c’è il sospetto che la scadente prestazione ai nomi consegua ad un tentativo da parte del paziente di compensare il proprio deficit lessicale con una strategia di risoluzione fondata sull’applicazione di routines morfologiche. In particolare, sembra che il paziente ipergeneralizzi il paradigma cadere/caduta con una conseguente prestazione buona a questi item (i nomi PP), ma scadente agli altri (i nomi DER e 1PS). 5. DISCUSSIONE Come possiamo spiegare questo quadro? Che cosa ci dicono questi risultati a proposito della dissociazione nomi-verbi presente nel nostro gruppo di 13 pazienti afasici? Come abbiamo visto sopra, i 10 pazienti che mostravano una dissociazionemeglio-nomi al test di denominazione di figure si sono divisi in tre gruppi: 1. due soggetti sono ancora dissociati-meglio-nomi al test RNV-CF. 2. sei soggetti non mostrano più alcuna dissociazione in questo test. 3. due soggetti mostrano addirittura una dissociazione opposta, a favore dei verbi. Inoltre, il dissociato-meglio-verbi al test di denominazione (il numero 22) non mostra più anch’esso alcuna dissociazione al test RNV-CF. Potremmo, quindi, dire che: 198 1. i due pazienti che risultano DMN ad entrambi i test mostrano un effetto di classe grammaticale molto forte, indipendente dal fattore immaginabilità e dall’utilizzo di un contesto frasale di sostegno. 2. sei pazienti mostrano, invece, un effetto di classe grammaticale prevalentemente legato all’effetto di immaginabilità tanto che, quando essa è bilanciata tra nomi e verbi, non dissociano più; a questo effetto và aggiunto quello legato alla presenza di una struttura sintattica di sostegno e di un nome semanticamente, lessicalmente e morfologicamente relato al verbo target che potrebbe avere aiutato il recupero lessicale, quello dei verbi in particolare. 3. due pazienti sembrano così sensibili alle modifiche introdotte nel compito RNV-CF rispetto al test di denominazione (immaginabilità bilanciata e contesto frasale) che non solo non mostrano più una dissociazione-meglio-nomi, ma addirittura ne rivelano una opposta (meglio-verbi): l’immaginabilità bilanciata e la presenza del nome relato hanno permesso un tale miglioramento del recupero lessicale dei verbi che esso è diventato migliore del recupero lessicale dei nomi. 4. il paziente dissociato-meglio-verbi sembra ottenere grande beneficio dalla presenza del verbo relato: esso gli consente, almeno in alcuni casi, di utilizzare una strategia morfologica di risoluzione del compito che permette un miglioramento sensibile del recupero lessicale dei nomi (soprattutto dei nomi 1PS, quelli più trasparenti morfologicamente) il quale a sua volta fa scomparire la dissociazione. 199 199 Tabella 25: confronto, paziente per paziente, delle prestazioni al test di denominazione su figura e al test RNV-CF. DENOMINAZIONE DI FIGURE Risultati Variabili lessicali Freq Imm %N N° Af Art Nat 22 A 20 16 13 SR 72 36 25 B- 80 48 1 A 84 84 16 B+ 52 68 5 NC 80 76 12 A 84 88 18 A 88 88 4 SR 88 76 9 SR 92 64 15 B+ 100 68 17 B- 52 40 3 NC 84 72 Art-Nat Art>Nat Art>Nat Art>Nat Art>Nat RNV-CF TOT %V 18 44 Diss V>N Wald p Wald 5,18 <.05 10,16 .001 5,2 <.05 54 64 42 50 N=V N=V 84 60 78 86 88 82 78 82 46 78 44 16 32 48 38 46 58 46 4 28 N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V 21,27 20,93 15,2 12,32 11,36 14,26 9,51 17,17 14,4 16,09 An. bvariata N-V + Imm p Wald <.001 0,13 <.001 0,25 <.001 4,78 <.001 4,01 .001 11,71 <.001 1,27* <.005 0,55 <.001 0,28 <.001 3,05* <.001 4,05 p n.s. n.s. <.05 <.05 .001 n.s. n.s. n.s. n.s. <.05 Risultati Analisi univariata N-V DER vs 1PS+PP %N 1PS 59 PP DER TOT 33 5 29 %V 47 Diss N=V chi2 p 17 47 50 50 9 50 18 49 47 49 V>N 11,07 <.001 N=V 65 24 24 65 41 82 88 82 41 88 67 55 17 9 33 32 67 64 50 64 50 77 100 91 100 82 50 64 83 77 60 15 29 64 53 76 91 84 53 82 89 38 42 76 47 78 80 87 27 27 V>N 9,87 .001 V>N 5,68 <.01 N=V N=V N=V N=V N=V N=V N>V 6,67 <.01 N>V 28,00 <.001 chi2 12,42 Legenda: N° = numero del paziente; ; Af = tipo di afasia; Diss = superiorità dei verbi o dei nomi; Art-Nat = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi di manufatti; A = afasia amnestica; B- = afasia di Broca senza agrammatismo; B+ = afasia di Broca con agrammatismo; W = afasia di Wernicke; SAR = sindrome afasica residua; NC = afasia non classificabile; %N = percentuale di nomi corretti; %V = percentuale di verbi corretti; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald; 1PS = nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbo corrispondente; PP = nomi con forma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi derivati dal verbo per aggiunta di un suffisso derivazionale. 200 p <.001 In questa interpretazione iniziale, però, l’azione dei due fattori che ci proponevamo di studiare col test RNV-CF (l’immaginabilità e il contesto frasale) è ancora confusa: i due effetti si intersecano e si sovrappongono non permettendoci di coglierli entrambi con chiarezza. Vogliamo provare a distinguerli meglio. Il ruolo dell’immaginabilità. Il fatto che molti soggetti con dissociazione tra nomi e verbi al compito di denominazione di figure non mostrino più questo fenomeno al test RNV-CF potrebbe essere interpretato come prova del fatto che le prestazioni al test di denominazione di figure conseguivano non ad un effetto di classe grammaticale, ma al diverso gradiente di immaginabilità: di conseguenza, in una prova dove le due categorie grammaticali sono perfettamente bilanciate per questo aspetto, non vi sarebbe ragione di aspettarsi che la dissociazione sia ancora presente. Contro questa interpretazione vanno, però, due elementi. Innanzitutto, il test RNV-CF è composto da nomi la cui immaginabilità media (4,30) è inferiore a quella dei nomi che fanno parte del test di denominazione e da verbi la cui immaginabilità media è invece quasi uguale a quella dei verbi della prova di denominazione (4,52 contro 4,58): da ciò discende che, se fosse solo il fattore immaginabilità a creare la dissociazione in denominazione, dovremmo aspettarci una prestazione peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test di denominazione, ma una prestazione ai verbi del RNV-CF confrontabile con quella ottenuta dai pazienti ai verbi della prova di denominazione di figure. Al contrario, ciò che si verifica è si il peggioramento ai nomi, ma anche un netto miglioramento ai verbi: evidentemente, questo ultimo fenomeno non può essere spiegato riferendosi al fattore immaginabilità. 201 Secondariamente, ci sono alcuni pazienti per cui, al test di denominazione, l’effetto di classe grammaticale non è più significativo se i dati vengono corretti per immaginabilità: ciò significa che in loro l’effetto di immaginabilità incide in modo cospicuo nel determinare la dissociazione nomi-verbi. Come è evidente, da questi soggetti, e solo da loro, ci saremmo aspettati la riduzione dell’effetto di classe grammaticale al compito RNV-CF, ma così non è andata: infatti, non dissociano al nuovo test anche pazienti che ritenevamo avere un disturbo cognitivo per i verbi indipendente del fattore immaginabilità (il cui effetto di classe grammaticale, cioè, restava significativo anche dopo la correzione dei dati per immaginabilità), mentre, viceversa, nel RNV-CF continua ad avere una prestazione migliore ai nomi un paziente che, al compito di denominazione, sembrava subire un grande effetto di immaginabilità. Sembra, quindi, che il numero ridotto di dissociati-meglio-nomi al test RNVCF sia solo in parte spiegabile con il bilanciamento dell’immaginabilità. Il ruolo del contesto frasale e del verbo/nome relato. Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, se potevamo aspettarci da parte dei DMN una percentuale minore di risposte corrette ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test di denominazione per via della minore immaginabilità, ci ha piuttosto sorpreso il miglioramento della prestazione dei DMN ai verbi. Ricordo ancora, infatti, che questi ultimi non hanno nel test RNV-CF un’immaginabilità diversa rispetto al test di denominazione: ci deve quindi essere qualche caratteristica del test RNV-CF, diversa dall’immaginabilità, che ha favorito il miglioramento ai verbi da parte dei DMN. Questa caratteristica potrebbe essere la struttura del compito. 