qui - Piano di evacuazione

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Nebbie di primavera
Prefazione.
Respirai profondamente prima di accasciarmi al suolo. Immagini frastagliate di una vita vissuta
in prigionia mi si pararono davanti come tante diapositive di un film. Si susseguivano una dietro
l’altra, intente a farmi ricordare ciò che veramente era vita e che ora stavo perdendo. Il colpo
non fu doloroso; anzi lo sentii come un colpo liberatorio, uno sparo alla mia anima in trappola
che solo ora poteva essere libera. Diedi un ultimo saluto all’azzurro del cielo che tanto mi fu
compagno nei giorni felici della mia infanzia e ricordai il sorriso di quell’angelo che mi rese
finalmente libero, nel corpo e nell’anima.
390° giorno.
Morfeo aveva abbandonato quel luogo già da tempo, e come conseguenza di ciò c’era chi
aveva perso se stesso tra le nebbie dell’oblio. Le urla di uno di questi mi ridestarono da
quell’evanescente abbraccio che ogni notte veniva ad alleviare i miei dolori. Gridava la sua
salvezza, ma nello stesso tempo dichiarava la sua prossima morte. Demoni con l’anima
spalancarono le porte della cella facendo entrare quel pungente freddo che
contraddistingueva dicembre. La candida neve perdeva il suo attributo più grande se
associata a quelle viscide figure che stavano per condurre il prigioniero alla fossa. Come iene
fameliche, subito lo presero dalle caviglie e, a quella morsa, solo le dita si ribellarono,
stringendosi saldamente alle sbarre della finestra. Anche quel misero tentativo di salvezza
però fu vano. Lo trascinarono fuori. Urla disumane si aggiunsero allo stridio del corpo sul
cemento. Gettato tra fango e neve diventò l’abbondante pasto, per quanto d’abbondante
non ci fosse più nulla, se non la pelle attaccata alle ossa, di cinque cagne affamate non più
di cibo, ma di pura crudeltà. Di quest’ultima ne erano impregnati anche i cuccioli che, alieni
dalla dolcezza che contraddistingue quell’età, afferrarono con i denti le dita di quella
carogna fino a lacerarne le carni. Sangue e terra erano ormai fraterne da tempo e come tali
condividevano la morte. Questa, aleggiava ancora nell’aria quando, a uno a uno, fummo
costretti a uscire da quel cubicolo per affrontare un’altra giornata di lavoro. Mi diressi verso
la fonderia, luogo in cui andavo ormai da un anno a questa parte. Il freddo mi si fissò nelle
ossa e come una massa di sorci cominciò a rosicchiarle. Tutto ciò non giovava certamente
alla mia struttura, che già fragile, a stento si manteneva eretta. Il grigiore della fabbrica e
quella claustrofobica sensazione di repressione avrebbero potuto intaccare i colori della mia
anima per sempre, se quelli non fossero già stati soggiogati e resi docili dall’inumana prigionia;
il lavoro, ripetitivo e meccanico, che ero costretto a fare, avrebbe potuto dare il definitivo
ultimatum ai miei già troppo instabili nervi. Non ero mai stato un tipo calmo e pacato e non lo
sarei, certamente stato adesso. Il tempo era nostro sovrano. Come granelli di sabbia, a uno a
uno, i minuti fluivano via senza che la massa lavorante se ne potesse render conto. Ci
chiamarono a raccolta per consumare il pasto giornaliero, che di pasto, però, non aveva
neanche le sembianze. Un’acqua dal marrone incerto era scambiata per una sostanziosa
zuppa e quel pezzo di pane a noi promesso, dopo estenuanti ore di lavoro, non era altro che
un rancido pezzettino di pane lasciato da non so quando in balia delle fauci fameliche dei
topi. Lo consumai in fretta e nel giro di pochi minuti fui nuovamente in fabbrica. Allo scadere
del giorno ognuno tornò spontaneamente alla propria cella. Ammassati dentro come bestie
da macello, fu il rumore di una chiave e il pallido color crema della luna a dare la buonanotte
a quelle sessanta anime in pena.
391° giorno.
