Avviso di accertamento – Imposte sul reddito – Plusvalenza
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Avviso di accertamento – Imposte sul reddito – Plusvalenza
Avviso di accertamento – Imposte sul reddito – Plusvalenza patrimoniale generata dalla cessione a titolo oneroso dell’azienda – Prova dell’occultamento del corrispettivo – Differenza tra valore del bene definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro e prezzo dichiarato in atti – Presunzione semplice – E’ ammessa L’amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione dell’azienda, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore(∗). Cass., Sez. Trib., 27 marzo 2008 – 18 luglio 2008, n. 19830 (LUPI Presidente; GRECO Relatore) Il differenziale prezzo-valore (riferito all’azienda) e argomentativi della Suprema Corte i cortocircuiti Sommario: 1. Note preliminari. 2. La differenza tra prezzo dell’azienda dichiarato in atti e valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro: l’inaccettabile percorso argomentativo abbracciato dalla Corte. 3. Il valore di mercato dell’azienda e il valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro. Ragioni per le quali i due concetti non sono sovrapponibili e non si prestano ad un impiego indifferenziato nell’ambito degli schemi argomentativi sui quali s’innesta la presunzione (semplice) di occultamento di corrispettivo. 4. Le presunzioni semplici: l’importanza del confronto tra contribuente ed amministrazione finanziaria in sede istruttoria nella prospettiva della motivazione dell’atto e, segnatamente, della esaustiva esplicitazione del collegamento tra fatto noto e fatto ignoto. ∗ Segue nota firmata 1. Note preliminari. Può l’Amministrazione finanziaria far leva sul disallineamento tra il prezzo dichiarato in atti e il valore dell’azienda, siccome definito ai fini dell’imposta di registro, per rettificare in aumento, nell’ambito della disciplina del reddito d’impresa, una plusvalenza patrimoniale? A tale la domanda la sentenza in rassegna offre una risposta affermativa, ponendosi, peraltro, nel solco di consolidata giurisprudenza(1). Per la nostra Corte di cassazione, l’esistenza del suddetto differenziale permette all’amministrazione finanziaria di attivare la “presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro”. I giudici non spiegano per quale ragione codesta presunzione si connoti sul piano della “gravità”, della “precisione” e della “concordanza”, come previsto dall’art.39, primo comma, lettera d), d.p.r. n. 600/1973. Ciò nondimeno, essi affermano che è pienamente legittima la rettifica in aumento della plusvalenza dichiarata dal venditore, il quale può sempre dimostrare (sic!) di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore al suddetto valore e di non essere, pertanto, un evasore fiscale. La scansione argomentativa desumibile dalla motivazione della pronuncia è semplice nella sua struttura e sconcertante quanto alla conclusione raggiunta. Su questo aspetto dobbiamo esser chiari. Da una parte, i giudici hanno reputato legittimo un accertamento incentrato su una presunzione semplice per la quale, come tra poco avremo modo di spiegare, non viene affatto enunciata la legge causale che consente di individuare, a partire dal fatto noto, il fatto ignoto; è quindi lapalissiana la violazione dell’art. 39 cit., il quale, nel tratteggiare la disciplina riguardante le rettifiche eseguite su schemi inferenziali ed in presenza di scritture contabili che non siano state dichiarate inattendibili, richiede che le presunzioni manifestino – come già detto - i caratteri di gravità, precisione e concordanza, siccome previsti dall’art. 2729 cod.civ. Dall’altra, al contribuente è riconosciuta la possibilità di difendersi, come se nella nostra Carta costituzionale non esistessero gli artt. 24 e 111. Dietro un’affermazione ineccepibile sul fronte dei principi di civiltà giuridica (laddove la sentenza consacra, appunto, il diritto di contrastare gli accertamenti fiscali, 1 Nello stesso senso si sono in effetti orientate altre pronunce della Corte, tra le quali ricordiamo, senza pretesa di esaustività: Cass., sez. trib., 28 ottobre 2005, n. 21055, in banca-dati Ipsoa Bigonline; Cass., sez. trib., 22 marzo 2002, n. 4117, ivi; Cass., sez. trib., 1 giugno 2007, n. 12899, ivi; Cass., sez. trib., 23 gennaio 2007 - 21 febbraio 2007, n. 4057, in Corr. Trib., 2007, 1803 e ss., con commento di L.GIARETTA. Contra, peraltro, Cass., sez. trib., 8 agosto 2008, n. 16700, in Corr. Trib., 2005, 3333 e ss. In senso contrario si veda anche l’interessante pronuncia della Comm. Trib. Reg. del Lazio, sez. XXVII, 6 luglio 2007, n. 83, in Riv.dir.trib., 2008, II, 121 e ss., con note di V.FICARI, Continuità del programma imprenditoriale, gratuità del trasferimento e valori imponibili nell’imposizione delle plusvalenze aziendali: aspetti sostanziali e procedimentali e M.BEGHIN, Il trasferimento dell’azienda e l’imposizione sulle plusvalenze nei recenti arresti giurisprudenziali: alla ricerca di punti fermi e di schemi generali di ragionamento. 