202 Il test RNV-CF, infatti, presuppone che sia fornito dall’esaminatore al paziente afasico un nome relato al verbo target, sia semanticamente che morfologicamente, (“Dalla finestra si vede la pioggia; dalla finestra si vede …”) ed inoltre un contesto frasale, sia nella frase di esempio che l’esaminatore legge (“Dalla finestra si vede la pioggia”), sia nella frase da completare (“Dalla finestra si vede la …”). Queste due caratteristiche del test RNV-CF sembrano favorire una prestazione migliore ai verbi: in che modo? Io vedo almeno tre possibilità, a proposito delle quali cercherò di dimostrare che una è molto più probabile ed economica delle altre. Innanzitutto, come avevamo ipotizzato a pagina 166 e seguenti, i pazienti potrebbero cercare di risolvere il compito per via morfologica: in questo caso, prenderebbero il nome, ne ricaverebbero la radice e ci aggiungerebbero il suffisso verbale. Se così fosse, è chiaro che il nome relato fornito nella prima frasestimolo permetterebbe il miglioramento della prestazione ai verbi che abbiamo osservato. L’ipotesi è, però, piuttosto improbabile per due ragioni, una teorica e una sperimentale: 1. consideriamo, infatti, la non-trasparenza del sistema morfologico italiano: il procedimento ipotizzato è piuttosto dispendioso e necessita di capacità morfologiche molto fini, che i pazienti afasici spesso non hanno. Certo, esistono degli studi che dimostrano delle notevoli capacità residue di applicazione di regole morfologiche, soprattutto flessive, in pazienti agrammatici (Luzzatti, De Bleser, 1996), ma la 203 morfologia derivazionale sembra essere molto più complessa di quella flessiva o, se non altro, meno predicibile. 2. La ragione sperimentale per cui questa ipotesi è improbabile è la seguente: se i pazienti avessero usato una strategia simile a quella ipotizzata, avremmo dovuto ragionevolmente aspettarci una prestazione migliore con i verbi che hanno una relazione morfologica più semplice e più trasparente col nome corrispondente (quelli del gruppo 1PS e PP). Questo non si verifica in nessuno dei 10 DMN! La seconda possibilità è che l’attivazione del nome corrispondente, causata dall’ascolto (e/o lettura) della frase stimolo, faciliti l’accesso lessicale al verbo target: il nome letto dall’esaminatore è, infatti, semanticamente (ma anche morfologicamente, lessicalmente e, molto spesso, fonologicamente) relato al verbo target ed è quindi ragionevole che, in un sistema a rete come quello ipotizzato da tutti i modelli lessicali più recenti, incluso quello di Levelt et al. (1999), la sua attivazione si diffonda ai nodi vicini, tra cui c’è molto probabilmente il verbo target. Se fosse così, però, dovremmo notare un effetto simmetrico nel passaggio dal verbo al nome: l’ascolto del verbo relato pre-attiva il nome target, che diventa più semplice da recuperare, con un conseguente miglioramento della prestazione ai nomi nel RNV-CF rispetto ai nomi nel compito di denominazione. Come abbiamo già descritto, però, ai nomi del test RNV-CF non si hanno prestazioni migliori rispetto ai nomi del test di denominazione né da parte dei DMN né da parte dell’unico DMV. 204 L’ultima ipotesi è quella per cui la struttura frasale e l’ascolto del nome corrispondente fornisca al paziente afasico una facilitazione nel recupero della struttura argomentale del verbo, un danno della quale potrebbe essere all’origine della bassa prestazione ai verbi nel compito di denominazione. E’ noto, infatti, che i nomi derivati da un verbo (come quelli presenti nel RNVCF) conservino la struttura argomentale del verbo stesso, anche se, come dicevamo nel capitolo 1, non sono obbligati a realizzarla: l’ascolto del nome, per di più in un contesto frasale, potrebbe quindi fornire al paziente quelle informazioni che i suoi lemmi verbali non hanno più, o possiedono solo parzialmente. La struttura frasale, fornita dalla frase da completare, potrebbe poi ulteriormente facilitare l’inserimento del verbo. In questo quadro, diventa spiegabile anche il fatto che l’ascolto del verbo relato non sia, invece, facilitatorio nella produzione del nome. La struttura argomentale, infatti, non è così indispensabile per recuperare i nomi: quand’anche (come in questo test) essi ne posseggano una, non è strettamente necessario che essa si dispieghi nella struttura sintattica della frase, come invece sono tenute a fare le griglie tematiche dei verbi (vedi capitolo 1). Questa ipotesi rende conto anche di un altro dato importante, quello per cui soltanto i pazienti che sono risultati DMN al test di denominazione di figure mostrano prestazioni peggiori ai verbi di questo test rispetto ai verbi del test RNV-CF; infatti, i pazienti DMV e non dissociati, non avendo un deficit selettivo per i verbi, paiono conoscere già la struttura argomentale dei verbi che devono produrre e non hanno quindi bisogno di recuperarla dal nome relato ascoltato nella frase stimolo. 205 Nel complesso, sembra, dunque, che le nostre previsioni siano state rispettate: nel primo paragrafo di questo capitolo, infatti, avevamo detto che l’immaginabilità bilanciata tra nomi e verbi e il contesto frasale in cui i soggetti dovevano inserire la parola-target avrebbero avuto un effetto nelle prestazioni dei nostri pazienti. Come abbiamo visto, così è stato: con l’immaginabilità bilanciata molti soggetti non hanno più manifestato nel test RNV-CF la dissociazione-meglionomi che li caratterizzava nel test di denominazione di figure; inoltre, l’effetto facilitatorio del nome relato e del contesto frasale in cui i soggetti dovevano inserire la parola-target ha favorito un generale miglioramento del recupero lessicale dei verbi da parte dei DMN. Questi due effetti, agendo in modo combinato, hanno fatto sì che alcuni soggetti, dissociati-meglio-nomi al test di denominazione di figure, non risultassero più dissociati al test RNV-CF o addirittura mostrassero in questa prova una dissociazione-meglio-verbi. L’interpretazione del deficit dei pazienti. Sulla base di queste considerazioni, possiamo tentare un’interpretazione del deficit funzionale dei 13 pazienti che, nel nostro studio, sono stati sottoposti sia al test di denominazione di figure che al test RNV-CF. I 9 pazienti DMN che migliorano la prestazione ai verbi nel RNV-CF sembrano mostrare un deficit a livello del lemma che colpisce selettivamente i verbi ed in particolar modo la loro struttura argomentale. Inoltre, sono sensibili all’immaginabilità degli item (come suggeriscono i dati di Luzzatti at al., 2002, e i 206 nostri dati sul compito di denominazione, i due aspetti del deficit potrebbero essere legati). Questi due elementi fanno sì che questi pazienti crollino ai nomi nel RNV-CF a causa della loro bassa immaginabilità (e forse a causa del fatto che, essendo nomi derivati da verbi, possiedono anch’essa una griglia tematica) e che invece migliorino la loro prestazione ai verbi grazie all’aiuto che l’ascolto del nome corrispondente dà loro nel recupero della struttura argomentale e all’effetto facilitatorio della struttura frasale in cui il verbo target deve essere inserito. Nel nostro campione è presente anche un paziente DMN in denominazione di figure (il numero 3) che, però, non mostra né il miglioramento ai verbi né il peggioramento ai nomi: come interpretare il suo deficit? Nei fatti, la sua prestazione resta del tutto indifferente al contesto frasale e alla presenza del nome deverbale: ciò potrebbe indicare che le informazioni da essi fornite sono già presenti nel suo sistema cognitivo, che non sarebbe quindi leso nella griglia argomentale a livello del lemma, ma ad un livello più periferico. Egli, però, manifestava al test di denominazione un forte effetto di immaginabilità che non può essere scomparso all’improvviso: ciò fa prevedere quasi con certezza un peggioramento ai nomi nel RNV-CF in quanto essi sono meno immaginabili di quelli compresi nel test di denominazione su figura. Questo peggioramento, come abbiamo visto, non si è verificato, lasciando pensare che qualcosa nel test RNV-CF abbia facilitato in questo paziente il recupero dei nomi, compensando così l’effetto peggiorativo della bassa immaginabilità. 