Fantasmi del mio passato vennero a farmi compagnia un’altra volta durante quella notte. Il
nauseabondo olezzo di morte e i gemiti di dolore si erano sostituiti alle morbide e rosee
labbra della mia Meredith, alle sue mani di madre, al suo generoso seno d’amante, al suo
sorriso perlato, ai suoi occhi di dea. Avrei dato il mondo per osservare quel magnifico giglio
che, con l’andare degli anni, lentamente sfioriva ma che conservava ancora il candore dei
suoi petali. Evanescenti e leggere, fluivano via le immagini del mio passato, lasciandomi tra le
mani solo nera cenere. I miei risvegli non erano certo dei migliori, e neanche quello che mi si
prospettava davanti lo sarebbe stato. Un odore nauseabondo di feci e vomito mi penetrò
nelle narici. Era passato un anno e avrei dovuto abituarmi a quel fetore, ma il mio stomaco, da
sempre debole, non riusciva a non estromettersi dal partecipare a quel disgustoso
comportamento. Era lunedì, e, come ogni settimana, ci aspettava la fila per la doccia. Furono
fatte entrare per prime le donne. Persa ogni morbidezza femminile, quel gruppo di giovenche
sterili si dirigeva verso il grande stanzone adibito a doccia. Sui loro volti, solchi profondi
raccontavano storie di notti insonni passate a urlare il nome di un figlio vivo, ormai, solo nei
ricordi. Venne poi il turno degli uomini. Occhi di vitello su corpi mangiati dai corvi: ecco
cos’eravamo diventati. Disperazione e fame si potevano leggere sui corpi di ognuno dei miei
compagni e le costole, ben visibili a occhio nudo, ne facevano da macabra cornice.
Ero solo una bambina, e come tale tutto mi sembrava un gioco, ma una parte di lui restò in me.
I miei genitori, da sempre fedeli all'SS, non avrebbero mai immaginato che cosa io sia
diventata oggi e soprattutto quali valori portavo nel cuore; Quel giorno mi sembrò uno come
gli altri. Tutto, nei colori della mia innocenza, si tingeva di magia e finzione; anche quell’inferno
allora mi appariva diverso.
Gocce, una dopo l’altra cadevano lente sul mio viso. L’impianto di fortuna, che costituiva
l’apparato per la doccia, non aveva certamente nulla a che fare con l’enorme vasca da
bagno di casa mia, in cui, tra sorrisi e schizzi d’acqua, adoravo fare il bagno alla mia piccola
Charlie. Quei riccioli color nocciola e quelle fossette da birbante, che costantemente si
accompagnavano a un sorrisone a trentadue denti, tanto genuino da scaldarti il cuore,
erano, ormai, solo un anelito di sperata libertà, saldamente aggrappato a ciò che rimaneva
del mio cuore. I cinque minuti messi a nostra disposizione per la propria igiene personale,
volarono via come un battito di ciglia. Costretti a indossare quei pigiami scoloriti dal forte
odore di candeggina, uscimmo nell'atrio, pronti ad affrontare un’altra giornata tra fuoco e
fumi.
Li portavo bene i miei sei anni. Guanciotte color pesca, due occhietti vivaci e furbetti e un
certo non so ché di fatato nei miei gesti, mi rendevano la cucciolotta di casa, quella che tutti
vorrebbero coccolare solo per farsi regalare un dolcissimo sorriso. Ricordo diverse cose di
quel periodo: il rossetto di mamma, con il quale disegnai sui muri della sala da pranzo le
fantastiche avventure del topino Smith, la bambola Lucy, mia fedele compagna di letto
ancora oggi, il dopobarba di papà, dal forte odore muschiato misto a uno strano aroma di
sigaro e tabasco e, infine, le lacrime di gioia sul viso di Alan quel 23 Dicembre del 1942.
Ero un automa ormai; Il fuoco e quel carattere nerastro dell’aria rendevano quel luogo simile
all’inferno. Tonfo dopo tonfo, sentivo il sudore scendermi sulla fronte e ognuna di quelle
martellate era un nuovo rintocco dell’orologio del tempo. Nuvole nere si affollarono tra i miei
pensieri. Sentivo di star per scoppiare, per cadere, per abbattere ogni mia difesa e
abbassare la testa al regime. Idee chiare e ben definite mi aleggiavano nella mente sin da
quando avevo diciassette anni, e ora che ne avevo cinquanta, quelle stesse idee erano
diventate il fulcro della mia esistenza. Avrei potuto dare la mia stessa vita per esse, ma la loro
salvaguardia mi costò una pena più terribile, la prigionia; come un uccello in gabbia, vedevo
volare via da lontano la mia libertà, conscio della mia futura vita tra le sbarre.