2 ancorché si tratti di atti incentrati su strumentazione presuntiva), si celano problematiche processuali di non lieve importanza, sulle quali, tuttavia, la stessa Corte sorvola. Il nostro attento Lettore avrà già capito di cosa stiamo parlando. Stando alla sentenza, il contribuente può dimostrare di aver venduto ad un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato del bene. Su questo punto, non ci sono dubbi. Ma quali sono i mezzi utilizzabili a tale scopo? Ed ancora: potranno assumere valore dimostrativo le scritture contabili, i contratti ed i bilanci redatti dal venditore? La sentenza non si occupa direttamente di tale problematica. E’ però evidente che, nell’impiegare il metro di giudizio utilizzato dalla Corte, a tali quesiti si può rispondere con facilità: per superare la citata presunzione, il contribuente non potrà affatto avvalersi del libro giornale, delle schede di mastro, della documentazione bancaria, delle fatture comprovanti l’acquisto di singoli beni facenti parte del complesso aziendale, dei bilanci, dei contratti e così via. Anche un bambino riesce a capire che, se l’esibizione dei documenti sopra richiamati bastasse a schivare gli effetti della presunzione di occultamento del corrispettivo operata dal Fisco, l’amministrazione finanziaria si troverebbe fuori gioco, spiazzata da quegli elementi contabili che l’esile schema inferenziale incentrato sullo scarto tra prezzo e valore intende, invece, superare. Da qui, il convincimento - peraltro confortato da quanto si può leggere al foglio 3 della sentenza, nel testo originale - che il contribuente viene in realtà costretto ad impostare la propria linea difensiva facendo leva su elementi indiziari. La partita si svolge pertanto sul fronte delle presunzioni, con la conseguenza – lampante, a noi pare – che l’accertamento potrà essere scardinato soltanto laddove il differenziale prezzo-valore poggi su argomenti, illazioni, giustificazioni idonee a conferire il crisma della credibilità al disallineamento tra corrispettivo e valore. La strada è tutta in salita. E’ per questo che sono necessarie, a nostro avviso, alcune puntualizzazioni. 2. La differenza tra prezzo dell’azienda dichiarato in atti e valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro: l’inaccettabile percorso argomentativo abbracciato dalla Corte. Cominciamo con un’osservazione di carattere generale, attenta ai profili metodologici che attengono alla vicenda affrontata dalla Corte. Il principio forgiato dalla Cassazione, sorretto dal richiamo ad alcuni precedenti giurisprudenziali indicati nel corpo della sentenza qui commentata(2), spiana la 2 Alla pagina 3 della sentenza, nel testo originale, vengono espressamente richiamate le pronunce contraddistinte dai seguenti riferimenti: Cass., sez. trib., 28 ottobre 2005, n. 21055; Cass., sez. trib., 22 marzo 2002, n. 4117; Cass., sez. trib., 1° giugno 2007, n. 12899, tutte reperibili in banca-dati Ipsoa Bigonline. E’ curioso notare come la Corte non richiami, invece, quella recente sentenza (Cass. Sez. trib., 8 agosto 2005, n. 16700, anche questa reperibile nella banca-dati testé citata) attraverso la quale, con riferimento alla cessione di un bene immobile strumentale, è stato precisato che: a) 3 strada alla notificazione di accertamenti presuntivi fortemente connotati sul piano dell’automatismo e, ad un tempo, scarsamente argomentati in punto di collegamento tra fatto noto e fatto ignoto. Chiunque si soffermi con un po’ di attenzione sul testo della pronuncia ha l’impressione che, abbracciando lo schema di ragionamento dei magistrati, il riscontro della semplice differenza tra il corrispettivo dichiarato in atti e il valore dell’azienda definitivamente fissato per l’imposta di registro possa bastare, quale che sia la sua dimensione, ad attivare la presunzione di evasione, senza necessità di ulteriori argomentazioni circa la connessione tra il citato differenziale e l’occultamento del prezzo. Siamo al cospetto di uno schema operativo chiaramente sorretto dall’esigenza di semplificazione dell’azione amministrativa e teso a sollevare i funzionari dall’obbligo di provvedere, caso per caso, alla motivazione dell’atto. In effetti, una volta che sia stato riscontrato il suddetto differenziale, per l’ufficio finanziario diviene assai agevole, alla luce delle conclusioni cui è pervenuta la Suprema Corte, procedere alla rettifica della plusvalenza