207 Da ultimo, i tre pazienti non dissociati-meglio-nomi (13, 22 e 25) non manifestano nessun miglioramento ai verbi: come abbiamo già anticipato, questo è poco sorprendente dato che ciò che il contesto frasale e il nome corrispondente possono fornire loro (la struttura argomentale), essi lo possiedono già. Per ciò che riguarda i nomi, due dei tre soggetti (il numero 13 e il numero 22) manifestano un effetto di tipo morfologico (entrambi hanno una prestazione piuttosto scadente ai nomi DER, il paziente numero 13 va molto male anche con i nomi 1PS): questo indica probabilmente l’uso di una strategia di risoluzione del compito basata sul tentativo di generare il nome a partire dal verbo tramite l’aggiunta di un suffisso di derivazione (questa strategia è chiaramente inefficace in assenza di un’adeguata conoscenza lessicale della forma nominale corretta: ad esempio, da cacciare posso derivare non solo caccia, ma anche cacciagione, cacciamento, ecc.). Nel complesso, non si vedono cambiamenti evidenti nelle prestazioni dei pazienti, al di fuori di quelle create dall’effetto morfologico di cui abbiamo appena parlato. In generale, possiamo quindi dire che l’utilizzo di un contesto frasale e la presenza di un elemento della classe grammaticale opposta corrispondente al target non è stato di alcun aiuto per questi pazienti: le informazioni di tipo sintattico-lessicale e sintattico puro che questi elementi portavano con sé evidentemente non sono serviti loro per migliorare la produzione dei nomi. Ciò indica con tutta probabilità che il loro disturbo è presente ad un livello più periferico rispetto al livello del lemma che, invece, sembra proprio essere il locus della lesione che ha colpito i 9 pazienti DMN descritti in precedenza. 208 6. CONCLUSIONI I dati raccolti dalla somministrazione del test di denominazione su figura e del test RNV-CF ad un gruppo di 13 afasici, sembra indicare la presenza di due gruppi ben distinti per il livello a cui è possibile porre il danno funzionale neurolinguistico. Un primo gruppo di pazienti afasici risulta DMN al compito di denominazione, mentre nel RNV-CF mostra un miglioramento della prestazione con i verbi e un peggioramento con i nomi. La migliore prestazione ai verbi nel RNV-CF è stata attribuita ad una facilitazione nel recupero della griglia tematica dovuta alla presenza del nome derivato dal verbo e di una struttura frasale in cui inserire il verbo target. La peggior prestazione ai nomi sembra, invece, essere legata alla più bassa immaginabilità che questi ultimi hanno nel test RNV-CF e al fatto che i nomi presenti in questo compito sono derivati da un verbo, e dunque possiedono anch’essi una griglia tematica. Il quadro complessivo sembra dunque condurre ad un deficit a livello del lemma, che colpisce in particolar modo la struttura argomentale e che, di conseguenza, trae notevole giovamento dalla presenza di una struttura frasale o dalla presenza di elementi che aiutano il recupero dei ruoli tematici legati ad ogni verbo. Un altro gruppo di pazienti, che sono risultati al compito di denominazione su figura dissociati-meglio-verbi o non dissociati, non ha tratto alcun vantaggio dal contesto frasale in cui deve essere effettuato il recupero lessicale nel RNV-CF. 209 Inoltre, la prestazione ai nomi è stata confrontabile nei due test, nonostante gli item nominali del RNV-CF fossero meno immaginabili di quelli presenti nella batteria di denominazione e possedessero una struttura argomentale: anche questo dato è indice di una bassa sensibilità agli elementi di tipo lessicale-sintattico, come la struttura argomentale, appunto. Nel complesso, sembra quindi che il deficit funzionale di questi pazienti sia da collocare ad un livello più periferico, di tipo lessicale-fonologico, paragonabile al livello del lessema di Levelt, Roelofs e Meyer (1997). A questi due gruppi di pazienti, si aggiunge un soggetto (il numero 3), il cui deficit è difficilmente interpretabile in uno dei quadri, essendo caratterizzato da elementi tipici del deficit lessicale-fonologico (i verbi non migliorano al RNVCF), ma anche da caratteristiche di origine non chiara (qualche elemento del test RNV-CF facilita il recupero dei nomi, in modo da compensare l’effetto negativo della ridotta immaginabilità). 210 5 DISCUSSIONE GENERALE Negli ultimi vent’anni, l’interesse per le dissociazioni tra classi lessicali in afasia è notevolmente aumentato: molti sono infatti i contributi che si sono occupati di questi fenomeni e, soprattutto, delle loro implicazioni sulla struttura del lessico mentale. In questo quadro, la dissociazione senz’altro più studiata è stata quella tra nomi e verbi. Tale dissociazione ha posto notevoli problemi di interpretazione: diversi autori hanno proposto punti di vista anche molto differenti tra loro e la letteratura è tutt’altro che concorde nell’indicare il locus funzionale della lesione che causa la dissociazione. Non solo, ma anche alcuni dati sperimentali, che fino a pochi anni fa erano ritenuti certi, sono stati messi in dubbio negli studi più recenti. Il nostro lavoro si pone in questa cornice con l’obiettivo di dare un contributo sperimentale al dibattito in corso, dopo avere riflettuto sulle basi linguistiche della distinzione nomi-verbi e sulla letteratura neuropsicologica che si è interessata a questo argomento. In particolare, ci proponevamo di capire meglio il livello funzionale a cui interviene il deficit che sta all’origine della dissociazione nomi-verbi. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo condotto due indagini sperimentali di diverso tipo: dapprima, abbiamo riconsiderato da un punto di vista qualitativo i 211 risultati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002), in secondo luogo abbiamo sottoposto 39 pazienti afasici ad un test di denominazione e 13 di questi 39 soggetti ad un test di completamento di frasi che abbiamo chiamato RNV-CF. Il primo lavoro è consistito nella ripresa dei protocolli ottenuti sottoponendo 26 pazienti afasici dissociati ad un test di denominazione di azioni e oggetti: abbiamo classificato qualitativamente gli errori di questi pazienti e abbiamo studiato i “profili d’errore” di ciascun soggetto così ottenuti. I risultati indicano l’esistenza di due profili d’errore principali, uno dominato dagli scambi sintagmatici (nomi al posto di verbi o verbi al posto di nomi) e l’altro dominato dagli scambi paradigmatici (nomi per nomi o verbi per verbi) e dalle risposte nulle. Le caratteristiche di questi profili sembrano indicare che il locus funzionale del deficit all’origine della dissociazione non sia sempre uguale: infatti, mentre i profili caratterizzati dagli scambi sintagmatici fanno pensare ad un deficit a livello del lemma (vedi Levelt et al., 1999), i profili dominati dalle parafasie e dalle risposte nulle lasciano pensare che il deficit intervenga a livello del lessema (Levelt et al., 1999). Inoltre, i dati emersi da questa analisi indicano che il danno a livello del lessema caratterizza i dissociati-meglio-verbi, mentre quello a livello del lemma sembra essere più frequente nei dissociati-meglio-nomi. A proposito di questi ultimi, ci saremmo aspettati di rilevare delle differenze tra i DMN agrammatici e i DMN con afasia di Wernicke: così non è stato, ad indicare che il deficit che causa la dissociazione è trasversale a queste due sindromi afasiche e si manifesta in entrambe con modalità simili. 212 La seconda parte del nostro lavoro sperimentale è invece consistita nella somministrazione di due nuovi test da noi costruiti (un test di denominazione su figura e il test RNV-CF) ad un campione di 39 pazienti afasici. Anche i nuovi dati ottenuti in questo modo portano nella direzione che aveva indicato l’analisi qualitativa dei protocolli e, in generale, la riconsiderazione dei dati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002). Riassumendo, questa “direzione” si costituisce di due fondamentali affermazioni: 1. pur essendo possibile che l’effetto di immaginabilità o un disturbo semantico sulla falsariga di quello ipotizzato da Bird et al. (2000) causino, in qualche paziente, un’apparente dissociazione nomi-verbi, il locus funzionale del deficit che, nella maggioranza dei soggetti, provoca tale dissociazione va posto a livello lessicale. 