Nonostante la mia età, ricordo nitidamente il giorno del nostro incontro. La mattinata a casa
Scheller era cominciata come qualunque altra. Il sole, con i suoi raggi, faceva capolino tra le
fessure delle imposte delle finestre, augurando una buona giornata agli abitanti ancora
dormienti. Solo una di esse era già in attivo da circa due ore: mia madre; come ogni mattina,
le aspettava un intenso turno in infermeria ma, nonostante ciò, non rinunciava mai a prendersi
cura della propria famiglia. Un aroma di caffè e brioche appena sfornate s’insinuò tra i
corridoi. Stuzzicati da quell’intrigante fragranza, nel giro di pochi minuti fummo tutti sotto,
pronti a goderci quell’abbondante colazione. Una varietà di tipi umani mi si aprì davanti: alla
mia sinistra potevo trovare la bellezza leggiadra di mia madre che, con i suoi capelli color del
grano sempre raccolti in un elegante e serio chignon, sorseggiava un po’ di succo d’arancia;
alla mia destra, mio padre e la sua uniforme, potrei quasi dire di non averlo mai visto senza,
addentava un toast con la marmellata di fragole. Di fronte a me si stagliavano in tutti i suoi
novant’anni le canizie di quella che, a causa del suo Alzheimer, non poteva farmi da balia: mia
nonna. Proprio a causa di ciò mia madre doveva portarmi ogni giorno a lavoro con lei.
Raccolte gli ultimi pastelli e dopo aver preso la mia inseparabile Lucy, io e mia madre ci
avviammo verso la macchina. Una distesa di alberi ci precedette finché non arrivammo al
campo. Lo studio di mia madre, tra ampolle e fialette colorate, mi ricordava l’antro di uno
stregone. Passavo le giornate colorando il mio album ma quel giorno qualcosa cambiò. Il
guaire di cuccioli in lontananza attirò la mia attenzione e approfittando della disattenzione
di mia madre uscii dall’ambulatorio, attraversai qualche corridoio fino a trovarmi tra le strade
polverose del campo. Un gruppo di cucciolotti color panna stavano giocando tra loro. Avevo
da sempre desiderato un cane e proprio durante quelle vacanze speravo in un regalo dei
miei genitori che consistesse in un cucciolotto scodinzolante. Posai Lucy per terra e cominciai
ad accarezzare quei magnifici cucciolotti finché mia madre non mi venne a prendere per il
pranzo. Mentre andavo via in braccio a mia madre Lucy era lì, per terra. Notai qualcosa che
non avevo mai notato prima, un gruppo di persone strane che indossavano il pigiama in pieno
giorno si stava dirigendo nella posizione opposta alla mia. Uno di essi si girò verso la mia
direzione e raccolse Lucy.Mi svincolai da mia madre che dovette farmi scendere e cominciai a
correre: non volevo lasciare Lucy lì e non l’avrei fatto. Corsi più velocemente che potei e con
il fiatone arrivai proprio di fronte a quell’alto signore che con occhi inizialmente spenti aveva
raccolto la mia adorata Lucy ma che poi, con un gentile sorriso, me la ridiede.
Avevo appena finito il turno. Neri come le nostre anime stavamo per dirigerci al luogo in cui
veniva distribuito il pranzo quando qualcosa attirò la mia attenzione. Una voce di bambina, e
il brillare di due occhietti bagnati di lacrime in lontananza, mi attirarono a loro come mai
prima d’ora, come se qualcosa nella mia anima grigia si stesse risvegliando e stesse aprendo
le logore porte della memoria. Mi chiesi quale fosse la causa delle lacrime di quella delicata
creatura che, in quel mondo di orchi, si ergeva a modello di purezza e incontaminata libertà,
quando vidi proprio a un metro da me una bambola di pezza. Decisi di avvicinarmi e
raccoglierla. La sensazione del cotone tra le dita e la visione di quella piccola ninfa dai
capelli dorati che in tutta fretta si dirigeva verso di me, mi sembrò quasi un sogno e lo diventò
ancora di più quando avvicinandosi, potei vedere il verde smeraldo dei suoi occhi, tanto
luminosi e vitali da ridare un po’ di vita anche a chi era stata momentaneamente negata. Tesi
la mano per ridarle il gioco e, nel momento in cui anche lei lo afferrò, mi sembrò di tornare a un
passato non troppo recente in cui potevo abbracciare la mia piccola Charlie e vederla
lentamente crescere, l’incanto si ruppe quando, presa per l’altra mano dalla madre, venne
portata via e un colpo di manganello mi arrivò alle spalle facendomi perdere i sensi. Il buio e
un pavimento appiccicaticcio mi diedero il benvenuto in quella che sarebbe stata la mia
dimora per un po’. Cercai di alzarmi ma ancora i sensi, intorpiditi dal colpo, non me lo
permisero pienamente. Appoggiato con una mano alla parete, diedi uno sguardo intorno: una
stanza di pochi metri quadrati e una finestrella dalla quale filtrava la tiepida luce della luna
invernale e in cui sembrava che anche l’aria avesse quasi difficoltà a passare, avrebbero
rappresentato i miei unici compagni per non so quanto tempo. Decisi di godermi per un po’ il
silenzio riconquistato dopo lungo tempo, e sdraiatomi, mi abbandonai alle braccia di Morfeo.