dichiarata, ribaltando sul contribuente l’onere di dimostrare che la cessione è avvenuta ad un prezzo inferiore al valore di mercato. Insomma, lo scarto tra prezzo e valore sarebbe – tornando, di nuovo, alla sentenza in rassegna - capace di integrare, da solo, la prova della fattispecie di evasione e di fondare, conseguentemente, la pretesa di pagamento della maggiore imposta e l’irrogazione delle sanzioni. E’ questo il punto nel quale possiamo innestare le prime note di dissenso. Infatti, la Corte sembra non considerare che non ci troviamo al cospetto di una presunzione legale, bensì di una presunzione semplice(3); che il divario tra prezzo e valore può certo innestarsi in una catena argomentativa più estesa, dato l’inequivoco significato del termine “corrispettivo” (inserito nelle disposizioni che si riferiscono ai ricavi ed alle plusvalenze patrimoniali), “i principi relativi alla determinazione del valore di un bene che viene trasferito sono diversi a seconda dell’imposta che si deve applicare, giacché quando si discute di imposta di registro si ha riguardo al valore di mercato del bene, mentre quando si discute di una plusvalenza realizzata nell’ambito dell’impresa occorre verificare la differenza realizzata tra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione; b) in materia di imposte sui redditi, “le valutazioni effettuate dall’UTE non possono (…) rappresentare, da sole, elementi sufficienti per giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili, ma possono (…) essere vagliate nel contesto della situazione contabile ed economica dell’impresa e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive precise e concordanti, possono costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare”. Da quanto sopra emerge come, da un punto di vista di generale inquadramento del problema, lo scarto tra il prezzo e il valore non sia sufficiente, da solo, a sorreggere una presunzione semplice di occultamento del corrispettivo. Questa argomentazione può a nostro avviso pacificamente estendersi ai casi riguardanti non già la cessione di immobili, bensì di aziende. 3 Sul tema delle presunzioni rinviamo, senza pretesa di esaustività, a G.FALSITTA, Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1968, II, 3 e ss.; G.GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, passim; G.TINELLI, voce <<Presunzioni (dir. trib.)>>, Enc. Giur. Treccani, Roma, 1991; R.LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio di fatto, in Trattato di diritto tributario diretto a A.Amatucci, III, Padova, 1994, p. 281 e ss.; M.TRIMELONI, Le presunzioni tributarie, ivi, II, 82 e ss. 4 funzionale alla individuazione del prezzo occultato(4). Tuttavia, codesto divario non può da solo esaurire i passaggi richiesti dalla motivazione dell’atto, giacché sono molteplici le ragioni per le quali i due elementi (valore e prezzo) possono in concreto disallinearsi. Su questi aspetti dobbiamo richiamare l’attenzione del Lettore. Nella presunzione legale, il collegamento tra il fatto noto e quello ignoto è compiuto attraverso la disposizione, la quale semplifica l’accertamento di talune operazioni economiche da parte del Fisco(5) ed inverte, appunto, l’onere della prova. In presenza di presunzioni ex lege, all’amministrazione finanziaria è sufficiente dimostrare un determinato fatto per intercettare, nella prospettiva di applicazione della disciplina sostanziale, le operazioni che il legislatore ha immesso nello schema presuntivo, senza l’obbligo di motivare alcunché. Per le presunzioni semplici, le cose non stanno affatto in questi termini: qui non v’è nulla di predeterminato; le leggi causali sono liberamente intercettabili da parte degli operatori e il percorso prescelto dall’ufficio per collegare il fatto noto al fatto ignorato impone che sia chiaramente ed esaustivamente esplicitata la sequenza argomentativa che conduce dal primo al secondo elemento(6). Non può trattarsi di un ragionamento qualsiasi. Invero, l’art. 39, primo comma, lettera d), d.p.r. n. 600/1973 modella lo schema inferenziale sui requisiti di “gravità”, “precisione” e “concordanza”, dimodochè tra fatto noto e fatto ignoto deve instaurarsi un rapporto che la giurisprudenza configura come elevata probabilità(7) - non già mera possibilità - che quest’ultimo fatto si sia verificato. La chiave di lettura delle presunzioni in esame, calate – come nel nostro caso – in un accertamento di tipo analitico-contabile, è pertanto costituita dalla persuasività del tragitto argomentativo che viene impostato dal funzionario ed esplicitato nella motivazione. 