2. il deficit lessicale all’origine della dissociazione può poi, a sua volta, localizzarsi a livello del lemma, cioè ad un livello lessicale contenente informazioni di natura sintattica (più spesso colpito nei DMN), oppure ad un livello lessicale più periferico contenente informazioni principalmente di tipo fonologico (più spesso colpito nei DMV). Mi pare che queste due affermazioni abbiano alcuni interessanti risvolti sia in campo clinico che in campo cognitivo, a proposito dei modelli neurolinguistici del lessico. Sul primo versante, la grande eterogeneità dei deficit che stanno all’origine della dissociazione nomi-verbi invoca la necessità di un’attività diagnostica molto 213 precisa, che non si limiti ad indagare la prestazione dei pazienti ad un test di denominazione su figura di oggetti e azioni, ma che approfondisca il locus del deficit funzionale a monte del problema. In questa prospettiva, possono essere molto utili prove che testino il recupero lessicale in contesti frasali (come il test RNV-CF) o che richiedano la produzione di nomi e verbi bilanciati almeno per immaginabilità e frequenza d’uso. In linea con tutto ciò, il trattamento riabilitativo dei deficit selettivi per classe grammaticale non può non tenere conto del livello a cui si colloca la lesione che ha creato la dissociazione: nel caso si accerti un danno a livello del lemma, la riabilitazione dovrebbe andare a insistere, oltre che sugli aspetti tradizionali del trattamento dei disturbi del lessico, su aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi quali la struttura argomentale dei verbi o il corretto utilizzo dei ruoli tematici. Da un punto di vista cognitivo, i nostri dato depongono nettamente a favore dell’esistenza di un livello lessicale in cui siano immagazzinate informazioni di tipo sintattico (il livello del lemma ipotizzato da Levelt, Roelofs e Meyer (1999). Si è molto dibattuto intorno a questo problema (Hillis, Caramazza, 1995; Levelt et al., 1999; Rapp, Caramazza, 2002) e alcuni autori hanno anche ipotizzato la non-necessità di tale livello, essendo possibile rappresentare la classe grammaticale degli item a livello di ogni singolo lessico mentale periferico (fonologico e ortografico, di entrata e di uscita). A questo proposito, i dati neuropsicologici che abbiamo ottenuto e commentato sembrano essere meglio inquadrabili in un modello lessicale che preveda un “livello del lemma” centrale, dove sia rappresentata in modo unitario e unico la classe grammaticale degli item, insieme ad altre informazioni che ad 214 essa sono legate (come appunto la griglia tematica o le regole di realizzazione degli argomenti). 215 6 APPENDICE Tabella 1: item e dati normativi della batteria di denominazione (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria; FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe; EA=età di acquisizione soggettiva; AN=accordo sul nome; IMM=immaginabilità; TIP=tipicità della figura). N° 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 ITEM cadere fiorire/sbocciare scoppiare dimagrire scivolare volare decollare salire Crescere/allungarsi affogare/annegare scendere affondare atterrare ridere sciare nuotare ruggire bussare marciare piangere brillare/luccicare/splendere camminare pattinare sanguinare starnutire sbadigliare fischiare sparare pregare soffiare legare/slegare V/N V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V CAT Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie T FREQ 62 0 9 9 14 17 1 35 44 1 44 2 1 41 0 0 0 0 4 24 1 18 0 1 0 1 3 9 41 9 40 LET 6 7 9 9 9 6 9 6 8 8 8 9 9 6 6 7 7 7 8 8 8 9 9 10 10 11 9 7 7 8 6 SIL 3 3 3 4 4 3 4 3 3 4 3 4 4 3 3 3 3 3 3 3 3 4 4 4 4 4 3 3 3 3 3 EA 1,75 3,55 3,75 5,90 2,85 2,85 6,00 2,85 3,20 4,30 2,55 5,05 5,85 2,26 4,40 3,85 4,15 3,40 5,45 1,80 4,80 2,11 4,50 4,10 2,90 3,50 3,75 4,20 4,50 2,35 3,55 AN 92% 92% 95% 95% 100% 91% 100% 97% 87% 100% 100% 95% 95% 100% 97% 100% 100% 95% 89% 100% 97% 97% 100% 92% 95% 95% 89% 92% 100% 100% 94% IMM 4,32 3,63 3,79 2,89 4,53 4,37 4,42 4,21 2,68 4,32 4,16 3,89 3,89 5,58 5,53 5,95 3,39 5,42 4,32 5,05 3,58 5,84 5,21 4,53 4,84 5,74 4,53 4,26 5,89 5,32 4,47 216 TIP 4,17 4,83 5,17 5,75 5,33 5,25 6,42 5,50 5,42 6,42 5,92 6,92 6,42 6,25 6,42 6,42 6,75 5,75 6,33 5,58 3,83 4,83 6,08 6,17 5,50 5,50 3,83 5,83 5,92 5,25 5,17 Tabella 1: continua. N° 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 ITEM pelare/sbucciare baciare leccare mordere/azzannare/morsicare versare scuotere/scrollare gonfiare/pompare lanciare spingere tagliare imbucare/impostare arrestare/ammanettare sollevare annaffiare raccogliere accarezzare fotografare guidare salutare candela clessidra fionda fisarmonica guanto imbuto manette elicottero pipa arpa coltello cravatta trattore chitarra stivale piramide cucchiaio giacca bottiglia camion scarpa chiesa divano antenna tavolo banana cammello canguro ciliegia V/N V V V V V V V V V V V V V V V V V V V N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N CAT T T T T T T T T T T T T T T T T T T T Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Art Nat Nat Nat Nat FREQ 0 1 0 0 22 0 7 22 13 39 6 9 3 0 39 0 8 14 111 0 0 0 0 0 0 0 1 1 2 2 2 2 3 3 4 7 9 11 12 17 34 36 56 59 0 0 0 0 LET 6 7 7 7 7 8 8 8 8 8 8 9 9 10 11 11 11 7 8 7 9 6 11 6 6 7 10 4 4 8 8 8 8 7 8 9 6 9 6 6 6 6 7 6 6 8 7 8 SIL 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3 4 4 4 4 4 5 5 3 4 3 3 2 5 2 3 3 5 2 2 3 3 3 3 3 4 3 2 3 2 2 2 3 3 3 3 3 3 3 EA 4,95 2,50 2,85 2,60 3,95 5,45 3,95 3,16 3,15 2,95 5,70 5,10 4,40 4,05 3,90 2,65 4,45 4,60 1,80 2,73 6,13 4,40 4,80 2,93 3,80 5,1 4,0 3,60 5,73 2,33 3,93 3,00 4,26 3,53 4,73 2,00 3,33 1,87 3,1 2,1 2,86 2,5 5,0 2,07 2,33 3,93 3,86 2,93 AN 97% 100% 97% 100% 100% 94% 97% 100% 100% 95% 89% 97% 92% 97% 100% 100% 92% 100% 92% 100 95 90 86 100 100 98 98 100 100 100 98 95 100 100 98 100 98 98 93 100 100 93 95 98 100 93 98 81 IMM 3,95 5,53 4,37 5,06 4,95 3,74 4,42 4,53 4,22 5,00 3,95 4,00 4,26 4,89 4,16 5,63 5,05 5,58 5,42 6,53 5,95 5,21 5,32 6,32 5,95 5,79 5,79 5,89 5,53 6,47 6,26 5,79 6,47 5,84 6,11 6,53 6,11 6,58 6,00 6,16 6,21 6,47 5,00 6,37 6,26 5,68 5,63 6,53 217 TIP 6,33 5,92 4,58 5,00 6,58 3,83 4,25 5,67 5,42 5,50 6,33 6,58 5,58 6,67 4,50 5,17 6,50 5,83 6,08 6,18 5,91 6,18 5,64 5,09 6,09 6,27 5,36 6,18 6,00 5,73 6,36 4,55 6,00 5,18 6,27 6,91 5,64 6,18 5,09 4,64 5,09 5,64 4,73 6,73 6,45 4,82 5,64 5,91 Tabella 1: continua. N° 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 ITEM fragola giraffa gufo rinoceronte scoiattolo zebra ananas elefante ippopotamo pavone pinguino pecora carota pappagallo zucca fungo peperone pomodoro maiale cavallo cane V/N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N CAT Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat Nat FREQ 0 0 0 0 0 0 1 1 1 1 1 3 4 4 5 6 6 7 15 43 59 LET 7 7 4 11 10 5 6 8 10 6 8 6 6 10 5 5 8 8 6 7 4 SIL 3 3 2 5 4 2 3 4 5 3 3 3 3 4 2 2 4 4 3 3 2 EA 2,53 2,87 4,06 4,60 2,93 3,60 4,47 2,67 4,00 4,47 3,27 2,80 2,93 3,53 4,80 2,93 4,33 2,66 2,53 2,60 1,87 AN 100 98 90 93 93 95 100 100 83 98 95 98 100 90 86 93 95 100 98 100 100 IMM 6,53 5,74 5,47 5,58 5,68 5,79 6,42 6,21 5,68 5,32 5,74 5,95 6,21 5,79 5,53 6,00 5,95 6,47 5,95 6,16 6,16 Tabella 2: item e dati normativi del test RNV-CF (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria; FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe; IMM=immaginabilità). N° 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 ITEM volo sbadiglio lancio starnuto abbraccio ballo scoppio canto saluto massaggio sparo crollo bacio arresto salto calcolo V/N N N N N N N N N N N N N N N N N CAT 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS 1PS FREQ 13 0 0 0 15 5 4 10 41 0 0 2 61 0 11 32 LET 4 9 6 8 9 5 7 5 6 9 5 6 5 7 5 7 SIL 2 3 2 3 3 2 2 2 3 3 2 2 2 3 2 3 IMM 4,76 5,29 