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Giovedì
Estratto da
David Nobbs, Caduta e ascesa di Reginald Perrin
Titolo dell’opera originale
The Fall and Rise of Reginald Perrin
Traduzione dall’inglese di
Clementina Liuzzi e Daniele Parisi
© David Nobbs 1975
Pubblicato per la prima volta con il titolo The Death of Reginald Perrin
da Victor Gollancz 1975
© 2011 astoria srl.
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: maggio 2011
ISBN 978-88-96919-10-1
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Quando Reginald Iolanthe Perrin si incamminò per andare al lavoro giovedì mattina, non aveva alcuna intenzione
di chiamare sua suocera ippopotamo. Nulla avrebbe potuto
essere più lontano dai suoi pensieri.
Fermo sul portico della sua casa in stile neogeorgiano
baciò la moglie Elizabeth. Lei gli tolse un pezzetto di cotone bianco che gli si era attaccato alla giacca e gli diede la
valigetta di pelle nera. Vi erano incise in oro le sue iniziali,
R.I.P.
“Ti si è aperta la cerniera,” sibilò, anche se intorno non
c’era nessuno che potesse sentirla.
“È proprio inutile che si apra in questi giorni,” replicò
lui, mentre faceva gli opportuni aggiustamenti.
“Smetti di preoccupartene,” disse Elizabeth. “È questa
ondata di caldo, nient’altro.”
Lo guardò mentre si incamminava per il giardino. Era
un uomo alto, quasi un metro e ottanta, con spalle rotonde
e piedi a papera. Aveva un corpo molto peloso e a scuola
lo avevano soprannominato Stuoia di cocco. Camminava
a grandi passi, il corpo proteso in avanti‚ nell’ansia di non
perdere il treno delle otto e sedici. Aveva quarantasei anni.
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Rondoni si inseguivano alti nel cielo azzurro di giugno.
Rover 2000 scorrevano dolcemente per i viali di case in stile
finto Tudor e finto georgiano e c’erano cancelli bianchi davanti a ogni ingresso delle proprietà.
Reggie camminò per Coleridge Close, svoltò a destra per
Tennyson Avenue, quindi a sinistra per Wordsworth Drive,
e giù per il passaggio che porta a Station Road. Stava per
venirgli un turbolento mal di testa, e sentiva le gambe insolitamente pesanti.
Si fermò al suo solito posto sulla banchina, di fronte a una
cabina telefonica. Lo raggiunse Peter Cartwright. Un custode indiano stava dando una pulita ai margini del giardino
della stazione.
C’era una gran quantità di polline e Peter Cartwright
ebbe un violento attacco di starnuti. Non riuscì a trovare un
fazzoletto, così andò dietro l’angolo del bagno degli uomini,
accanto ai secchi antincendio, e si soffiò il naso nel supplemento speciale del “Guardian” sulla Rhodesia. Lo accartocciò e lo mise nel cestino verde dei rifiuti.
“Scusa,” disse, tornando da Reggie. “Ursula si è scordata i fazzoletti.”
Reggie gli prestò il proprio. L’otto e sedici giunse con
cinque minuti di ritardo. Mentre si avvicinava, Reggie indietreggiò, per timore di gettarsi sotto il treno. Riuscirono a
trovare posto. La locomotiva era prossima all’epilogo della
sua vita attiva e Reggie era seduto in corrispondenza di una
ruota. Gli scossoni gli facevano scivolare i calzini alle caviglie ed era difficile compilare le parole crociate in maniera
leggibile.
Poco prima di Surbiton, Peter Cartwright ebbe un altro
attacco di starnuti e si soffiò il naso nel fazzoletto di Reggie,
su cui c’erano le iniziali R.I.P.
“Finito,” disse Peter Cartwright, scrivendo a matita l’ultima definizione mentre sferragliavano attraverso Raynes
Park.
“Io sono bloccato all’angolo in alto a sinistra,” disse Reggie. “È che proprio non conosco nessun poeta boliviano.”
Il treno arrivò a Waterloo con undici minuti di ritardo.
L’annuncio dell’altoparlante disse che era dovuto a “difficoltà di personale a Hampton Wick”.
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La sede principale della Sunshine Desserts era un edificio
informe di cinque piani sulla South Bank, tra i binari ferroviari e il fiume. Il cemento era abbondantemente macchiato
da sporcizia e pioggia. L’orologio sopra l’ingresso principale era rimasto fermo alle tre e quarantasei dal 1967, e ogni
trenta secondi, per tutta la notte, un’insegna al neon lampeggiava la scritta rossa “Sunshin Des erts” attraverso il fiume.