4 G.FALSITTA, Plusvalenze e minusvalenze patrimoniali, in Studi sulla tassazione delle plusvalenze, Milano, 1991, p. 181, il quale puntualizza che <<la circostanza che vi sia una divergenza tra il prezzo dichiarato e contabilizzato dall’imprenditore e il valore di mercato, se può costituire un indizio di una simulazione di prezzo, da sola non possiede (…) la capacità di fondare una presunzione munita dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c. (gravità, precisione e concordanza), e perciò inidonea a superare la prova offerta dalle dichiarazioni negoziali delle parti e dalla contabilità del contribuente>>. 5 G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2008, 500 e ss.; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 156, il quale sottolinea come le presunzioni legali rispondano, spesso, ad una esigenza di semplificazione della posizione del fisco. 6 M.TRIMELONI, Le presunzioni, cit., 88, dove l’A. puntualizza come, nella rappresentazione presuntiva di un fatto, <<la determinazione dell’esistenza, entità o qualificazione del “fatto ignorato” o, viceversa, l’inesistenza dell’uno o dell’altra – deve presentare un legame di logica coerenza con la premessa posta>>. 7 Sul fatto che la dottrina prevalente e la giurisprudenza richiedano, al riguardo, che il fatto ignoto possa reputarsi altamente probabile, cfr. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 501 e ss. Sul punto anche F.TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. 1, Parte generale, Torino, 2006, 388; I.MANZONI-G.VANZ, Il diritto tributario, Torino, 2007, 343. Più rigida la posizione di F.MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in F.Moschetti (a cura di), Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, Padova, 1984, 54, stando al quale – testualmente – “la coesistenza dei tre requisiti di <<gravità, precisione e concordanza>> deve creare un effetto non di mera probabilità, ma di certezza giuridica del fatto ignoto”. 5 Non basta affermare, in ipotesi, che “esiste una differenza tra valore individuato ai fini dell’imposta di registro e prezzo dichiarato” e che, “dunque, esiste evasione”. Questo passaggio è privo di consistenza sul piano logico-argomentativo, giacché esso non spiega affatto le ragioni per le quali, a partire dal suddetto disallineamento, si dovrebbe ritenere probabile l’occultamento del corrispettivo. Cerchiamo, dunque, di mettere un po’ d’ordine e proviamo a riflettere, in tale prospettiva, sul primo elemento posto a sostegno della presunzione: il valore di mercato dell’azienda. 3. Il valore di mercato dell’azienda e il valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro. Ragioni per le quali i due concetti non sono sovrapponibili e non si prestano ad un impiego indifferenziato nell’ambito degli schemi argomentativi sui quali s’innesta la presunzione (semplice) di occultamento di corrispettivo. Abbiamo appena precisato come spetti all’amministrazione finanziaria, non già al contribuente, l’onere di impostare, in seno all’avviso di accertamento, una scansione argomentativa convincente, la quale possa indurre il giudice a ravvisare, con riguardo allo specifico caso esaminato, un’elevata probabilità di occultamento del prezzo. A noi sembra che, nel procedere in questa direzione, il Fisco sia costretto a far leva sulla regola di esperienza in virtù della quale, con riguardo alle operazioni effettuate da imprenditori commerciali, i prezzi ed i valori di mercato tendono a sovrapporsi. Dobbiamo sottolineare l’impiego del verbo “tendere” e altresì precisare come codesto schema inferenziale si adagi su quella astratta legge della microeconomia secondo cui i corrispettivi si formano attraverso l’incrocio tra domanda e offerta, rispecchiando, in tal modo, l’andamento del mercato. E’ questa la porta attraverso la quale i valori commerciali entrano nei meccanismi di determinazione dei prezzi. Laddove il mercato consenta di monetizzare un bene a 1000, non è credibile che l’imprenditore, quale soggetto strutturalmente animato da scopo lucrativo, si accontenti di 900, di 800 o addirittura di 600, se non in presenza di particolari situazioni che dovranno emergere, come diremo infra, nella fase del contraddittorio. Poichè la regola di esperienza qui sopra richiamata rappresenta, con riguardo alla sentenza in rassegna, il fondamentale punto d’innesto dello schema argomentativo prescelto dall’ufficio impositore, la domanda che possiamo porci non può che essere la seguente: qual è, in concreto, il valore di mercato dell’azienda, cui dovrebbe tendere, appunto, il corrispettivo? Si può per davvero sostenere che il valore di mercato dell’azienda coincide con il valore venale definito ai fini fiscali? Ed ancora: attraverso quali percorsi l’amministrazione finanziaria può dimostrare il suddetto valore di mercato, nella prospettiva di avviare l’iter argomentativo del quale abbiamo