Sapevo dove lo avessero portato, ma non sapevo perché lo volessi rivedere. Quella
domanda mi frullò per la testa per quasi tutta la notte finché, abbracciando Lucy, non ripresi a
dormire. L’indomani mattina mi aspettò la stessa routine: un bacio a Lucy appena sveglia, la
colazione, e poi subito in macchina pronta per un’altra giornata tra le scartoffie
dell’ambulatoria in cui lavorava mia madre, ma durante quel tragitto in macchina, una fervente
curiosità mi stava crescendo dentro. Quel giorno anche il fato fu dalla mia parte; un gruppo di
persone si era ammalato più gravemente del normale e mia madre, con le altre infermiere, era
talmente impegnata, da non accorgersi della mia assenza. Sgattaiolai fuori alla ricerca di
quello strano signore dal pigiama a righe che con così tanta tenerezza mi aveva guardata e
in quello sguardo sapevo essere nascosto il mio intero futuro. Mi diressi a ovest, proprio dove
lo avevo visto portare il giorno prima. Mi sentivo una piccola spia che, per eludere la
sorveglianza, si nascondeva di qua e di la. Era solo un gioco per me, un infantile gioco che
visto con gli occhi di un’adulta ,quale sono ora, si trasforma in un vero e proprio atto di
coraggio. Vedendo le guardie andare via, mi diressi pian piano verso quel grande casolare.
Non sapevo dove fosse, ma una serie di celle chiuse alla mia destra mi portò all’unica chiusa.
Sentivo di poterlo trovare lì ma, a causa della mia altezza, non arrivai a vedere chi ci fosse
dentro dallo spioncino. Corsi fuori sicura di poter trovare un altro modo per ringraziarlo.
Esplorai con lo sguardo la zona sempre attenta a non farmi scoprire, finché non vidi un
piccolo muretto che, iniziando con una ripida salita, mi portava proprio alla finestra di quella
cella. Mi affacciai e lo riconobbi; quel pigiama a righe non avrebbe potuto distinguerlo da
nessun altro in quel luogo ma qualcosa nel suo volto mi permise di riconoscerlo: raggomitolato
in un angolo della cella, dormiva appoggiato a una parete. Dovevo sbrigarmi e svegliarlo
perché sapevo che il tempo a mia disposizione non sarebbe stato molto. Palpai il terreno alla
ricerca di qualcosa da potergli tirare per svegliarlo e, trovata una piccola pietra, la lanciai
sperando di colpirlo. L’uomo sobbalzò e sembrò realmente confuso finché non mi vide.
Le mie due donne erano costantemente nei miei sogni. Rappresentavano l’unica via per
fuggire da quel luogo in cui. Anche la fantasia sembra negata e, nonostante sapessi di non
avere via di fuga, non avrei mai abbandonato il loro pensiero. La luce del sole mi annunciò la
nascita di un nuovo giorno ma le palpebre si rifiutarono di aprirsi, ancora troppo legate a
quel dolce ricordo. Furono però forzate ad aprirsi quando fui colpito da qualcosa. Non
sapevo da dove provenisse quel piccolo sassolino e guardandomi intorno cercavo una
spiegazione finché non la vidi. Piccola e dai capelli dorati stava lì, dietro quelle sbarre. Con
sguardo incuriosito mi guardava come se fossi un animale a lei sconosciuto, una scoperta
tutta nuova da poter gustare in ogni minimo dettaglio. Lo scambio di sguardi s’interrupe
quando lei mi parlò e con voce delicata mi ringraziò per il giorno prima. Non so dire cosa
provai in quel momento. Quella parola, grazie, tanto aliena a quei luoghi, ebbe lo stesso
effetto di un ciclone all’interno del mio cuore, spazzando, anche se per pochi minuti, tutta la
tristezza di cui era ricolmo. Iniziammo a parlare, e quel dialogo durò per altri tre mesi tempo in
cui avemmo l’occasione di conoscere i nostri passati per quanto quello di Anne fosse
teneramente piccolo e pieno di felicità. A esso contrapponevo il mio, fatto di dibattiti politici,
di manifestazioni in nome di ideali a cui non volterò mai le spalle, fatto di ricordi fragili come
ali di farfalla ma potenti come il ruggito di un leone. Vedevo in lei qualcosa di me, e non solo