Mentre Reggie avanzava verso la porta a vetri, fu percorso da un brivido di freddo. Nell’atrio c’erano ficus afflosciati e logori sedili di pelle nera. Rivolse un sorriso all’annoiato receptionist.
L’ascensore era di nuovo fuori uso, e fece a piedi le tre
rampe di scale fino al suo ufficio. Scivolò e quasi cadde sul
pianerottolo del secondo piano. Era sempre stato maldestro. A scuola veniva chiamato Goffo, quando non lo chiamavano Stuoia di cocco.
Attraversò il logoro tappeto verde dell’ufficio open space
del terzo piano, passando davanti alle segretarie sedute alle
loro scrivanie.
Il suo ufficio aveva finestre su due lati, offrendo un’ampia veduta su magazzini anneriti e ponti ferroviari. Lungo
le altre due pareti c’erano schedari verdi. Un tabellone era
stato appeso al tramezzo accanto alla porta, ed era ricoper-
to di avvisi, cartoline dalle vacanze, e un calendario fornito
gratuitamente da un ristorante cinese a Weybridge.
Convocò Joan Greengross, la sua leale segretaria. Aveva un corpo snello e un gran seno, e le protuberanze delle ginocchia diventavano bianche quando accavallava le
gambe. Erano otto anni che lavorava per lui – e non l’aveva
mai baciata. Ogni estate lei gli mandava una cartolina da
Shanklin (isola di Wight). Ogni estate lui le mandava una
cartolina dal Pembrokeshire.
“Come andiamo questa mattina, Joan?”
“Ottimamente.”
“Bene. Che bel vestito, è nuovo?”
“Ce l’ho da tre anni.”
“Ah.”
Lui sistemò nervosamente delle carte sulla scrivania.
“Già,” le disse. La matita di Joan era sospesa sul suo
blocchetto. “Già.”
Guardò fuori verso la lurida strada assolata. Non riusciva a convincersi di dover cominciare. Non aveva l’energia
per mettersi all’opera.
“A G.F Maynard, Fattoria Randalls, Somerby inferiore,”
cominciò infine, pensando a un’altra fattoria, a messi dorate, alla sua giovinezza.
“Grazie per la sua lettera del 7 c.m. Mi dispiace molto
che trovi la conversione alla scala Metzinger inopportuna.
Le posso assicurare che molti dei nostri fornitori si sono già
accorti che la nuova scala è il metodo più realistico per classificare susine e prugne. Con la venuta… no, con l’avvento del sistema metrico confido nel fatto che a lungo andare
non avrà a pentirsene…”
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Finì la lettera, ne dettò svariate altre perfino più noiose, e
tuttavia ancora non pensava alla possibilità di chiamare sua
suocera ippopotamo.
Fu percorso da un altro brivido. Era un sintomo, ma non
lo riconobbe come tale e pensò che forse stava covando l’influenza estiva.
“Devi vedere C.J. alle undici,” disse Joan. “E hai la cerniera aperta.”
Puntuale alle undici entrò nell’anticamera dell’ufficio di
C.J. al secondo piano. Non si poteva far attendere C.J.
“La sta aspettando,” disse Marion.
Si introdusse nel sancta sanctorum di C.J. Era una stanza larga, con una spessa moquette gialla e due tappeti rossi e
tondi, essendo giallo e rosso i colori simbolo della Sunshine
Desserts e di tutto ciò che loro rappresentavano. Nella remota
distanza, di fronte a una grande vetrata, sparuti pezzi di mobilia stavano raggruppati insieme. E lì troneggiava C.J. sulla
sua sedia girevole, dietro la scrivania di palissandro. Davanti c’erano tre imbarazzanti sedie pneumatiche, e sulle pareti
gialle erano appesi tre quadri: un Francis Bacon, un John
Bratby, e una foto di C.J. con in mano la mousse di limone
che aveva vinto il secondo premio nella categoria cibi pronti
al Paris Concours des Desserts del 1963. La finestra dominava
una bella vista sul Tamigi, con a est il Parlamento sullo sfondo.
Il giovane Tony Webster era già lì, su una delle sedie pneumatiche. Reggie prese posto accanto a lui. La sua sedia sospirò. Si reclinava all’indietro e non aveva braccioli. Era davvero
scomoda.
David Harris-Jones entrò senza fiato. Era un uomo alto
e camminava come se si aspettasse che delle basse travi gli
piombassero addosso da tutti i lati.