3,81 5,38 5,95 5,76 4,24 4,67 4,62 5,14 4,05 4,19 5,95 3,00 4,05 2,52 218 TIP 6,18 6,36 6,18 6,45 6,45 6,64 6,64 6,00 4,73 5,55 5,45 5,00 6,64 5,91 6,36 5,91 5,73 6,00 5,36 5,36 5,09 Tabella 2: continua. N° 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 ITEM soffio pioggia bombardamento salvataggio costruzione evasione ululato camminata nascita potatura rasatura risata pattinaggio conversazione interrogazione giuramento ruggito preghiera scrittura partenza lettura esplosione raccolta pianto caduta applauso corsa morso neve/nevicata cadere crollare correre partire esplodere volare evadere scoppiare nascere sparare ridere pattinare conversare ruggire pregare soffiare sbadigliare starnutire V/N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N N V V V V V V V V V V V V V V V V V V CAT 1PS Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der Der PP PP PP PP PP PP Der/PP Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ia Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie Ie FREQ 0 25 3 0 34 4 1 0 34 0 0 4 0 10 12 8 0 12 11 15 64 3 19 1 5 10 8 5 14 62 8 29 207 7 17 0 9 94 9 41 0 1 0 41 9 1 0 LET 6 7 13 11 11 8 7 9 7 8 8 6 11 13 15 10 7 9 9 8 7 10 8 6 6 8 5 5 6 6 8 7 7 9 6 7 9 7 7 6 9 10 7 7 8 11 10 SIL 2 2 5 4 4 4 4 4 3 4 4 3 4 5 6 4 3 3 3 3 3 4 3 2 3 4 2 2 3 3 3 3 3 4 3 4 3 3 3 3 4 4 3 3 3 4 4 IMM 2,90 6,19 4,48 4,19 3,86 3,05 4,19 4,48 5,29 3,76 3,76 4,33 4,48 4,14 4,38 2,81 4,19 3,14 4,14 3,24 3,40 5,00 3,00 4,71 4,00 4,86 4,24 4,10 6,24 4,57 4,24 5,33 4,24 4,52 4,10 3,19 4,10 3,62 4,90 5,52 5,33 4,52 4,24 4,57 4,24 5,19 5,05 219 Tabella 2: continua. N° 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 ITEM ululare camminare piangere radere interrogare baciare applaudire mordere arrestare saltare calcolare scrivere leggere lanciare raccogliere bombardare salvare costruire abbracciare ballare cantare potare salutare massaggiare nevicare piovere giurare V/N V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V V CAT Ie Ie Ie T T T T T T T T T T T T T T T T T T T T T A A D Frq.Lip 0 18 24 3 15 1 2 0 9 22 11 420 263 22 39 0 22 39 17 17 11 7 111 0 4 10 22 LET 7 9 8 6 11 7 10 7 9 7 9 8 7 8 11 10 7 9 11 7 7 6 8 11 8 7 7 SYL 4 4 3 3 5 3 5 3 4 3 4 3 3 3 4 4 3 4 4 3 3 3 4 4 4 3 3 IMM 4,00 5,10 4,43 4,52 4,67 6,10 5,10 4,95 3,95 4,48 4,33 5,05 4,81 4,33 4,05 4,00 2,57 3,90 4,95 4,90 4,48 3,67 5,14 4,62 5,70 5,29 3,24 220 BIBLIOGRAFIA Alexander, M.P., Naeser, N.A., Palumbo, C.L. (1990). Broca’s area aphasias: aphasia after lesions including the frontal operculum. Neurology, 40, 353-362. Basso, A., Cubelli, R. (1996), La clinica dell’afasia. In Denes, G., Pizzamiglio, L. (a cura di) Manuale di neuropsicologia. Normalità e patologia dei processi cognitivi. Bologna: Zanichelli. Basso, A., Pizzamiglio, L. (1999). Recovery of cerebral functions. In Denes, G., Pizzamiglio, L. (a cura di) Handbook of Clinical and Experimental Neuropsychology. Hove: Psychology Press. Bates, E., Burani, C., D’Amico, S., Barca, L. (2001). Word reading and picture naming in Italian. Memory and Cognition, 29, 986-999. Baxter, D.M., Warrington, E.K. (1985). Category specific phonological dysgraphia. Neuropsicologia, 23, 653-666. Berndt, R.S., Mitchum, C.C., Haendiges, A.N., Sandson, J. (1997). Verb retrieval in aphasia. 1. Characterizing single word impairments. Brain and Language, 56, 68-106. Berndt, R.S., Mitchum, C.C., Haendiges, A.N., Sandson, J. (1997). Verb retrieval in aphasia. 2. Relationship to sentence processing. Brain and Language, 56, 107-137. 237 Berndt, R.S., Haendiges, A.N., Burton, M.W., Mitchum, C.C. (2002). Grammatical class and imageability in aphasic word production: their effects are indipendent. Journal of Neurolingusitics, 15, 353-371. Bird, H., Howard, D., Franklin, S. (2000). Why is a verb like an inanimate object? Grammatical category and semantic category deficits. Brain and Language, 72, 246-309. Bird, H., Howard, D., Franklin, S. (2001). Noun-verb differences? A question of semantics: a response to Shapiro and Caramazza. Brain and Language, 76, 213-222. Breedin, S.D., Saffran, E.M., Schwartz, M.F. (1998). Semantic factors in verb retrieval: an effect of complexity. Brain and Language, 63, 1-31. Burani, C., Barca, L., Arduino, L.S. (2002). Word naming times and psycholinguistic norms for Italian nouns. Behavior Research Methods Instruments and Computers, 34, 424-434. Cappa, S.F., Vallar, G. (1992). The role of the left and right hemispheres in recovery from aphasia. Aphasiology, 6, 359-372. Caramazza, A., Hillis, A. (1991). Lexical oragnization of nouns and verbs in the brain. Nature, 349, 788-790. Caramazza, A., Miozzo, M. (1997). The relation between syntactic and phonological knowledge in lexical access: evidence from the “tip-of-the-tongue” phenomenon. Cognition, 64, 309-343. Caramazza, A., Shelton, J. (1998). Domain-specific knowledge systems in the brain: the animate-inanimate distinction. Journal of cognitive neuroscience, 10, 134. Chao, L.L., Martin A. (2000). Representation of Manipulable Man-Made Objects in the Dorsal Stream. NeuroImage, 12, 478-484. 238 Chen, S., Bates, E. (1998). The dissociation between nouns and verbs in Broca’s and Wernicke’s aphasia: findings from Chinese. Aphasiology, 12, 5-36. Chiarello, C., Shears, C., Lund, K. (1999). Imageability and distributional tipicality measures of nouns and verbs in contemporary English. Behavior Research Methods, Instruments and Computers, 31, 603-637. Coltheart, M., Ingris, L., Cupples, L., Michie, P., Bates, A., Budd, B. (1998). A semantic subsystem specific to the storage of information about the visual attributes of animate and inanimate objects. Neurocase, 4, 353-370. Cook, V.J., Newson, M. (1996). La grammatica universale. Introduzione a Chomsky. Bologna: il Mulino. Cowey, A. (1985). Aspects of cortical organization related to selective attention and selective impairments of visual perception: a tutorial review. In Posner, M.I., Marin, O.S.M. (a cura di) Attention and Performance XI. Hillsdale, NJ: Erlbaum. Damasio, H., Grabowsky, T.J., Tranel, D., Ponto, L.L.B., Hichwa, R.D., Damasio, A.R. (2001). Neural correlates of naming actions and of naming spatial relations, Neuroimage, 13, 1053-1064. Dell’Acqua, R. ,Lotto, L., Job, R. (2000). Naming time and standardized norms for the italian PD/DPSS set of pictures: direct comparisons with American, English, French, and Spanish published databases. Behavior Research Methods Instruments and Computers, 32, 588-615. De Mauro, T., Mancini, F., Vedovelli, M., Voghera, M. (1993). Lessico di Frequenza dell’Italiano Parlato. Milano: ETAS Libri. De Renzi, E., Lucchelli F. (1988). Ideational apraxia. Brain, 111, 1173-1185. Druks, J. (2002). Verbs and nouns- a review of the literature. Journal of Neurolinguistics, 15, 289-315. 239 Druks, J., Masterson, J. (2000). An Object and Action Naming Battery. Hove: Psychological Press. Freud, S. (1891). Zur Auffassung Der Aphasien. Wien: Deuticke. (Trad. it., L’interpretazione delle afasie (1980). Como: Sugarco). Friedmann, N., Grodzinsky, Y. (1997). Tense and agreement in agrammatic production: pruning the syntactic tree. Brain and Language, 56, 397-425. Friedmann, N. (2000). Moving verbs in agrammatic production. In Bastiaanse, R., Grodzinsky, J. (a cura di), Grammatical Disorders in Aphasia: A Neurolinguistic Perspective. London: Whurr. Gainotti, G. (1996). Evoluzione del concetto di afasia. In Denes, G., Pizzamiglio, L. (a cura di) Manuale di neuropsicologia. Normalità e patologia dei processi cognitivi. Bologna: Zanichelli. Gardner, H. (1973). The contibution of operativity to naming capacity in aphasic patients. Neuropsychologia, 11, 213-220. Glosser, G., Donofrio, N. (2001). Difference between nouns and verbs after anterior temporal lobectomy. Neuropsichology, 15, 39-47. Goldstein, K. (1948). Language and language disturbances. New York: Grune and Stratton. Goodglass, H., Hyde, M.R., Blumstein, S.E. (1969). Frequency, picturability and availability of nouns in aphasia. Cortex, 5, 104-119. Goodglass, H., Kaplan, E. (1983). Boston Diagnostic Aphasia Examination (BDAE) (2nd ed.). Philadelphia: Lea and Febiger. Goodglass, H., Menn, L. (1985). Is agrammatism a unitary phenomenon? In Kean, M.L. (a cura di) Agrammatism. Orlando, FL: Academic Press Graffi, G. (1994). Le strutture del linguaggio. Sintassi. Bologna: il Mulino. 