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FOGLI D'AUTUNNO
S
Massimo Bosco – Frammenti
© 2016 - Massimo Bosco
Proprietà letteraria riservata.
Tutti i diritti riservati in tutto il mondo.
Prima edizione, novembre 2016
Massimo Bosco
Frammenti
FOGLI D'AUTUNNO
S
INDICE
5 Introduzione
15 Corpi interrotti
25 Il signore dei vermi
29 La stanza dei bambini
35 La torre del cimitero
45 Il morto
49 Il treno
61 Una non storia sull'Amore, il Vuoto e il Buio
67 La tradizione del Balek in Epîstäfth
73 Un estratto dal Libro delle Duecento Verità
85 Un dialogo tra Nulla e Nessuno
89 Man Dragora
93 Proprio in quel momento una piccola stella fece
capolino tra le fronde dell'albero
101 Una cena al Papadonprich
113 Escape
119 Non s'è padroni
123 Quid est Veritas, Claudia?
125 Il gnomo dei funghi caprini
133 Luysä
147 Il palumbro
153 L'elisir di corta vita
161 Moby Lick – ovvero, La balena nella scrittura di
scena in un teatrare improvvisato nel cesso
165 Un miracolo sconosciuto
173 Un sogno
177 Una venuta di Ishtar
183 Il viaggio di ritorno
187 Una spremuta di Satanacchia
211 Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro
219 Da un antico manoscritto rinvenuto a Gôgne sur
la Mére
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introduzione
Un'introduzione? No di certo!
Che la creatività debba necessariamente essere in
relazione con l'eccellenza è un'idea che è stata portata
avanti nel corso del tempo per le ragioni più disparate e
che, nel secolo scorso, ha raggiunto livelli addirittura
esasperanti. Un'idea che, tra l'altro, si è fatta via via
sempre più ruffiana in ragione di un profitto
economico che con la creatività, il pensiero e l'arte non
ha nulla a che vedere. La rivoluzione informatica e
l'accesso alla rete hanno cominciato a scardinare il
“mito del successo” così come lo si è sempre inteso
finora. Questo a vantaggio di uno spazio ideale
condiviso, ricco di contenuti e accessibile a tutti, che
promette di essere un potenziale serbatoio dal quale
potrebbero scaturire i capolavori di domani.
Quando nei primi anni novanta cominciai a battere
lettere sulla tastiera di un home computer non avrei mai
potuto immaginare come sarebbe cambiato il mondo
nel corso di pochi decenni. I computer oggi sono
ovunque e sono diventati degli strumenti eccezionali,
ormai insostituibili, in tutte le attività legate alla
creatività. Chiunque oggi può avere in casa uno studio
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di registrazione, una postazione per il montaggio video
e gli strumenti più avanzati per l'editing delle immagini.
Tutto a portata di mano, tutto a costi accessibili.
Grazie a questi mezzi è oggi possibile dare sfogo, in
maniera più completa, a quell'impulso creativo che –
anche se non sempre destinato a raggiunge i livelli più
alti – rimane una necessità e un bisogno fondamentale
per l'essere umano. Inoltre non è più nemmeno
necessario cercare di “farcela” per vedere la propria
opera pubblicata e distribuita: si fotta l'eccellenza!
Questi nuovi potentissimi mezzi stanno infatti
cambiando, per sempre, il modo d'intendere i processi
legati alle opere creative e alla loro diffusione.
Succede, di questi tempi, che una persona sia in
grado di scrivere, editare e stampare il proprio libro
senza nemmeno muoversi da casa. È semplicemente
meraviglioso. Ma una cosa bisogna dirla. L'autore autoprodotto incontra tutta una serie di inconvenienti che
non sono sempre semplici da affrontare: morto e
sepolto l'editore chi si prenderà cura di cose come
l'introduzione, le note biografiche, etc.? Nessuno. E
nessuno è un tipo piuttosto taciturno. Si potrebbe
pensare di optare per un conoscente compiacente, ma
questo non accade quasi mai.
Come fare, dunque? L'autore se le scrive da solo. E
così facendo, l'auto-prodotto, spesso si lascia prendere
la mano e ci racconta le meraviglie della sua vita, di
come abbia conseguito questo o quel titolo di studio, di
quanto siano stati buoni con lui i suoi parenti, dei suoi
gatti, etc. Il tutto rigorosamente in terza persona e
come se stesse raccontando le mirabolanti imprese del
capitano Cook. Inoltre, sovente, non è impossibile
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scorgere tra le righe indizi che lasciano intendere al
lettore che l'autore sia persino un fottutissimo genio.
Ovviamente incompreso.
Quando poi il “terzapersonista” comincia a delineare
i contorni della propria opera per la quarta di copertina
(o altre parti descrittive accessorie), lì cominciano i
dolori quelli veri. La categoria qui si suddivide in due
sotto-categorie distinte: quelli che confondono il lettore
con il delirio introspettivo – dal quale si evince che le
idee sono poche e piuttosto confuse – e quelli che
invece Dante li fa una sega!
Insomma: scriversi l'introduzione da soli nel
tentativo di creare un contenitore che sia esteticamente
credibile è una cosa da cani. Si corre il rischio di
abbaiare, e una scimmia senza coda che abbaia è
inutilmente ridicola.
Vedendo il desolante vuoto all'inizio del libro mi
sono chiesto se questa mia opera – ovviamente suprema
– avesse bisogno di un'introduzione.
Un'introduzione? No di certo! A dire il vero non
c'era bisogno nemmeno del libro, se proprio vogliamo
dirlo. Ma un'introduzione? Che vuoi introdurre? Lui, il
libro, s'è fatto da per sé, come dicono in quel di Rimini.
Quindi niente introduzione. Ma se ci fosse stata ci avrei
tenuto a precisare da qualche parte quanto segue.
Se si è disposti ad accettare che i grandi, gli
immortali,
quelli
che
stanno
nell' Olimpo,
corrispondono al mito, si faccia lo sforzo di accogliere
la volgare possibilità che i piccoli, gli sconosciuti, quelli
che stanno infognati in un merdoso quartiere popolare,
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corrispondano al cesso. Fatto proprio l'assioma,
dunque, l'eventuale lettore terrà bene a mente che
questo libro è una raccolta di frammenti senza pretese,
scritti nella maggior parte dei casi proprio lì, in quello
spazio che intercorre tra il pasto e il rotolone bianco.
Ciò detto si spera che chi legge possa trovarvici almeno
un pensiero, una suggestione, o anche solo una parola
sulla quale fantasticare per un attimo.
Sono convinto da tempo che la vita sia un'illusione e
che la realtà non esista e, investigando con attenzione le
opere immortali della letteratura, sono giunto alla
conclusione che, probabilmente, solo i presupposti
narrativi peculiari del genere horror e del grottesco
permettano di dire la verità. Benché lo scrivere di Kafka
– ad esempio – sia... strano? Demenziale? No:
kafkiano, la sua scrittura è l'unica a essere conforme
alla descrizione delle vicissitudini – del di dentro e del
di fuori – che caratterizzano l'esperienza umana.
L'horror e il grottesco si contrappongono al
meraviglioso contenitore del grande romanzo classico
che, seppur esteticamente ricco, non serba mai al suo
interno fatti riconducibili alla reale esperienza
dell'individuo; ne smentiscono quindi le illusioni,
destinate a essere per sempre perdute.
Essendomi trovato a dover lasciar scorrere le parole
in modo spontaneo – senza intenti e senza troppa
premeditazione – queste hanno autonomamente preso
la strada del macabro, del grottesco e dell'ironia
demenziale. E, se è vero che il risultato potrebbe
ricordare il parlare biascicato e inconsistente
dell'ubriaco, si tenga presente che certe cose si possono
dire solo con la mente confusa dai fumi dell'alcool.
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Un eventuale “qualcuno” potrebbe pensare: “sì,
ma... duecento pagine?”. Già. Quando ho deciso di
raccogliere in un unico volume tutta la produzione
della stanza da bagno me ne sono meravigliato anch'io.
Questo non può che suggerire che, se è vero che non è
dato aver certezza della bontà dell'opera, quello che di
certo si evince è che questa abbondanza grida a gran
voce che l'autore non può che essere – e il lettore non
ne dubiti – un gran cagone. E con questo anche le note
biografiche sono al completo.
Racconti scritti nel cesso da un ubriaco, quindi.
Bene. Ed è opportuno condividerli con il mondo?
Credo di sì. Del resto la decisione di concretizzare
materialmente ciò che di creativo c'è in noi comprende
per forza di cose una quantità innumerevole di persone;
nemmeno il più ipocrita degli autori potrebbe negare
che l'opera prende forma nel mondo materiale perché
altri occhi la vedano e altre mani l'accarezzino. Non si
danza mai da soli e, come dice Lovecraft, “nessuno
danza da sobrio, a meno che non si tratti di un pazzo”.
Le pagine che seguono sono quindi un invito. Un
invito alla compagnia, all'ubriachezza e al non-pensare.
Massimo Bosco
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“Nessuno danza da sobrio.
A meno che non si tratti di un pazzo.”
– H.P. Lovecraft
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Massimo Bosco
FRAMMENTI
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corpi interrotti
Quando Sarah riuscì finalmente ad aprire gli occhi
rimase perplessa. Sapeva di essere stata
imprigionata nel peggior incubo della sua vita,
aveva lottato per tornare alla luce, aveva lottato
per svegliarsi ma c'era qualcosa che non andava.
Per prima cosa riusciva a malapena a tenere le
palpebre aperte: erano come incollate tra loro e
sentiva un dolore pungente al bulbo oculare ogni
volta che tentava di guardare il mondo di fuori. E
poi era buio. Intorno a lei era tutto stranamente
buio, silenzioso e alieno. Quella non era la sua
camera da letto e questo la spaventava molto.
Anche perché non riusciva a ricordare niente se
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non di aver dormito tanto e di essere stata
imprigionata nel vuoto eterno di un sonno senza
sogni, dove la sua coscienza aveva lottato
disperatamente per poter tornare al mondo reale.
Ma la cosa di gran lunga peggiore era che non
riusciva ad avere coscienza del suo corpo. Non lo
sentiva, non... non riusciva a capire dov’era! Poi
d’improvviso le palpebre si fecero di nuovo
pesanti. Lottò a lungo per tenerle aperte ma alla
fine dovette arrendersi e sprofondò nuovamente in
quello strano sonno, mentre intorno a lei il buio e
il silenzio continuavano ad abbracciare l’intero
reparto di terapia intensiva dell’ospedale.
***
Buio.
Una. Due. Dieci, cento, mille mani cominciarono a
battere sul vetro della finestra della camera da
letto. Mani anonime a cui non corrispondeva
un’identità. Mani senza corpi, mani di morti che
dal buio della notte cercavano di entrare dentro
per avere la loro vendetta sulla vita.
Il tenente John J. Patatini si svegliò urlando.
“Oddio, quando finirà? Ancora questo incubo…”,
pensò mentre il sudore rigava la sua faccia
grondando copioso dalla fronte. Ne aveva viste
tante durante il suo trentennale servizio nella
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squadra omicidi, ma una cosa così non sarebbe di
certo mai riuscito nemmeno a immaginarla. Tante
e tante volte aveva desiderato di non essere mai
stato assegnato a quel caso. Era sempre vivo in lui
il ricordo della sera in cui fu chiamato sulla scena
del primo delitto del pianista. Lo shock che aveva
provato nel vedere quel corpo non l’aveva mai più
abbandonato. Quell’immagine era sempre davanti
ai suoi occhi e, in particolar modo la notte, il
ricordo prendeva vita e le forme e i colori
pulsavano, lasciando intravedere nuovi orrori e
nuove paure.
Il pianista era un soprannome fin troppo
elegante per un serial killer così spietato. Quello
che faceva alle sue vittime era qualcosa di mai
visto. Operava il pianista. Creava. Modificava i
corpi delle vittime! Modellava su di loro forme da
incubo che dimostravano lo sfacelo di una mente
che, di umano, non aveva niente. E, per qualche
ragione, le mani dovevano essergli di troppo nella
realizzazione delle sue opere: a tutte le vittime
erano state amputate e si trattava delle uniche
parti del corpo che, sistematicamente, non
venivano mai ritrovate. Le mani: per questo i
giornali lo soprannominarono “il pianista”.
Il tenente Patatini aveva pensato più volte di
abbandonare il caso, ma in qualche modo era
sempre riuscito a trovare la forza di andare avanti,
se non altro per le vittime. Ora, finalmente, dopo
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cinque anni di atroci omicidi c’era stata una svolta
inaspettata. Un sopravvissuto, quella che sarebbe
dovuta essere la ventiquattresima vittima: Sarah
Scammell.
***
Luce.
Per chiunque altro quella era la solita mattina
grigio-verdognola con le strade sovraffollate di
macchine, ragazzini che andavano a scuola e
uomini in doppio petto che correvano a passo
lungo verso il loro posto di lavoro. Ma Patatini
sapeva che non sarebbe stata una giornata
qualunque. I giornali ancora non sapevano nulla,
ovviamente. Questo garantiva quella libertà di
movimento, e quella tranquillità interiore,
necessarie per riuscire a fare il punto della
situazione a mente lucida e condurre
l’investigazione nel migliore dei modi. L’SMS di
Johnsson diceva: “Sarah Scammell si è risvegliata
dal coma”. Era una giornata speciale, e lui era uno
dei pochi a saperlo.
Durante il tragitto in macchina verso l’ospedale
Patatini rimase in silenzio tutto il tempo.
Johnsson, che era alla guida, ogni tanto gli buttava
un’occhiata di traverso ma lui rimaneva immobile
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con lo sguardo perso verso l’infinito. Era teso.
Tesissimo. E proprio l’apparente assenza di segnali
esterni lasciava intuire che la sua ansia era alle
stelle. Qui si sarebbe giocata tutta la sua carriera, e
lui lo sapeva benissimo. Sarebbe potuto essere un
enorme fallimento oppure l’occasione della sua
vita, sia a livello professionale sia per ridare la pace
alle povere vittime che, da anni, tormentavano i
suoi sogni implorando giustizia, battendo le loro
mani di morto sul vetro della sua camera da letto.
La partita a scacchi era dunque arrivata alla fine e
ci sarebbe stato un solo vincitore. Di questo ne era
certo Patatini. E invece no. Le cose non andarono
affatto come aveva sperato, e nemmeno come non
aveva sperato.
Quando finalmente entrò nella stanza della
povera donna fu subito colto da un brivido di
terrore. Qualcosa era incredibilmente sbagliato.
Era peggio delle altre volte; molto peggio.
Sebbene coperto dal lenzuolo, quel corpo
suggeriva forme che l’essere umano non dovrebbe
mai scorgere; perché non erano umane, così come
non poteva essere umano il suo creatore. E poi lei,
a differenza di tutte le altre vittime era viva, e
questo aggiungeva un qualcosa d'innaturale in
quella situazione che trasmetteva un forte senso di
morte. Era tutto estremamente drammatico e
difficile da metabolizzare a livello psichico.
Patatini poteva sentire la tensione corrergli lungo
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le braccia, le gambe e la spina dorsale. Gli
sembrava quasi di sentirne l’odore, mischiato a
quello orribile dell’ospedale: un miasma morboso
di pelle sporca, malata e impomatata. Si avvicinò
al letto: Sarah aveva gli occhi chiusi, sembrava
dormire ancora. Patatini rimase immobile per un
po’, poi decise di guardare sotto il lenzuolo. Lo
sollevò lentamente, fino a scoprire tutto il corpo e
la visione, quella visione!, si mostrò ai suoi occhi.
Si portò una mano alla bocca per non urlare.
Le braccia erano state asportate e ricucite al
contrario, una al posto dell’altra. Se ne stavano lì
con il gomito piegato quasi a novanta gradi ma
dalla parte sbagliata. Ovviamente le mani erano
state amputate e, al loro posto, erano stati
impiantati dei prolungamenti ossei. Sembrava uno
di quei lunghi insetti filiformi con gli arti superiori
sproporzionati rispetto al resto del corpo.
Successivamente fu stabilito che si trattava delle
ossa delle gambe, tibia e perone per la precisione;
erano state asportate, lavorate e adattate per essere
impiantate negli avambracci. Le gambe, dal
ginocchio in giù, non c’erano più, e la parte
superiore era stata storpiata in tal modo da tenerle
in posizione sempre aperta. Un prolungamento di
carne univa la parte esterna della coscia ai fianchi,
come la membrana delle ali di un pipistrello. E
poi… poi c’era la cosa peggiore di tutte: le dita.
Tante, tantissime dita che il pianista aveva
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pazientemente collezionato in quegli anni, e che
ora facevano bella mostra di sé spuntando dal
tronco della donna, dove erano state impiantate a
centinaia!
Patatini sentì che la follia si stava impossessando
della sua mente. Cominciò a ridere in modo
isterico. Cose del genere le aveva viste solo di
sfuggita nei film horror di serie B. Proprio per
questo la sua coscienza gli diceva che quella era sì
una visione così estrema da poter essere
considerata ridicola persino da un autore horror
degno di questo nome ma, allo stesso tempo, era
cosciente che quello che stava vedendo era reale, e
questo creava una frattura insanabile nella sua
mente. Ciò che non sarebbe dovuto essere e ciò
che invece era manifesto davanti ai suoi occhi non
avrebbero dovuto condividere lo stesso spazio e lo
stesso tempo. Quella cosa non avrebbe dovuto
essere lì, sotto i raggi del sole del buon Dio.
Quello che avvenne dopo fu una questione di
pochi secondi.
Mentre lui era paralizzato dal terrore e sull’orlo
dell’isteria Sarah aprì leggermente gli occhi.
Sebbene non fosse in grado di aprire
completamene le palpebre quello che riuscì a
vedere, complice la testa sollevata verso il corpo
dai cuscini, fu sufficiente. Il corpo interrotto, che
la notte prima non riusciva a sentire e a
localizzare, era ora davanti a lei. Vide
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quell’abominio e vide che era attaccato a lei. Vide
che quella cosa era lei! Dalla sua bocca
orribilmente mutilata, nella quale il maniaco aveva
impiantato delle lunghe zanne ricavate da altro
materiale osseo prelevato dalle gambe, uscì un
urlo che nessun orecchio umano dovrebbe mai
sentire. Patatini rimase paralizzato dal terrore.
Ebbe l’impressione che il suo cuore avesse smesso
di battere e, per alcuni interminabili secondi, la
vista gli mancò. Quando tornò a vedere fu anche
peggio: davanti ai suoi occhi quel corpo si
dimenava in un modo osceno, seguendo linee e
disegni anatomici che potevano appartenere solo
all’inferno. E mentre quella cosa mostruosa
continuava a gridare a delle tonalità bestiali,
dimenando verso l’esterno la lingua divisa a metà
come quella di un rettile, centinaia di dita si
muovevano, dritte sull’addome della donna, come
campanellini magici che sembravano volerlo
invitare a seguirli verso l’abisso da dove
quell’orrore era venuto.
Fu un attimo. La mano di John Patatini scivolò
lungo il fianco. Un istante dopo la canna della
pistola cominciò a sputare fuoco in direzione della
vittima che ora, purtroppo, incarnava l’essenza del
male più oscuro che si possa immaginare. Tutto
ciò che di più spaventoso poteva esserci stato nella
mente del pianista viveva ora nella sua creazione
più mostruosa: il suo male aveva preso forma per
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incarnarsi nelle sue opere; attraverso queste aveva
tentato di volta in volta di liberarsene, aveva
cercato di lasciarlo scivolare verso l’esterno.
Voleva allontanarlo da sé. E forse, questa volta,
era riuscito per davvero nel suo intento.
La canna della pistola fumava ancora. Quella
cosa che una volta era stata Sarah Scammell se ne
stava lì, immobile, con la faccia spappolata da
mezzo caricatore: aveva finalmente smesso di
urlare. Patatini sentì di aver fatto la cosa giusta,
sapeva che il suo era stato un gesto di pietà e
redenzione. Sapeva che quella era l'unica cosa
possibile. Un istante dopo girò la canna della
pistola verso sé stesso e fece fuoco.
Quello fu l’ultimo crimine commesso dal
pianista.
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il signore dei vermi
Fu come riemergere da un’interminabile apnea.
Gli addominali si contrassero in uno spasmo
dolorosissimo e, mentre a bocca aperta tirava su
tutta l’aria che poteva, si ritrovò seduta con le
natiche sul pavimento gelido. Gli occhi erano
spalancati dal terrore, la bocca contorta in una
smorfia orribile; le mutandine bagnate: si era
pisciata addosso.
“Mi hanno tagliato la gola, mi hanno tagliato la
gola!”. Lo pensava più forte che poteva, ma dalla
sua bocca riusciva a emettere solo qualche suono
gutturale. I suoi polmoni risucchiavano grandi
quantità d’aria, alimentati da degli spasmi
compulsivi che non era in grado di controllare.
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“Mi hanno tagliato la gola, e mo che faccio? E
perché non sono morta? Perché non muoio!?”.
Mentre formulava questi pensieri in preda
all’agitazione un luccichio colpì il suo occhio. La
punta di un enorme coltello abbandonato sul
divano piangeva lacrime di sangue che correvano
veloci lungo la lama scintillante. Per terra c'era
una grossa pozza di sangue. Tracce di lotta. Poco
oltre segni di trascinamento. Le sembrò di
ricordare qualcosa, immagini confuse e sfuocate.
Si alzò senza spostare lo sguardo dal divano rosso
e dal coltello ancora più rosso. Si alzò e andò verso
il divano, e mentre osservava meglio la lama un
altro flash attraversò la sua mente, che lentamente
si stava riprendendo dallo shock. Spostò lo
sguardo verso il sangue e portò istintivamente le
mani alla bocca. Seguì poi con gli occhi le due scie
che partivano dalla pozza, lasciò quindi scivolare
lentamente le mani sulla gola, la tastò e rise. I soliti
problemi notturni, il solito incubo: la sua gola
andava benone. Era quella di lui che invece non
andava affatto bene! E mentre osservava il corpo
alla fine della scia di sangue la risata divenne
prima isterica, poi liberatoria e infine satanica. La
vista della testa mozzata adagiata sul tavolo da
pranzo le fece tornare d’improvviso la memoria.
“Bastardi!”. Aveva fatto bene, dopotutto era
giusto così, si disse: finalmente poteva essere di
nuovo libera. Sarebbe stata di nuovo giovane,
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ancora una volta. Doveva solo sbarazzarsi di
quello che rimaneva di quell’imbroglione che le
aveva portato via tutto. E dei capelli bianchi.
Doveva sbarazzarsi anche di quelli. Fece il punto
della situazione e prese una decisione: avrebbe
finito di tagliare il resto del corpo come già aveva
fatto con la testa. E infatti così fece, con metodo,
dedizione e impegno. Ci fu poi un bagno
purificatore nella vasca. Strappò via anche i capelli
bianchi che riuscì a trovare. A mani nude. Il
rituale funzionò: dentro di sé sentì di aver perso
almeno dieci anni. Postò qualche selfie su internet.
Un brivido le accarezzò l’inguine quando vide che
quasi in tempo reale l’americano aveva messo “mi
piace” alle sue foto.
La gioia divenne per un attimo isteria perché
sentì che qualcosa le sfuggiva, che la realtà che
avrebbe voluto intorno a sé non poteva essere
subito lì a portata di mano. Poi venne la tristezza.
Rimase con lo sguardo fisso verso un punto
indefinito e una voce nella sua testa le parlò: era
quella di sua zia. La voce di sua zia che quando
aveva ancora sedici anni le diceva preoccupata:
“Quanti sono Samantha? Promettimi che la
smetterai. Queste povere creature Samantha…
Devi fare più attenzione quando…”. Ma ritornò
presto in sé: aveva del lavoro da compiere. Decise
di sotterrare il mostro vicino a dove aveva sepolto
gli altri due la sera prima: quello piccolo e quello
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più piccolo ancora. I bambini insomma. Sei e
quattro anni.
Stipò in qualche modo tutti i pezzi dentro la
buca e poi la ricoprì. Per un attimo pensò che se
solo l’americano fosse stato lì con lei sarebbe stato
più facile. Ma filò tutto liscio comunque: nessuno
l’aveva mai cercata, e questa volta non sarebbe
stata diversa dalle altre. Era sempre andata bene.
Il signore dei vermi, benedetto, avrebbe fatto il
resto. Le avide radici degli alberi, forse, anche di
più.