detto poc’anzi? 6 Anche qui, la sentenza offre una risposta puntuale, ancorchè incardinata, a nostro modo di vedere, su un macroscopico equivoco: l’equivoco stando al quale tale valore di mercato, esprimente – come detto – la cifra monetizzabile in un dato momento storico, potrebbe acriticamente ricavarsi dalla disciplina dell’imposta di registro e, per conseguenza, trapiantarsi, senza la ben che minima smagliatura, nel settore delle imposte sui redditi. L’equivoco al quale abbiamo testè fatto riferimento si ricava con facilità dal passo della sentenza che, per comodità del Lettore e per evitare fraintendimenti, riportiamo qui di seguito per esteso. Nel corpo della pronuncia in rassegna, infatti, si può leggere che “l’amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione dell’azienda, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore”. I corsivi sono stati da noi inseriti con il deliberato intento di evidenziare come, nello schema di ragionamento abbracciato dalla Suprema Corte, il valore di mercato del bene ed il valore definito - per il medesimo cespite - per l’imposta di registro rappresentino, per l’appunto, la stessa cosa: due elementi perfettamente compenetrati e, pertanto, alternativamente utilizzabili per fondare una rettifica sia ai fini dell’imposta di registro, sia ai fini dell’IRPEF. Dissentiamo da questa impostazione. Chiunque abbia un minimo di esperienza in materia tributaria sa bene che il valore definitivamente fissato ai fini dell’imposizione indiretta (su atti inter vivos aventi ad oggetto complessi produttivi) può significativamente discostarsi, per molteplici ragioni, dal valore di mercato dell’azienda compravenduta(8). Tale scostamento può dipendere dai criteri con i quali il suddetto valore fiscale è stato inizialmente quantificato dagli uffici: il citato valore venale non viene di regola ottenuto attraverso la predisposizione di accurate perizie di stima dell’azienda e non costituisce, segnatamente, il risultato dell’applicazione dei complicati metodi reddituali, patrimoniali, finanziari, misti, largamente diffusi 8 Si tratta di un problema non nuovo nella disciplina dell’imposta di registro. Vedi, al riguardo, l’interessante lavoro di A.UCKMAR, Il valore dell’azienda ai fini tributari, in AA.vv., Finanza pubblica contemporanea: studi in onore di Jacopo Tivaroni, Bari, 1950, 403 e spec. 407, il quale affronta, a proposito delle operazioni di trasferimento a titolo oneroso dell’azienda, il problema della convergenza tra i criteri di valutazione economica e i criteri di valutazione giuridica. E’ evidente che l’intera questione ruota intorno alla determinazione del valore di avviamento attribuibile all’azienda ceduta, per il quale rinviamo a A.FANTOZZI, Contributo allo studio della realizzazione dell’avviamento quale presupposto dell’imposta di ricchezza mobile, in Riv.dir.fin.sc.fin., 1964, I, 584 e spec. 586, il quale sottolinea la questione del dualismo tra concetti economici e soluzioni giuridiche. Per un inquadramento generale della questione, cfr. G.TINELLI, voce “Azienda nel diritto tributario”, in Digesto, disc.priv., Torino, II, 1987, 105 e ss. 7 nelle discipline aziendalistiche. Spesso i funzionari si limitano ad aggiungere al patrimonio netto contabile un avviamento stimato mediante la semplice, pragmatica applicazione di coefficienti di redditività media riconducibili ad un certo arco temporale, che precede la dismissione del bene(9). Ma non basta. Il disallineamento tra il valore di mercato e il valore definito ai fini fiscali può altresì dipendere dall’atteggiamento dei coobbligati(10), dalla loro propensione a coltivare il contenzioso fiscale(11), da vicende di stampo processuale o preprocessuale sulle quali non è il caso di intrattenersi in questa sede (avvisi di rettifica lasciati nel cassetto; sentenze non impugnate; errori compiuti dalle parti nella fase dell’impugnazione, tali da comportare – in ipotesi l’inammissibilità del ricorso e così via). Se da una parte, dunque, il valore dell’azienda viene talvolta stimato con un certo grado di approssimazione, dall’altra possono darsi situazioni nelle quali, per ragioni di mera opportunità, ai contribuenti appare più conveniente adeguarsi ad imponibili sommariamente accertati (ancorché distanti dalla realtà), evitando, in tal modo, l’instaurazione del contenzioso su questioni estimative dall’esito pur sempre incerto. Insomma, nella disciplina dell’imposta di registro, il valore di un complesso produttivo che abbia assunto il carattere della definitività non rispecchia necessariamente quel valore di mercato (12) sul quale s’incentra la massima 9 La giurisprudenza ha peraltro escluso, in taluni casi, che gli uffici possano far leva sulla disciplina di cui al d.p.r. 31 luglio 1996, n. 460, recante il regolamento di attuazione delle disposizioni per l’accertamento con adesione ai fini delle imposte indirette (sul punto, Cass., sez. trib., 22 marzo 2002, n. 4117, loc.cit., ma pubblicata anche in Corr.trib., 2002, 2357, con commento di A.RENDA e G.STANCATI e con postilla di R.LUPI), trattandosi di disposizioni circoscritte, appunto, alla disciplina di accertamento con adesione. 