perché assomigliava incredibilmente alla mia amata Charlotte, ma anche perché nei suoi
occhi riuscivo a vedere la stessa tenacia che per anni aveva motivato il mio spirito ad andare
avanti. Le raccontai di libertà e diritti, le raccontai di ciò che è giusto e ciò che non lo era e
anche se quelle parole potevano sembrare vane dette ad una bambina così piccola, sapevo
di star agendo nel modo giusto, sapevo che, comunque fosse andata per me, vecchia
carcassa dalla pellaccia troppo dura, quel piccolo fiore avrebbe portato avanti ciò in cui
credevo gridandolo al mondo con la forza di mille maremoti. Giorno dopo giorno mi affezionai
sempre più a quella piccola temeraria fin quando non decisi di regalargli una parte di me. Era
un giorno come qualunque altro, ed Anne mi era venuta a trovare come consuetudine durante
la pausa pranzo. Approfittando del piccolo spazietto tra le sbarre della finestra le passai un
ciondolo, una farfalla dalle ali azzurrine con dietro la sigla del nome della mia piccola
Charlotte Leopold, C L; il giorno in cui fui portato via, proprio lei, asciugandosi una lacrima,
me lo diede, con la promessa che non l’avrei mai dimenticata. Con il passare del tempo Anne
era diventata troppo per me, e quella piccola bambina dai grandi occhi verdi riuscì a
diventare anche la mia salvezza. Un giorno mi raccontò di come, seguendo un cucciolo,
aveva trovato un piccolo passaggio accanto all’ambulatorio della madre: mi sembrò un
miraggio, una rivelazione, un affronto alla vita ma comunque l’unica via per la salvezza.
Sapevo che mi avrebbero liberato dall’isolamento da lì a poco, e quel giorno finalmente
arrivò. Era probabilmente il tre marzo; la concezione del tempo all’interno di quel cubicolo
non era certo facile ma andai avanti grazie all’aiuto di Anne. Appena uscito dalla cella finsi
uno svenimento e subito fui portato nell’ambulatorio della madre di Anne. Appena aprì gli
occhi una bella signora dal sorriso gentile mi stava facendo degli impacchi alla testa per
farmi rinvenire. Decisi di richiudere gli occhi e di aspettare il momento più propizio per agire e
lo avrei aspettato insieme alla mia piccola Anne che giocava proprio lì accanto. All’ora di
pranzo l’ambulatorio fu vuoto. Velocemente mi rialzai e chiesi ad Anne di mostrarmi il
passaggio. Piccola quant’era, decise di passare prima lei e io la segui senza fiatare. Un tunnel
di terra e pietra mi portò finalmente alla luce. Anne cominciò a correre superandomi di un bel
po’. Per quanto fossi debole, a causa del mio precario stato di salute, iniziai anch’io a correre,
quando qualcosa mi raggiunse; la mia fuga non era passata inosservata e il suono delle
sirene provenienti dal campo mi risuonarono nelle orecchie. Uno stuolo di cani e di uomini
armati mi stava alle calcagna e uno di loro sparò riuscendo a colpirli alla schiena. Immagini di
una vita fatta di gioie e dolori si mischiarono alla visione del volto spaventato di Anne,
all’azzurro del cielo e al verde dei prati in lontananza. Rotolai giù per quella collina fino a
trovarmi di fronte all’immensa distesa celeste del cielo. Nella brezza primaverile la nebbia
piano piano si diradava rendendo il mio cuore e la mia anima più leggere. Potei dare l’ultimo
sorriso al bagliore del sole e affermare finalmente: sono libero.
Il profumo dell’erba appena bagnata della rugiada si mischiò a quelle che erano le mie
lacrime di disperazione. Alan non c’era più, ma qualcosa di lui continuò a vivere in me. Il
ricordo di quel giorno e la vista di quel disumano delitto, dalla quale venni portata via,
urlante, tra le braccia di mio padre, non mi spaventarono, ma mi resero solo più forte. Portai
nel cuore gli insegnamenti di quello strano signore dal pigiama a righe e guardando quella
farfalla dalle ali azzurrine combattei tutta la vita in nome della libertà.
Sabrina Rifiorito