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la stanza dei bambini
Quando io e mio marito decidemmo di comprare
la casa sulla collina la scelta fu motivata
soprattutto dalle nostre limitate possibilità
economiche. Ci sarebbero state tante buone
ragioni per non comprarla: si trovava in un luogo
abbastanza isolato; benché fosse di costruzione
recente non dava l'impressione di essere una casa
costruita secondo tutti i crismi; per accedere a
qualsiasi tipo di servizio era necessario spostarsi
con la macchina. Ma la casa in sé non era poi così
male, e volendo cercare delle motivazioni positive
sull'opportunità di vivere in quel luogo le si poteva
trovare esattamente dove qualsiasi considerazione
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negativa aveva avuto origine: sarebbe stato
rilassante vivere in quel luogo lontano dalla città;
eravamo a contatto con la natura; potevamo
godere del bellissimo lago che si trovava a poche
miglia di distanza. E poi la casa era grande e,
soprattutto, costava dannatamente poco.
Passammo i primi sei mesi a sistemarla a dovere.
Scegliemmo con cura l'arredamento per ogni
singola stanza, i colori delle pareti, decidemmo la
disposizione delle camere. Solo la stanza dei
bambini rimase vuota: il compito di decidere come
dovesse essere arredata spettava a me. Per me
questa era una cosa molto importante. Mio marito
lo sapeva e io l'ho sempre amato per quel suo
modo sottile di comprendere e assecondare le mie
necessità. Anche in quell'occasione mi lasciò fare.
Avevo ovviamente scelto quella zona della casa,
l'arredamento, il materiale dei mobili e tutti gli
oggetti e i tendaggi, in modo tale che l'ambiente
fosse salutare per i bambini. In particolare mi
spaventava l'idea dell'umidità che, a quanto pare,
non aveva risparmiato le altre stanze. Erano
presenti infatti delle evidenti infiltrazioni che
formavano delle orribili macchie di muffa sui
muri. Per questa ragione li feci trattare con una
vernice specifica. Mi assicurai anche che la
temperatura fosse sempre costante: ai bambini
facevano male gli sbalzi termici; era una cosa che
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dovevo scongiurare ad ogni costo. A quanto pare
riuscii egregiamente nel mio intento.
In capo a tre settimane avevo finito di sistemare
ogni cosa a dovere e la stanza dei bambini era
finalmente pronta. Era perfetta, così come l'avevo
immaginata la prima volta tanto tempo prima. Era
esattamente come doveva essere. Dopo un periodo
passato con noi in camera da letto li trasferimmo
nella loro stanza. Era tutto perfetto e io,
finalmente, mi sentivo felice. Mi sorpresi persino a
pensare che dopotutto quella casa non era stata
una cattiva scelta. Piano piano stavo imparando ad
amare quel luogo. Mi sentivo realizzata come
madre e forse, per la prima volta nella mia vita,
anche come donna. Sentivo che dopo tante
difficoltà potevo finalmente abbandonarmi alla
felicità.
All'improvviso però si presentò un problema
inaspettato: i ragni. Erano dappertutto. Si
potrebbe tranquillamente dire che la camera dei
bambini ne fosse infestata! Quando per la prima
volta notai le infinite trame delle loro ragnatele,
nell'angolo della stanza meno esposto alla luce del
sole, mi venne quasi un colpo. I ragni sono brutti,
schifosi e pelosi. Ma sono anche degli abili
ingegneri: freddi, calcolatori, intelligenti e
velocissimi nel realizzare i loro progetti. Infatti più
ragnatele toglievo più ne trovavo. Ogni giorno,
ogni santo giorno, nella stanza dei bambini c'erano
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una, due, dieci nuove ragnatele. E se in principio
la cosa era limitata agli angoli più nascosti, ben
presto i ragni allargarono il loro dominio su tutta
la stanza: mensole, giocattoli, libri; persino tra le
zampe del cavallo a dondolo ne trovai una,
gigantesca e costruita in capo a una notte. Diventò
ben presto un'ossessione per me: ogni mattina
andavo a controllare e ogni mattina potevo solo
constatare, con orrore, che l'opera dei ragni
continuava senza sosta. Avevo già avuto problemi
con i ragni anche nelle altre case, ma mai così.
Sviluppai ben presto una specie di sesto senso e
cominciai ad avere l'impressione che qualcosa
strisciasse nel cuore della notte. Strisciava sui
pavimenti, sui muri, sui mobili. E poi sentivo
chiaramente quel ticchettio. Il ticchettio delle loro
zampe sul parquet, sulle pareti, sui vetri delle
finestre che scalavano per arrivare fino al soffitto,
per tessere e tessere ancora e senza sosta. Erano i
ragni, a centinaia, forse migliaia. Lavoravano come
dei pazzi, forsennatamente. Filavano le loro trame
e tramavano senza sosta il loro odio contro di me.
Minacciavano la mia felicità bisbigliando cose
oscene nella notte, mi accusavano, mi incolpavano.
Mi legavano coi loro fili argentati, tenendomi
prigioniera di ricordi che potevo vedere riflessi
nell'oscura profondità di quegli occhi neri, che
otto alla volta tutto vedono e tutto sanno.
Alla fine cedetti psicologicamente ed ebbi un
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crollo emotivo e nervoso. Mi mancarono le forze.
Fui costretta a letto per molto tempo: presa da una
febbre misteriosa che mi pungeva fin dentro al
cervello non potevo più alzarmi. Non potevo più
distruggere l'opera di quegli orribili esseri che
immobilizzando la loro preda la congelano nel
tempo; la avvolgono con il loro filo appiccicoso
che tutto trattiene, trasformandola nella
rappresentazione di colpe antiche come l'uomo. E
questo è il motivo per cui, alla fine, hanno vinto
loro.
Quella mattina aprii la porta della stanza dei
bambini, i miei bambini. L'umidità aveva rovinato
molte delle cuciture, soprattutto intorno al collo e
sui polsi. Le ragnatele erano su di loro e come dei
bianchi sudari li ricoprivano completamente.
Erano nei loro nasini belli, nelle loro piccole
orecchie, fin dentro le loro bocche. Persino sulle
loro labbra un po' appassite dal tempo ma ancora
belle, dottore, e che da ormai tredici anni non
smettevano di ridere perché io, la loro mamma,
avevo donato loro l'eterno sorriso quando dopo
l'incidente con il coltello avevo deciso di
imbalsamarli!
33
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
la torre del cimitero
Era indubbiamente una di quelle tranquille sere
di... ho avuto l'impressione di sentire un suono.
Proprio fuori dalla mia porta, come se qualcosa
grattasse... Ad ogni modo: era una di quelle
tranquille sere di metà giugno, dicevo. Una di
quelle in cui un leggero venticello si alza da oltre il
fiume a mitigare il caldo afoso provocato da
un'incessante giornata di sole. Fu in quel
momento che John Barrymore, giovane medico di
Ilkeston, figlio del compianto reverendo
Barrymore, si ritrovò senza sapere bene come a
passeggiare lungo il muro di pietre del vecchio
cimitero di Derby.
35
Adesso non è di certo il caso di annoiare il
lettore ricordando le innumerevoli storie legate a
questo singolare luogo... come ad esempio quella
dei bambini. In pieno inverno venivano visti
giocare a rincorrersi con indosso solo delle sottili
tuniche bianche. Una volta scorti rimanevano
immobili con lo sguardo fisso sul testimone
oculare di turno che, con sua grande sorpresa, non
poteva far altro che constatare come il bianco di
quelle tuniche pareva confondersi con quello della
neve (o della nebbia!), fino a diventare un tutt'uno
con essa. Infine ne veniva completamente
assorbito fino a sparire, senza lasciare traccia
alcuna né delle tuniche, né dei bambini. Oppure la
storia della simpatica vecchina con il cesto di
vimini che, con fare cordiale, rivolgeva un saluto
all'ignaro passante inclinando leggermente la testa
al suo indirizzo. Questi non poteva far altro che
strabuzzare gli occhi nel vederla proseguire il suo
cammino all'interno di una delle torrette che
sorgevano ai quattro angoli del cimitero. Passando
letteralmente attraverso le mura lasciava cadere a
terra il cesto di vimini con il suo innominabile
contenuto che, a quel punto, veniva svelato al
malcapitato testimone.
Ma, appunto, queste sono altre storie, infarcite
tra l'altro di tutti quei fronzoli suggeriti dalla
diceria popolare e dalla superstizione che non
possono che indurci a dubitare fortemente sulla
36
loro veridicità. Ma il resoconto del dottor
Barrymore, così come è giunto fino a noi, è
sicuramente un'altra cosa. Se non altro per la
stima e la credibilità che vengono attribuite a
questo gentiluomo. Egli era solito andare alla
ricerca di antichi luoghi caratteristici che
potessero trasmettergli quella piacevole sensazione
che gli veniva dal contatto con tutto ciò che era
antico.
Quella sera, dopo un lungo peregrinare, si
ritrovò appunto nei pressi del cimitero di Derby.
Fu subito attratto dalle torrette poste ai quattro
lati del campo santo e dal vecchio muro di cinta,
visibile anche in lontananza. Costeggiò per un
breve tratto una parte del muro in pietra
parzialmente ricoperto dal muschio; si fermò
quindi per un attimo ad osservare l'inusuale
merlatura della torre sud, poi proseguì il suo
cammino fino ad arrivare al vecchio cancello in
ferro battuto. Diede un'occhiata dentro al cimitero
e non poté fare a meno di notare tutta una serie di
vecchie lapidi consumate dal tempo le cui
iscrizioni erano di sicuro interesse per un amante
delle antichità come lui. Spinse il vecchio cancello
per entrare a dare un'occhiata all'interno. Si
diresse verso quelle vecchie lapidi che avevano
destato la sua curiosità, ma ben presto la sua
attenzione fu attratta da qualcosa di decisamente
inusuale: il suo sguardo si posò ancora una volta
37
verso la torre sud. Da una piccola apertura che
fungeva da finestra sembrava provenire un'insolita
luce. Pareva decisamente la luce flebile e
tremolante di una candela e, inoltre, la porta che
dava accesso alla torre sembrava leggermente
socchiusa.
Il dottore si avvicinò lentamente alla torre.
Cercò di sbirciare dentro dalla finestra ma questa
era troppo in alto, così andò verso la porta che, in
effetti, era socchiusa. Attraverso l'apertura ebbe la
conferma che all'interno la torre era illuminata;
allungò la mano per aprire la porta ma per qualche
ragione si sentì obbligato a bussare. Dopotutto,
pensò, poteva benissimo succedere che la torre
venisse usata come una sorta di capanno porta
attrezzi dal guardiano del cimitero. Poteva altresì
accadere che questi si trovasse al suo interno
proprio in quel momento. Quindi bussò e ribussò
una seconda volta per sicurezza, senza però
ottenere alcuna risposta. Spinse allora la porta e in
punta di piedi entrò dentro. Si ritrovò in un
ambiente spoglio, freddo e buio eccetto per
quell'angolo rischiarato dalla luce della candela
che, come poté constatare, era infissa su una bugia
a “chiodo” posata su un vecchio tavolo in legno
massiccio. Si guardò intorno e, a mano a mano che
i suoi occhi si abituavano all'oscurità, notò con suo
grande stupore che al lato opposto rispetto alla
tavola di legno c'era una specie di catafalco sul
38
quale poggiava, aperta, una vecchia cassa da
morto. Per un attimo ebbe un sussulto poi si
ricordò di essere un medico, un uomo di scienza e
un intellettuale e, dopo essersi sistemato il
panciotto con un vigoroso strattone, riprese il suo
contegno.
Cercò di scorgere qualche altro particolare negli
angoli più nascosti di quella stanza umida e
ammuffita quando l'occhio gli cadde nuovamente
sulla vecchia tavola in legno massiccio. Sopra solo ora poteva vederlo - c'era appoggiato un
antico manoscritto arrotolato! Possibile? L'afferrò
e lo esaminò velocemente poi, d'istinto, ruppe il
sigillo che lo chiudeva e lo srotolò. Fece giusto in
tempo a vedere che la vecchia pergamena
sembrava redatta in inglese antico quando un
rumore improvviso, amplificato per cento volte
dall'eco presente nella vecchia torre, lo fece
letteralmente saltare dallo spavento!
Si voltò verso la porta e vide davanti a sé la
sagoma di un uomo gigantesco con la mano
davanti alla bocca dalla quale, un attimo prima,
era esploso quell'inaspettato colpo di tosse.
Superato lo spavento per quella presenza inattesa,
il povero dottore – persona educatissima e degna –
si sentì in terribile imbarazzo.
Capì immediatamente che il nuovo ospite
doveva per forza di cose essere il “padrone di
casa”. Forse il guardiano del cimitero, pensò, o
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forse il proprietario della torre, che evidentemente
veniva ancora utilizzata come tomba di famiglia.
– “Buonasera, sono il dottor Barrymore di
Ilkeston. Le chiedo scusa per l'intrusione...”, disse
scrutando con incertezza il volto dell'uomo,
appena illuminato dalla debole luce della candela.
“Stavo visitando il cimitero quando ho notato che
la porta della torre era aperta e mi sono permesso
di entrare”. L'uomo, quell'uomo gigantesco, non
disse una parola. Distolse lo sguardo dal dottore e
mosse qualche passo, lento ma sicuro, in direzione
dell'antico tavolo.
– “Oh, questo è suo immagino”, disse il
dottore allungando la mano nella quale stringeva
ancora il manoscritto. L'uomo si voltò, lo guardò e
annuì con un gesto del capo. Ora che si trovava
vicino alla luce della candela l'aspetto dell'ospite
silenzioso era ben visibile. Il dottore non poté fare
a meno di notare come gli abiti che indossava
risultassero fuori moda da almeno qualche
centinaio di anni. Ma la cosa che lo colpì
maggiormente era il pallore di quel volto
incorniciato da una folta barba bianca. Era un
uomo di statura imponente, con delle spalle molto
larghe e un portamento austero ma con un
nonsoché di regale.
– “Non si preoccupi, dottore”, disse finalmente
l'uomo. “Capisco benissimo e la prego di non
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sentirsi in imbarazzo”. Il dottore si sentì
finalmente sollevato e, aldilà dell'aspetto severo,
poté constatare che il suo ospite era una persona
posata e per bene e così osò chiedere, con le
cautele richieste dalla buona educazione, quale
fosse il suo nome.
– “Davvero non mi conoscete?”, disse l'uomo
sollevando appena le folte sopracciglia grigie in
segno di stupore. “Credevo che aveste già dato
un'occhiata a quel vecchio manoscritto...”.
Il dottore, incuriosito, srotolò nuovamente la
pergamena e la esaminò con più cura avvicinando
a sé la candela per vedere meglio. Dopo un'attenta
analisi constatò che il vecchio manoscritto, redatto
in effetti in inglese antico, era un documento
ufficiale del governo che portava in calce il sigillo
reale di sua maestà la Regina in persona. Lo
stupore del dottore fu immenso:
– “Questo documento è antichissimo!”
– “Si, lo è”, disse l'uomo.
Il dottore proseguì la lettura e ben presto si rese
conto che si trattava della sentenza con la quale sir
William Parker, ammiraglio della flotta reale
inglese, venne condannato all'incarceramento a
vita con l'accusa di alto tradimento. Il suo stupore
aumentava sempre di più, e non di meno la sua
41
incredulità data l'importanza storica del
documento che teneva tra le mani. Il manoscritto
continuava descrivendo le due pene accessorie che
dovevano essere inflitte all'ammiraglio Parker: la
pubblica gogna e la lettera “T” marchiata sul
braccio come simbolo d'infamia per il suo
tradimento.
Il dottore stringeva ancora fra le mani quel
prezioso documento quando si ricordò che il suo
ospite gliel'aveva indicato alla sua richiesta di
sapere il suo nome. Alzò la testa verso l'uomo
misterioso e sorrise:
– “Suvvia, non vorrà farmi credere che lei è
l'ammiraglio Parker?”. L'ospite annuì con un
segno del capo. “Ma è ridicolo!” – disse il dottore.
L'uomo divenne buio in volto al ché il dottore
aggiunse: “Bene, allora me lo dimostri!”.
L'ospite tirò lentamente su la manica del suo
abito e girò l'avambraccio verso l'esterno. Era ben
visibile un tatuaggio. Il tatuaggio con il simbolo
dell'infamia: la lettera “T” di traditore!
– “Ma non è possibile!”, disse il dottore con un
sorriso incerto dipinto sul volto. “Se lei fosse
l'ammiraglio Parker significherebbe o che lei è un
pluricentenario oppure che è un fantasma. Sono
un medico e le posso garantire che i fantasmi non
esistono e che un uomo morto è un uomo morto!
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O vuole forse farmi credere che i morti parlano?”,
aggiunse in tono ironico.
– “Assolutamente!”, disse l'uomo, “E le
assicuro, caro dottore, che non è detto – oh, non è
per niente detto! – che un morto non possa
persino mordere!”. Dopo aver pronunciato queste
parole saltò sul catafalco con fare deciso e si
distese in quella che doveva dunque essere la sua
bara.
Prima di tirare a sé il coperchio con decisione
guardò dritto negli occhi il dottor Barrymore e,
con un tono intimamente ironico aggiunse:
– “Non è detto che un morto non possa
mordere, dottore, anche se diversamente da prima
questa volta, forse, le risparmierò la dimostrazione
pratica...”.
Il giovane dottore fece giusto in tempo a sentire
il tonfo sordo del coperchio della bara che si
richiudeva davanti ai suoi occhi, prima di cadere
svenuto a terra.
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
il morto
Il terrore e la paura che provai quando il morto
irrigidì la sua mano, come in un estremo saluto da
un gelido altrove che da sempre terrorizza e fa
gelare il sangue ai vivi, fu secondo solo alla pelosa
sorpresa che ne seguì. Un piccolo ragno, nero
come la notte, si fece strada attraverso le sue
labbra viola. Liberatosi dalla sua improbabile tana
fece qualche movimento trascurabile. Andò poi a
posarsi sul mento del morto e se ne stette lì
immobile, come una parola indecifrabile e
impronunciabile che, nell’attimo estremo, si
incarna e scivola fuori come un rivolo di bava, a
completare segretamente la ragnatela confusa della
vita.
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“Cosa hai visto signor morto? Cosa ti fa
freddo?” – pensai. “È il nulla che da forma a ciò
che ci ostiniamo a chiamare tutto? È la notte
eterna?”. L’odore dell’ammoniaca, al quale non
sarei mai riuscito ad abituarmi – almeno questo è
quello che pensavo allora –, mi pungeva le narici e
si faceva strada fin dentro al cervello. Girai il
cadavere.
“Hai visto iddio? Il Diavolo ha chiesto conto
dei tuoi debiti?” – inutile: non me l’avrebbe mai
detto e lo sapevo. E se l’avesse fatto sarebbe stata
un’ignobile menzogna, una storia grottesca ed
esagerata di quelle che raccontano i marinai: la sua
pelle tatuata aveva infatti parlato per lui e l’aveva
tradito. Ma tra storie di mare, passioni e
ammonimenti, la pelle del morto mi comunicò un
ultimo mistero. Per chissà quale motivo la mia
attenzione fu attratta da un tatuaggio
insignificante sulla sua spalla sinistra. Non aveva
nulla di speciale, non era colorato come gli altri,
ma nella sua essenzialità risultava ermetico. Una
lettera.
“È dunque questo il segno del Diavolo, morto?
È a lui che hai consegnato l'anima quando la corda
s’è stretta intorno al tuo collo?”. Lo rigirai ancora
una volta e preparai gli strumenti. Stavo per
lasciare il campo della speculazione per tornare a
essere ciò che veramente ero: un uomo di scienza.
Iniziava, ancora una volta, la mia fredda analisi nei
46
segreti del corpo umano. Ma la consapevolezza
che c’era qualcosa che non avrei mai potuto
sezionare con il bisturi, tagliare con la forbice, od
osservare con gli strumenti ottici, mi dava un
senso d'impotenza ed estremo imbarazzo. Non
avrei mai saputo a quali ricordi era associato quel
tatuaggio; non avrei mai saputo a quale ideale, a
quale città o a quale persona era appartenuta
quell'iniziale. Soprattutto non avrei mai saputo
quante volte il suo cuore aveva battuto di
passione, se avesse vibrato di nostalgia per la sua
terra lontana o quanto avesse amato quella donna
con tutta la sua anima. In verità ero divenuto
cosciente del fatto che tanto più scavavo dentro
quel corpo, quanto più lo facevo a pezzetti, tanto
meno avrei saputo.
Iniziai ad incidere il torace mentre il mio
occhio, fuori dal mio controllo, continuava a
fissarsi sulla lettera S.
Quello che imparai quella volta è che tutto ciò
che possiamo sapere è che non possiamo sapere
tutto.
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
il treno
Il treno scivolò senza intoppi nella galleria e,
mentre veniva morbidamente inghiottito da quelle
calde tenebre, sputacchiò una spumosa nuvola di
vapore bianco come la neve.
Aveva decisamente avuto ragione il capotreno
Digson: non era stato difficile, e non c'era stato
proprio nulla da temere. Fino a quel giorno non
avevo mai avuto a che fare con nessun treno; ne
avevo sempre avuto un po' paura. Ma adesso che
avevo superato la mia prima galleria non vedevo
l'ora di ripetere quell'esperienza il più presto
possibile. Mi piaceva quella sensazione di calcolato
mistero che si prova nel buio del tunnel. E mi
piaceva l'improvviso sbalzo di temperatura che
gela per un attimo il volto, non appena la
locomotiva penetra l'umida montagna. E poi c'era
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quella sensazione di appiccicaticcio che ti rimane
addosso, che tira la pelle della faccia come una
carezza paterna, decisa ma carica di rassicurante
affetto.
– “Quando ci sarà la prossima galleria,
capotreno Digson?”, chiesi.
– “Dunque, vediamo Miss Arch. Abbiamo
appena superato Brighton. La prossima sarà quella
prima di Hove, tra circa quindici minuti.”
Bene. Nell'attesa finii di scrivere e rileggere
alcune cartoline. Una era indirizzata al signor
Dungworth, un bel giovanotto che all'epoca – lo
confesso! – mi piaceva non poco e all'indirizzo del
quale molte passerotte cinguettavano felici. Ma
allora ero molto timida e non osai mai neppure
pensare di potergli piacere. Solo molti anni dopo,
grazie alle confidenze di Miss Talback, venni a
sapere che anche lui provava un certo interesse nei
miei confronti. Ma tant'è: per qualche ragione lui
non si risolse mai nel dichiararsi e finì per sposare
una certa miss Penelope Penslow. Da allora non lo
rividi mai più. Stavo giusto finendo di inumidire il
francobollo per la cartolina del signor Hermann
Krapp di Lipsia quando la porta dello
scompartimento si aprì all'improvviso: era il
capotreno Digson che mi avvisava che eravamo
prossimi ad attraversare la galleria di Hove.
50
Tutta eccitata lasciai lì le mie cose e uscii dallo
scompartimento. Mi recai verso il finestrino di
servizio vicino alla toilette che il signor Digson,
molto gentilmente, mi aveva riservato. Osservavo
l'enorme locomotiva che curvava mentre, come la
volta prima, veniva inghiottita da quel buco nero,
spalancato verso il cielo come un'orrida bocca che
nasconde profondi segreti e innominabili misteri.
Ma questa volta il mio corpo venne attraversato da
uno strano brivido, e per qualche ragione mi
ritrovai in preda al panico. Non appena il nostro
scompartimento fu inghiottito dal buio avvertii un
terribile bruciore. Ebbi difficoltà a respirare e per
un attimo mi sentii mancare. Il signor Digson mi
toccò sulla spalla e, proprio mentre stavo per
voltarmi, notai che il treno stava decelerando.
– “Signor Digson, sento uno strano bruciore.
Quando c'è qualcosa che non va me lo sento sulla
pelle!”.
– “Miss Arch, disse Digson pallido in volto,
avete ragione: temo che abbiamo sbagliato
galleria!”.
– “Oh, mio buon Dio! Come è potuto
accadere? Lei mi aveva assicurato che non c'era
nessun pericolo.”
– “Credo sia stato un malfunzionamento allo
scambio. Ma questo non lo possiamo ancora
sapere con certezza.”
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Ormai il panico si era impossessato di me.
Eravamo intrappolati nelle tenebre di quella
galleria: la galleria sbagliata! Avevo osato giocare
con il buio ed ero stata ripagata nel giusto modo.
Avrei voluto scappare all'esterno urlando, ma
riuscii in qualche modo a trattenermi: nessun
gentiluomo si sarebbe azzardato a sposarmi, se
fossi morta investita da un treno merci
proveniente dalla direzione opposta! Mi sentivo
mancare, ero sempre più a corto d'aria.