10 Su questo aspetto, per tutti, G.FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2008, 394-395, il quale correttamente puntualizza che l’avviso di accertamento in materia di imposte sui trasferimenti può essere definito <<pure se è uno solo degli obbligati ad aderirvi (giacché, con il perfezionamento di essa conseguente al pagamento, la pretesa erariale è comunque soddisfatta)”. 11 Con riguardo all’accertamento con adesione, attenta dottrina ha sottolineato come esso si collochi tra gli strumenti generali di prevenzione delle controversie. Su questo aspetto, per tutti, A.FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 265. 12 Stando ad un’autorevole impostazione dottrinale, l’accertamento con adesione determinerebbe una convergenza del consenso sulla determinazione qualitativa e quantitativa del presupposto, conferendo ad essa una particolare stabilità, la quale poggerebbe, a sua volta, sulla peculiare verosimiglianza del risultato (in questi termini, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 265). Nell’abbracciare questa linea interpretativa, dunque, parrebbe possibile sostenere la tendenziale sovrapponibilità tra valore di mercato dell’azienda e valore del medesimo bene resosi definitivo, mediante adesione, ai fini del registro. Va tuttavia segnalato, anche con riferimento al caso affrontato dalla sentenza, come l‘adesione rappresenti solamente una delle possibili modalità attraverso cui si può ottenere la definitività del valore venale, il quale potrebbe formarsi anche in altro modo, senza che le parti esprimano alcun consenso sulla reale consistenza del complesso produttivo (vedi, ad esempio, i casi degli avvisi di accertamento di maggior valore o delle sentenze non impugnate per inerzia delle parti). Inoltre, la linea interpretativa che vede nell’accertamento con adesione una 8 d’esperienza (legge economica) citata più in alto e rappresenta, per contro, la sintesi di una pluralità di situazioni, esigenze ed interessi di eterogenea natura. Ciò vale per il Fisco, che può evitare il processo, liberare forza lavorativa in altre direzioni e riscuotere immediatamente la maggiore imposta accertata. Vale anche per il contribuente, il quale può evitare l’instaurazione di una causa contro l’Agenzia delle entrate, sottraendosi in questo modo allo stato ansiogeno che potrebbe generarsi mediante l’innesco della controversia. Il contribuente può conseguentemente eliminare, ab origine, il pericolo di soccombenza, “ripulire” il complesso aziendale da pendenze che potrebbero rallentare o pregiudicare una successiva, ulteriore dismissione del complesso produttivo, se non addirittura offuscarne l’immagine. Il medesimo contribuente può beneficiare, infine, delle sanzioni in misura ridotta(13). Sulla definizione del valore ai fini dell’imposta di registro incide anche la disciplina dettata in punto di solidarietà passiva. In un comparto fiscale nel quale le parti contraenti rispondono, in solido e paritariamente, dell’imposta complementare, l’acquirente potrebbe determinarsi per l’adesione sulla scorta di valutazioni che rimangono completamente estranee alla sfera decisionale del venditore. Le stesse considerazioni valgono, a maggior ragione, nel caso in cui il vincolo di solidarietà risulti esteso a più di due soggetti, poiché in una simile situazione è possibile che l’adesione venga perfezionata con la consapevolezza che, nel rapporto interprivatistico, la maggiore imposta e le sanzioni potranno essere ripartire tra più persone e, pertanto, meglio sopportate sul versante economico e finanziario. Sono queste, in estrema sintesi, le ragioni per le quali può accadere che un’azienda avente valore commerciale uguale a 1000 venga valutata dal funzionario in cifra pari a 1200, con definizione su importo pari a 1100 per motivi, come già detto, di pura convenienza. Si ribadisce il concetto: talvolta può apparire vantaggiosa la ripartizione tra i coobbligati un carico fiscale ingiusto piuttosto che affrontare un processo dominato da un elevato grado di incertezza su questioni estimative. La conclusione che possiamo trarre dal nostro ragionamento è, a questo punto, chiara come il sole. modalità di determinazione del presupposto non è condivisa da quanti (ad esempio, P.RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 