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“Mi scusi, sono… beh, non proprio in ritardo ma…
ehm… non proprio in anticipo,” disse.
“Si sieda,” abbaiò C.J.
Obbedì. La sua sedia emise una lieve pernacchia.
“Allora,” disse C.J. “Bene, signori, tutti i reparti devono
convergere sul progetto gelati esotici. Quella Pigeon ha presentato un rapporto alquanto positivo.”
“Magnifico,” disse il giovane Tony Webster con la sua
voce priva di inflessioni.
“Super,” disse David Harris-Jones, che era andato a una
mediocre scuola privata.
Esther Pigeon aveva condotto un’indagine di mercato
sulla fattibilità della vendita di gelati esotici al gusto di frutti
orientali. Aveva una soffice peluria sulle gambe e sul labbro
superiore.
Reggie scosse improvvisamente la testa, cercando di dimenticare la soffice peluria della signorina Pigeon e di concentrarsi sul lavoro in corso.
“Che c’è?” disse C.J., notando la scrollata di capo.
“Niente C.J.,” disse Reggie.
C.J. gli lanciò un’occhiata penetrante.
“Sarà un vero successo,” disse C.J. “Non sarei arrivato
dove sono oggi senza riconoscere un vero successo quando
ne vedo uno.”
“Magnifico,” disse il giovane Tony Webster.
“La prossima cosa da fare è prendere una decisione definitiva riguardo ai gusti,” disse C.J.
“Maurice Harcourt sta organizzando una degustazione
per oggi pomeriggio alle due e mezza,” disse Reggie. “Ho
circa trenta persone che ci vanno.”
C.J. chiese a Reggie di rimanere dopo che Tony Webster
e David Harris-Jones se n’erano andati.
“Sigaro?”
Reggie prese un sigaro.
C.J. si inclinò minacciosamente all’indietro sulla sedia.
“Il giovane Tony è un bravo ragazzo,” disse.
“Sì, C.J.”
“Me lo sto crescendo.”
“Sì ,C.J.”
“Questo progetto dei gelati esotici è davvero entusiasmante.”
“Sì, C.J.”
“Ti dispiace se ti faccio una domanda personale?” disse
C.J.
“Dipende dalla domanda,” disse Reggie.
“Questa è davvero molto personale.” C.J. puntò la lampada d’alluminio che aveva sulla scrivania verso la faccia di
Reggie, come se potesse abbagliare anche da spenta. “Stai
perdendo la grinta?” domandò.
“No C.J.,” disse Reggie. “Non sto perdendo la grinta.”
“Sono contento di sentirlo,” disse C.J., “Non siamo una
di quelle aziende terribili che pensano che uno non serva
più a niente dopo i quarantasei anni.”
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Prima di pranzo Reggie andò a vedere il dottor Morrissey nel piccolo ambulatorio al piano terra, vicino alla sala di
ricreazione.
C.J. aveva fornito la Sunshine Desserts di tutto quello che pensava un’azienda di prim’ordine dovesse avere.
L’aveva dotata di una sala di ricreazione, con un bersaglio
per le freccette e un piccolo tavolo da ping-pong. L’aveva
fornita di un campo sportivo a Chigwell, condiviso con la
Banca Nazionale del Giappone, e non era colpa sua se il
campo da cricket era stato rovinato dalle talpe. Le aveva
dato una compagnia teatrale amatoriale, che aveva portato in scena opere di autori di natura così eterogenea come
Shaw, Ibsen, Rattigan, Coward e Briggs del Reparto Spedizioni. E le aveva dato il dottor Morrissey.
Era un ometto avvizzito con la pelle afflosciata sul viso, e
qualsiasi malattia uno potesse avere lui ce l’aveva in peggio.
“Mi sento le gambe davvero pesanti,” disse Reggie. “E
ogni tanto sono percorso da un vero e proprio brivido. Penso che potrei essermi preso l’influenza estiva.”
Le pareti erano tappezzate da grafici del corpo umano. Il
dottor Morrissey piantò un termometro in bocca a Reggie.
“Elizabeth sta bene?” disse il dottor Morrissey.
“Sta molto bene,” biascicò Reggie attraverso il termometro.
“Non parlare,” disse il dottor Morrissey. “Vai di corpo
regolarmente?”
Reggie annuì.
“E come vanno le cose al tuo ragazzo?”
Reggie fece il pollice verso.
“Mestiere difficile, recitare. Dovrebbe limitarsi a cose amatoriali come suo padre.”