Il signor Digson scattò come una volpe nel
tentativo di raggiungere la locomotiva il più presto
possibile, ed io rimasi sola.
finale 1, Liala
Persi definitivamente i sensi. Quando mi risvegliai
ero distesa su una panchina alla stazione di Hove e
un giovanotto stava tentando – con successo, devo
dire! – di farmi riprendere con i sali. Mi informò
che il macchinista era riuscito a manovrare il treno
in retromarcia e ad imboccare la galleria giusta
dopo aver azionato lo scambio manualmente. Il
giovane si prodigava quanto più poteva nel fornire
dettagli sull'accaduto, ma ormai io non lo sentivo
più... vedevo solo quel volto bellissimo e fiero,
quegli occhi verdi che riflettevano i riflessi del sole
e le sue labbra sensuali e dolci che mi invitavano
ad assaporare nuovi sapori. Mi tirai su a sedere e
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lui, dopo essersi educatamente scusato, si
presentò: era il dottor John Barrymore. Un
dottore! Ma all'epoca non ci feci caso: i miei occhi
erano fissi su quelle labbra rosse e stranamente
carnose che parevano sapere di buono. Un attimo
dopo le nostre bocche erano incollate l'una
all'altra, fuse in un caldo bacio di passione e
amore. Una sensazione mai provata prima in vita
mia attraversò il mio corpo e mi fece tremare fin
dentro l'anima. John se ne accorse e mi strinse
forte tra le sue braccia.
– “Signorina Arch. Elizabeth... Io vi amo!”
– “Oh, John!”, sospirai.
– “Oh!”
– “Allora è vero, l'amore esiste, il colpo di
fulmine esiste John. Vi conosco solo ora ma è
come se il mio cuore fosse sempre appartenuto a
voi e a voi soltanto!”.
John, il mio John, mi guardò. I suoi occhi erano
carichi di emozione ma non mancò di trovare una
certa risolutezza e, dopo essersi schiarito la voce
ebbe l'ardire di chiedermi di sposarlo! Lì così su
due piedi! Ancora un po' e sarei svenuta un'altra
volta tra le sue braccia. Ovviamente dissi subito di
sì. Non ci pensai nemmeno per un attimo perché
quello che la ragione si rifiutava di comprendere
era stampato a chiare lettere nella mia anima e nel
mio cuore.
53
Non mi preoccupai di come avrei potuto dirlo
ai miei genitori al mio rientro a Rosewood
Mansion. Non pensai affatto ad Albert, al quale
già da tempo avevo concesso di corteggiarmi. Non
pensai nemmeno alla gente che ci stava intorno in
quel momento e non pensai alla mia reputazione.
Dissi solo di sì perché inconsciamente, quel
giorno, il mio cuore aveva capito che ci sono treni
che passano una sola volta nella vita: non bisogna
temere di prenderli e viaggiarli. Se mai il nostro
treno avesse imboccato una galleria sbagliata ne
sarebbe comunque valsa la pena. Insieme
avremmo trovato il modo di correggere la
direzione per continuare a viaggiare.
Insieme. Mano nella mano. Io e John, il mio
John. L'amore della mia vita.
finale 2, Lovecraft
Per un attimo fui scossa da uno strano capogiro ed
ebbi la sensazione di essere osservata. Un velo
nero, più nero del buio della galleria, più nero
della notte più buia che fossi in grado di ricordare,
un velo nero e minaccioso si posò sui miei occhi
stanchi e la mia mente – già provata per la forte
scossa di paura che aveva insidiato i miei nervi –
alla fine cedette. O almeno questo è ciò che sono
portata a credere perché in verità, ancora oggi,
non mi è chiaro se ciò che avvenne sia stato il
54
venefico frutto di una mente sconvolta dal delirio
o se sia successo realmente. Non è molto ciò che
so, ma quel che so basta e avanza. Precipitai in
uno strano sonno senza sogni costellato di
incredibili visioni di titaniche colonne di granito
nero, decorate con segni che nessuna mente
umana avrebbe mai potuto concepire. Immensi
gradini di marmo bianco striato di verde, le cui
dimensioni escludevano l'utilizzo a qualsiasi piede
umano, conducevano lo sguardo verso antichissimi
templi dove venivano venerate divinità dementi e
senza forma e la cui costruzione risaliva a milioni
di anni prima della venuta dell'uomo.
La mia mente cosciente, ciò che fino ad allora
ero stata abituata a chiamare “io”, era sveglia e
presente, ma allo stesso tempo con un altro tipo di
vista, con “altri occhi”, potevo vedere in modo
nitido e distinto le forme alienanti e degenerate di
un'architettura folle che rispondeva a regole
geometriche non euclidee. La vastità di quegli
spazi, la monumentale grandezza che andava oltre
ogni immaginazione, la totale assenza di ciò che
poteva essere identificato come razionale e
riconducibile alla dimensione psichica umana, il
suono continuo di qualcosa che viscidamente
strisciava e bisbigliava da dietro i monoliti
purpurei, crearono in me un senso di disagio e
alienazione che paralizzò il mio cervello e fece
tremare i miei nervi.
55
Mentre ero testimone di queste folli
allucinazioni che via via prendevano forma nella
mia mente, potevo allo stesso tempo vedere, in
maniera distinta, il vagone del treno che, di tanto
in tanto, veniva illuminato da dei misteriosi
bagliori di cui non sapevo determinare la
provenienza. In lontananza cominciai a udire il
suono malefico di mille flauti stonati al quale
presto si unì il rullare di osceni tamburi. Con gli
occhi della mente fui ricondotta alle mostruose
colonne, agli infiniti gradoni e a quei templi di
orrore e perversione verso i quali una processione
di indigeni di aspetto negroide e deforme si
dirigeva intonando canti perversi e folli:
“Ph'nglui mglw'nafhmglw'nafh
wgah'nagl! Iä! Iä! Sỹm Škathoth
Fhtagn!”
Di fronte ai miei occhi mille piedi ai quali erano
state amputate tre dita danzavano in preda al
delirio dei tamburi e dei flauti del nero capro dei
boschi. Schioccavano sul marmo, saltavano,
strisciavano,
si
univano
in
coreografie
schizofreniche per poi dissolversi nel caos della
frenesia e del delirio. Correvano lungo le
traversine di onice che portavano all'altare e
camminavano lungo il corridoio del vagone
ferroviario! Una voce terribile, la voce di mille
anime dannate e perdute, risuonò e fece tremare le
56
ciclopiche colonne; scosse la galleria e fece
scricchiolare gli impiantiti di legno del treno
muovendo un'ondata di aria gelida e fetida:
“Il cancello! Sym Škathoth è il
cancello. Sym Škathoth è il cancello e
la chiave del cancello! Sym Škathoth
è colui che attraversa il cancello!”.
I tamburi raggiunsero allora il culmine del
crescendo mentre i flauti, maledetti, fischiavano in
una cacofonia di suoni indemoniati. La voce di
mille negri degenerati e dementi rispose
istericamente al richiamo demoniaco intonando
all'unisono un grido bestiale:
“Mhe kha-tso sukh hyami! Iä! Iä!
Sym Škathoth!”
Ero ormai in preda ad un delirio maniacale: i
miei occhi sbarrati fissavano il buio corridoio del
treno e allo stesso tempo l'ignobile tempio verso il
quale, orde di cultisti folli, rivolgevano le loro
lugubri litanie. Pensavo di aver raggiunto il
culmine della follia. Ma non era così. Mentre i
negri intonavano ancora una volta i loro canti
dementi, i tamburi e i flauti ripresero a suonare in
modo lascivo; fu allora che lo vidi. Una cosa
schifosa e viscida cominciò a strisciare fuori dal
colonnato del tempio: un enorme tentacolo
57
osceno che culminava in una protuberanza rossa
sulla quale erano presenti due fessure che
vomitavano, senza sosta, una bava bianca e
gelatinosa! Un boato fece eco all'apparizione:
“Iä! Iä! Sym Škathoth! Sym Škathoth
ph'nglui fhtagn!!!”
Proprio in quel momento sentii qualcosa
strisciare nel buio della galleria. Sentii un orribile
odore di pesce marcio e il suono di mille piedi che
si muovevano furtivamente nelle tenebre. Provai
di nuovo la sensazione di essere osservata. Mi
voltai lentamente verso il finestrino aperto alle mie
spalle e uno di quei misteriosi bagliori infernali
illuminò quell'abominio! Fu allora che gridai a
squarciagola e, infine, persi definitivamente i sensi.
Il dottor Templeton, che ancora mi ha in cura
presso la clinica per malattie mentali di Hanwell, è
incline a sostenere che l'intera serie di eventi che
ho qui descritto sia il risultato di uno stato
allucinatorio causato dallo stress emotivo che ho
provato nel momento in cui mi sono trovata
bloccata nella galleria. Tutta una serie di puerili
supposizioni psicanalitiche e un esaurimento
nervoso preesistente avrebbero aggravato, a suo
parere, l'intensità dei sintomi allucinatori. Ma
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quello che il dottor Templeton non sa è che
quando mi risveglio dal sonno artificiale indotto
dai sonniferi, le mia braccia e le mie gambe hanno
spesso uno strano colorito cianotico e sono
puntellate da strani segni circolari simili a ventose.
E, nelle notti senza vento e senza luna, è possibile
sentire qualcosa che striscia e bisbiglia nella notte.
È allora che i pazzi, i maniaci e gli assassini del
manicomio cominciano a gridare e a maciullarsi la
carne con coltelli o altri oggetti appuntiti.
È un orrore cosmico senza nome che induce alla
follia e al delirio e che porta con sé un orribile
odore di pesce e alghe in decomposizione. Un
abominio eterno, demente e senza forma che ha
attraversato i cancelli dello spazio e del tempo; un
enorme tentacolo osceno che culmina in una
protuberanza rossa dalla quale due fessure
vomitano, senza sosta, una bava bianca e
gelatinosa e che mi spia furtivamente da dietro il
vetro della finestra!
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
una non storia sull’amore, il
vuoto e il buio
Ah, l’amore, l’amore: maledetto bastardo! Zoppa
d’una carogna, mongolo, sgorbio, guercio,
stronzo, piscione e cagone! Merda d’uccello,
cianuro a fiale, fiera di fiele, orrida vescica,
purulenta ferita, verme di tomba! Nutria di fogna,
ascesso anale, inutile vomito, zoccola putrefatta
d’un sangue marcio: strappami gli occhi!
Sguish, sguish! Ora va un po’ meglio, solo non
vedo niente. Il sangue è lo stesso ma fa
marmellata. Troppo buono! Lo zoppo mi fa tip
tap, tip tap, tip tap. È tutta un’allegria: ìa, ìa, bù!
L’uccelletto pigola dolci melodie: e se mi caga fino
61
a coprirmi di merda non me ne avvedo. Sono
cieco! L’avessi saputo prima, un pochino prima,
queste palline gelatinose me le sarei cavate già al
primo torna conto: senza sconto!
Eppure... qui, proprio qui sul mio cuore di
mammo sento un buco, una ferita profonda che
mi duole. Ma… che c’è? Un manico! Ah, tutto a
posto: un coltello puntuto m’ha trapassato lo
sterno. Lo tolgo, passo la lingua sulla lama.
Qualcosa scivola veloce nella mia bocca, forse un
verme; per me è solo un’altra caramella superpippo: le zampette a frizzy-pazzy mi solleticano la
gola. Mando giù, tutto intero: possa tu trovare
casa nel profondo delle mie budella, figlio mio. Un
giorno tutto questo orrore sarà tuo, e io te lo lascio
con sadico piacere!
Una temibile infezione intestinale. Conati di
vomito. Spesso vomitavo con tale violenza che non
potevo contenere la merda e il piscio nel mio
corpo marcio. Fu così che avvenne il parto: una
lunga salsiccia sgusciò fuori dal mio corpo.
L’allattai come potei e lei, lui… la cosa rosicchiava
la mia carne. Quando le zanne affilate come
becchi di pappagallo arrivarono a ticchettare sulle
mie costole, ormai scoperte e infestate di larve di
mosca, arrivò il momento dello svezzamento. Ma
ne voleva ancora, sempre di più!, come tutti gli
infanti. Dovetti usare il DDT per tenerlo lontano.
62
Sebbene fosse una serpe gelatinosa si dimostrò
da subito un figlio attento, educato e intelligente.
A due mesi già recitava l’alfabeto runico a
menadito e componeva i primi nefasti oracoli. A
tre mesi aveva imparato tutta l’oscena dottrina dei
culti necrofili a memoria. A tre mesi e mezzo iniziò
a bestemmiare in antico babilonese e in kundu, un
misterioso dialetto pre-accadico.
Con il corpo ridotto a brandelli, cieco e con
addosso ogni sorta di parassita che si cibava delle
mie carni putrefatte, gli cucii qualcosa.
Considerato il sangue che scorreva copioso decisi
che il colore dovesse essere il rosso. Ci infilai un
dito e stabilii che poteva assomigliare a un
cappello. Per vermi, ovviamente. Glielo misi su
quella specie di protuberanza a forma di patata
che doveva essere la testa. Lo fissai con una decisa
martellata e un chiodo arrugginito. Per sicurezza.
E gli diedi come nome Bestia Immonda.
Ma gli abitanti del paese, recitando le loro
preghiere e i loro scongiuri, si riferivano a lui con
l’appellativo di Cappuccetto Rosso. Divenne il suo
nome mitologico e, con un po’ di orgoglio, mi
adattai a chiamarlo così anch'io. Era pur sempre
mio figlio. Il mio virus purulento. Il mio aborto
osceno.
Un giorno, con gli unici due monconi di dente
che mi erano rimasti e la lingua amputata da un
morso di topo, lo chiamai:
63
– “Cappuccetto! Cappuccetto Rosso! La tua
nonna è tanto, tanto ammalata: ha il cancro al
cervello. Ormai le sta uscendo anche dalle
orecchie e dagli occhi. Povera bestia. Portale
questa medicina: un cesto di P–08 Parabellum! E
cartucce. E proiettili! E colpi in canna: dopo starà
meglio.”
– “Certamente mamma. Va bene mamma.”
– “Ma, mi raccomando, non passare per il
bosco: ci sono i formichieri assassini, affamati di
orridi vermi come te! E i sacerdoti esorcisti del
Nazareno!”.
– “Certamente mamma. Va bene mamma.”
– “Verme schifoso, bavoso e lurido: grazie a
Pan gli occhi me li sono cavati ancor prima che tu
fossi anche solo un vago incubo nella testa di
Belzebù; grazie a Satana le sanguisughe hanno
fatto i loro nidi nelle mie cavità oculari, cibandosi
dei filamenti viscosi che penzolavano dalle mie
vuote orbite. Grazie all’abominio nero hanno
proliferato, così ch'io non corra il rischio di
vederti mai, mio schifoso, strisciante figlio! Ma…
C’è sempre un ma… Quanto sei obbediente! Ora
vai: la nonna sarà in preda a terribili convulsioni,
deliri e crisi epilettiche!”
– “Si mamma. E se incontro il lupo, mamma?”
64
– “Mangialo. Divoralo dall’interno. Come hai
fatto con quel cucciolo di cerbiatto che ti donai
per la notte di Valpurga. Il lupo non è diverso.
Cambia solo il colore.”
– “E la focaccia?”
Lo colpii senza pietà con una clava spezza ossa.
– “Eccola la focaccia. T’è piaciuta? Ne vuoi
ancora?”
– “Ancora, ancora!”, disse lui in preda
all’eccitazione.
– “Dopo! Prima vai a portare soccorso alla
nonna: e se non riesce da sola ammazzala tu! Vai,
corri, striscia putrida anguilla!”
Swiiiiishisshwish!
Scomparì in mezzo ai cespugli di rovo, in un
attimo, come un incubo strisciante nella notte.
Non lo rividi mai più. Non seppi mai che cosa
avvenne. Se avesse incontrato gli abitanti del
villaggio inferociti: stupidi, sozzi, ignoranti e
superstiziosi! O se fosse diventato una facile preda
per qualche schifoso uccello di palude ghiotto di
lombrichi. Avessi avuto ancora gli occhi forse una
lacrima l’avrei pianta.
65
Ah, l’amore, l’amore: una vera maledizione.
Nella sua variante mammona poi! I figli, si sa,
anche senza braccia nè gambe, sebbene con un
solo orrido occhio giallo in mezzo a una testa
deforme, i figli be'… fanno sempre piangere le
loro mamme! Un giorno partono per il mondo e ci
rimangono: secchi. Sul bordo di un’autostrada a
tre corsie o su una stradina di campagna, ad offrire
il loro viscido spettacolo ai ciclisti di passaggio. E
a noi cosa rimane? Ferite lacerate, squarci
potentissimi sempre aperti, cicatrici infette da cui
filtra l’infinito: immenso, eterno, nero, vuoto e
senza significati e consolazioni. Ma, sebbene così
alieno alla nostra visione antropocentrica
dell’universo, sebbene privo di legami estetici ed
emotivi, questo vuoto, questa oscurità, ci sussurra
qualcosa. E, in notti come questa, notti funestate
dai vapori chimici della colla, sembra quasi di
sentirlo parlare. Sembra quasi che ti accarezzi e
dica:
– “Sono la notte. Vogliamo essere amici?”
66
la tradizione del balek in
epîstäfth
Superato il fiume Dervïsh e le titaniche colonne di
Nümâ e Kalëth, lungo le sponde del lago detto
Synthia a sei giorni di marcia dal villaggio di
Aynesh, nelle fredde giornate di autunno è
possibile, per il viaggiatore più coraggioso e
audace, raggiungere la città di Epîstäfth. Sono
osservati con rigore e dedizione ad Epîstäfth i culti
di Edrön e Kartika, le divinità del Ricordo e della
Volontà e – per una serie di motivi che non è
compito di questo modesto narratore elencare e
descrivere – tra le tante celebrazioni e costumi
collaterali, questi avevano dato origine anche alla
tradizione detta “balek” o “Dichiarazione della
Somma Ragione”. Questa consisteva in una sorta
di dichiarazione finale espressa in pochi versi e
67
scritta dall'individuo che era prossimo alla morte;
una specie di epitaffio ma avente la funzione di
rendere noto quale fosse stato lo scopo, il senso
ultimo del vivere del morituro.
Chi moriva senza lasciare un balekj (questo il
nome che veniva dato alla frase e alla targa sulla
quale veniva impressa), in genere le persone sole al
mondo, i carcerati o chi era troppo distante
persino dal più basso dei gradini della scala
sociale, veniva inumato in una tomba quasi
anonima e il suo balekj era “Nðktis Ørkåth
Môrthî”, una frase religiosa generica che – molto
approssimativamente – significava qualcosa tipo
“scivolato nella notte negli sconfinati giardini della
morte”.
La tradizione del balek veniva presa con molta
serietà dagli abitanti di Epîstäfth, ma non
mancavano certo esempi di sottile ironia, arguta
filosofia e pungente satira. Specie sulle tombe di
personaggi illustri – soprattutto poeti, scrittori,
artisti in genere o comunque individui che già in
vita avevano dimostrato una certa eccentricità –
non era impossibile trovarne degli esempi. Questi
erano tollerati come delle curiosità ma
rappresentavano comunque delle eccezioni. Come
ad esempio il balekj scanzonato e irriverente del
68
celebre amatore e avventuriero Anthem Sakanova:
“Lo scopo: lo scopo della mia vita.
O forse solo ora lo scopro?
Tanto bene tanto poco
L'importante è che m'aggodo
di codesto novo giogo!
'ché quel che piacer non da non lo noto:
mi ci ammollo e non m'è sodo.”
C'era poi il balekj di Sawor Redrum, vignettista
satirico ed appassionato di enigmistica; era lui che,
sotto lo pseudonimo di Zak, curava la pagina delle
parole sfalsate e dei rebus su L'Informatore
Sagace, uno dei giornali più diffusi in Epîstäfth. Il
suo balekj consisteva in una strana formula che
comprendeva lettere, composizioni numeriche e
strani disegni che facevano riferimento a formule
geometriche sconosciute:
69
Nessuno era stato in grado di decifrarlo per
anni. Qualcuno aveva persino insinuato che
dovesse trattarsi di un rebus senza senso e
irrisolvibile. Insomma: un'ultima burla di Sawor
che, tra le altre cose, era conosciuto anche per i
suoi celebri scherzi. Infine però un giovane
studente di meta-semantica dell'Università
Fricozoika risolse l'enigma:
“Vorrei fare un gioco con te,
ma temo che sia appena finito.”
Questo diceva il balekj di Sawor Redrum. Tutto
qua. Ovviamente furono in molti a rimanerne
delusi. Ma questo è normale: è sempre così
quando si crea una grande aspettativa. Ma non
vorrei che il lettore fosse tratto in inganno da
questi esempi: come ho detto prima la
Dichiarazione della Somma Ragione era una
tradizione rispettata e seria. Gli esempi appena
citati costituiscono delle eccezioni, sia nel
contenuto che nella forma.
C'è da precisare una cosa importante. Lo scopo
del balekj non era quello di descrivere quale fosse
stata la volontà e i desideri dell'individuo durante
la sua vita; la tradizione del balek prevedeva che
l'individuo si rendesse consapevole di quale fosse
70
stata la sua reale funzione nell'ingranaggio
dell'esistenza, a prescindere dai suoi personali
desideri ed ambizioni. Il balek costituiva per molti
un motivo importante per meditare sui sottili
meccanismi della vita e, secondo altri, poteva
addirittura essere considerato come un punto di
accesso verso alcune profonde verità nascoste alla
coscienza ordinaria. Alcuni sostenevano che la
meditazione sul balek portava in superficie formepensiero basate su potentissimi archetipi collegati
con l'inconscio collettivo; supponevano che
esistesse la remota possibilità di poterle sfruttare
in modo che queste garantissero l'accesso a stati di
coscienza diversi da quelli conosciuti.
Fu proprio meditando sui pensieri ispirati da
un antico balekj che la giovane Thula varcò i
cancelli di Hulyék che – se l'esploratore dello
spirito ha la tenacia sufficiente per perseverare nel
duro cammino – introducono al sentiero che
conduce verso le porte dell'infinito. In
concomitanza con il suo primo viaggio oltre i
cancelli di Hulyék, al suo risveglio Thula si tirò su
a sedere in una piccola pozza di sangue e divenne
quindi donna e sacerdotessa in una volta sola. I
sacerdoti magìky, che già alla nascita ne avevano
predetto il destino, vennero a prenderla all'ora
terza. Deposero sulla sua testa un velo viola che le
71
copriva anche il viso e lo fissarono con una
coroncina di alloro. Quindi la portarono al tempio
mentre Nuit, gloriosa, ricurva e scintillante di
stelle, abbracciava dall'alto, con estremo amore,
Epîstäfth e il mondo tutto.
72
un estratto dal libro delle
duecento verità
“L'energia fluiva nel suo corpo come un
inaspettato incidente nucleare al limitare di una
foresta carica di ignari alberi, che si apprestano a
sperimentare gli incerti vantaggi di un terremoto
molecolare; pronti a succhiare e addizionare nuovi
elementi capaci di trasformare, per sempre, il
corso degli eventi così come lo si è sempre inteso.
Tutto questo mentre ad un ignaro osservatore
esterno tutto sarebbe apparso sempre simile a sé
stesso, così come sempre era stato sin dalla prima
incerta alba del genere umano. Lenta ma potente,
invisibile e rigeneratrice, questa nuova forza si
faceva strada nelle sue ossa, nei suoi muscoli e
nelle fibre; si faceva strada nel sistema nervoso e
attraverso l'intricato dedalo di vene e arterie. I
cultisti cominciarono ad intonare le loro oscure
73
litanie mentre il gran sacerdote, spalancate le
braccia, recitava la formula del Ritorno del Re:
Siano aperte le porte del Cielo,
le catene sono state tolte dalle porte del Tempio.
La casa è aperta al suo padrone!
Tu che non perisci, tu che non ti annulli.
Il tuo Nome dura tra la gente,
il tuo Nome si manifesta tra gli dei.
Accetta questa offerta:
è l'offerta del Re,
è l'offerta di Anubis: mille pani, mille brocche di
zytum, mille buoi, mille oche per la tua Potenza
vitale.
Passa la porta del cielo
perché tu hai la conoscenza
Passa la porta del cielo e ritorna tra noi
Amunathon!