314; ID., Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Rass. Trib., 2008, 599) attribuiscono all’istituto de quo natura transattiva, in quanto <<caratterizzato dalle reciproche concessioni delle parti in presenza di una res dubia>>. Lo stesso può dirsi con riferimento a coloro i quali (ad esempio, G.FALSITTA, Il contributo di “Diritto e pratica tributaria” alla promozione e al progresso dello studio del diritto tributario, in Riv. Dir. Trib., 2007, I, 125; ID.; Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua <<indisponibilità>>, in S. La Rosa (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 50,) pongono quella concordataria tra le discipline che consentono la rinuncia al credito tributario, in contrasto con il principio della indisponibilità. E’ evidente come, attraverso le linee interpretative da ultimo richiamate, si rafforza l’idea del netto disallineamento tra valore di mercato dell’azienda e valore definito ai fini dell’imposta di registro. 13 Questo particolare aspetto è segnalato da F.TESAURO, Istituzioni di diritto tributari, cit., 242. 9 Il valore definito ai fini dell’imposta di registro non si presta ad essere acriticamente ed automaticamente travasato nel comparto dell’imposizione reddituale, nella prospettiva di supportare, in quest’ultimo settore, una presunzione di occultamento del corrispettivo. Non v’è dubbio che, dal punto di vista del funzionario, un modello operativo siffatto potrebbe rivelarsi assai conveniente: potendo contare su un valore già definito ai fini della citata imposta sui trasferimenti, sarebbe estremamente agevole immettere tale dato nel percorso che conduce alla quantificazione della plusvalenza patrimoniale rilevante ai fini IRPEF, facendo leva, oltretutto, sulla sentenza qui commentata. Tale operazione, peraltro, si espone alle critiche sopra evidenziate: essa incide sulla consistenza del “fatto noto”(14), perché la regola di esperienza alla quale abbiamo fatto riferimento più in alto è incentrata sui valori concretamente desumibili dal mercato, non su quelli artificialmente generati a tavolino, in sede di concordato. Siamo perciò al cospetto di un doppio divello di valori, uno economico e l’altro fiscale. Ma l’acritico impiego di quest’ultimo in una disciplina che collega la tassazione delle plusvalenze patrimoniali al corrispettivo applicato rappresenta, se così possiamo dire, un “cortocircuito argomentativo”, capace di minare alla base lo schema inferenziale sul quale dovrebbe incentrarsi la presunzione di occultamento del prezzo. V’è dunque spazio per rivedere il principio giuridico affermato dalla Corte e per precisare che, qualora l’amministrazione finanziaria intenda rettificare una plusvalenza patrimoniale movendo dallo scarto tra corrispettivo applicato e valore di mercato dell’azienda, esso (ufficio) non potrà sottrarsi all’onere di dimostrare quest’ultimo elemento, quale che sia il valore definitivamente cristallizzato nel comparto dell’imposizione sui trasferimenti. Superata questa fase (e provato, dunque, il valore di mercato), l’amministrazione finanziaria non potrà tuttavia adagiarsi sul citato differenziale per sostenere la propria linea accusatoria, ma dovrà indicare le ragioni per le quali, a partire dal differenziale medesimo, è probabile che si sia verificata la fattispecie di occultamento del corrispettivo. Si ripropone, dunque, il problema dell’esaustiva esposizione dello schema argomentativo che, a partire dal richiamato valore di mercato, consenta di affermare che il disallineamento rispetto al prezzo dichiarato in atti è sintomatico di evasione tributaria. 14 La necessità di impostare lo schema inferenziale su un fatto noto (non già su fatti ipotetici, ideali, normali e così via) è sottolineata, ad esempio, da Cass,sez. trib., 24 aprile 2008 – 11 giugno 2008, n. 15416, in Fisco, 2008, 5271 e ss., stando alla quale il riferimento alle medie di settore, ai fini dell’accertamento induttivo del reddito d’impresa, non integra un fatto “noto”storicamente provato ed è conseguentemente incapace di sorreggere la presunzione semplice della quale l’amministrazione finanziaria si avvale per la ricostruzione della base imponibile. 