Reggie era una colonna portante della compagnia teatrale Sunshine. Una volta aveva interpretato Otello con Edna
Meadowes, del Reparto Imballaggi, nel ruolo di Desdemona.
“Qualche dolore al petto?” chiese il dottor Morrissey.
Reggie scosse la testa.
“Dove andrai per le vacanze quest’anno?”
Reggie cercò di mimare Pembrokeshire.
Il dottor Morrissey rimosse il termometro.
“Pembrokeshire,” disse Reggie.
“In ogni caso hai una temperatura normale.”
Esaminò occhi, lingua, petto e riflessi di Reggie.
“Ti senti fiacco e pigro?” disse il dottor Morrissey. “Incapace di concentrarti? Hai perso la gioia di vivere? Molte emicranie? Ti addormenti davanti alla televisione mentre guardi gli sceneggiati? Non riesci più a finire le parole
crociate come una volta? Hai un sapore cattivo in bocca la
mattina? Continui a pensare ad atlete nude?”
Reggie era elettrizzato. Erano esattamente i sintomi del
suo malessere. La gente diceva che il dottor Morrissey non
valeva niente, l’unica cosa che faceva era darti due aspirine.
Non era vero: quell’ometto era un taumaturgo.
“Sì, è così. È esattamente così che mi sento.”
“È buffo. Anch’io. Chissà che cos’è,” disse il dottor Morrissey.
Diede a Reggie due aspirine.
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Maurice Harcourt aveva preparato un’ottima degustazione di gelati. A nessuno della sede centrale piaceva andare in visita ad Acton. Odiavano la fabbrica, con la sua
facciata color crema e verde scrostata, a metà fra un cinema
Odeon e una fermata dei pullman della Germania dell’Est.
Ricordava loro che l’azienda non sfornava solo programmi e decisioni, ma anche gelatine e riso al latte. Ricordava
loro che possedeva una piccola flotta di camioncini rosso
accesso con la scritta in giallo su entrambi i lati “Assaggia i
Flan della Sunshine: sono flan-tastici”. Ricordava loro che
C.J. aveva comprato due camion con il retro a forma di dolce alla gelatina. Acton era polverosa e ordinaria, ma furono tutti d’accordo che Maurice Harcourt aveva preparato
un’ottima degustazione di gelati.
Reggie aveva invitato un buon campione di palati. Su
un grande tavolo sistemato lungo un lato della sala conferenze del primo piano c’erano diciotto larghi contenitori, ognuno con un gelato di gusto diverso. A tutti era stata
data una scheda con sopra stampati i diciotto gusti e c’erano sei colonne che indicavano: “Gusto”, “Originalità”,
“Composizione”, “Commerciabilità”, “Aspetto” e “Commenti”. La luce del sole li illuminò mentre si mettevano
all’opera.
“Tesoro, questo all’ananas è un po’ troppo insipido,” disse Davina Letts-Wilkinson, che aveva quarant’otto anni, i
capelli ingrigiti tinti d’argento, le rughe in faccia e le gambe
più belle dell’industria di alimenti surgelati.
“Scrivilo,” disse Reggie.
“A me piace il mango,” disse Tim Parker dei Flan.
Tony Webster stava riempiendo la sua scheda con vera
diligenza. E così anche David Harris-Jones.
“Questo lime è maledettamente diabolico,” disse Ron Napier, rappresentante delle papille gustative del Reparto Trasporti.
“Scrivete tutto,” disse Reggie.
Davina continuava a seguirlo in giro per la stanza, e lui
sapeva che Joan Greengross li stava guardando. I gelati lo
facevano star male, il cervello gli batteva contro la fronte e
le gambe gli pesavano come piombo.
“Non è stupendo?” disse David Harris-Jones.
“Sì,” disse Reggie.
“Ti spunta un litchi in bocca,” disse Colin Edmundes
dell’amministrazione, la cui reputazione di arguto dipendeva interamente dal suo adattare arguzie già esistenti. “Ma
penso il litchi non fiorirà.”
Reggie si avvicinò a Joan, per tentare un approccio, e
perché non voleva che pensasse che lui era interessato alle
gambe di Davina Letts-Wilkinson.
“Ti stai divertendo?” disse.
“Per lo meno è una cosa diversa,” rispose lei.
“Che bel vestito, è nuovo?”
“Me lo hai chiesto stamattina.”