La forza vitale cominciò a scorrere sempre più
forte e, raggiunta la testa, riempì il suo essere di
una consapevolezza nuova e terribile: in lui c'era
ancora energia, in lui era il respiro, fresco, potente
e divino. Era vivo, ancora una volta! Un sussulto e
74
un impercettibile gemito precedettero una forte
scossa che fece tremare tutto il corpo. La
sacerdotessa accarezzò per l'ultima volta il sacro
membro con le sue calde labbra carnose e,
chiudendo dolcemente gli occhi, deglutì il divino
nettare che fluiva copioso. Proprio in quel
momento gli occhi della mummia, finalmente, si
spalancarono.
– “Bentornato tra noi, o grande Amunathon!”,
disse a voce alta e con tono solenne il gran
sacerdote. “Io, Heru, sacerdote di Anubi e Nuit,
rasato, depilato e circonciso, vestito di puro lino e
versato per i misteri; rifuggito il contatto con
qualsiasi donna nel mio servizio al tempio come
prescritto, do il benvenuto a te, re meraviglioso e
vittorioso!”
A questo punto la gran sacerdotessa alzò in alto
il disco d'oro sul quale era inciso l'occhio
scintillante di Ra, quindi lo percosse con una clava
tempestata di lapislazzuli: un suono acuto, nel
quale era possibile distinguere un ampio ventaglio
di armonici, risuonò in tutta la sala esagonale del
Grande Tempio del Mistero di Tebe.
– “Oh, che mal di testa!”, disse Amunathon.
“Che razza di lingua sto parlando?”. Il gran
sacerdote, la sacerdotessa e i cultisti tutti rimasero
un po' perplessi. Già da tempo si era discusso su
come sarebbe stato il primo contatto ma,
75
ovviamente, nessuno era stato in grado di dirlo
con certezza. C'erano tra gli adepti dell'ordine due
scuole di pensiero: la prima, quella dei credenti
più ortodossi (che dava maggior rilievo alla
componente spirituale dei misteri) credeva
fermamente che il primo contatto sarebbe
avvenuto come descritto negli antichi papiri dove
erano riportate tutte le formule magiche per il
risveglio della mummia. Queste descrivevano un
discorso diretto tra il risvegliato e il gran sacerdote
simile a un copione cinematografico. La seconda
scuola di pensiero prediligeva una concezione più
dinamica che non escludeva dal patrimonio
ereditato dagli antichi le più importanti scoperte
dell'epoca moderna; secondo questi i dialoghi
riportati negli antichi papiri dovevano essere
considerati come delle approssimazioni, delle linee
guida su come condurre il primo dialogo e niente
più.
Ma, a onor del vero, la risposta del faraone al
solenne discorso di benvenuto suonò strana sia
agli uni che agli altri, anche se i secondi avevano
messo in considerazione che l'utilizzo del VSRT
avrebbe potuto comportare degli effetti insoliti
(VSRT era l'acronimo per Vocal Synthesizer &
Realtime Translator; si trattava di un sintetizzatore
vocale e traduttore in tempo reale che era stato
installato nel cervello biomeccanoide del re, e che
gli avrebbe permesso – una volta risvegliato dal
76
suo sonno millenario – di parlare qualsiasi lingua
tra quelle installate, cioè una, per il momento).
Superata la sorpresa iniziale Heru, il gran
sacerdote, riprese il controllo di sé e della
situazione. Ormai sapeva che i dialoghi previsti
dall'invocazione, così come erano stati descritti e
come ci si sarebbe aspettato che fossero da più di
seimila anni, non sarebbero serviti a niente.
Continuò quindi senza seguire il protocollo, tanto
non avrebbe avuto senso.
– “La lingua che stai parlando, o mio re, si
chiama zingarello-marocchino.”
– “Ah!”, disse il faraone, “che buffo nome...
non so perché mi fa ridere.”
Il gran sacerdote cercò con lo sguardo tra i
cultisti. Mustafà Said, capo del settore neuroinformatico K.E.B.A.B., alzò il cappuccio e
suggerì che le variabili introdotte per favorire
l'assorbimento di informazioni nel cervello
artificiale – come ad esempio informazioni relative
al passato recente che ora erano obsolete, nozioni
di cultura minore e l'emulazione dei comuni
meccanismi di riflesso condizionato – potevano
avere degli effetti di questo tipo sulla risposta
psicologica, anche a causa del tessuto neurale che
doveva ancora imprimersi di nozioni di prima
mano. Tutto questo lo sintetizzò con una parola:
77
“rodaggio”. Il gran sacerdote fece segno con la
testa come per dire “ho capito”.
– “Oh, mio re”, proseguì Heru, “la gioia che ti
accompagna allieta anche me e tutti i miei
confratelli qui presenti”.
– “Zingarello-marocchino hai detto... non ho
mai saputo dell'esistenza di questa lingua”, disse
pensieroso Amunathon.
– “É perché non esisteva ancora seimila anni
fa, mio re.”, replicò il gran sacerdote.
– “Come hai detto che ti chiami?”
– “Il mio nome è Heru”
– “Bene Heru, fammi il punto della situazione
zxcbnzxcrrr”.
Mustafa Said si avvicino velocemente al rack
che conteneva il complesso sistema informatico
dal quale era possibile gestire in remoto il VSRT e,
dopo aver girato alcune manopole e basculato una
leva, fece segno che ora era tutto a posto.
– “Che è successo ragazzi?”, chiese il re.
– “C'è stato un piccolo problema nella “magia”
che ti permette di parlare correttamente la nostra
lingua. Ma il sacerdote che ha operato questa
magia – e qui indicò in direzione di Mustafa Said –
ha subito provveduto a sistemare tutto”. Il re
78
guardò Mustafa Said e poi rivolse nuovamente lo
sguardo verso Heru:
– “Raccontami di questa magia, Heru”.
– “Certamente mio re”, rispose lui.
– “Ma ti prego: fammi prima un breve sunto
della situazione, come ti stavo chiedendo poco fa.
Cosa è capitato in tutto questo tempo? Dove ci
troviamo ora?”.
– “Sono capitate innumerevoli cose, mio re.
L'uomo ha operato miracoli e magie che prima
erano impossibili da realizzare e anche solo da
immaginare. Ci fu un tempo in cui la terra bagnata
e nutrita dal sacro fiume era il centro del mondo.
Quel tempo, il tuo, ad un certo punto finì e ci
furono nuovi re, nuovi regni, nuove terre e persino
nuovi dei. L'eresia di Amarna si diffuse nel mondo
intero a causa di quel gruppo di schiavi che
tentarono con successo la fuga, gli ebrei, e così i
vecchi dei vennero dimenticati. L'uomo fu
inghiottito nelle tenebre dell'ombra proiettata dal
suo dio unico, onnipotente, onnisciente e
invisibile. L'uomo divenne una pecora paurosa e
ignorante.”
– “Beee!”, interruppe il faraone.
79
– “Sì... quella... - gli fece eco, un po' perplesso
Heru - Una pecora ignorante, dicevo. Ma la
scintilla primigenia di Thoth non aveva mai
smesso di ardere: attraversò prima i secoli e poi i
millenni. Gli uomini lo chiamarono in tanti modi
diversi:
Prometeo,
Hermes,
Mercurio;
raccontarono la sua storia in tanti modi differenti,
dipingendolo con i colori più disparati e
descrivendo le trame più intricate. Ma la forza
generatrice di Thoth, la sua essenza, rimase
sempre la stessa e, ad un certo punto, fu riscoperta
da un manipolo di pensatori audaci che ebbero
l'ardire di scardinare l'ordine costituito.
Andarono contro i pregiudizi morali e spirituali
del loro tempo e, questi, furono i primi timidi
raggi di una sfolgorante aurora dorata che investì
il mondo di una luce bianca e pura.”
“Aummm” fecero in coro tutti i cultisti. Heru
proseguì:
– “Ma l'uomo aveva ormai dimenticato i vecchi
dei e non fu capace di controllare il potere della
luce. La conoscenza rese l'uomo presuntuoso e la
sua natura mortale – alla costante ricerca di un
eterno immortale irraggiungibile e che, da sempre,
gli è negato – lo rese autodistruttivo. Ci fu un
lunghissimo periodo dove alle guerre succedettero
la carestie e alle carestie nuove guerre, e così via
per molto tempo ancora. I falsi dei delle religioni
80
monoteiste, che già avevano condotto alla rovina
l'antico Egitto ai tempi di Akhenaton, stavano ora
conducendo alla rovina il mondo intero.”
– “Chi erano questi falsi dei?”, chiese il
faraone.
– “I falsi dei delle religioni monoteiste erano le
diverse facce di un unico falso dio il cui nome
faceva rima con “io”, e che non era altro che la
manifestazione della bestialità dell'uomo e il suo
desiderio di farsi dio a sua volta. Un dio assassino
e suicida che ammazzava sé stesso.”
– “Prosegui”, disse Amunathon che mentre
ascoltava prestando estrema attenzione assumeva
uno sguardo sempre più intelligente.
– “Ma come avvenne all'epoca in cui l'uomo
riscoprì la luce, ancora una volta, ci fu un
cambiamento importante che ristabilì l'equilibrio.
Un gruppo di uomini riscoprì gli antichi riti,
riconobbe il valore dell'Illuminismo e ne capì gli
errori compiuti. L'uomo comprese che Scienza e
Religione erano le due colonne portanti dello
stesso tempio: destinate a ergersi parallele senza
mai
potersi
incontrare,
ma
entrambe
indispensabili per garantirne l'equilibrio. È così
che venne ristabilito l'ordine.”
– “Dove ci troviamo ora?”, chiese il faraone.
– “Questo è il Grande Tempio del Mistero di
Tebe, il centro della città capitale del mondo:
81
Chauamigu.”
– “Non conosco questa città”, disse il faraone
perplesso. “Il colore della vostra pelle e i
lineamenti dei vostri volti mi sono vagamente
familiari. Siete voi di discendenza egizia?”
– “Non esattamente, mio re. Nei tempi bui che
seguirono all'Illuminismo ci furono molte
rivoluzioni e molte terre furono vinte e perse dagli
eserciti di tutto il mondo. Ma un esercito
silenzioso stava cominciando la propria lunga e
pacifica marcia, verso il futuro che oggi noi
chiamiamo Glorioso Presente e sul quale tu,
Amunathon, ti appresti a regnare. Forte del
proprio numero, il popolo marocchino si diffuse
nel mondo insieme agli eredi di Atlantide, ovvero i
detentori dell'unica divina verità: gli zingari. In un
primo momento conquistammo pacificamente i
territori a nord del Mediterraneo e, dove Annibale
con gli elefanti e la forza bruta aveva fallito noi –
complici del fatto che le donne di quel popolo di
briganti, ladri e pastori avevano ormai perso ogni
interesse per il sesso e il loro seno, ormai secco,
aveva smesso di allattare – ci insediammo
pacificamente e ci moltiplicammo come lo
scarabeo sacro, dal cui seme per ogni goccia ne
nascono altri otto. Il popolo di Atlantide intanto
divenne nostro alleato. Le nostre donne
conobbero i loro uomini e ne goderono. I nostri
82
uomini conobbero le loro donne e ne trassero una
discreta gioia.”
– “Quella di prima era una di loro?”, chiese il
faraone inarcando il sopracciglio.
– “No, mio re. Cioè non lo so. Qua siamo tutti
un po' e un po'. Quella di prima era Pastrunia, la
gran sacerdotessa. Ma permettimi di proseguire...”
– “Prosegui pure Heru, mio nobile sacerdote”,
disse il re facendo un cenno di assenso con la
mano.
– “Mentre il mondo cadeva in rovina, sotto i
colpi delle armi strette nelle mani dei falsi profeti
ispirati dai falsi dei, noi marocchini e zingari
diventavamo un unico popolo. Il nostro seme
plurifecondante, unito alla conoscenza degli
antichi dei del popolo di Atlantide, fece sì che ci
diffondessimo per tutto il mondo mentre il resto
del mondo periva, in nome di una pace che
l'amore tace.”
– “Mi sei anche poeta?”, fece il faraone
sorpreso.
– “No no, è stato un caso... or dunque:
scavammo le rovine di quella palafitta che era il
mondo dei falsi dei e stabilimmo fondamenta
profonde e stabili. Rinominammo il pianeta Terra
e lo chiamammo Zumbabamba. Ci fu quindi un
nuovo Illuminismo controbilanciato dall'antico
83
culto dei misteri e finalmente, ora, il trono di
Osiride è stato ristabilito.”
A queste parole tutti i cultisti si inchinarono
solennemente. Pastrunia, la gran sacerdotessa,
dopo essere andata via fece nuovamente il suo
ingresso nella sala esagonale. In testa portava la
corona scintillante di Amon-Ra, nelle mani lo
scettro del comando. Il faraone, che ora aveva
riacquistato piena consapevolezza, si levò in piedi.
I cultisti lasciarono cadere le proprie tonache e,
mentre Amunathon benediceva l'inizio del suo
nuovo regno, l'orgia sacra ebbe inizio.
Il seme zingarello-marocchino si mischiò a
quello divino del faraone e la sacerdotessa ne
ricevette in abbondanza. Da questa sacra unione,
da questo sacro rito, per intercessione degli dei,
nacque il primo esemplare della nuova razza
umana, il successore dell'homo sapiens-sapiens:
Thulek-el-Salam, il primo Homo Androgynoslurp.
Fu così, figli miei, che tutto ebbe veramente
inizio.”
***
Completata la lettura di queste parole
Erasmium Alambikkius, grande ermete superior
del monastero dei Porci Spini, chiuse il pesante
Libro delle Duecento Verità, e il buio scivolò
morbido come la seta su tutta la sala.
84
un dialogo tra nulla e
nessuno
– “Che cos'è la vecchiezza?”, chiese Nulla.
Nessuno rimase in silenzio per pochi interminabili
secondi, poi inspirò brevemente e disse:
– “Siamo noi. Noi che col tempo abbiamo
imparato a non sapere niente e di questo niente
sapere ci veliamo di una vaga parvenza di saggezza
che lascia quasi intendere che noi, invece, si
sappia. Questa, figlia mia, è la vecchiezza. La
vecchiezza è la scorza dura che si contrappone alla
85
carne viva della rassegnazione e che, con il passare
del tempo, diventa decrepitezza.”
– “È dunque meglio la rassegnazione?”
Un topo in fuga fece traballare i ferri per il
camino che produssero un suono acuto che come
un diapason, e in totale accordo con il crepitare
della legna, diede il la alla risposta di Nessuno:
– “No di certo. La rassegnazione è una ferita
aperta, sempre dolorante e sanguinolenta. È il
nido dove gli insetti più disgustosi depongono le
loro uova. È un banchetto per le larve. Chi si
rassegna muore presto e spesso in preda al delirio
indotto dalle promesse di un sogno mancato dove,
ad esempio, lei è eternamente giovane ad
aspettarlo, in una visione di felicità che non
corrisponde già più da molto al vero sentire
interiore. Chi si rassegna è un morto che cammina
e quindi muore due volte.”
– “Allora è di certo meglio la decrepitezza!”
– “Nemmeno. La decrepitezza conduce presto
alla malattia e quindi anch'essa alla morte. Malato
e decrepito l'uomo osserva l'io e il mio disfarsi
giorno dopo giorno, osserva le particelle staccarsi
dal suo e dagli altri corpi come coriandoli; da
questa visione ne ha dolori e da questi dolori altre
visioni. Visioni di antichi sogni perduti dove, ad
esempio, lei gli promette amore eterno ma, dalla
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tomba in cui ella giace da tempo, dimentica di
chiamare la sua voce o a lui tornare, anche solo
sotto forma di spettro. E da questo dolore ne ha
sempre più decrepitezza e malattia.”
– “Cosa è dunque meglio?”, chiese perplessa
Nulla a Nessuno.
Nessuno, ripensando a quella volta in cui un
gingillo di vanità tra le mani di una prostituta di
Rénnes aveva per sbaglio riflesso l'immagine del
suo occhio sinistro, aprì piano le labbra sottili. La
lingua si sollevò fino a toccare i denti incisivi
superiori e poi quelli inferiori. Per due volte. Da
questo movimento, attraverso l'aria soffiata dai
polmoni, una parola vibrò nell'aria e spaventò
molto Tutto che, segretamente, aveva origliato la
conversazione attraverso la porta:
– “Niente.”
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
man dragora
Una voce profonda e decisa si insinuava tra le
immagini e le seduzioni di quello strano sogno.
Mentre i vizi capitali sfilavano uno ad uno,
morbidamente adagiati nelle maglie di altre colpe
accessorie – ma non meno facili e goderecce,
quindi pericolose – quella voce recitava, lenta,
funebre, grave.
Ma nel brillare delle luci di una sera che
prometteva passione, nelle voci di donne scarlatte
di Babilonia (ora divenute rispettabili madri di
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figli di puttana intenti a pianificare scempi che –
vinta l'ipocrisia di una morale dalla quale l'uomo
si era emancipato da tempo – la società accoglieva
e premiava), nel riecheggiare di suoni antichi come
le profondità più buie delle nere foreste del nord
Europa che ora, inevitabilmente – e forse
finalmente –, avevano conquistato il mondo e ne
rigeneravano il sangue, in mezzo a tutto questo lui,
quella voce, pur udendola non la sentiva. Eppure
c'era; ma si confondeva nel rumore di sottofondo
delle strade e nel boato dell'esplosione delle
fondamenta della sua stessa coscienza che, ora,
aveva deciso di disconoscere perché ormai aliena e
fuori luogo in quel nuovo mondo di sogno.
Era una proiezione onirica di qualcosa che si
annidava dentro di lui e lo sapeva benissimo, ne
era pienamente cosciente, nonostante stesse
dormendo. Ma, paradossalmente e al contrario di
quanto succede ad altri, aveva deciso in piena
coscienza – quindi colpevolmente – di partecipare
e seguirne gli sviluppi proprio quando gli elementi
irrazionali che contraddistinguono il sogno
avevano cominciato a fare la loro comparsa. In
altre parole, inutile girarci intorno, doveva essersi
detto che se la mente venendo meno a sé stessa
produceva suggestioni e, al tempo stesso, la
coscienza era presente, avrebbe potuto
approfittarsene e trarne beneficio: doveva solo
fingere al cospetto dei personaggi che avrebbero
90
popolato il sogno e assecondare gli eventi che,
guarda un po’, sin da principio parevano volgere a
suo favore.
Fu così che cominciò a fingere non solo estrema
attenzione, ma persino di capire benissimo a cosa
alludesse quello strano tipo che gli si avvicinò.
Parlava di un gran movimento di soldi in
previsione di notevoli eventi mondani a cui lui
avrebbe dovuto – non si sa perché – presiedere nei
giorni a venire.
Un saggio e potente drago, però, brontolava il
segreto di cui era custode e che teneva ben stretto
al suo cuore: piantato lì, come una radice
impossibile da sradicare. E il segreto era la voce
che, in sottofondo, continuava a rombare,
mandando ammonimenti dalle profondità della
terra sotto forma di lenti ma decisi tremori. Ma lui
quella voce, pur udendola, non la sentiva.
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
proprio in quel momento una
piccola stella fece capolino
tra le fronde dell'albero
a Simona, per sempre.
Ci sono dei momenti eterni ed immensi che non si
vedono, ma ci sono. In quel momento la pellicola
ha appena scartato un frame, la penna dello
scrittore ha scarabocchiato una virgola, la mano
del pianista ha esitato un attimo di troppo su una
pausa; e allora per chi non sa vedere oltre quel
momento non esiste, quel fatto non è un fatto,
nulla s'è compiuto. Ma non è così. Tra un frame e
l'altro, dietro quella virgola, in quella pausa, in
quel maledetto spazio tra le righe molto spesso c'è
la storia stessa e i significati sono solo una cornice
93
che, maldestramente, cerca di imitare le fessure di
una tapparella che prova a bloccare la visuale, che
confonde il quadro nel suo insieme, ma che non
può fermare la luce del sole che c'è dietro. Non
fatevi ingannare da questi segni che chiamiamo
lettere, non credeteci mai troppo; guardate bene
dietro. Osservate con attenzione oltre.
Proprio in quel momento una piccola stella fece
capolino tra le fronde dell'albero; è così che inizia,
la fine. Il vento girandolò qua e là un foglietto di
carta e un grosso gatto strusciò il suo muso sulla
panchina. La panchina, quella di fronte al Ponte
delle Sirenette. Era lì che ogni sabato, di solito nel
pomeriggio intorno alle quattro o alle cinque, era
solito sedersi il poeta-musicista. Lo vidi per la
prima volta in un umido ma stranamente
soleggiato sabato di settembre; lo notai subito per
il pallore e per il fastidio che sembrava provare per
la luce del sole. Lo soprannominai così perché sin
dalla prima volta che lo vidi portava con sé un
libro e doveva per forza essere un libro di poesie,
sulle quali meditare avidamente. Perché altrimenti
non mi spiego come mai fosse sempre lo stesso
libro. Solo in alcune occasioni – specie all'inizio –
lo vidi tenere in mano qualcosa di diverso; degli
spartiti, della carta da musica. Per quella settimana
lo chiamai “il musicista”, ma poi tornò ancora con
quel libro di poesie. Nel dubbio rimase “poetamusicista” e stop; e gli è andata pure bene.
94
Stava lì ed aspettava; o comunque sembrava che
aspettasse qualcuno. Lo dedussi sin dalla prima
volta che lo vidi da come ogni tanto si guardava
intorno, a volte persino in modo un po'
circospetto, o così pareva. All'inizio sembrò essere
una storia interessante, specie perché ero curioso
di vedere chi fosse la persona che sembrava
attendere. Ma non arrivò nessuno il primo giorno.
E lo stesso accadde la settimana dopo. Ma lui
aspettava, di questo ne sono certo, ho occhio per
queste cose: passo tutto il mio tempo qui da anni,
da decenni! Ho imparato a riconoscere le persone
e sono pur sempre un drago, verde, ma pur
sempre un drago! Ho occhio per queste cose.
La terza settimana, ancora di sabato: sempre lì.
Cominciai ad annoiarmi un po' perché in verità
sembrava non succedere nulla; ma ero certo che
qualcosa sarebbe successo, lo sapevo. Succedeva
sempre qualcosa. Nel complesso però, anche se la
cosa sembrava andare per le lunghe, osservarlo era
sempre un'esperienza interessante: non smetteva
mai di esibirsi in strane smorfie facciali che erano
impossibili da decodificare perché totalmente
immotivate e senza senso. Per esempio alla quarta
settimana mi prese quasi un accidente: in quel
momento non c'era nessuno, solo lui ed io.
Silenzio totale. Ero concentratissimo sulla
copertina, non ero ancora riuscito a scoprire il
titolo del libro che teneva con sé, vedevo solo dei
95
segni neri in campo bianco (presumibilmente
un'illustrazione) e una scritta piccolissima su una
banda azzurrognola. Ecco, ero concentrato su
quella banda azzurra, proprio in zen totale,
quando all'improvviso lui fa uno scatto con le
mani e alza la testa in alto. Ma così: all'improvviso
scrutava con gli occhi stretti tra i rami dell'albero
di fronte. Cosa? Quando? Dove? Mi chiesi...
Niente, ah, ah!: non succedeva niente e non c'era
proprio niente da vedere; era una di quelle sue
stramberie “psico-cinetiche”. Guardava con
attenzione qualcosa che solo lui vedeva, vallo a
sapere. Un pazzo probabilmente; anzi sicuramente
era un pazzo.
La quinta settimana si diede per malato. Quella
dopo arrivò in ritardo e quella dopo ancora se ne
andò via prima del solito. Ma manteneva sempre
una certa costanza. Una volta lo vidi stranamente
sereno – di solito era sempre accigliato – e un'altra
volta ancora era chiaramente nervoso e
spazientito: fumava più di quanto fumasse di
solito, e fumava tanto! Dopo innumerevoli
settimane venne il giorno dei giorni, non me lo
dimenticherò mai: sheer heart attack, ah, ah! Ad
un certo punto questo, senza dire niente, prende e
si alza... E viene dritto verso di me! Ah, ah! No
dico: me lo vedo che mi viene incontro, convinto!
Io ero concentratissimo sulla copertina del libro
ma lui è un po' di sghiscio e io c'ho lo zampillo
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che mi copre un po' la visuale, cazzo! Oh, lo
stronzo: non mi infila un dito in bocca e prova a
bermi dal naso!? Che coglione: s'è pure schizzato
in faccia!
Va be': prova ad asciugarsi vicino all'occhio,
dice “cazzo” guardandosi intorno per vedere la
figura di merda che ha fatto, eventuali testimoni...