10 4. Le presunzioni semplici: l’importanza del confronto tra contribuente ed amministrazione finanziaria in sede istruttoria nella prospettiva della motivazione dell’atto e, segnatamente, della esaustiva esplicitazione del collegamento tra fatto noto e fatto ignoto. Ritorniamo, però, alle considerazioni svolte in partenza. Laddove si tratti di provare fatti economici attraverso presunzioni semplici, gli automatismi argomentativi ed i rinvii ai precedenti giurisprudenziali servono a poco ed è necessario ragionare, invece, sulle caratteristiche del caso concreto. Stando alla sentenza, una volta che sia stata dimostrata la divaricazione tra prezzo e valore, opererebbe “la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva”. L’onere probatorio si trasferirebbe, a questo punto, sul contribuente, sul quale graverebbe il compito di convincere il giudice “di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore”. E’ facile osservare come, in virtù dello schema argomentativo qui sopra prospettato (ma da noi avversato), i funzionari non sarebbero tenuti ad alcuna attività istruttoria e tanto meno al confronto con il contribuente. Una volta riscontrato il suddetto scarto tra valore e corrispettivo, la presunzione avrebbe infatti ottenuto il proprio fondamento (sufficiente fondamento!) e la palla passarebbe al contribuente, per l’impostazione della propria linea difensiva. Questa conclusione è inaccettabile. “Inaccettabile”, perché, senza tirare in ballo l’art. 97 Cost., il principio forgiato dalla Corte assume una connotazione premiale nei confronti dei funzionari meno zelanti, che potrebbero non avvalersi affatto dei poteri istruttori ad essi spettanti ex lege, consapevoli del fatto che lo scarto prezzo-valore è più che sufficiente a sorreggere la ricostruzione presuntiva della plusvalenza. “Inaccettabile”, perché costituisce un incentivo agli accertamenti a tavolino, privi del ben che minimo contatto con la realtà economica sottostante. Ancora “inaccettabile”, perché spinge alla deresponsabilizzazione dei soggetti deputati al controllo(15), la quale si traduce, a sua volta, in una vera e propria omissione della motivazione. Non vogliamo ripetere quanto già rilevato sopra, se non per rimarcare come la differenza tra corrispettivo applicato e valore di mercato dell’azienda non consenta, da sola, di comprendere le ragioni per le quali una porzione del prezzo sarebbe stata occultata. Più chiaramente, dimostrato che esiste una divaricazione tra il corrispettivo dichiarato in atti ed il valore commerciale del bene, è necessario che l’amministrazione finanziaria indichi al contribuente le ragioni per le quali può dirsi altamente probabile, nel caso specifico, il verificarsi della fattispecie d’evasione (16). E’ evidente che, alla luce di quanto sopra, non ci si può affidare ai precedenti giurisprudenziali: qui non si tratta di forgiare un principio giuridico valevole in 15 Per alcuni spunti al riguardo cfr R.LUPI, Le illusioni fiscali, Bologna, 1996, 51 e ss. 16 Su questi aspetti, vedi I.MANZONI-G.VANZ, Il diritto tributario, loc.cit. 11 ogni occasione e circostanza, bensì di argomentare il passaggio dal fatto noto a quello ignoto, secondo schemi che, a nostro avviso, necessariamente divergono da caso a caso. Ergo, in queste situazioni è indispensabile che gli uffici avviino la fase del confronto con il contribuente(17) e facciano uso dei poteri istruttori di cui dispongono, al fine di avvicinarsi alla fattispecie concreta e di conoscerla nel miglior modo possibile. Per contro, il funzionario non può essere trasformato in un mero rilevatore di disallineamenti riguardanti il numerario e deve porsi (oltre che essere posto) nella condizione di intercettare i flussi della ricchezza. In questa prospettiva, gli scarti tra prezzo e valore di mercato possono assumere valore sintomatico-indiziario dell’evasione. Ma una volta rilevato il suddetto scarto e una volta maturato il sospetto che l’atto di vendita dissimuli una parte del prezzo, è essenziale procedere ad una seria attività istruttoria, della quale, tuttavia, non v’è traccia nella sentenza in rassegna. Appaiono decisive, in questa prospettiva, le indagini di tipo bancario-finanziario presso il venditore e/o presso l’acquirente. Non condividiamo, invece, la linea prospettata nella pronuncia in commento. Lo schema operativo ad essa sotteso, oltre che erroneo per le ragioni sopra esposte, è troppo formalistico: l’atto autoritativo è interamente incentrato sulla differenza tra valore dell’azienda e prezzo dichiarato in atti, mentre si trascura che il diritto tributario è disciplina piegata alla misurazione di fatti economicamente rilevanti, con i quali, a nostro modo di vedere, è necessario che l’amministrazione finanziaria prenda contatto. MAURO BEGHIN 17 Sul tema della collaborazione tra Fisco e contribuente, anche nella prospettiva dell’interesse erariale alla completezza delle informazioni assunte, in funzione della esaustiva motivazione dell’atto autoritativo, si veda il fondamentale lavoro di L.SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, 111 e ss. Sullo stesso argomento, alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 212/2000, il recente contributo di G.MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 102 e ss. 12