240 Grodzinsky, Y. (1995). A restrictive theory of agrammatic comprehension. Brain and Language, 50, 27-51. Hart, J., Gordon, B. (1992). Neural subsystems for object knowledge. Nature, 316, 439-440. Hart, J., Berndt, R.S., Caramazza, A. (1985). Category-specific naming deficit following cerebral infarction. Nature, 316, 439-440. Head, H. (1926). Aphasia and kindred disorders of speech (Vols. 1 and 2). London: Cambridge University Press. Hillis, A., Caramazza, A. (1995). Representation of grammatical knowledge in the brain. Journal of Cognitive Neuroscience, 7, 369-407. Hillis, A.E., Tuffiash, E., Wityk, R.J., Barker, P.B. (2002). Regions of neural dysfunction associated with impaired naming of actions and objects in acute stroke. Cognitive Neuropsychology, 19, 523-534. Huber, W., Poeck, K., Weniger, D., Willmes, K. (1983). Der Aachener Aphasie Test (AAT). Gottingen: Hogrefe. Ilmberger, J., Rau, S., Noachtar, S., Arnold, S., Winkler, P. (2002). Naming tools and animals: asymmetries observed during electrical cortical stimulation. Neuropsychologia, 40, 695-700. Jakobson, R. (1966). Saggi di linguistica generale. Milano. Kelly, M. (1992). Using sound to solve syntactic problems: the role of phonology in grammatical category assignments. Psychological review, 99, 349364. Làdavas, E., Umiltà, C. (1987). Neuropsicologia. Bologna: il Mulino. Laiacona, M., Barbarotto, R., Capitani, E. (1993). Perceptual and associative knowledge in category-specific impairment of semantic memory: a study of two cases. Cortex, 29, 727-740. 241 Lecours, A.R., Basso, A., Moraschini, S., Vanier, M. (1985). Anatomoclinical correlations of the aphasia as defined through Computerised Tomography: exceptions. Brain and Language, 26, 201-229. Levelt, W.J.M., Roelofs, A., Meyer, A.S. (1999). A theory of lexical access in speech production. Behavioral and Brain Sciences, 22, 1-75. Lichtheim, L. (1885). On aphasia. Brain, 7, 433-484. Lotto, L., Dell’Acqua, R., Job, R. (2000). Le figure PD/DPSS. Misure di accordo sul nome, tipicità, familiarità, età di acquisizione e tempi di denominazione per 266 figure. Giornale Italiano di Psicologia, in press. Lueck, C.J., Zeki, S., Friston, K.J., Deiber, M.P., Cope, P., Cunningham, V.J. (1989). The colour centre in the cerebral cortex of man. Nature, 340, 386-389. Luria, A.R. (1977). Come lavora il cervello. Introduzione alla neuropsicologia. Bologna: il Mulino. Luzzatti, C., De Bleser, R. (1996). Morphological processing in italian agrammatic speakers: eight experiments in lexical morphology. Brain and Language, 54, 26-74. Luzzatti, C., Raggi, R., Zonca, G., Pistarini, C., Contardi, A., Pinna, G.D. (2002). Verb-Noun double dissociation in aphasic lexical impairments: the role of word frequency and imageability. Brain and language, 81, 432-444. Lyons, J. (1978). Introduzione alla linguistica teorica, 439-491. Bari: Laterza Editori. McCarthy, R., Warrington, E.K. (1985). Category specificity in an agrammatic patient: the relative impairment of verb retireval and comprehension. Neuropsicologia, 23, 709-727. McCullagh, P., Nelder, J.A. (1983). Generalised Linear Models. London: Chapman & Hall. 242 Miceli, G., Silveri, M.C., Villa, G., Caramazza, A. (1984). On the basis for the agrammatic’s difficulty in producing main verbs. Cortex, 20, 207-240. Miceli, G., Silveri, M.C., Nocentini, U., Caramazza, A. (1988). Patterns of dissociation in comprehension and production of nouns and verbs. Aphasiology, 2, 351-358. Miceli, G., Laudanna, A., Burani, C., Capasso, R. (1996). Batteria per l’Analisi dei Deficit Afasici. Roma: IRCCS Santa Lucia. Mohr, J.P. (1976). Broca’s area and Broca’s aphasia. In Whitaker, H., Whitaker, H. (a cura di) Studies in Neurolinguistics. New York: Academical Press. Mohr, J.P., Pessin, M.S., Finkelstein, S., Funkelstein, H.H., Duncan, G.W., Davis, K.R. (1978). Broca’s aphasia: pathologic and clinical. Neurology, 28, 311324. Myerson, R., Goodglass, H. (1972). Transformational grammars of three agrammatic patients. Language and Speech, 15, 40-50. Perani, D., Cappa, S., Schnur, T., Tettamanti, M., Collina, S., Rosa, M.M., Fazio, F. (1999). The neural correlates of verb and noun processing. Brain, 122, 2337-2344. Pugh, K.R., Shaywitz, B.A., Shaywitz, S.E., Constable, R.T., Fulbright, R.K., Sudlarski, P., Mencl, E., Lacadie, C., Shankweiler, D.P., Katz, L., Fletcher, J., Marchione, K., Gore, J.C. (1997). Hemispheric differences in grammatical class: an fMRI investigation. Non pubblicato. Rapp, B., Caramazza, A. (2002). Selective difficulties with spoken nouns and written verbs: a single case study. Journal of Neurolinguistics, 15, 373-402. Saffran, E.M. (1982). Neuropsychological approaches to the study of language. British Journal of Psychology, 73, 317-337. 243 Saffran, E.M., Schwartz, M.F., Marin, O. (1980). Evidence from aphasia: isolating the components of a production model. In Butterworth, B. (a cura di) Language prodution: Speech and talk. New York: Academic Press. Saussure, F. (1967). Corso di linguistica generale, a cura di De Mauro, T. Bari: Laterza. Scalise, S. (1994). Le strutture del linguaggio. Morfologia. Bologna: il Mulino. Sereno, J. A. (1999). Hemispheric Differences in Grammatical Class. Brain and Language, 70, 13-28. Shallice, T. (1990). Neuropsicologia e struttura della mente. Bologna: il Mulino. Shapiro, K., Levine, B. (1990). Verb processing during sentence comprehension in aphasia. Brain and Language, 38, 21-47. Shapiro, K., Shelton, J., Caramazza, A. (2000). Grammatical class in lexical production and morphological processing: evidence from a case of fluent aphasia. Cognitive Neuropsychology, 17, 665-682. Shapiro, K., Caramazza, A. (2001a). Sometimes a noun is just a noun: comments on Bird, Howard and Franklin (2000). Brain and Language, 76, 202212. Shapiro, K., Caramazza, A. (2001b). Language is more than its part: a reply to Bird, Howard and Franklin (2001). Brain and Lamguage, 78, 397-401. Simone, R. (1990). Fondamenti di linguistica, 347-363. Bari: Laterza Editori. Snodgrass, J.G., Vanderwart, M. (1980). A standardized set of 260 pictures: norms for name agreement, image agreement, familiarity and visual complexity. Human Learning and Memory, 6, 174-215. 244 Thompson, C.K. (2003). Unaccusative verb production in agrammatic aphasia: the argument structure complexity hypothesis. Journal of Neurolinguistics, 16, 151-167. Thompson, C.K., Lange, K.L., Schneider, S.L., Shapiro, L.P. (1997). Agrammatic and non-brain-damaged subjects’ verb and verb argument structure production. Aphasiology, 11, 473-490. Thompson, C.K., Shapiro, L.P., Tait, M.E., Jacobs, B., Schneider, S., Ballard, K. (1995). A system for the linguistic analysis of agrammatic language production. Brain and Language, 51, 124-129. Tranel, D., Adolphs, R., Damasio, H., Damasio, A.R. (2001). A neural basis for the retrieval of words for actions. Cognitive Neuropsychology, 18, 655-674. Vallar, G. (1996), I fondamenti metodologici della neuropsicologia. In Denes, G., Pizzamiglio, L. (a cura di) Manuale di neuropsicologia. Normalità e patologia dei processi cognitivi. Bologna: Zanichelli. Vallar, G. (2000). The methodological foundations of human neuropsychology: studies in brain-damaged patients. In Boller, F., Grafman, J., Rizzolatti, G. (a cura di) Handbook of Neuropsychology, 2nd edition. Amsterdam: Elsevier. Warrington, E.K., McCarthy, R. (1983). Category specific access dysphasia. Brain, 106, 859-878. Warrington, E.K., Shallice, T. (1984). Category-specific semantic impairments. Brain, 107, 829-854. Weiller, C., Chollet, F., Friston, K.J., Wise, R.J.S., Franckowiack, R.S.J. (1992). Functional reorganization of the brain in recovery from striatocapsular infarction in man. Annals of Neurology, 31, 463-472. 