Nulla, non c'è nessuno: gli è andata bene! Oh, la
copertina! Niente, 'sto libro se lo girava e rigirava
nelle mani, poi all'improvviso si volta e torna al
suo posto. Va be' quella è stata l'occasione d'oro
mancata: non ebbi mai più modo di poter
osservare il libro così da vicino. Che poi, boh?: sto
libro ogni tanto lo chiudeva e se lo pettinava ah,
ah... non so cosa facesse, passava le dita sul dorso
in un modo strano come per rifargli la piega. No,
aveva chiaramente qualcosa che non andava.
Come dicevo prima fu in rare occasioni che lo
vidi senza il libro misterioso – ce l'ho ancora qui
per non aver mai saputo quel titolo – tra cui il
giorno che arrivò con il fiore. No, dico: sono
rimasto così! Dopo quella del poeta-musicista unpo'-tutto-un-po'-niente – o quel che era – ci
furono ovviamente molte altre storie. Ma questa è
la fine di quella storia; quella che sembrava non
aver avuto un finale certo, definito e che invece
secondo me non aveva avuto... un inizio. Vallo a
capire cosa facesse lì su quella panchina ogni
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sabato alla stessa ora. Ma se questo mo mi si
presenta con 'sto fiore, allora no, non ho capito
nulla di niente. Avevo fatto mille supposizioni:
dallo spacciatore in su; e all'improvviso mi arriva
“innamorato” con un fiore? Non esiste. Facile
pure, coglione com'era, che era riuscito a farsi
convincere a comprare il fiore da un cingalese ah,
ah. No davvero, non lo so, non ho idea, mi
arrendo... può essere qualunque cosa, qualunque
storia; o magari non c'è proprio nessuna storia
dietro al tizio e così il tutto finì per confondersi nel
sogno del rosso sonno di un fiore. Una rosa, che
prima di baciare per la prima ed ultima volta le
gelide labbra della notte, sgocciolò una grossa
lacrima che subito si fece ghiaccio. È così che finì.
Il vento girandolò qua e là un foglietto di carta
spiegazzato e un grosso, rosso, gatto cominciò a
strusciare il suo muso sulla panchina. Il poetamusicista sembrò non accorgersi del gatto e
guardando di fronte a sé si tirò su in piedi, di
scatto, come sempre. Proprio in quel momento
una piccola stella fece capolino tra le fronde
dell'albero e, per un attimo immenso, lungo lo
spazio di un niente, mentre il poeta se ne andava la
luce di quella stella baciò quella goccia che la rosa
abbandonata sulla panchina aveva deciso di
piangere e che, in quel non-tempo, probabilmente
pensò persino di essere un rubino. Da quel
pensiero, nell'attimo di quell'illusione, nacquero
98
forse altre stelle, altri pianeti, intere galassie e forse
anche altri universi. Anzi ne sono sicuro: altri spazi
infiniti ed eterni ed altri tempi dei quali nessuno
seppe mai nulla. Nemmeno il poeta – o quel che
diavolo era – seppe mai nulla. Nemmeno di
quell'immagine, di quell'incredibile fotografia
impressa in quella gocciolina congelata in quel
tempo e nella quale lui compariva di spalle mentre
se ne andava via per non fare mai più ritorno.
Ma c'era. Anzi, c'è. Per sempre. Io ne sono
testimone. Io l'ho vista!
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Pagina lasciata intenzionalmente vuota
una cena al papadonprich
Quella sera la compagna Petruskâ Oncheladäva
era bellissima. E questo è un grosso problema.
Infatti nonostante i capelli nerissimi raccolti in
quel modo così singolare che mettevano in mostra
quel suo magnifico collo così esile e bianco che
invitava al morso, nonostante quei suoi piccoli seni
– a ventosa o cipolla che dir si voglia – che era
impossibile non notare (specie nelle fredde serate
d'ottobre), nonostante quel suo nasino così
grazioso che conferiva al suo volto un non so che
di dolce e misterioso allo stesso tempo, nonostante
fosse seduta al tavolo vicino al mio e io quella sera
101
mi sentissi bellissimo – con la testa tutta leccata
come un esemplare da primo premio alla mostra
canina del palazzo Serenova –, nonostante tutto
ciò, e molto altro ancora, non è di lei che dovrò
parlare.
Infatti, mentre ancora ero intento ad ammirare
la bella Petruskâ – che sembrava aver notato la
mia presenza e che per la prima volta lanciava
inequivocabili segnali di interesse all'indirizzo del
sottoscritto – una voce, quella voce!, rovinò per
sempre ogni mio proposito amoroso.
– “Compagno Malmostovich! Sei proprio tu?”
Si voltarono tutti al suono squillante di quella
voce che, senza troppa fatica, era in grado di
sovrastare l'orchestra del Papadonprich, uno dei
ristoranti più raffinati e ricercati di tutta San
Kristoburgo. Con estremo imbarazzo finsi un
mezzo sorriso e salutai l'ingombrante e
imbarazzante presenza del compagno Ivanolenko
Bujardovich. Lo invitai a sedere con un ampio
gesto della mano. Mentre osservavo Petruskâ che
si alzava e si allontanava dal suo tavolo per non
farvi mai più ritorno, Ivanolenko s'era già bello
che seduto sulla sedia di fianco alla mia. Con il
braccio alzato e un sorriso da orecchio a orecchio
(contornato da quei suoi grossi baffoni neri),
cercava di attirare l'attenzione del cameriere.
102
– “Bene compagno Ivanolenko, anche tu al
Papadonprich questa sera? Una cena d'affari?”.
– “Oh, no compagno Malmostovich. Niente
affari 'sta sera. Basta affari, per carità! Durante
tutta la settimana ho lavorato come un cane alla
redazione dell'Istoriya. Per giunta il capo
redattore mi ha dato tormento perché non si
riusciva a tagliare fuori dalla foto del comizio
Alessaja Alessajova. Sai... l'“amica” del consigliere
Tarallòvich. Ma vedo che tu già mi hai capito, eh
eh!”
Strizzò l'occhio e io annuii. Adesso la verità è
questa: non me ne importava proprio nulla. Ma
dovevo sopportarlo per forza. Si da il caso che il
compagno Ivanolenko Bujardovic fosse sposato
con Ivanka Alessandréevskij, pro-segretaria del
vice direttore dell'Ufficio Alloggi Pubblici. Per
una serie di bizzarre vicende che avevano avuto
come filo conduttore il chiacchiericcio pettegolo e
puttanesco di certe signore, era venuto a
conoscenza del fatto che avevo elargito una lauta
mancia nella gara per l'assegnazione dei bilocali
sulla via Casabellaja. Mi toccava essere gentile con
lui, insomma.
– “Ah, interessante. Avete poi risolto?”, dissi
fingendo interesse mentre giocherellavo con un
grissino.
103
– “Oh be', sì. Alla fine ho ordinato dei nuovi
stencil da un catalogo francese che mi era passato
per le mani alcuni mesi fa e che, in quanto a
realismo, sono qualcosa di eccezionale. Ho quindi
sovrimpresso sul negativo una grossa mano che
regge una coppa di champagne, coprendo così il
volto della signorina Alessaja. Credimi: la foto
nell'insieme è un'autentica opera d'arte! Dovresti
vederla compagno Malmostovich!”.
– “Sì, certamente...”, dissi.
– “Considera che sarà pubblicata in prima
pagina sull'Istoriya di sabato...”
– “Non mancherò”, aggiunsi.
Grazie al cielo arrivò il cameriere con il mio
piatto di popporoppo ad interrompere quella
situazione noiosa ed imbarazzante. Niente, non
era proprio serata: il contorno di fagiolini e
melograno non aveva il luccichio tipico della
cottura al burro.
– “E tu come mai qui, Dorian? Posso chiamarti
Dorian, vero?”
– “Certamente. Mah, nulla di che compagno.
Anche io dopo una lunga settimana di lavoro ho
deciso di regalarmi una serata di svago”.
– “Ah già, come va al cinematografo?”.
– “Tutto bene. Anche se ultimamente sono
arrivati quindici nuovi film di produzione estera e
104
ho avuto un gran da fare con la supervisione e la
censura”.
– “Beh, se non altro ti vedi un sacco di bei film
gratis Dorian, non è vero? Ah, ah, ah!”. Si allungo
verso di me e mi strinse il collo in una morsa
poderosa. Poi cominciò a strattonarmi come se
fossimo ad un raduno di vecchi reduci ubriachi.
– “Ma guarda com'è bello il mio amico Dorian
Malmostovich”, disse tirandomi i baveri della
giacca. “Che eleganza, che raffinatezza! Anche le
scarpe: quelle che vanno di gran moda in Belgio!”.
– “Come diavolo hai fatto a vedermi le scarpe
compagno Ivan?”, dissi senza riuscire a
nascondere il mio stupore. I miei piedi infatti si
trovavano sotto il tavolo, nascosti da una lunga
tovaglia che arrivava quasi fino al pavimento.
– “Ah beh, Dorian”, disse lui un po'
imbarazzato. “È una specie di tic nervoso, una
fissazione diciamo”. Mi guardò in modo strano e,
per la prima volta da quando lo conoscevo, sentii
che il compagno Bujardovich aveva qualcosa di
interessante da raccontare.
– “Sentiamo, di che si tratta Ivanolenko? Una
qualche specie di strana depravazione?”, dissi.
– “Oh, no! Nulla del genere Dorian, nulla del
genere”, mi rassicurò lui.
105
– “E allora che?”, dissi io cercando di fargli
vuotare il sacco.
– “Ti spiego subito. Tutto ebbe inizio quando
il direttore Karriolòvich mi chiese di partecipare a
una cena. Si trattava di un evento sociale,
«probabilmente una cosa noiosa», disse lui. Beh,
sta di fatto che era stato spedito un invito anche
alla redazione dell'Istoriya. Il direttore mi supplicò
di andarci io visto che lui era molto impegnato in
faccende personali. Mi pare fosse quello il periodo
in cui la sua vecchia nonnina era molto malata e
lui le portava le focaccine. Va be' ma questa è
un'altra storia...”.
– “Infatti”, dissi io. “Ti prego continua Ivan”.
– “Certo Dorian. Beh ecco, ci pensai un attimo
e mi dissi: «ma sì, dopotutto si tratta solo di una
cena. Gratis per giunta!». E diedi così il mio
assenso”.
– “E...”, dissi io impaziente.
– “Un attimo di pazienza Dorian, un attimo di
pazienza, ora ti dico tutto. La cena era stata data
da Dragan Polijandrovic, il famoso commerciante
di pesce. Sono sicuro che ne avrai sentito
parlare...”.
Mi guardò con lo sguardo di traverso e con un
certo
imbarazzo
mentre
si
arrotolava
nervosamente il fazzoletto tra le dita.
106
– “Oh, suvvia Ivan, non crederai a queste
sciocchezze!”.
– “Oh beh, Dorian!”, fece lui, “lo sai che io
sono una persona con i piedi per terra, non sono
un sempliciotto e men che meno uno
superstizioso...”
Lo interruppi subito:
– “La storia secondo la quale Dragan
Polijandrovic avrebbe venduto la sua anima al
diavolo in cambio del successo economico è la
cosa più bislacca che si sia mai sentita. Suvvia
Ivan! Un pescatore che vende l'anima al diavolo. E
per cosa? Per pescare più pesci? Non potrebbe
mai succedere nemmeno nella peggiore delle
pellicole che mi passano tra le mani ogni giorno!”.
– “Lo so Dorian, lo so. Ma ascolta quello che
ho da dirti: mi recai alla cena e, di tanto in tanto,
mi capitava di pensare a questa stupida storiella
che gira da tempo. Ma la cosa mi faceva solo
ridere, ovviamente. Finché non è capitato ciò che
nessuno si sarebbe aspettato...”.
– “Cioè?”
– “Cioè nel bel mezzo della serata qualcuno
osò tirare fuori l'argomento!”
– “Intendi dire..?”
– “Esatto: non ricordo chi, non ricordo come,
ma qualcuno osò chiedere a Dragan in persona se
107
quella storia sul patto con il diavolo fosse vera!”
– “E poi?”
– “Fu molto imbarazzante! Il silenzio cadde
nella sala e – sarà stata la suggestione, sarà stato il
vino – ebbi persino l'impressione che la luce delle
candele si fosse d'improvviso affievolita...”.
– “Oh, suvvia...”. Lo guardai divertito.
– “Qualcuno parlò e cercò di sdrammatizzare –
continuò Ivan – ma fu subito interrotto da Dragan
Polijandrovic. Per tutta la cena, e anche in quel
momento, non aveva mai mutato quella sua strana
espressione di tristezza mista a disgusto.”
– “E cosa fece?”.
– “Parlò. Disse: «La cosa non mi offende. So
che gira questa voce; così come so che le persone
si nutrono di superstizioni; così come so che le
persone vedono come se avessero un velo davanti
agli occhi quando si trovano davanti a ciò che non
capiscono». Questo disse.”
– “E dopo?”
– “A quel punto Dorian, ti prego di credermi,
Dragan aggiunse: «così come so – con certezza
assoluta! – che qualunque persona che dovesse
essere tentata dal portare a termine un contratto
di quel tipo commetterebbe un errore terribile!».
– “E allora? Che c'è di strano?”
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– “Beh, Dorian: è il modo come l'ha detto!
Come se avesse voluto lasciar intendere che lui lo
sapeva per davvero cosa succede a fare un patto
con il diavolo! E poi successe che nel momento in
cui finì di pronunciare queste parole, le finestre
della sala si spalancarono. Un vento di una forza
inaudita spense tutte le candele e fece volare per
aria piatti e bicchieri. Potevo vedere chiaramente
la sua silhouette che si stagliava di fronte alla
finestra aperta. Si alzò in piedi e si diresse verso la
porta della sala e andò via. Adesso, e ti giuro che è
vero, ci fu una cosa che mi fece accapponare la
pelle. A me e a tutti i presenti: il suono dei suoi
passi. Era chiaramente, distintamente, il suono
degli zoccoli di una qualche creatura infernale!
Qualcosa tipo un caprone, o che so...”
– “Ma per favore Ivan! Questa storia non ha
senso!”.
– “Dorian! Te lo giuro sui miei nove figli!”,
tuonò lui. “Non so se si trattò di uno scherzo ben
orchestrato o cosa, ma quello che ti ho raccontato
è esattamente quello che è successo.”
– “E quindi Ivan? Mi vuoi forse dire che il
signor Polijandrovic ha fatto un patto con il
diavolo? Che esso stesso è il diavolo? Cosa?”.
– “Ma non lo so Dorian, non lo so!”, disse lui
spazientito. “Ma ti posso garantire che non ho mai
avuto così tanta paura in vita mia!”.
109
– “Devo ammettere però che è una storia
interessante Ivan”, dissi.
– “Certo Dorian. E come ti dicevo prima da
allora mi è rimasta questa specie di fissazione. Non
posso fare a meno di osservare i piedi delle
persone, specie quando sono sedute al tavolo.
Inconsciamente mi rassicura vedere che sono piedi
umani e non quelli di un qualche diavolo venuto
dall'inferno. Mi fa sentire al sicuro.”
– “Ah, ah, ah!”, lo interruppi io non riuscendo
a trattenere il riso. “Povero Ivanolenko!”.
– “Beh sì, capisco che faccia un po' ridere. Ma
sai?”, disse mentre il suo umore giocoso e burbero
riprendeva nuovamente il sopravvento, “la cosa ha
anche una sua utilità, diciamo.”
– “Cosa intendi dire?”, chiesi incuriosito.
– “Nel tempo sono riuscito ad imparare molte
cose sulle persone. Semplicemente osservando il
tipo di scarpa che indossano. Non sono riuscito
forse poco fa ad indovinare che le tue scarpe sono
di provenienza belga?”.
– “Già, è vero!”, ammisi.
– “Beh le scarpe dicono molto di una persona,
Dorian. E ti assicuro che sono infallibile. Ad
esempio vedi quel tizio laggiù?”.
– “Mmm, sì...”
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– “Quello è un beccamorto: solo i becchini
hanno quel tipo di scarpa con il tacco così alto e la
suola ricurva verso l'alto.”
– “E quindi?”, dissi con un velo di incertezza.
– “Eh, niente. Era giusto per darti una
dimostrazione pratica”, replicò il compagno
Ivanolenko. “Insomma Dorian, ho questo dono
e... ad esempio quella signorina che era qui prima!
Te la ricordi?”.
Mi venne un colpo: parlava di Petruskâ!
– “Certo! Ti prego dimmi...”, dissi cercando di
fingere disinteresse.
– “Eh, niente Dorian: indossava la calzatura
tipica della via Petralojava.”
– “E allora?”.
– “È una mignotta!”
Ingoiai l'ultimo boccone di storione con la pelle,
le lische e tutto il resto.
111
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
escape
Ad Achille e Giovanni Judica Cordiglia,
pionieri del radioascolto dello spazio, curiosi,
sognatori e fratelli; ai giochi d'infanzia e alla
fantasia.
All'alba del terzo giorno ci rendemmo
immediatamente conto che i danni subiti nella
battaglia della notte precedente erano molto più
gravi di quanto credevamo, e compromettevano la
nostra situazione più di quanto avevamo pensato.
Il mio primo ufficiale, e unico membro
sopravvissuto dell'equipaggio, riepilogò in breve –
e con un tono decisamente formale che però si
addiceva perfettamente, ahimè!, alla situazione –
la nostra condizione attuale:
– “Capitano: siamo fottuti!”
113
– “Qual è lo stato della nave, ufficiale?”
– “Il timone è mezzo distrutto e abbiamo perso
una parte dell'ala destra; c'è anche una grave falla
nella parte inferiore dello scafo. Il problema
principale resta comunque il sistema di
puntamento ottico che è stato danneggiato in
modo irreparabile.”
Asciugai distrattamente una goccia di sudore
che, scivolando dalla mia tempia, attraversò
rapidamente il mio volto sconvolto dalla
stanchezza.
– “Non siamo in grado di puntare le coordinate
astrali per il salto nella curvatura?”
– “Esatto capitano. Inoltre l'alimentazione del
sistema di schermatura dei radar è andata...”
– “Siamo scoperti?”
– “Già. Se dovessimo abbandonare questo
nascondiglio di fortuna per tentare di penetrare
l'atmosfera saremmo un bersaglio fin troppo facile
per la flotta di Astharte.”
Avevamo peccato di presunzione. Memori delle
gloriose imprese delle forze di terra, di mare e di
spazio del nostro impero millenario, eravamo
arrivati al punto di ignorare le più elementari
misure di sicurezza. Inutilmente spavaldi e con la
114
discutibile speranza di poter raccontare quella
battaglia ai figli dei nostri figli, eravamo partiti a
bordo della nostra modesta nave di Classe
Gamma alla volta del pianeta Astharte.
Sarebbe dovuta essere una cosa semplice come
per l'annessione del pianeta Hoobertröt.
Avremmo dovuto incontrare un'orda di
cavernicoli festanti pronti ad accoglierci come
degli dei. Trovammo invece un'intera flotta di navi
spaziali armate fino ai denti che non ci fece
nemmeno la cortesia di rispondere ai segnali del
nostro transponder tattico, o il favore sacrosanto
di intimarci almeno un ordine di arresto.
Grazie alla potenza di fuoco, allo schiacciante
vantaggio numerico e all'incredibile ferocia
esponenzialmente superiore alla nostra, ebbero
subito la meglio. Nel giro di poco l'Übershaft-S3
precipitò verso l'atmosfera del pianeta nemico e,
superato inaspettatamente lo strato più denso
della fotosfera, iniziò la sua rovinosa caduta verso
il suolo ostile. Nel silenzio più totale, e
accompagnata da una scia pirotecnica di fumo e
scintille colorate, la nave impattò in una zona
caratterizzata dalla presenza di un'imponente
foresta di thetifogli. Questo fu evidentemente
l'unico evento fortunato di tutta l'impresa visto
che ci consentì di rimanere nascosti, almeno per la
notte. Ma con la luce del giorno sarebbe stata solo
115
questione di tempo prima che il nemico si
rendesse conto della nostra posizione; era quindi
necessario muoversi il più in fretta possibile.
Non solo adesso sapevo cosa si provava a
trovarsi dalla parte del topo ma, per la prima volta
nella mia vita, sentivo tutto il peso del mio ruolo di
capitano.
 “Il sistema elettronico
artificiale di bordo?”
di
intelligenza
 “L'assistente virtuale A.I. Thoring non
risponde a nessun tentativo di input, capitano.”
 “Provi a riavviare il sistema in modalità S.U.,
ufficiale.”
Il tenente Dew aprì uno scompartimento di
fianco alla cloche secondaria. Ne tirò fuori una
chiavetta U.S.B. che infilò in una fessura che si
apriva tra l'elenco telefonico di Milano e le Pagine
Gialle. Per un attimo rimasi perplesso ma ritornai
subito in me non appena Dew cominciò a fare
rapporto sulla situazione:
 “Sta caricando. In meno di trenta secondi il
sistema entrerà in modalità provvisoria. Ecco,
vedo il logo di win...”
A questo punto la rabbia si impossessò di me:
 “Siamo nel duemilacinquecento! Secondo te
nel duemilacinquecento...”
116
Proprio in quel momento, mentre il mio primo
ufficiale serrava con forza nel pugno la cornetta
dell'iperfono (dalla quale si accingeva a lanciare
un ultimo e disperato S.O.S. e che, senza alcun
ombra di dubbio, aveva la forma di un barattolo di
yogurt), una voce stridula di donna riecheggiò
nella cabina di pilotaggio interrompendoci:
 “Achille! Giovanni! Smettetela di giocare: è
pronta la cena.” Dopo un respiro di rassegnazione
la mamma aggiunse, sottovoce: “Ce l'hanno
proprio nella testa questo spazio...”
117
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
non s’è padroni
Il punto è questo: non s’è padroni di niente,
nemmeno di quello che diciamo essere nostro. Ad
esempio: c’era una volta una penna... no. Un
giorno un uomo d’affari... neanche. Forse così: era
di martedì o forse mercoledì, pioveva e tuonava
così forte da convertirsi al cristianesimo e… no,
non va bene. Ad ogni modo il fatto è questo:
La penna Parker scivolò dal taschino sul quale
era ricamata una grossa lettera G, e andò a tuffarsi
dritta dentro un tombino nel quale l’acqua
119
piovana scorreva veloce lungo il canale di scolo.
La forza di gravità la attirò a sé facendola coricare
esattamente nella direzione verso la quale l’acqua
scorreva, e la corsa ebbe inizio. La penna schizzò a
tutta velocità davanti al muso di un topo di fogna,
per poi continuare la sua corsa verso via Roma, in
direzione del municipio di Casal Pizzardone.
No, no, non è così. La penna cadde dal taschino
e si infilò dentro il tombino, appunto. Poi iniziò la
sua corsa lungo il canale artificiale in direzione
sud, verso Time Square. Schizzò a tutta velocità
davanti al muso di un coccodrillo – ecco! – poi
attraversò in lungo tutta la Quarantaseiesima
Strada, passando sotto i piedi di migliaia di
cittadini ignari che si recavano a scuola, al lavoro,
etc. Sbucò fuori non si sa come nei pressi di un
parco pubblico dove, poche ore dopo, fu raccolta
da un netturbino. No. La penna venne
sputacchiata verso la superficie e uscì fuori nei
pressi di una cittadina chiamata Crystal.
Incredibilmente aveva percorso centinaia di
miglia in direzione nord, attraversando quasi tutto
il New England. Venne raccolta non da un
netturbino, bensì da un pescatore di aragoste che
quando l’ebbe tra le mani esclamò: “Oh! Una
penna Parker”. È evidente che ricordo male. Non
era un pescatore. Fu una ragazzina a trovarla,
Emily Whirter, e quando la prese in mano la
120
studiò per qualche secondo prima di leggere la
scritta ormai rovinata: Darker.
“Interessante! Una penna Darker”, pensò. Quel
nome le piaceva e così decise di tenerla con sé.
Fece persino in tempo a scrivere un’intera pagina
sul suo “diario-libro delle ombre”, con quella
penna, prima di perderla il giorno dopo sui banchi
di scuola.
In verità non la perse. Semplicemente un suo
compagno di scuola la lasciò “scivolare” dentro il
suo zaino mentre passava vicino al suo banco.
Arrivato a casa fece il punto della situazione sul
bottino della giornata e decise che il fumetto di
spider–man rubato a Eddy era più interessante.