Tim Parker aveva portato Jenny Costain a Parigi. Owen
Lewis del Reparto Crumble aveva fatto ubriacare Sandra
Gostelow alla festa aziendale e prima di farlo le aveva fatto
indossare delle incerate gialle. Ma Reggie non aveva mai
nemmeno baciato Joan. Lei aveva un marito e tre figli. E
Reggie una moglie meravigliosa. Elizabeth era un tesoro.
Tutti dicevano che Elizabeth era un tesoro.
Reggie sorrise a Maurice Harcourt e leccò senza entusiasmo la sua sorpresa di mandarino.
“Scusami,” disse.
Corse fuori e vomitò l’anima nel bagno delle donne.
Non c’era tempo per raggiungere gli “uomini”.
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Furono riportati alla sede centrale nel bus aziendale, rosso acceso e a quattordici posti. La frizione era quasi andata.
Davina si mise accanto a Reggie e Joan si sedette dietro di
loro. Davina gli prese la mano e disse: “È stato un bellissimo pomeriggio. E bravo il mio vecchio intelligentone”. La
sua mano era appiccicosa e Reggie stava sudando.
Alle cinque e mezza si fermarono al Feathers. Una carta
da parati tartan sbiadita decorava le pareti e un tappeto tartan sbiadito ricopriva una funzione simile per il pavimento.
Reggie si sentiva ancora un po’ nauseato.
La combriccola della Sunshine era euforica. David Harris-Jones prese tre sherry. Davina se ne stava attaccata a Reggie. Fumarono e discussero di cancro ai polmoni e alcolismo.
Arrivò la pupattola di Tony Webster: aveva gambe snelle e
beveva Bacardi e cola. Owen Lewis raccontò due barzellette
sporche. Davina disse: “Scusate, ragazzi. Devo lasciarvi per
un momento. Problemi di donne”.
Mentre era via Owen Lewis strizzò l’occhio a Reggie e
disse: “Procede bene lì”.
“Reggie,” disse Colin Edmundes, “hai lasciato giù quello
che dovresti avere su.”
Reggie si chiuse la cerniera e se ne andò in tempo per
prendere il treno delle sei e trent’otto da Waterloo.
Il treno aveva undici minuti di ritardo a causa di un guasto della segnaletica a Vauxhall. Reggie trascinò le gambe
recalcitranti lungo Station Road, su per la salita, poi su per
Wordsworth Drive, girò a destra per Tennyson Avenue,
poi a sinistra per Coledridge Close. Il Complesso dei Poeti era tranquillo. I cancelli bianchi lasciavano fuori tutto il
traffico volgare e inappropriato. L’aria odorava di strade
roventi. Reggie trascinò il suo corpo logorato dalla battaglia su per il sentiero del giardino, con rose alla sua sinistra
e rose alla sua destra, la casa bianca e lucente di fronte a
lui. I balestrucci stavano nutrendo la loro prima nidiata sotto il cornicione. Si aprì la porta d’ingresso ed ecco
Elizabeth, alta e bionda, con ampi pantaloni color malva sulle cosce larghe e una camicetta blu a fiori sul seno
inconsistente.
Mangiarono il loro fegato e bacon nel “patio” del giardino
sul retro. Più avanti c’erano una betulla bianca e un pino. Il
fegato era cotto alla perfezione.
Non parlarono molto. Ognuno conosceva l’opinione
dell’altro su tutto, dal fascismo alla pittura a emulsione.
Lui sapeva quanto Elizabeth trovasse tutto troppo silen12
zioso da quando Mark e Linda se n’erano andati. Aveva
sempre intenzione di fare conversazione, si sentiva sempre
come se da lì a pochi minuti sarebbe stato in grado di fare
faville, ma poi non accadeva mai.
Quella sera si sentiva come se tra loro ci fosse una lastra
di vetro.
Il caldo aleggiava appiccicoso. Sarebbe diventato buio
prima di diventare fresco.
Reggie rigirò il suo caffè.
“Vedremo l’ippopotamo domenica?” disse.
“Cosa vuoi dire?” disse Elizabeth.
“Intendo tua madre. Ho pensato che per cambiare potevo chiamarla ippopotamo.”
Elizabeth lo fissò, la larga bocca aperta per lo stupore.
“Non è una cosa molto carina da dire,” commentò lei.
“Non è molto carino avere una suocera che assomiglia a
un ippopotamo,” disse lui.
Quella sera Elizabeth lesse il suo libro per più di mezz’ora
prima di spegnere la luce. Reggie non provò a fare l’amore.
Non era la serata giusta.
Rimase sveglio per parecchie ore. Forse sapeva che era
solo l’inizio.
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