245 Wernicke, C. (1874). Der Aphasische Symptomenkomplex. Breslau: Cohn and Weigert. Williams, S.E., Canter, G.J. (1987). Action-naming performance in four syndromes of aphasia. Brain and Language, 32, 124-136. Zingeser, L.B., Berndt, R.S. (1988). Grammatical class and context effect in a case of pure anomia: implications for models of language production. Cognitive Neuropsychology, 64, 475-516. Zingeser, L.B., Berndt, R.S. (1990). Retrieval of nouns and verbs in agrammatism and anomia. Brain and Language, 39, 14-32. 246 Tabella 3: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-verbi (i dati sono percentuale). N° 9 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ PV Amnestica verbi 57,5 0,0 / / 10,0 10,0 2,5 nomi 16,7 0,0 / / 80,0 3,3 0,0 totale 40,0 0,0 / / 40,0 7,1 1,4 Latenza Circ 7,5 7,5 0,0 0,0 4,3 4,3 Visivo 5,0 0,0 2,9 Neol 0 0 0 Totale 100 100 100 Altro / / / N° 5 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ FG Amnestica verbi 45,0 0,0 / / 12,5 25,0 0,0 nomi 10,0 0,0 / / 60,0 13,3 0,0 totale 30,0 0,0 / / 32,9 20,0 0,0 Latenza 2,5 0,0 1,4 Visivo Neol 0,0 2,5 3,3 0 1,4 1,429 Totale 100 100 100 Altro / / / N° 13 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ RM Amnestica verbi 67,5 0,0 / / 2,5 12,5 0,0 nomi 43,3 0,0 / / 33,3 13,3 3,3 totale 57,1 0,0 / / 15,7 12,9 1,4 Latenza Circ 2,5 15,0 3,3 3,3 2,9 10,0 Visivo 0,0 0,0 0,0 Neol 0 0 0 Totale 100 100 100 Altro / / / N° 8 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ APr Amnestica verbi 65,0 2,5 / / 2,5 22,5 2,5 nomi 36,7 6,7 / / 13,3 16,7 0,0 totale 52,9 4,3 / / 7,1 20,0 1,4 Latenza Circ 2,5 0,0 0,0 26,7 1,4 11,4 Visivo 2,5 0,0 1,4 Neol 0 0 0 Totale 100 100 100 Altro / / / 221 Circ 12,5 13,3 12,9 Tabella 3: continua. N° 7 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ DM Amnestica verbi 37,5 7,5 / / 25,0 20,0 0,0 nomi 13,3 0,0 / / 70,0 6,7 0,0 totale 27,1 4,3 / / 44,3 14,3 0,0 Latenza Circ 5,0 5,0 10,0 0,0 7,1 2,9 Visivo 0,0 0,0 0,0 Neol 0 0 0 Totale 100 100 100 Altro / / / N° 20 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ GDP Wernicke verbi 40,0 7,5 / / 27,5 15,0 0,0 nomi 16,7 0,0 / / 40,0 23,3 0,0 totale 30,0 4,3 / / 32,9 18,6 0,0 Latenza Circ 2,5 2,5 6,7 3,3 4,3 2,9 Visivo 2,5 0,0 1,4 Neol 0 0 0 Totale 97,5 90 94,3 Altro 2,5 10 5,7 Tabella 4: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-nomi (i dati sono percentuale). N° 1 SIGLA AFASIA AC Amnestica verbi nomi totale R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 40,0 2,5 0,0 5,0 7,5 25,0 2,5 73,3 0,0 0,0 0,0 6,7 13,3 0,0 54,3 1,4 0,0 2,9 7,1 20,0 1,4 Latenza 12,5 3,3 8,6 Circ Visivo 2,5 2,5 3,3 0,0 2,9 1,4 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 100,0 100,0 Altro / / / N° 6 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ GM Amnestica verbi 45,0 2,5 0,0 5,0 22,5 7,5 0,0 nomi 80,0 0,0 0,0 0,0 6,7 6,7 0,0 totale 60,0 1,4 0,0 2,9 15,7 7,1 0,0 Latenza 5,0 6,7 5,7 Circ Visivo 5,0 7,5 0,0 0,0 2,9 4,3 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 100,0 100,0 Altro / / / 222 Tabella 4: continua. N° 16 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ UB Wernicke verbi 47,5 20,0 10,0 0,0 0,0 10,0 2,5 nomi 86,7 0,0 0,0 0,0 0,0 3,3 0,0 totale 64,3 11,4 5,7 0,0 0,0 7,1 1,4 Latenza 5,0 3,3 4,3 Circ Visivo 0,0 2,5 3,3 0,0 1,4 1,4 Neol 2,5 0,0 1,4 Totale 100,0 96,7 98,6 Altro / 3,3 1,4 N° 21 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ MC Wernicke verbi 10,0 22,5 20,0 15,0 7,5 7,5 2,5 nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 13,3 3,3 0,0 totale 35,7 12,9 11,4 8,6 10,0 5,7 1,4 Latenza 7,5 0,0 4,3 Circ Visivo 7,5 0,0 6,7 0,0 7,1 0,0 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 93,3 97,1 Altro / 6,7 2,9 N° 24 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ RD Wernicke verbi 7,5 27,5 22,5 12,5 12,5 0,0 0,0 nomi 56,7 0,0 0,0 0,0 3,3 26,7 3,3 totale 28,6 15,7 12,9 7,1 8,6 11,4 1,4 Latenza 7,5 10,0 8,6 Circ Visivo 10,0 0,0 0,0 0,0 5,7 0,0 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 100,0 100,0 Altro / / / N° 25 SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ RB Wernicke verbi 40,0 12,5 7,5 7,5 10,0 7,5 0,0 nomi 66,7 0,0 0,0 0,0 10,0 10,0 0,0 totale 51,4 7,1 4,3 4,3 10,0 8,6 0,0 Latenza 7,5 10,0 8,6 Circ Visivo 5,0 2,5 0,0 0,0 2,9 1,4 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 96,7 98,6 Altro / 3,3 1,4 223 Tabella 4: continua. N° 30 SIGLA CB AFASIA Wernicke R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ verbi 15,0 7,5 5,0 10,0 20,0 22,5 7,5 nomi 46,7 0,0 0,0 0,0 23,3 16,7 0,0 totale 28,6 4,3 2,9 5,7 21,4 20,0 4,3 Latenza 2,5 10,0 5,7 Circ Visivo 10,0 0,0 3,3 0,0 7,1 0,0 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 100,0 100,0 Altro / / / N° 32 SIGLA SM AFASIA Wernicke R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ verbi 10,0 5,0 5,0 2,5 50,0 12,5 0,0 nomi 46,7 0,0 0,0 0,0 26,7 13,3 10,0 totale 25,7 2,9 2,9 1,4 40,0 12,9 4,3 Latenza 5,0 0,0 2,9 Circ Visivo 10,0 0,0 0,0 3,3 5,7 1,4 Neol 0,0 0,0 0,0 Totale 100,0 100,0 100,0 Altro / / / N° 47 SIGLA AFASIA LZ Agrammatico verbi nomi totale Latenza 7,5 13,3 10,0 Circ Visivo Neol Totale 2,5 7,5 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 1,4 4,3 0,0 100,0 224 R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt 37,5 15,0 2,5 0,0 70,0 0,0 0,0 0,0 51,4 8,6 1,4 0,0 Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 22,5 5,0 0,0 13,3 3,3 0,0 18,6 4,3 Altro / / / Tabella 4: continua. N° 48 SIGLA AFASIA R+ E-N/V MBI Agrammatico verbi 35,0 12,5 nomi 83,3 0,0 totale 55,7 7,1 S/Ogg 2,5 0,0 1,4 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 22,5 10,0 2,5 0,0 0,0 6,7 0,0 0,0 12,9 8,6 1,4 Latenza 15,0 10,0 12,9 Circ Visivo Neol Totale 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 Altro / / / N° 49 SIGLA AFASIA R+ E-N/V FC Agrammatico verbi 30,0 22,5 nomi 86,7 0,0 totale 54,3 12,9 S/Ogg 20,0 0,0 11,4 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 2,5 7,5 7,5 0,0 0,0 3,3 3,3 0,0 1,4 5,7 5,7 0,0 Latenza 5,0 3,3 4,3 Circ Visivo Neol Totale 2,5 2,5 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 96,7 1,4 1,4 0,0 98,6 Altro / 3,3 1,4 N° 50 SIGLA AFASIA R+ E-N/V FM Agrammatico verbi 40,0 15,0 nomi 70,0 0,0 totale 52,9 8,6 S/Ogg 15,0 0,0 8,6 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 5,0 15,0 2,5 0,0 6,7 0,0 0,0 0,0 5,7 8,6 1,4 Latenza 5,0 6,7 5,7 Circ Visivo Neol Totale 0,0 0,0 0,0 97,5 0,0 3,3 0,0 86,7 0,0 1,4 0,0 92,9 Altro 2,5 13,3 7,1 N° 51 SIGLA AFASIA R+ E-N/V MP Agrammatico verbi 45,0 12,5 nomi 80,0 0,0 totale 60,0 7,1 S/Ogg 10,0 0,0 5,7 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 2,5 5,0 2,5 0,0 3,3 6,7 0,0 0,0 2,9 5,7 1,4 Latenza 5,0 10,0 7,1 Circ Visivo Neol Totale 15,0 2,5 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 8,6 1,4 0,0 100,0 Altro / / / 225 Tabella 4: continua. N° SIGLA 42 AF R+ E-N/V verbi 2,5 5,0 nomi 53,3 0,0 totale 24,3 2,9 S/Ogg 10,0 0,0 5,7 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 62,5 7,5 2,5 0,0 33,3 6,7 0,0 0,0 50,0 7,1 1,4 Latenza 2,5 3,3 2,9 Circ Visivo Neol Totale 5,0 0,0 0,0 97,5 0,0 0,0 0,0 96,7 2,9 0,0 0,0 97,1 Altro 2,5 3,3 2,9 N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V 52 EM non classificabile verbi 27,5 15,0 nomi 56,7 0,0 totale 40,0 8,6 S/Ogg 15,0 0,0 8,6 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 20,0 12,5 2,5 0,0 30,0 0,0 0,0 0,0 24,3 7,1 1,4 Latenza 5,0 10,0 7,1 Circ Visivo Neol Totale 0,0 0,0 0,0 97,5 0,0 3,3 0,0 100,0 0,0 1,4 0,0 98,6 Altro 2,5 / 1,4 N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V 53 FS non classificabile verbi 15,0 10,0 nomi 46,7 0,0 totale 28,6 5,7 S/Ogg 7,5 0,0 4,3 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 25,0 10,0 2,5 0,0 33,3 20,0 0,0 0,0 28,6 14,3 1,4 Latenza 5,0 0,0 2,9 Circ Visivo Neol Totale 25,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 14,3 0,0 0,0 100,0 Altro / / / N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V 54 GP non classificabile verbi 37,5 7,5 nomi 70,0 0,0 totale 51,4 4,3 S/Ogg 0,0 0,0 0,0 S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 0,0 15,0 22,5 5,0 0,0 13,3 13,3 0,0 0,0 14,3 18,6 2,9 Latenza 5,0 3,3 4,3 Circ Visivo Neol Totale 2,5 2,5 0,0 97,5 0,0 0,0 0,0 100,0 1,4 1,4 0,0 98,6 Altro 2,5 / 1,4 226 AFASIA Broca (-agr) Tabella 4: continua. N° SIGLA AFASIA 