Prese dunque la penna Parker, o Darker che dir si
voglia, e la lanciò sbadatamente su un tavolino
vicino agli elenchi telefonici. La penna passò lì
tutta la notte indisturbata fino al mattino dopo,
quando il signor Hatman la prese per appuntarsi
un numero di telefono. Era terribilmente in
ritardo per il suo volo, quindi infilò istintivamente
la penna nel taschino della camicia e scappò di
casa.
L’uomo che sedeva vicino a lui sull’aereo tirò
fuori delle carte. Anche lui era in viaggio per
affari. Ma, a differenza del signor Hatman, il suo
era un viaggio di ritorno: verso New York, verso
casa. Si frugò nelle tasche e si rese conto di aver
121
perso la sua penna. Chiese al suo vicino di posto, il
signor Hatman, se per caso non ne avesse una.
Hatman infilò la mano nel taschino e un attimo
dopo gli porse la sua penna Parker, quella presa
vicino agli elenchi telefonici sul tavolino di casa.
L’uomo la osservò in modo strano e mentre
allungò la mano sinistra per prenderla con la
destra tastò ancora una volta il taschino della
giacca, sul quale era impressa una grossa lettera G.
Ora, dunque: non s’è padroni di niente. Tenetelo a
mente.
122
quid est veritas, claudia?
Non-triste vagavo sentieri umidi di colori, dipinti
di pioggia e sconosciuti al noioso cerchio del
tempo umano. Arrampicavano la collina voltando
ora a destra ora a sinistra, dolcemente sinuosi, e
senza mai rivelare l’orizzonte dello spazio a cui
non appartenevano.
Una porta squarciò gli alberi. Il camminare
incerto, tra i fili d’erba che inghiottivano qua e là
la stradina, rallentò alla sorpresa di questa nuova.
123
Avrebbe dunque potuto esserci qualcosa oltre.
Forse non è il sogno l’ultimo approdo.
Attraverserò quel passaggio. Vedrò il luccichio
di troppe stelle svanire. Vedrò i colori delicati,
d'olio abilmente schiacciato sulla tela in vece del
sole; li vedrò farsi buio. Il buio sarà stato fatto
vuoto. Il vuoto lo si avrebbe voluto fare morbidoniente, prima del momento in cui vagherà un
tempo, tremolando al calore del bitume il riflesso
dell’illusione prima, nella quale questo incedere
stanco avrà avuto inizio in un passato nel quale
affogo ora la coscienza.
Sai tu, degli inganni della parola? E delle
geometrie, li sai? Eppure un tempo, prima del
grande equivoco del nascere, eri in quello stesso
buio. E non c’erano etichette per le cose, e non
c’erano nemmeno quelle: le cose. Non c’eri
nemmeno tu; ma eri. Sai cosa se ne fa il buio
eterno dell’universo di questo sole? E delle
coniugazioni verbali? Sai tu?
124
il gnomo dei funghi caprini
La ricerca della felicità non aveva mai prodotto
così cattivi frutti per il signor Arcibaldus
Scancanelli come quella volta in cui, per puro
caso, si imbatté in uno gnomo dei funghi caprini.
Innanzitutto c’è da precisare una cosa: non vi
salti in mente di cercare notizie a proposito dei
funghi caprini: non ne trovereste nemmeno nei più
dettagliati trattati di fungologia conosciuti;
secondo: non vi salti in mente di mettervi alla
ricerca del fungo caprino! Anche qualora vi
riuscisse di trovarne uno – il che è assai
improbabile – sarebbe un’esperienza che nessun
125
umano si augurerebbe di provare: si da il caso che
il fungo caprino, anche detto “capperino”, abbia
un pessimo sapore. A dire il vero è amaro come il
veleno e lascia sulla lingua una sensazione di pelo
di gatto. È inoltre salatissimo con un retrogusto di
aceto di cipolla ma, per qualche strano motivo,
piace molto alle capre selvatiche. Da qui il nome
di fungo caprino. Bene, vi ho avvisati.
Or dunque: questo signor Arcibaldus del quale
mi accingo a raccontare era famoso nel paese dove
abitava (Serpentara Mordazia o qualcosa di simile)
per le sue modeste qualità di fisarmonicista. A dire
il vero non era proprio un granché come
suonatore di fisarmonica, anzi c’era chi diceva che
non fosse poi così bravo. Qualcuno persino lo
derideva. Anzi a dire il vero tutti si facevano beffe
di lui quando suonava la sua fisarmonica.
Insomma: era un cane! Benché avesse coltivato la
passione per la fisarmonica sin da bambino non
era mai riuscito a raggiungere dei risultati
apprezzabili. Un esempio: ai primordi della sua
carriera hobbistica il nostro, pieno di ardore, ebbe
l’ardire di proporsi per suonare ad un matrimonio,
quello tra sua cugina Sigiscalca e il signorino
Wilfred Schioppatrombelli: fu un disastro. Vuoi
l’inesperienza, vuoi l’emozione, la fisarmonica di
Arcibaldus iniziò a soffiare una marcia funebre a
ritmo di foxtrot! Inoltre: per qualche oscura
ragione lo strumento (stonato) non ne voleva
126
sapere di stare zitto. Continuò ad emettere suoni
lugubri e pungenti fino a quando lo sposo non
pronunciò il fatidico “No!”. Poi saltò in sella alla
sua motoretta e se ne tornò a casa incarpiato nero.
La cugina non glielo perdonò mai, inutile dirlo.
Altro esempio: la gara annuale per fisarmonica
della Sagra del Ranocchio. Per dieci anni
consecutivi il povero Arcibaldus arrivò sempre
diciassettesimo, ovvero ultimo. Tranne nel
millenovecentosettantapulci
quando
arrivò
sedicesimo, ma solo perché uno era rimasto a casa
col mordillo gallico.
Insomma il povero Arcibaldus ce la metteva
tutta ma più si impegnava più gli veniva male!
Esempio: il re maggiore non lo sapeva fare perché
aveva le dita troppo cicciotte e quindi gli si
incastrava sempre il sullice tra il la bemolle e il la.
A volte il dito rimaneva proprio incastrato
incastrato e doveva quindi chiedere aiuto a
qualcuno per essere liberato. E va be’. Altro
esempio: il fa maggiore suonava come un fa
minore; quello minore come quello maggiore. Il
do diesis era un re bemolle aumentato settima. La
sua scala musicale, inoltre, comprendeva una
misteriosa ottava nota e faceva più o meno così:
Do, re, mi, fa, sol, la, si, blaaah!
Questa nota, che chiameremo appunto blah,
aveva delle proprietà sonore molto particolari:
127
ricordava il suono di un fischio di naso soffiato in
un citofono. Se suonata alle ottave più alte
produceva la rottura delle bottigliette di succo di
frutta alla pesca. Alle ottave più basse sembrava
istigare gli abitanti del paese a comportamenti
lupoidi. Chi vi parla ha ragione di credere che ci
fosse un non so che di geniale nel signor
Arcibaldus Scancanelli ma, appunto, non so cosa
potesse essere.
Bene. Si fa per dire. Alla vigilia della Festa di
Primavera dell’anno prima di quello appena
passato, Arcibaldus si recò alle prove per i
musicisti. Anche quell’anno in occasione della
festa di primavera si sarebbe tenuto il ballo delle
debuttanti, durante il quale tutte le giovani
fanciulle del paese avrebbero fatto il loro ingresso
ufficiale… nel paese. Era una festa molto sentita
per varie ragioni e, visti i precedenti nelle passate
edizioni, Arcibaldus fu cacciato via non appena si
presentò per l’audizione. Non gli diedero
nemmeno la possibilità di suonare il brano che
aveva composto per l’occasione: “La Marcia dei
Polpastrelli”. Qualcuno lo minacciò addirittura
col pugno alzato se solo avesse osato provare:
“Guai a te se solo osi provare!”.
Poverino! Be’ è triste da dire ma Arcibaldus
pianse. Pianse tanto. E cominciò a camminare da
solo, senza una meta. E più camminava e più
128
piangeva, e più piangeva più camminava. Si
interruppe giusto un attimo quando incrociò uno
strano individuo a un bivio, un giovane molto
elegante con un una camicia da gran galà a bordo
di uno strano cavallo meccanico a sbalzo radente.
Il giovane prima di prendere il sentiero a sinistra
lo apostrofò dicendogli: “ahah! Pista nonno! La
Festa dei Sarcofanti è dall’altra parte!”.
Si sentì vecchio e inutile: e pianse ancora di più.
È imbarazzante lo so, ma è proprio ciò che
avvenne. Poi, all’improvviso, senza sapere bene
come si rese conto di trovarsi nel mezzo di una
radura. “Dunque vediamo – pensò – al bivio sono
andato a destra, il bosco dei Lunghi Ciuffi è a
sinistra… dove mi trovo? Mi sono forse perso? Ma
chi se ne importa... me ne starò qui e intonerò un
allegro assolo con la mia fisarmonica”. Una voce
severa ma cordiale interruppe i suoi pensieri:
–
–
–
–
–
“Per la carità!”
“Chi è? Chi ha parlato?”
“Sono io, Caffio!”
“Caffio?”
“Caffio Peo, sì: il gnomo dei funghi caprini”
Arcibaldus si guardò intorno e dopo averlo
cercato in lungo e in largo finalmente lo vide:
sdraiato comodamente su un tozzo fungo a
macchie gialle e rosse c’era uno gnomo! Un vero e
129
proprio gnomo con la barba lunga lunga, i
calzoncini rossi alla zuava, il gilet di pelle di
capriolo e una grossa pipa fumante dalla quale
usciva uno strano odore. E il cappello! Maremma
fattucchiera me ne stavo dimenticando: un enorme
cappello rosso con un campanellino d’oro proprio
sulla punta!
– “Non hai mai te, letto di me, nelle fiabe dei
bambini?”, disse lo gnomo.
– “No”, rispose Arcibaldus.
– “Allora me le racconto tutte e settecento a
te!”
– “No, no, le ho lette… giuro!”
– “Ah, ok…”, rispose il nano poco convinto.
“Sicuro non fosse Devil Gnomo?”
– “Non so...”, disse Arcibaldus frastornato e
ancora incredulo per quella bizzarra apparizione.
– “Va be’, fammi fare il mio lavoro: sono Caffio
Peo, il gnomo dei funghi caprini…”
– “Si dice lo gnomo…”, lo interruppe
Arcibaldus che, oltre a suonare la fisarmonica per
hobby, era anche professore di lingue ermetiche
presso l’Accademia del Saput Hell.
– “Eeeh, amico mio: marchi male!”, disse lo
gnomo, “Lascia correre e ascolta che non posso
stare tutta notte su 'sto fungo. Allora…”
130
Arcibaldus fece un gesto come per scusarsi e
ascoltò attentamente. Caffio Peo continuò:
– “Aaaallora: sono Caffio Peo, il gnomo dei
funghi caprini, e sono tre! Vivo nei pressi dei
funghi caprini e di norma mi faccio burla dei
passanti: gli tiro i sassetti sulla capoccella e gli do
la direzione sbajata quando mi chiedono da che
parte andare. Esempio: se devono andare per di
qua ji dico di andare per di là, se devono andare
per di là ji dico di andare per di sú, e via
discorrendo. Te capì?”
– “Si!”, rispose Arcibaldus.
– “Adesso, senza tirarla troppo per le lunghe, il
fatto è questo. Punto primo: di norma, ripeto: di
norma!, quando faccio ji scherzi sto sempre ben
nascosto per non farmi vede'. Punto secondo:
vuole la regola che quel gran furbacchione che
dovesse riuscire a vedermi, guarda un po’, guarda
un po’...”
– “Può esprimere
interruppe Arcibaldus.
un
desiderio!?”,
lo
– “No: se ne va dritto all’inferno!”, disse lo
gnomo.
Arcibaldus tirò un terribile grido mentre
l’orribile gnomo gli saltava alla gola con le zanne
di fuori tutte ricoperte di sangue e miele. Una
131
terribile litania cominciò a levarsi nella notte e,
come in un’oscura sinfonia del demonio, tutti i
lupi mannari risposero in coro al grido demoniaco
di: – “redruuum!”.
MORALE:
Quindi bambini mi raccomando: non parlate
mai con gli sconosciuti!
132
luysä
«All'alba del tredicesimo giorno superati i monti
Nonosär, il fiume Nonvailà e i possenti ed eterni
ghiacciai del Tornalí, giungemmo ai confini
conosciuti della Terra del Nonpiuê. Un mare
immenso, un oceano senza nome, si estendeva di
fronte a noi, infinito ed eterno. Come descritto
nelle Cronache Galassie le titaniche statue di
Rajne, Hydra e Shakty si ergevano, superbe, ai lati
del golfo del Tunonê, silenziosi testimoni di
Impermanenza, Moto e Cambiamento.
Guardai con soddisfazione Galef, l'ermete
reggente dell'eremo dei Cinque Petali che aveva
benedetto e accompagnato la nostra spedizione ai
133
confini del Sapere. Mi rispose con un cenno del
capo poi fissò lo sguardo verso l'infinito e disse,
citando il Libro dei Saturnini: – “Non è del
superbo, non è del sapiente la verità dei Cinque
Petali. Solo a colui che varcherà i confini di Paura
e Restrizione gli dei concederanno di salire sul
nobile vascello alato che spezza le onde impetuose
del mare chiamato Conoscenza, per approdare nel
regno del Luysä”.
Allungò poi il braccio con il dito sullice che
puntava verso lo zenit per farlo ricadere un attimo
dopo in direzione di una piccola caletta in fondo
ad un temibile strapiombo. Guardai con
attenzione: una piccola barchetta di legno fradicio
che cadeva letteralmente a pezzi era ancorata ad
un piccolo molo che versava nelle stesse
condizioni. C'erano anche le ali, una da una parte,
una dall'altra, dipinte con una qualche vernice
ormai scrostata. Sulla prua dell'imbarcazione, se
così la si poteva chiamare, era inciso il sacro nome
del natante in caratteri citrullici: Përdiqua.
– “Ma Galef – dissi – cade a pezzi!”. Galef mi
guardò con uno sguardo di rimprovero.
– “Cosa ti ho appena detto Garolfo Patafraskio
della tribù dei Sulfanelli? Solo chi varcherà i
confini di Paura e Restrizione!”.
– “Sì, ma io mi aspettavo qualcosa di più
sontuoso, qualcosa di più... meglio!”.
134
Non l'avessi mai detto! Il volto del vecchio
Galef si tramutò in una maschera di rabbia. Soffiò
così forte che una nuvola di fumo settembrino usci
dalle sue narici. Alzò il bastone versò l'alto
invocando Hydra e Tothomut e un tuono
impetuoso fece scricchiolare tutte le mie ossa, giù
giù fino all'ultimo dito del mio irsuto piede.
– “Anni e anni di duro lavoro e di preparazione
e ancora cadi vittima della stupidità e del pensar
leggero! – tuonò Galef – Non devi guardare le
apparenze: la forza di quella barca, la sua capacità
di varcare questo mare sconfinato dipendono solo
da te! Così come la buona riuscita dell'impresa.
Non è forse stato detto che solo il più coraggioso
vi riuscirà? Non è forse scritto che solo il
prescelto, facendo di sé stesso un faro nella notte,
riuscirà a trovare la direzione?”.
– “É vero Galef. Hai ragione”, dissi.
– “Allora forza: siamo giunti fin qui, ora manca
solo
l'ultimo
passo,
quello
decisivo.
Incamminiamoci!”.
Diedi ordine al resto del seguito di aspettare lì
sul promontorio. Io e Galef partimmo in direzione
della caletta. Per un po' camminammo lungo un
sentiero scosceso e sdrucciolevole ma praticabile.
Ma dopo nemmeno dieci minuti di cammino
dovemmo fermarci: il sentiero finiva esattamente
dove cominciava lo strapiombo.
135
– “Come facciamo ora per proseguire Galef?”
Il vecchio saggio cominciò a passarsi la mano
sulla lunga barba bianca. Stava pensando. Faceva
sempre così quando pensava e di solito la cosa
produceva buoni frutti.
– “Ci sono!”, disse. “Ricordi i semi di
biancofiore che ti ho detto di portare?”
– “Si!”
– “Bene: li useremo per invocare le ninfe
palustri. Usando i semi di biancofiore come merce
di scambio le convinceremo a prestarci i loro
capelli e li useremo come corda per calarci di
sotto!”
– “Galef...”, lo interruppi.
– “Che c'è Garolfo?”, disse lui con uno
sguardo un po' perso.
– “Al quarto giorno, preso dalla fame, ho
pescato nella sacca e scambiandoli per semi di
zucca me li sono mangiati.”
Galef si diede una pacca sulla faccia e disse:
– “Va bene, allora facciamo così: invocherò lo
spirito dell'aquila pellegrina e le chiederemo un
passaggio sulle sue possenti ali. Ma mi
raccomando: dovrai essere scaltro perché dovremo
prenderla al volo!”
– “Va bene Galef!”
136
Allora Galef chiuse gli occhi, si concentrò e
recitò la formula magica del Pilastro di Zoth, che
faceva più o meno così:
Ohmtà, Ohmtà Shà!
Ohmtà, Ohmtà Ia!
Olla sù, Olla giù,
Lalla-là, lalla-là là!
Rimase per un attimo fermo con le braccia
alzate verso il cielo. Aspettammo un pochetto, ma
non accadde nulla. Ci guardammo perplessi poi ci
voltammo in direzione di una radura poco più in
là dalla quale sentimmo provenire dei rumori.
Vedemmo una cosa scivolare giù da un albero
che presto cominciò a dirigersi verso di noi,
correndo veloce in mezzo alla folta erba frollina.
Ci guardammo ancora con stupore non avendo la
minima idea di cosa stesse succedendo, quello che
era certo è che non si trattava di certo di un'aquila.
Infatti, all'improvviso, dal manto d'erba spuntò
fuori un esserino piccolo piccolo: uno gnomo!
– “Signori buongiorno, scusate il ritardo! Sono
Caffio Peo, il gnomo dei funghi caprini. Chiedo
scusa ma ero occupato in una certa faccenda con
un tizio e la sua fisarmonica.”
Galef si passò la mano sulla fronte:
137
– “Avrò mica sbagliato formula?”
– “Non so signore, io ho ricevuto la chiamata e
mi sono mobilitato il più in fretta possibile”, disse
lo gnomo, “prego dite pure!”
– “Oh, va be', vada per lo gnomo”, disse Galef.
“Caffio Peo, so che voi gnomi dei funghi caprini
siete famosi per giocare brutti scherzi, ti
avverto...”
– “Oh no, signore”, lo interruppe lui. “In
primis quello lo facciamo solo per hobby; in
secundis è vietato fare scherzi sul lavoro e si da il
caso che io ora stia lavorando; e in terzis nessuno
gnomo si sognerebbe mai di fare uno scherzo a un
ermete magister come voi.”
Galef fece una smorfia di assenso e
soddisfazione e diede una carezza sulla capoccella
dello gnomo, facendo tintinnare per un attimo il
campanellino dorato che stava sul suo cappello.
– “Amico gnomo, Caffio Peo!, abbiamo
bisogno del tuo aiuto! Dobbiamo assolutamente
raggiungere quella caletta laggiù dove c'è quella
barchetta. Ma non sappiamo come fare perché lo
strapiombo ci ostacola e in questa terra di confine
i miei poteri sono molto limitati”.
– “Non vi è problema alcuno”, rispose Caffio
Peo. “La soluzione sta in quel boschetto laggiù: ci
sono degli alberi amici miei chiamati bonzigonzi
che hanno delle grosse grosse foglie. Adesso si da
138
il caso che grazie a questa mia polverina magica –
e qui cominciò a frugarsi nelle tasche – posso
aumentare il potere fluttuante delle foglie di
bonzigonzi rallentandone la caduta. Ora:
posizionandole una alla volta possiamo creare una
specie di scala con la quale discendere giù, giù, giù
fino a quella vostra graziosa barchetta...”
– “Ma è geniale Caffio Peo!”, disse Galef.
“Presto allora: andiamo dagli alberi bonzigonzi!”
Ci incamminammo dunque verso il boschetto
che si trovava a... uno, due, tre, quattro, cinque,
sei, sette, otto, stop! Otto passi più in là e in soli
due secondi e mezzo arrivammo.
– “Ehilà, amici bonzigonzi!”, disse Caffio Peo
rivolto agli alberi.
– “Ehilà brutto nano, ancora tu?”, rispose un
grosso bonzogonzo. “L'ultima volta che ti s'è visto
da queste parti...”
L'albero non fece in tempo a finire la frase che
Caffio Peo gli saltò addosso al grido di
“Redrum!”. Un attimo dopo il povero albero
bonzogonzo era tutto ignudo come una canocchia,
spogliato completamente delle sue foglie!
– “Mi scusino lor signori ma non è il momento
per lunghe e fastidiose discussioni”, tagliò corto lo
gnomo. “Poi ci accordiamo dopo con l'alberello.
Suvvia di corsa che c'ho un'altra chiamata,
giornata piena oggi!”
139
– “Ma 'ste chiamate dove t'arrivano?”, dissi
incuriosito.
– “Qui!” rispose Caffio Peo sollevandosi il
cappello sotto il quale c'era un grosso telefono a
gettoni.
– “Posso fare una telefonata?”, dissi.
– “No scherzi? É solo per lavoro questo”, disse
lui.
Ci dirigemmo di corsa verso lo strapiombo.
Caffio Peo ci diede le grosse foglie di bonzigonzi e
poi tirò fuori dalla tasca una strana fialetta viola:
– “Ecco la polvere magica, amici!”
– “Bene, che si fa adesso?”, disse Galef.
– “Eh niente: adesso io la cospargo sulle foglie
in questa maniera... vedete?”
– “Eh... si!”
– “Ecco fatto! Adesso il potere fluttuante delle
foglie è prolungato. Guardate voi stessi.” Lo
gnomo prese una foglia e la lanciò delicatamente
verso il vuoto: questa, magicamente, se ne stava
sospesa in mezzo all'aria! Caffio Peo ci saltò sopra
e disse:
– “Adesso basterà metterne una un poco più in
basso e poi saltarci sopra... poi un'altra e un'altra
ancora e così via, finché non arriverete giù, giù, giù
alla vostra barchetta!”.
Io e Galef eravamo felici! Ringraziammo Caffio
Peo e cominciammo la nostra discesa verso la
140
barchetta. Giunti a metà strada però
cominciammo ad essere colpiti da dei sassetti che
piovevano dall'alto. Alzammo lo sguardo:
– “Amici scusate, è più forte di me!”, disse il
nanerottolo. “Sono Caffio Peo, il gnomo dei
funghi caprini. Di norma mi faccio burla dei
passanti e gli tiro i sassetti sulla capoccella!”
– “Avevi detto che gli gnomi caprini non fanno
scherzi sul lavoro e non fanno scherzi agli ermeti
magister!”, disse Galef indignato.
– “Mentivo signore! Redruuum!”
Dopo aver pronunciato il temibile grido Caffio
Peo tirò su un grosso masso dieci volte, ma che
dico dieci?, cento volte più grande di lui e
minacciò di tirarcelo! Se fossimo stati colpiti da
quell'immenso macigno saremmo precipitati senza
dubbio verso la morte! Ma proprio in quel
momento sentimmo un verso inconfondibile: era
quello dell'aquila pellegrina che era stata invocata
da Galef! L'aquila afferrò Caffio Peo per la
giacchetta e lo trascinò via con sé, salvandoci da
quel terribile pericolo! Continuammo la discesa e
finalmente arrivammo al molo dove la barchetta
Përdiqua era ormeggiata.
– “Garolfo”, disse Galef in tono solenne, “Ora
comincia il tuo viaggio verso il regno di Luysä!”
141
– “Ma Galef”, risposi io, “e tu come farai a
tornare indietro adesso?”
– “Ah, hai ragione”, disse lui, “non ci avevo
pensato... oh, be' non è un problema: ho ancora i
miei poteri acquatici... mi tramuterò in un grosso e
possente pesce e in capo a tre giorni sarò a casa
sano e salvo!”
– “Sei il miglior ermete magister e mago che io
abbia mai conosciuto, Galef!”, dissi pieno di
orgoglio.
In quel momento una lacrima si staccò dal mio
occhio. Galef l'afferrò al volo e questa si trasformò
in un cristallo.
– “Conserva questa lacrima di cristallo Garolfo,
non so perché ma sento che ti tornerà utile!”.
– “Sarà sicuramente così”, dissi commosso,
“prenditi cura di te Galef e mi raccomando: se
durante il viaggio di ritorno dovesse venirti fame
non mangiare niente vicino alla riva: potrebbe
essere l'esca di qualche pescatore!”.
– “Giusto, non avevo pensato nemmeno a
questo... be', ciao amico mio! È ora che tu parta”.
– “Ciao Galef, maestro sapiente! Porterò a
compimento la missione, tornerò vincitore con la
fiaccola della conoscenza e con essa illumineremo
il mondo di una luce nuova!”
142
– “Che gli dei siano con te Garolfo Patafraskio
della tribù dei Sulfanelli! Vai!”.
Salii finalmente sulla barchetta. Adesso, se
questa storia fosse stata scritta da un vero
scrittore, e sottolineo vero!, come minimo la
barchetta si sarebbe dovuta trasformare in un
imponente vascello alato tutto d'oro. Se non altro
come ricompensa per aver superato la paura di
salire su quella bagnarola, dimostrando così la mia
fede nel sacro libro dei Saturnini. Invece, siccome
'sta storia è stata scritta da uno che perde tempo a
scrivere prima di addormentarsi: niente. La
barchetta rimase un pezzo di legno marcio e
cigolante in mezzo all'acqua e la mia paura era
tanta. Ma tanta! Guardavo il mare di fronte a me e
guardavo la barchetta. Ma poi trovai il coraggio
dentro di me e capii che era giusto andare avanti.
Dopo trecentosettantadue giorni di navigazione
mi trovo ancora a bordo di Përdiqua. Ho
conosciuto il temuto Palumbro dei sette mari che
mi ha insegnato i segreti di Paura e ho navigato
lungo le secche di Restrizione dove ho imparato a
sopportare i miei limiti; ho fatto tappa su uno
strano isolotto disabitato dove in una piccola
capanna ho lasciato in dono la mia lacrima di
cristallo; gli dei del luogo mi hanno dato in cambio
un remo magico che mi ha permesso di imparare a
143
navigare meglio. Con una bussola trovata su uno
scoglio abitato solo da trichechi ho imparato a
navigare grazie ai punti cardinali, e con uno strano
strumento rinvenuto nel relitto di una nave pirata
ho imparato a calcolare l'orizzonte nautico. Mi
sono dovuto ingegnare per scoprire nuovi metodi
di pesca visto che le mie razioni di cibo sono finite
presto; ho scoperto come raccogliere la condensa
che si forma durante le prime ore dell'alba e a
trasformarla in acqua potabile.
Non ho idea di quanto durerà il mio viaggio
verso il regno di Luysä. Non so nemmeno bene
dove si trovi, ma ogni giorno che passa sento di
essere più forte, nei muscoli, nelle ossa, nelle mani,
nelle gambe e, soprattutto, dentro di me. Ho avuto
la percezione di me stesso, ho scoperto di essere
una persona: per la prima volta ho imparato
qualcosa e l'ho imparato grazie ai miei sforzi. Non
so quando arriverò a destinazione, ma ogni giorno
che passa imparo sempre nuove cose e questo mi
rende felice e speranzoso.»
***
– “E questo è tutto magister.”
– “Non c'è scritto altro sulla pergamena?”
– “No.”
– “E dove avete detto di aver ritrovato la barca
abbandonata?”
144
– “Sugli scogli alla foce del fiume Scorrelà,
poco oltre il precipizio del Saltaben.”
– “Capisco...”
– “La missione del reggente Galef è quindi
fallita, pensate che sia il caso...?”
– “No. Penso che sarà necessario rileggere
attentamente il resoconto di Garolfo e meditare
ancora sui misteri del regno di Luysä, per capire
meglio come mai, ad oggi, nessuno è mai tornato
indietro per raccontare cosa ha trovato alla fine
del suo viaggio”.
Detto questo Gondh, l'ermete reggente
dell'eremo dei Cinque Petali, chiuse il Libro dei
Saturnini
che
era
aperto
alla
pagina
settecentosettantasette. Soffiò sulla candela e le
tenebre avvolsero tutto.
145
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
il palumbro
All’alba del ventunesimo giorno eravamo stremati
dalla fame. Le nostre membra erano lacerate e
bruciate dal sale. Le nostre menti erano distrutte
dalla consapevolezza di una morte certa in mezzo
al nulla del mare infinito sopra uno scoglio aguzzo
che, forse per capriccio, qualche dio malevolo ci
aveva concesso come ultimo baluardo delle nostre
tristi vite.
Il terribile mostro degli abissi girava intorno al
nostro scoglio come una trottola mortale. Non lo
vedevamo ma sapevamo che c’era. Nelle nostre
preghiere, tra una sillaba e l’altra, in ogni singolo
147
istante lui era sempre lì in agguato. Potevamo
sentirlo nel rumore dell’onda che si infrangeva
sullo scoglio, nel rombo gonfio di bolle che di
tanto in tanto faceva tremare le nostre ossa;
intuivamo la sua presenza dal comportamento
degli uccelli che ci giravano attorno, nei loro versi
scomposti e spaventati. Ma, soprattutto, lo
sentivamo sotto la pelle e lungo la schiena, fin
dentro le ossa e giù, giù, fino agli spazi più
inaccessibili dell’animo umano. Il suo nome era
Palumbro e uno alla volta, lentamente, molto
lentamente, ci stava trascinando giù verso l’inferno
che, fino ad allora, avevamo immaginato come un
fuoco eterno e che ora sapevamo essere un abisso
insondabile di acqua e mistero.
Aveva ingoiato praticamente tutto: l’albero
maestro della nave, le vele, barili e barilotti: sia
quelli dei liquori, sia quelli della polvere da sparo.
Poi ancora: casse, cassoni, letti, mobili, il tavolo
della sala da pranzo del capitano; il pranzo del
capitano; il capitano. Non aveva risparmiato
nemmeno spazzolini, tubetti di dentifricio,
saponette, schiume da barba, il barbiere di bordo.
Non aveva avuto pietà per il cuoco di bordo e
tutta la dispensa della cucina: duecento chili di
fette biscottate, tremila barattoli di marmellata alle
prugne, lecca lecca, ghiaccioli, patate fritte e
patate crude con la buccia e con tutto, due
tonnellate di pane alle olive, cinquantasette
148
aringhe, duecento polli arrosto, trecento litri di
latte della Lola, seicento tonnellate di maccaroni al
sugo e seicento tonnellate di maccaroni al burro;
sale quanto basta. Non sazio ingurgitò cento chili
di insalata, settantanove porzioni di zuppa inglese,
duecento tiramisù, sessanta budini, tutte le razioni
di gelato. In quel viaggio inoltre dovevamo
trasportare il Circo del Kentucky fino a Boston.
Inutile dire che in un sol boccone il terribile
mostro ingoiò dieci elefanti, due giraffe, sei leoni,
sette gazzelle e quindici pagliacci!
Ero lì assorto a fare la lista di tutto ciò che era
andato perduto quando all’improvviso il palumbro
alzò la sua gigantesca coda gialla. Un’onda
immensa e possente si sollevò e andò a sbattere
con indicibile violenza sulla roccia calcarea. Tutti
gli uomini che si trovavano aggrappati da quel lato
dello scoglio volarono per aria. La bestia infernale
apri la sua immensa bocca e in un solo colpo li
inghiottì tutti. E anche un sottomarino di
passaggio.
In un impeto di coraggio afferrai la mia lancia e
la scagliai con forza verso la creatura apocalittica:
“Restituiscimi le mie cose mostro, ti sei mangiato
tutto! Anche i birilli, le macchinine e i mattoncini
di legno!”. La lancia lo colpì dritto sul naso e, con
soddisfazione, notai che la mia sortita aveva
prodotto un qualche effetto perché sentii
chiaramente una specie di brontolio sommesso
149
seguito da un suono gutturale tipo “ahi!”. A quel
punto avvenne qualcosa di imprevisto. Mi parve
come di sentire un fischio in lontananza… Sì! Era
proprio un fischio!
Aguzzai la vista e, anche se i miei occhi
venivano colpiti incessantemente dagli schizzi
delle onde che si infrangevano sullo scoglio, vidi
chiaramente la sagoma di un uomo a cavallo.
Cavallo marino, ma pur sempre cavallo. Un
ippocalippo. Insomma: una specie di cavallo
marino ma più grande, con la criniera più folta e
indubbiamente più giallo. Senza nessuna
possibilità di errore più bello! In sella al nobile
destriero vi era lui, proprio lui: Jerry Lee Lewis
che fischiava allegramente le note di Good Golly
miss Molly come se nulla fosse. Strizzò l’occhio,
allungò la mano e mi trasse in salvo tirandomi su
sulla sella intrecciata di alghe marine e fili di
cozze.
Non so cosa ne sia stato dei miei compagni, se il
palumbro li abbia ingoiati tutti o se anche loro,
come me, abbiano avuto la fortuna di essere tratti
in salvo da vecchie glorie del rock’n’roll. Quel che
è certo e che ancora oggi – nonostante mi trovi al
sicuro qui nella mia modesta ma confortevole casa
sull’albero – nelle giornate più cupe, quando i
tuoni rombano forte forte e i lampi illuminano il
cielo e il temporale fa paura paura mi viene in
150
mente il terribile e giallo e gigantesco e affamato
palumbro dei sette mari! E mi cago addosso!
MORALE:
Quindi bambini
dall’acqua, eh!
151
mi
raccomando:
lontani
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
l'elisir di corta vita
Prima che l’alba inondasse il settimo giorno di
sventura e abominio con i suoi tristi raggi verdi,
Apolomiek l’alchimista era già in piedi da un bel
pezzo. A dire il vero aveva passato tutta la notte a
lavorare al suo athanor nei pressi del laboratorio
vicino al lago Olijev, come ormai faceva da sette
notti a quella parte. Ma quella fu la notte decisiva:
alle ore quattro e ventisette minuti del giorno
lunatico 33 del mese Piovoso nell’anno sacro della
Salamandra Verde 1786, Apolomiek l’alchimista
errante, figlio del rabbino Ytzak Ruben gran
sacerdote dell’Arembràh, portò a compimento la
153
sua Superior Opera: l’elisir di lunga vita era stato
distillato con successo!
Come previsto dalla jeratika ne diede annuncio
facendo suonare la tromba a manovella installata
sulla torretta della sinagria locale. Ma quello fu
l’unico precetto che osservò; ma di questo diremo
più tardi, cioè tra un po’, ovvero dopo. Inutile dire
che… be’ è inutile quindi non lo dirò, ma di lì a
poco tutti quanti si radunarono presso la porticina
dell’umile laboratorio del più improbabile
alchimista di tutta la contea Rabatzia. In prima fila
i principali membri del consiglio Paulis locale, il
rabbino Albino, il gran Tesoriere della Cesta, e
tutto il Gran Consiglio dei Mastri Alchemici al
completo!
Questo è ciò che avvenne secondo la cronaca di
Mastro don Abelardo così come ci è pervenuta in
forma manoscritta, etc. etc.:
Mentre tutti ancora si chiedevano e si
meravigliavano di come fosse stato possibile che
un tale idiota fosse stato in grado di compiere
quell’opera suprema, la porticina del laboratorio si
aprì senza preavviso. Ne uscì dapprima Penelope,
il gatto giallo di Apolomiek e poi un signore,
distinto, con lunghi capelli neri, vestito in modo
elegante...
– “Che mi venga un caz… Ma quello è
Apolomiek! Il vecchio, decrepito Apolomiek!”
154
Il satanasso evidentemente s’era già bel che
ciucciato tutto l’elisir. Aveva tagliato corto,
risparmiando ore e ore di lunghe discussioni
sinaptike di fronte al gran sinedrio episcolare,
optando invece per un’immediata dimostrazione
pratica.
– “Da non credere…”
– “Com’è ringiovanito!”
– “Che vigore in quelle braccia…”
– “Apolomiek!”,
disse
Arcipalkorliev
Parlyiamantrovjich, gran gerarca del consiglio
Nibelungo dell’ordine della Stella di Kuntz, “Sei
proprio tu Apolomiek?”
– “Tu chi sei?”
– “Sono Arcipalkorliev Parlyiamantrovjich,
gran gerarca del consiglio Nibelungo dell’ordine
della Stella di Kuntz… tuo padre…”
Tutti fissavano
risposta.
increduli
aspettando
una
– “Ha! Ebbene si, sono io!”, tuonò
Apolomiek buttando fuori il petto. “Ho bevuto
l’elisir, sono ringiovanito! La morte mi fa un
baffo! La malattia me ne fa un altro! Sicché con
questi due bei baffoni che ora mi ritrovo me ne
andrò di corsa al teatro del varietà, dove magari
potrò raccogliere persino l’interesse di una
sgraziata ballerina di seconda fila, o che so? Una
155
bella damigella di altri tempi, attempata ma
graziosa seppur grinzosa! Ma di certo non me ne
starò più qui, ad annoiarmi con voi!”. Ciò detto
inforcò un cavallo meccanico a sbalzo radente di
sua invenzione e fece del suo meglio per sparire
velocemente all’orizzonte. A scatti alterni.
Tutti i presenti erano indignati: questo non era
affatto previsto dal Canone Magnum!
– “Che venga informata subito l’Assemblea dei
sette saggi!”, gridò il rabbino Albino. “Questa
insolenza verrà punita a caro prezzo!”
Intanto Apolomiek proseguiva la sua intrepida
corsa verso la gioventù ritrovata e che prometteva
di perdurare in eterno. Era passata meno di
mezz’ora da quando aveva ingurgitato tutto l’elisir
e più il tempo passava più sentiva la forza crescere
in lui. E più la forza cresceva più si sentiva
giovane. Arrivato a un bivio disse tra sé e sé: “Sì, ci
sono due percorsi che posso seguire ma alla lunga
c’è sempre tempo per cambiare strada”, e puntò
verso sinistra, in direzione del bosco dei Lunghi
Ciuffi.
Era stata una decisione saggia? O una decisione
presa a cuor leggero? Come ebbe a dire due secoli
più tardi Filemone da Dragostea nelle sue
Cronache Fittizie, quella piccola e insignificante
decisione, dettata forse dal caso forse incoraggiata
da oscure divinità rupestri che amavano
156
determinare il fato un po’ per noia un po’ per
diletto, ebbe ad alimentare circostanze di notevole
spessore che determinarono la Storia così come la
conosciamo ancor oggi. Inutile dire che la diatriba
tra i sostenitori della tesi di Filemone e i seguaci
della teoria Astaryana – che contrapponeva una
ragione di tipo causale alla subalternità del caso,
dei sé e dei perché – incendiò la discussione in
ambito accademico per molto tempo. Ma questi
sono elementi che, seppur contraddistinti da un
notevole spessore, esulano dalla cronaca degli
eventi che questo modesto scrivano si propone di
illustrare.
Or bene: Apolomiek abbandonò il suo cavallo
meccanico che così bene l’aveva servito ma che ora
non riusciva a proseguire la corsa su quel percorso
così accidentato. La selva si faceva sempre più fitta
e oscura e improvvisamente tutto cominciò a
sembrargli
più
grande
e
minaccioso.
Spropositatamente grande, a dire il vero… “Ma
che succede?”, disse mentre osservava le maniche
della sua camicia da gran galà che diventavano
sempre più grandi a vista d'occhio. Le parole gli
morirono sulle labbra: la sua voce! Non era più la
voce di un vecchio e non era più la voce del baldo
giovine che era stato negli ultimi trenta minuti: era
la voce di un bambino! Un bambino di circa novedieci anni. Estrasse veloce da una tasca segreta di
sua invenzione uno specchio segreto di sua
157
invenzione capace di fissare l’immagine e
conservarla in una memoria artificiale di sua
invenzione. Ne ricavò un ritratto del suo volto e
inorridì! Vide sé stesso così come s’era visto una
volta nello specchio d’acqua vicino alla contrada
del Passero Solitario, mentre giocava a
nascondarello con gli altri bambini, tanti, tanti
anni prima.
– “Sterco di bue! Sterco di pucca! Cosa può
essere andato storto?”.
Mentre diceva queste parole venne interrotto da
una voce roca, grave, monotona e per niente
amichevole:
– “Bel bambino, cosa ci fai da solo nel bosco? E
perché imprechi?”. Un brivido d’Argento
attraversò la schiena dell’ormai piccolo
Apolomiek, alchimista alla corte di re Renolfo II,
vice Paulis di Suburbia e gran Saltimbanco della
Sagra del Porcospino.
– “Se questo è il bosco dei Lunghi Ciuffi corre il
rischio che questa sia…”. Si voltò di scatto per
guardare in faccia il suo destino e terminò la frase
con un “ueeé!”. Il neonato Apolomiek ebbe la
conferma alle sue paure proprio mentre finiva
dritto dritto dentro il grosso sacco nero, nero,
nero e senza fondo della strega Ursubalda de’
Catenacci!
158
La mano scheletrica, bubbosa e dalle lunghe
lunghe unghie affilate della strega tirò la corda. Il
sacco con sopra disegnato un teschio di sciacallo si
chiuse e nessuno, in tutto il borgo di Castelfonzetti
e nelle contee adiacenti, seppe mai più nulla del
piccolo Apolomiek, che entrò nel bosco e non fece
mai più ritorno!
MORALE:
Quindi bambini mi raccomando: lontani dal
bosco, eh!
159
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
moby lick
ovvero
La balena nella scrittura di scena
in un teatrare improvvisato nel cesso.
Et cetera, et cetera, gli scampoli, le bricioline, et
cetera, le rimanenze delle unghie che mi
smangiucchio... É sempre un avanzare senza
possibilità di fermarsi un attimo, che fatica, che
tragedia! E quello che non avanza mi avanza, et
cetera, mollichine di pane, sparse qua e là. Che me
ne faccio io delle mollichine? Dove me le metto?
Loro avanzano e io avanzo verso il tritacarne
nefario e insaziabile che mi attende – anche a me!
anche a me! – alla fine di questo scomodo
avanzare. Quel che si tralascia resta. Quel che
resta, muore.
161
Signori: la réclame!
Mollichine secche per uccelli stanchi:
accorrete numerosi!
E così pensando camminavo pallido e assorto,
affamato, assetato lungo la strada martoriata dalle
granate della contraerea amica. Solitario, disgiunto
da sempre dai miei cari sconosciuti, orfano!, decisi
di imbarcarmi, un po' per noia, un po' per diletto,
su quella graaande nave baleniera.
Et cetera, et cetera, et cetera, sì: ma quanto era
brutto quel gigante di un indigeno! Non mi
avanzò nemmeno un pochino che sia un pochetto
di coraggio quando lo vidi con quella sua grossa
spada e le teste mummificate et cetera, et cetera.
Ma diventammo amici, se così si può dire; se si
vuole essere sinceri era un bravo diavolo di un
cannibale. Et cetera, et cetera!
Così fantasticando sulle balene in un baleno
saltai sul natante. Com'era misterioso il capitano!
Uuuh non diceva una parola, guardava che la
sapeva lunga, camminava tac-tac con la gamba di
legno, e fissava l'orizzonte... ah, la sapeva lunga
lui! Non una parola, non uno starnuto! Et cetera,
et cetera!
Sorbimmo, sorbimmo, ma giunti alla fine
dell'attenta analisi del possente manuale di
162
ittiologia oceanica - povero lui! Poveri tutti! qualcuno abbozzò un risucchio e la balena bianca
ve li trascinò dentro tutti: tutti giù per terra! Ah,
come la sapeva lunga il capitano!
Et cetera, et cetera! Glù, glù, glù. Et cetera, et
cetera! Avanzano pezzini di nave e pezzini di
omini, gambe e braccia e nasi di marinai. Qui un
orecchio, lì un ginocchio. Che pasticcio! Et cetera,
et cetera, et cetera. Ma io la tenevo stretta alla
lenza! La balena si arrotolava e io la srotolavo, lei
si baltava e io la ribaltavo; zigzagava e io la
rimettevo in riga. Ma finì lo spago e alla fine
l'enorme pesce – et cetera, et cetera – riuscì a
liberarsi e scappò via. Ma qualcosa rimase appeso
alla lenza, qualcosa di orribile che dal profondo
della pancia del mistero più oscuro delle
insondabili profondità marine, et cetera et cetera,
era rimasto imprigionato nell'amo: un orribile
burattino di legno marcio e scolorito. E per di più
bugiardo! e, anche se non della peggior specie,
con delle gambette talmente fini e corte da non
poter nuotare né a delfino, né a ragno, né a
ranocchio. E con un naso: oh, quel naso! Non mi
si chieda per favore e per cortesia di ricordare
quell'orribile, lungo e osceno naso da bugiardone
traditore. Il pesce spada se ne stette alla larga per
paura di rimanerci infilzato. Questo vi dico e
questo vi basti!
163
Eppure vi era in lui un non so che di umano,
sebbene l'embrione della restrizione morale non
fosse ancora sufficientemente sviluppato da poter
partorire un “saggio consiglio disinteressato”, o
un'opinione pappagalla. Mi raccontò storie
bugiarde ma piacevoli di fatine e asinelli e tonni
parlanti e quanto più lo ascoltavo tanto più gli
credevo; e grilli per la testa, giganti barbuti, e
luoghi di piacere che non avrei mai osato
immaginare. E la bugia era così bella e ben
ricamata, e l'assortimento di minchiate, gatti e
volpi così fine, che mi ci addormentai in un sogno
'sì tanto bello che non ebbi il coraggio di porgli
fine al limitar del gallo. Et cetera, et cetera.
Mi risvegliò infine mamma Rachele; oh, com'era
bella!, io non l'ebbi mai conosciuta e ne fui
commosso. Quasi quasi pensai che avrei potuto
piangere: scivolava spedita di popp'al vento in
cerca dei suoi figli, di qua e di là, in lungo e in
largo. In testa un lungo bompresso a cornone per
infilarli tutti. Ma ritrovò solo un orfano. Me
medesimo. Bagnato di sale e con la testa piena di
bugie, al limitar dell'ultime gocce di un
malmostoso mare.
164
un miracolo sconosciuto
“Se solo io potessi praticare un foro su questo
pavimento lurido e trapassarlo... fino ad
attraversare l'appartamento del piano di sotto. E
poi la camera da letto della signora Irma, magari
bucandole il materasso, passandole fra le cosce...
E poi proseguire fino alla portineria, alla cantina,
attraversando la testa di un ratto per bucare poi le
tubature della fogna dove la merda e il piscio
dell'umanità scorre verso il mare e le nuvole. Se io
potessi praticare questo foro immaginario che
corre diritto e senza sosta attraversando tutto,
165
questi non avrebbe mai fine! Ne sono certo. E
attraverserebbe oceani di pietra, via via sempre
più dura, e nubi di gas e mari di lava;
trafiggerebbe il cuore della terra spezzandolo a
metà. E senza tornare indietro ripercorrerebbe a
ritroso tutto il suo percorso fino ad emergere
nuovamente dall'altra parte del pianeta. Se io
potessi... Cosa ci troverei dall'altra parte della
terra, esattamente nel punto opposto a dove sono
ora?”
Nel momento in cui questo pensiero fu
formulato, Anne Nicole Smith stava dritta in piedi
di fronte alla parete della sua camera da letto. Era
nuda e si protendeva verso l'alto sulla punta dei
suoi piedi callosi nel tentativo di piantare nel muro
un chiodo. Doveva forse appenderci un quadro? È
irrilevante. Non è questo il punto.
Sia ben chiaro: Anne Nicole Smith condivideva
con la celebre e sfortunata modella soltanto il
nome. Inutile sprecare tempo a cercare le parole:
non voglio annoiare il lettore spiegando chi io sia e
perché non abbia voglia di dilungarmi troppo,
basti sapere che di tempo ne ho poco e questo è
quanto. Quindi, per farla breve: era brutta. Era
bassa, tozza, le gambe erano rovinate dalla
cellulite, aveva una pancia da bevitore di birra e i
seni grossi e molli che gli arrivavano fino
all'ombelico o quasi. Il volto era orribilmente
166
corroso dall'acne e un nasone a patata gigantesco
costituiva su quel suo faccione tondo un elemento
estraneo persino a qualsiasi canone di bruttezza.
La natura, il caso, o quel dio all'indirizzo del quale
Anne lanciava interminabili bestemmie, non erano
stati clementi con lei e lei non faceva nulla per
correggere la fortuna: infatti era anche
volutamente antipatica e, segretamente, covava un
grande odio e un grande rancore per quel mondo
degli uomini al quale non assomigliava in nessun
modo, né dentro né fuori.