57 MRdG non classificabile verbi nomi totale R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 45,0 12,5 2,5 0,0 2,5 12,5 2,5 70,0 0,0 0,0 0,0 0,0 3,3 3,3 55,7 7,1 1,4 0,0 1,4 8,6 2,9 Latenza 12,5 23,3 17,1 Circ Visivo Neol Totale 7,5 2,5 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 100,0 4,3 1,4 0,0 100,0 Altro / / / N° 58 R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ 5,0 32,5 20,0 0,0 30,0 2,5 0,0 53,3 0,0 0,0 0,0 23,3 10,0 0,0 25,7 18,6 11,4 0,0 27,1 5,7 0,0 Latenza 10,0 6,7 8,6 Circ Visivo Neol Totale 0,0 0,0 0,0 100,0 0,0 0,0 0,0 93,3 0,0 0,0 0,0 97,1 Altro / 6,7 2,9 SIGLA AFASIA AP non classificabile verbi nomi totale 227 Tabella 5: profili di errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (DMN) e dei dissociati-meglio-verbi (DMV). I dati sono in percentuale. a. DMV DMN Denominazione delle azioni R+ 52 27 E-N/V 3 13 Ø 13 18 Circ 7 6 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ 2 4 18 1 2 7 12 3 Neol 0 0 S/Ogg S/Ogg+Vppt 0 0 9 3 Circ 8 1 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ 1 3 13 1 1 7 9 1 Neol 0 0 S/Ogg S/Ogg+Vppt 0 0 0 0 Altro 1 2 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ 1 4 15 1 1 7 10 2 Neol 0 0 S/Ogg S/Ogg+Vppt 0 0 5 2 Altro 1 2 b. Denominazione degli oggetti DMV DMN R+ 23 67 E-N/V 1 0 Ø 49 12 c. Denominazione degli oggetti e delle azioni DMV DMN 228 R+ 40 43 E-N/V 2 8 Ø 29 15 Circ 7 4 Tabella 6: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (Wernicke, Agrammatici, Amnestici). I dati sono in percentuale. a. Denominazione delle azioni Amnestici Agrammatici Wernicke R+ E-N/V 43 3 38 16 19 14 Ø 15 8 19 Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT 4 5 9 16 1 0 0 5 4 2 7 12 3 0 10 1 7 1 5 10 3 0 10 7 Altro 0 0 5 Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT 1 0 5 10 0 0 0 0 0 1 9 6 1 0 0 0 2 1 6 12 2 0 0 0 Altro 0 2 2 b. Denominazione degli oggetti Amnestici Agrammatici Wernicke R+ 77 78 62 E-N/V 0 0 0 Ø 7 3 13 c. Denominazione degli oggetti e delle azioni Amnestici Agrammatici Wernicke 229 R+ 57 55 45 E-N/V 1 9 12 Ø 11 5 7 Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT 3 3 7 14 1 0 0 3 2 2 8 9 2 0 6 0 4 1 6 8 1 0 9 5 Altro 0 2 2 Tabella 7: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-verbi (Wernicke e Amnestici). I dati sono in percentuale. a. Denominazione delle azioni Amnestici Wernicke R+ 55 40 E-N/V 2 8 Ø 11 28 Circ 8 3 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome 2 4 18 1 1 3 3 15 0 0 Circ 9 3 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome 1 3 11 0 0 0 7 23 0 0 b. Denominazione degli oggetti Amnestici Wernicke R+ 24 17 E-N/V 1 0 Ø 51 40 c. Denominazione degli oggetti e delle azioni Amnestici Wernicke 230 R+ 41 30 E-N/V 2 4 Ø 28 33 Circ 8 3 Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome 1 3 15 1 0 1 4 19 0 0 Altro 10 Tabella 8: risultati dello studio per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposti al test di denominazione %N N° 22 1 3 4 5 7 9 10 12 15 16 17 18 19 20 23 26 27 29 32 33 35 36 231 Sup (N-V) V>N N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V Sup (ArtNat) Art>Nat Art>Nat Af A A NC SRA NC A SRA SRA A B+ B+ BA W A NC W W B+ W B+ W B+ Art Nat 20 16 84 84 84 72 88 76 80 76 92 84 92 64 68 68 84 88 100 68 52 68 52 40 88 88 68 68 84 64 72 80 68 64 72 48 92 88 72 64 40 64 84 76 84 84 N-V TOT 18 84 78 82 78 88 78 68 86 82 60 46 88 68 74 76 66 60 90 68 52 80 84 %V 44 44 28 46 32 56 58 36 48 46 16 4 38 34 50 48 12 20 68 38 20 56 54 chi2 6,7 15,49 25,09 14,06 21,37 12,7 4,6 10,26 6,59 12,5 18,72 21,33 24,7 10,2 5,1 7,17 28,42 16,67 4,72 9,03 11,11 6,62 10,52 p .01 .0001 <.0001 <.001 <.0001 <.001 <.05 .001 .01 <.001 <.0001 <.0001 <.0001 .001 .02 <.01 <.0001 <.0001 <.05 <.005 <.001 .01 .001 Art-Nat chi2 p 4,2 <.05 8,7 <.005 Tabella 8: continua. %N N° 37 38 39 Sup (N-V) N>V N>V N>V 2 6 8 11 13 14 21 24 25 28 30 31 34 N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V Sup (ArtNat) Art>Nat Art>Nat Art>Nat N-V Af W SRA W Art Nat 40 24 80 88 80 48 TOT 32 84 64 %V 12 62 26 A SRA A SRA SRA A A A BBW A W 72 100 56 88 72 64 68 92 80 12 96 56 32 70 100 54 88 54 52 76 88 64 10 86 52 26 52 96 52 72 42 50 66 82 50 16 72 52 20 68 100 52 88 36 40 84 84 48 8 76 48 20 chi2 5,83 6,14 14,59 p .01 .01 .0001 Art-Nat chi2 p 4,25 <.05 6,52 .01 5,56 .01 Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; %N, %V, Art, Nat = denominazione, rispettivamente, di nomi, verbi, nomi di manufatti, nomi di oggetti naturali; N-V = confronto tra nomi e verbi; Art-Nat = confronto tra nomi di oggetti artificiali e nomi di oggetti naturali. 232 Tabella 9: risultati dell'analisi per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposto al test di denominazione: ruolo delle variabili semantico-lessicali (analisi univariata) N° 22 1 3 4 5 7 9 10 12 15 16 17 18 19 20 23 26 27 29 32 33 35 36 233 Sup (N-V) V>N N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V Sup (Art-Nat) Art>Nat Art>Nat Af A A NC SRA NC A SRA SRA A B+ B+ BA W A NC W W B+ W B+ W B+ Imm Wald p 21,27 16,09 14,26 15,2 16,13 9,51 12,62 12,32 17,17 20,93 14,4 11,36 12,36 6,75 13,38 20,88 12,1 8,34 8,13 12,41 12,65 12,42 <.001 <.001 <.001 <.001 <.001 <.005 <.001 <.001 <.001 <.001 <.001 .001 <.001 <.01 <.001 <.001 .001 <.005 <.005 <.001 <.001 <.001 Freq Wald p 5,18 <.05 7,1 <.01 AoA Wald p 9,41 <.01 6,84 <.01 5,37 10,16 <.05 .001 8,87 6,68 6,84 14,32 5,26 3,88 10,4 15,5 6,38 18,5 4,96 4,74 <.005 .01 <.01 <.001 <.05 <.05 .001 <.001 .01 <.001 <.05 <.05 7,57 <.01 Let Wald 11,03 5,07 p Num Arg chi2 p .001 <.05 7,26 <.01 10,99 9,44 4,73 8,06 4,57 .001 <.005 <.05 .005 <.05 7,21 11,3 7,83 <.01 .001 .005 6,36 .01 5,11 <.05 7,63 4,06 <.01 <.05 Tabella 9: continua. N° 37 38 39 Sup (N-V) N>V N>V N>V 2 6 8 11 13 14 21 24 25 28 30 31 34 N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V N=V Sup (Art-Nat) Art>Nat Art>Nat Art>Nat Af W SRA W A SRA A SRA SRA A A A BBW A W Imm Wald p 9,18 <.005 9 <.005 11,23 .001 8,95 <.005 7,67 5,01 <.01 <.05 Freq Wald p 5,78 10,16 6,53 15,11 Let Wald 4,14 p 5,79 Num Arg chi2 p <.05 4,06 <.05 7,93 8,89 6,21 <.01 <.01 <.05 <.001 3,89 <.05 4,94 <.05 7,74 .005 .001 .01 5,2 10,06 .01 AoA Wald p 3,69 .05 6,47 .01 .01 <.05 <.005 7,23 <.01 11,65 3,75 .001 .05 Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let = lunghezza in lettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald. 234 Tabella 10: risultati dell'analisi per casi singoli sui 26 pazienti afasici dissociati nomi-verbi: ruolo delle variabili semantico-lessicali (analisi bivariata). Il valore del test di Wald e della probabilità associata in tabella si riferiscono al fattore classe grammaticale. Quando il valore del test di Wald è seguito da un asterisco, il modello lineare ipotizzato spiega una porzione molto bassa della varianza dei dati tanto che anche la varibile semantico-lessicale per la quale si covaria non è significativa in quel modello. N° 22 1 3 4 5 7 9 10 12 15 16 17 18 19 20 23 26 27 29 32 33 35 235 Sup (N-V) V>N N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V N>V Sup (Art-Nat) Art>Nat Art>Nat Af A A NC SRA NC A SRA SRA A B+ B+ BA W A NC W W B+ W B+ W N-V + Imm Wald 0,13 4,05 1,27* 4,78 0,22 0,55 0,01 4,01 0,28 0,25 3,05* 11,71 0,66 1,13* 0,01 0,007 3,15* 0,67* 0,74* 0,22 0,18 p n.s. <.05 n.s. <.05 n.s. n.s. n.s. <.05 n.s. n.s. n.s. .001 n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. n.s. N-V + Freq Wald p 6,11 .01 12,05 .001 N-V + AoA Wald p N-V + Let Wald P 14,19 <.001 6,8 13,33 <.01 <.001 18.09 9,78 <.001 <.005 7,17 13,17 11,52 18,01 14,59 19,98 9,38 5,16 6,67 22,36 14,01 5,6 <.01 <.001 .001 <.001 <.001 <.001 <.005 <.05 .01 <.001 <.001 .01 11,23 .001 14,53 12,25 18,27 7,24 4,69 <.001 <.001 <.001 <.01 <.05 21,59 10,18 4,19 <.001 .001 <.05 5,01 <.05 Tabella 10: continua. N-V + Imm N° 36 37 38 39 Sup (N-V) N>V N>V N>V N>V Sup (Art-Nat) Art>Nat Af B+ W SRA W Wald 0,53 0,2 0,06 2,68* N-V + Freq p n.s. n.s. n.s. n.s. Wald N-V + AoA p N-V + Let Wald p 4,65 4,63 <.05 <.05 Wald 6,9 P <.01 3,91 <.05 Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let = lunghezza in lettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald. 236 237