Se ne stava dunque in pedi nuda, dicevo. Il
punto è che questo non è un film, ok, ma se un
ipotetico regista avesse fatto un primo piano sulla
schiena di Anne e, lentamente, fosse sceso sempre
più in basso, ad un certo punto la visuale si
sarebbe fermata esattamente in mezzo alle sue
grosse natiche. Dopo pochi istanti sarebbe
risultato evidente a chiunque che il nuovo soggetto
sarebbe stato un punto oscuro là in mezzo. Ora,
non si sa esattamente come sia potuto accadere;
certamente se si fosse fatto un po' bocca e avesse
detto apertamente la sua le cose sarebbero state
più facili. Ma non andò così e quindi non si sa
come sia accaduto. Ma quel che è certo è che da lì,
proprio da lì, scaturì un pensiero – quel pensiero!
– e su questo non ci piove perché io ne sono stato
testimone: “Se solo io potessi praticare un foro su
questo pavimento lurido e trapassarlo”, etc. etc.
167
L'ho riportato fedelmente così com'è giunto
presso la mia ragione. Il lettore non ne dubiti.
C'è una cosa importante da dire: poco prima
che questo pensiero prendesse forma e si facesse
spazio nell'etere, l'ambiente circostante era
pesantemente inquinato da due suoni: quello del
martello che Anne Nicole stava usando per cercare
inutilmente di piantare quel chiodo nel muro e
quello, ancor più fastidioso, della televisione. Da
dove io mi trovavo potevo vedere bene le
immagini, dal momento che la TV si trovava a
meno di un metro di distanza da Anne. Era
sintonizzata sulla R.U.C. News. Dallo studio il
giornalista stava passando la linea a un'inviato
dell'emittente in Italia. Una delle notizie della
settimana, forse la più importante, era l'imminente
crollo della torre di Pisa: per secoli tutti avevano
dato per scontato che quella bizzarria
architettonica sarebbe rimasta lì in eterno per
compiacere i turisti, ma quando tre o quattro
giorni prima si cominciarono ad avere i primi
inaspettati scricchiolii, seguiti dalla caduta di
alcuni degli elementi portanti, fu chiaro che non
sarebbe stato così. I sopralluoghi degli esperti,
venuti da diverse parti del mondo, non fecero
altro che confermare che la situazione era grave e
che un evento catastrofico era ormai prossimo.
Così accadde che quel giorno era il giorno, come
stabilito dai tecnici. Le televisioni di mezzo mondo
168
erano presenti sul luogo e gli occhi di milioni di
persone fissavano la torre che, di tanto in tanto,
dava delle leggere scosse che lasciavano cadere
abbondanti quantità di polvere e pure qualche
detrito. Segretamente tutti, specialmente i
giornalisti, speravano che la torre cadesse
“adesso”. “No adesso”. “Adesso!”. “Ma quando
cade?”. I collegamenti con gli inviati erano
frequentissimi. Uno dei momenti di maggior
eccitazione lo si ebbe alle ore dieci e trentaquattro
minuti, ora di Roma, quando dopo una forte
scossa una delle colonne del quarto anello
precipitò al suolo dopo essersi avvitata quasi due
volte in aria. In quell'istante furono tutti sicuri che
il momento fosse ormai arrivato. Ma dopo aver
sbuffato un paio di nuvolette di fumo, la torre
tornò nel suo immutato silenzio e, addirittura,
smise di produrre nuovi segnali per trenta
interminabili minuti.
Un colpo di martello. Silenzio. Un altro colpo di
martello e poi di nuovo l'inviato della R.U.C.
News. La torre aveva ripreso a tremare,
sdrucciolare e levare polvere. Questa volta erano
cadute tre colonne: una dal quarto anello e due dal
secondo. Appena la diretta dall'Italia fu a pieno
schermo sul monitor il mondo intero vide la
bandiera rosso-crociata, simbolo della città,
staccarsi e precipitare al suolo. Quella scena, così
teatrale, sembrava indicare che ormai era davvero
169
giunto il momento. Altri tremori. Sempre più forti,
sempre più frequenti. Sempre più colonne si
staccavano schiantandosi con fragore su quelle che
le avevano precedute. Diverse crepe comparvero
alla base della torre.
Poi ci fu quel pensiero. “ Se solo io potessi
praticare un foro su questo pavimento lurido e
trapassarlo...”. Io c'ero, l'ho sentito. E non so se
sia stata una coincidenza, o se si sia trattato di
tutta l'immane forza vitale che Anne Nicole Smith
aveva trattenuto durante la sua esistenza, ma quel
pensiero fu così forte, così intenso, che riuscii a
visualizzare per davvero quella forza, quell'energia
sotto forma di un potentissimo raggio verde che
attraversava il pavimento. Invase l'appartamento
della signora Irma, la portineria, la cantina, e le
tubature. Continuò a scavare in linea retta
attraverso i vari strati della terra, attraversò
chilometri e chilometri di granito, nubi di gas,
immense onde di fuoco e poi cominciò la sua
risalita. Ma proprio mentre stavo per immaginare
il punto di uscita di questa assurda e improbabile
corsa attraverso il pianeta, la mia attenzione fu
attratta nuovamente dalla voce dell'inviato della
R.U.C. News che, attraverso l'altoparlante della
televisione, gracidava come una checca. In una
frazione di secondo pensai che forse c'eravamo:
forse la torre stava crollando per davvero, adesso.
170
E invece no. Quello che accadde fu ancora più
stupefacente: dopo un fortissimo scossone al quale
seguì la caduta di numerose colonne e una nuvola
immensa di polvere alta quanto la torre tutta,
questa si mosse; sì, si mosse. Ma non cadde. In
principio tutti i testimoni, sia quelli presenti sul
luogo sia quelli che seguivano l'evento da casa,
ebbero un attimo di smarrimento e pensarono di
avere le traveggole o di essere stati ingannati dalla
lunga attesa. Ma si resero subito conto che era
proprio così: la torre di Pisa si stava raddrizzando.
Si, proprio così... molti probabilmente ancora lo
ricordano. Quanto c'è voluto? Non saprei
esattamente, ma la cosa è stata molto rapida; forse
poco più di cinque minuti. Sta di fatto che, a cose
fatte (chiunque le avesse fatte, s'intende!) tutti
poterono vedere con estremo stupore e incredulità
la torre di Pisa dritta in piedi, così come Diotisalvi
l'aveva immaginata e così come non era mai stata.
Ecco, fu così che accadde. Ora ricordo che ci
furono quelli che parlarono di un segnale che
indicava l'imminente fine del mondo e ci furono
altri che giurarono di aver visto una mano
invisibile che, mentre il sole vorticava nel cielo,
aveva raddrizzato la torre. Ma io ho la presunzione
di sapere come siano andate per davvero le cose.
Per quanto possa sembrare ridicolo credo che per
davvero quel pensiero scaturito dal posto più
improbabile, eppure così carico di energia
171
positiva, di pura voglia d'essere, di scoprire... quel
pensiero credo che abbia determinato il corso
degli eventi che contraddistinsero quella strana
giornata.
Mi rendo conto che è difficile crederlo, tanto
più se a raccontarlo sono io (in codice morse – tra
l'altro – a uno scribacchino compiacente che mi
sta facendo la grazia di trascrivere i miei segnali
luminosi... go figure! Spero non faccia troppi
errori). Ma anche se ormai le batterie sono quasi
scariche i miei ricordi sono nitidi. Ricordo tutto
come se fosse stato ieri. Così come ricordo il mio
stupore quando scoprii, per puro caso, che se si
potesse praticare un foro su questo pavimento e
trapassarlo, fino ad arrivare dall'altra parte del
mondo, il punto di uscita corrisponderebbe
esattamente alla verticale della torre di Pisa.
E non solo: successivamente scoprii anche che...
oh, le batterie. Sono finite! Meno male che
Duracell dura di più. Merdacell, fan... cu...
172
un sogno
Camminavo rapace in un buio inartificiale
amplificato da ombre monumentali, specchio di
antiche glorie, segrete trame e indicibili paure. La
grossa balena bianca, con la sua ombra, copriva
tutto ciò che può essere definito “tanto” nel
minuscolo spazio subito dopo il duomo, per
andare verso una Piazza Fontana che in verità non
c'era. Lì, in quel punto, qualcosa che non era un
sole illuminava di un discreto grigiore il nientetutto-tutto nel quale strane forme di un colore
ambrato
si
muovevano
disinvolte,
e
173
apparentemente senza senso, senza controllo di sé
stesse. Topi.
Meravigliosi e disgustosi topi caramellati di un
luccichio non più di fogna ma da alta pasticceria!
Schifosi per le colpe dei loro antenati, che
segretamente si annidano in un subconscio umano
mai ben troppo esplorato, e al contempo divini
nella loro liquida perfezione. Alcuni più grandi,
altri più piccoli; taluni forse appena nati per
osmosi. Questi moderni topi erano perfetti nella
loro totale inutilità in una natura che non era stata
capace di tenergli il passo, e che ancora produceva
ombre di chiese millenarie nelle quali loro, come
storditi, non trovavano pane per denti ormai
inesistenti, scivolando senza né peso né senso qua
e là, come per dar retta al ricordo di un istinto di
contatto-desiderio-presa ormai estinto.
Mi chiesi se dovessi averne paura. Capii solo
che mi spaventava il controllo che non potevo
avere sui loro movimenti. Non è la peste che ci ha
reso il topo nemico e che ci porta per istinto a
restringere i nostri arti verso noi stessi, verso
l'interno, e a stringerci le mani sugli organi
genitali. È la consapevolezza di non essere padroni
della vita che scivola, sgocciola via dai nostri corpi,
in ogni momento, per cambiare forma, per essere
altra vita; fine a sé stessa, oltre l'erronea
convinzione dell'Io che cerchiamo di ritenere in
noi come l'istinto di chiudere l'uretra per non
174
pisciarci addosso. E il “terrore” – o qualunque sia
il termine più opportuno per descrivere questa
condizione emotiva – che deriva dalla
consapevolezza che tutto ciò che abbiamo è
un'errata, suprema e divina convinzione, è la
paura del topo.
Questo è quello che pensai mentre mi muovevo
in direzione di una Piazza Fontana finalmente rasa
al suolo dai secoli passati, mai più futuri, con i topi
di goloso caramello alle mie spalle.
175
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
una venuta di ishtar
Venne la mezzanotte e non ci fu nessun rumore di
passi sulla ghiaia. Venne la mezzanotte e niente
ruppe il silenzio angoscioso. Venne la mezzanotte
e nessuno bussò alla porta. E mentre la lancetta
dei secondi spingeva quella dei minuti
affondandola sempre più nel nuovo giorno,
l’ombra di quella triste consapevolezza si faceva
sempre più lunga nel cuore di Silvia: lei non era
venuta. Ci aveva creduto con tutta sé stessa e, ora,
si sentiva una stupida per essersi illusa che quel
bacio, così profondo, sensuale e proibito, forse
non era stato ispirato da verità nascoste che
l’alcool della festa di capodanno aveva aiutato a
emergere in superficie.
177
Finalmente si era sentita sé stessa: completa,
bella, perfetta. Finalmente libera da lui, da quella
promessa che aveva accettato con poca
convinzione in un momento in cui aveva pensato
di essere troppo vecchia e non realizzata. Ma non
era mai stata veramente felice, e tanto meno
realizzata. Non si sentiva una moglie, non si
sentiva pronta per essere madre e, a dire il vero,
non lo desiderava nemmeno: il peso di tutto ciò
che non aveva vissuto negli anni della sua prima
giovinezza, di tutto ciò che le era stato negato e
che si era negata assecondando la depressione,
diventava
sempre
più
insopportabile
e
insostenibile. Voleva solo riavere la sua libertà e
rimpossessarsi della sua vita. No, lei non era
venuta, ma questo l’aiutò a capire come quel
piccolo gesto, quell’attimo così breve ma intenso,
avesse acceso una spia dentro di lei che l’avvertiva
e l’ammoniva severamente: non era troppo tardi.
Non era troppo vecchia: avrebbe varcato il
cancello della felicità, una volta per tutte.
Fu così che, per la prima volta in vita sua, decise
di non torturarsi la mente con la solita catena
infinita di pensieri colpevoli e castranti e, preso il
flauto di bambù e il libro rosso sul quale c’erano
scritte suggestioni indicibili, usci da quella casa
per non farvi mai più ritorno. Non sarebbe stato
per niente facile sparire, lui l’avrebbe cercata. Si
sarebbe dovuta nascondere, avrebbe dovuto
178
inventarsi una nuova vita e avrebbe dovuto cercare
di farlo nel migliore dei modi. Ma a lei ora tutto
questo non interessava affatto. L’unica cosa che
sapeva era che desiderava qualcosa di nuovo,
glielo diceva il suo cuore, la sua pancia e anche
quella strana sensazione di bagnato alla quale non
aveva mai fatto veramente caso, e che le
vicissitudini della condizione umana l’avevano
obbligata a vedere come un effetto collaterale della
sua
capacità
riproduttiva.
Ma
la
sua
consapevolezza ora era diversa: il suo corpo
parlava direttamente alla sua anima in una lingua
sconosciuta, e vibrava di quel godimento che solo
chi si è liberato dall’inganno delle parole può
indovinare. Insomma: consapevole che la felicità
poteva ancora essere a portata di mano, e inondata
dalla certezza che l’universo intero si era
condensato in quel piacevole languore qualche
centimetro al di sotto dell'ombelico, Silvia si sentì
libera.
Con un pugno di spiccioli appallottolati nella
tasca dei jeans si recò alla stazione. Ma non fece
nemmeno in tempo a guardare il tabellone degli
orari perché all'eco del suo passo indeciso,
amplificato dal gelido vuoto di quei muri di
marmo, rispose la camminata lenta e senza meta di
Simona.
Silvia rimase sgomenta non sapendo bene come
comportarsi. Si sentì quasi mancare e nell’oblio
179
che sembrò precedere lo svenimento ebbe visioni
di strane forme colorate che la inseguivano, la
circondavano saltellando irriverenti, dileggiandola
e sfidandola a duello. Ma sapeva che era solo la
manifestazione di pensieri repressi da migliaia di
anni e, con pazienza, li osservò svanire. Le cose, in
verità, andarono meglio di quanto si sarebbe
potuta aspettare perché nessuna delle due, per
fortuna, osò aprire bocca. Si presero solo per
mano, e andarono via.
Lei non era venuta, è vero, ma solo perché non
ne aveva avuto il coraggio e, alla fine, si erano
trovate lo stesso; e da lì in poi fu solo un sogno dai
contorni incerti e dai colori sfumati di una
delicatezza unica e sapiente. Successivamente
Silvia appuntò con mano tremante quanto segue
sul suo diario:
«Le sue labbra delicate scivolarono come un
desiderio infuocato sul mio collo mentre la sua
mano, dolce e affusolata, delineava contorni della
mia femminilità che non avevo mai saputo di
avere. Quando quel caldo bacio oltrepassò la
pulsante linea di confine del mio ombelico, per
raggiungere la zona proibita dove il mio vulcano di
passione sprigionava la lava più calda minacciando
lapilli incandescenti, provai senza convinzione a
porre fine a quel paradiso di sensazioni: “Oh,
180
Simona! Cosa mi fai? Aspetta!”. Ma ormai era
troppo tardi: una lingua di fuoco scese dentro di
me, potente e liberatrice come lo Spirito Santo e
inattesa come un tuono in mezzo alla campagna in
una giornata di primavera.
Fu allora che in maniera del tutto spontanea
una grossa goccia ambrata, dolce come il miele,
scivolò lungo il mio inguine e, all’improvviso, le
porte di Babilonia si spalancarono, in attesa che
Ishtar facesse la sua entrata trionfale.»
181
Pagina lasciata intenzionalmente vuota
il viaggio di ritorno
A Semolina piaceva molto il suo razzo: era lungo e
scintillante e dava l'impressione di poter arrivare
ovunque, fino ai luoghi più oscuri e profondi della
galassia. Amava la sua forma così slanciata e
aerodinamica. Per non parlare dell'ultimo stadio:
appuntito come il pungiglione di un'ape sempre
punta a pungere, di quel color rosso così accesso
che ispirava allegria, come le angurie d'estate. E
poi c'era la scritta USA che le trasmetteva un
immenso e immediato senso di libertà, invitandola
a provare nuove esperienze. Voleva esplorare le
profondità dello spazio e viaggiare. E voleva farlo
con lui.
183
Preparò i bagagli in fretta e in furia e salì a
bordo. Non era stato difficile: era bastata una
chiacchierata molto informale e qualche
complimento ben assestato per assicurarsi la sua
simpatia. Nemmeno mezz'ora dopo era a bordo
del razzo, comodamente seduta in cabina di
pilotaggio e pronta a partire.
I due grossi motori ovoidali cominciarono a
scaldarsi sulla rampa di lancio. Tremarono,
sbuffarono, divennero due immense palle
infuocate e, finalmente, sprigionarono la spinta
che fece sollevare il razzo. Prima lentamente, poi
in maniera più decisa, il razzo cominciò ad alzarsi
sull'attenti come un obbediente soldatino
proiettato verso la sua missione.
Solo che Lassy una missione non ce l'aveva. Lui
era una specie di hippy dello spazio. Gironzolava
più o meno a casaccio per pianeti e, di tanto in
tanto, si fermava da qualche parte per fare
rifornimenti, per revisionare il motore, o per
chiedere informazioni per sapere da che parte
doveva andare. Ma questo succedeva raramente:
di solito preferiva rimettersi alle infinite possibilità
offerte dal caso.
– “E questa a cosa serve?”, disse ancora
Semolina dopo aver indagato le funzioni di
almeno una dozzina tra leve e pulsanti.
184
– “Prova un po'!”, rispose lui in tono cordiale
strizzando leggermente l'occhio.
Semolina tirò la leva ma non successe
apparentemente nulla. Ci fu solo un leggero flip
flop laterale, ma nulla di che. Lui le fece notare
che doveva manipolarla procedendo con un deciso
movimento basculante, avanti e indietro. Così
fece. Con suo grande stupore Semolina vide uscire
qualcosa dalla punta del razzo.
– “Cos'è quella?”, chiese.
– “È la sbarra!”, rispose il suo bel capitano con
un certo orgoglio.
– “La sbarra, sì... ma a che serve?”, replicò
ancora Semolina un po' perplessa.
– “Questa sbarra color limone – spiegò lui –
serve per accalappiare le robe, prendere campioni,
etc. Ma la si può usare per fare tante cose... Pensa
che sul pianeta Riga una volta l'ho usata persino
per pescare! Rin, rin, rin”.
– “Zio com'è bello quando ride! – pensò lei.
Ha quel modo così particolare di ridere: «rin, rin,
rin». E le sue labbra... succose come un'albicocca
sciroppata! I suoi denti: così bianchi, come dei
fagioli cannellini... tutti e quattro, non gliene
manca nemmeno uno! Quelle orecchie così
piccole e aggraziate come due tortellini... e i suoi
occhi: così sensuali e profondi, di un nero amarena
185
che ispira dolcezza e aspra fermezza allo stesso
tempo”.
Era ormai chiaro che lei era cotta di lui. Lo
desiderava. La sua fronte era madida di sudore e,
di lì a poco, cominciò a sgocciolare da tutte le
parti. Grondava letteralmente di piacere e alla fine
non poté più resistere: spalancò le zampe
posteriori e da dolce fiore si fece pianta carnivora.
Ingoiò la sua testa in un sol boccone mentre con
l'altra lingua, quella della bocca, si leccava i baffi
dal piacere. In un attimo divorò tutto: albicocca
sciroppata, cannellini, tortellini, ciliegia amarena...
E sopratutto quel meraviglioso succo rosso che si
faceva strada dentro di lei e che, avidamente,
succhiava con infinita goduria in un orgasmo di
piacere compulsivo.
Mentre lui ancora urlava – perlopiù cose
incomprensibili che producevano un suono
ovattato dentro quel vuoto sordo – con un colpo
di reni secco e deciso lei serrò le labbra e gli
mozzò la testa. Questa, per un attimo, continuò ad
urlare. Il terrore di lui vibrò all'unisono con il
piacere di lei, nel suo ventre, nelle sue viscere
colpevoli, nel caldo sicuro di un viaggio di ritorno
all'amore primordiale e materno che, non a tutti
gli amanti, è concesso di avere.
186
una spremuta di satanacchia
I
Pro-loco
Gôgne sur la Mére è un ridente paesino sul
versante occidentale della Bretagna.
Contraddistinto da una cinta di mura
medioevali – che fiere hanno resistito alla prova
dei secoli tumultuosi –, nel corso del tempo è stato
teatro d'innumerevoli fatti di apparente minore
importanza che hanno tuttavia determinato il
corso degli eventi in quell'intricata e a volte
confusa trama che lo studioso è solito chiamare
Storia. E dove c'è la storia ci sono anche i
personaggi e Gôgne sur la Mére vanta di aver dato
187
i natali, di aver ospitato e di essere stata testimone
nei modi più disparati, della presenza dei più
illustri condottieri e delle dame più belle. Tuttavia
la targa commemorativa che è stata appesa alla sala
principale della pro-loco non celebra nessun
principe o re, ma due dei più curiosi personaggi ai
quali la cittadina ebbe l'onore di dare ospitalità.
Complice il presidente in carica – stretto amico dei
due – e il clamore suscitato dagli eventi (che a
breve andremo a raccontare), il mezzo busto
dedicato alla fugace visita di Garibaldi fu fatto
sparire in gran fretta per fare posto alle cangianti
parole dedicate all'ingegno di messer Rambleon e
del signor Süssberg.
II
Prologo
La signora De Lafontaine era intenta a pelare le
patate, quando uno scricchiolio di ruote sulla
ghiaia annunciò l'arrivo del messo postale. Diede
una veloce sbirciata attraverso le tende della
minuscola finestrella del cucinino, mentre con uno
strofinaccio si puliva velocemente le mani.
 “Din, don, dan! Madame Ivette: la posta!”,
annunciò una voce cordiale e carica di brio.
 “Ah, sempre di buon umore voi, mio caro”,
disse la donna.
188
 “Certamente mia dolce Ivette. La vita è un
dono prezioso e bisogna essere capaci di goderne
appieno”.
 “La vita è uno schifo mio caro Philippe. Lo
pensereste anche voi se foste costretto a essere lo
schiavo di un ricco pazzo, confinato giorno e notte
in questo cucinino puzzolente infestato da cimici e
ratti!”.
 “Oh, suvvia non dite così!”, fece il postino un
po' sorpreso. “Alla nostra età sappiamo bene quali
sono le regole non scritte della vita: dobbiamo
essere in grado di saper cogliere la bellezza e la
gioia in tutte le cose, specie quelle piccole...”
 “Sarà Philippe, sarà... Ma io quell'uomo lo
odio. Lo ammazzerei, persino!”, sbottò Ivette.
 “Ma perché mai?”, chiese sorpreso Philippe.
“Certo è un po' eccentrico, a volte burbero ma,
credetemi madame, so di membri della servitù che
sono stati molto più sfortunati! E poi vedete? Non
dev'essere un così cattivo diavolo, se c'è qualcuno
che si da pena di fargli recapitare con una
consegna speciale un dono come questo!”.
Così dicendo Philippe mostrò a madame De
Lafontaine un pacco di discrete dimensioni,
elegantemente avvolto in carta pompadour color
beige.
 “Di cosa si tratta?”, disse madame Ivette
mettendo da parte i suoi pensieri.
189
 “Un pacco per messer Rambleon proveniente
dall'Italia. Da parte del signor Süssberg, vedete?
É stato spedito ieri sera con servizio espresso. La
spedizione non sarà costata meno di dieci-dodici
denari!”.
 “Cosa mai potrebbe essere?”.
 “Così a occhio e croce direi una specialità
culinaria, guardate...” – disse il postino indicando
il marchio che compariva proprio vicino agli
eleganti nastrini di chiffon rosa – “Questo è il
marchio della bottega che ha confezionato il
pacco. Il mio italiano è sufficientemente buono
per capire che deve trattarsi di un pastificio!”.
 “Ah, bene! Vedete? Altro lavoro per me!”,
rispose Ivette fingendo irritazione. “Suvvia se si
tratta di alimenti ho il dovere e l'ordine di aprire il
pacco!”.
Tirò fuori da sotto il tavolo un grosso coltello da
cucina con il quale liberò il misterioso pacco dai
nastri che lo tenevano chiuso. Con il fare pratico
che contraddistingue il lavoratore esperto tolse
anche la carta, e in un attimo aprì la scatola.
 “Tortellini! Che vi avevo detto?”, disse
Philippe.
Ivette lo guardò dritto nelle palle degli occhi e
con un tono decisamente ironico disse:
 “Che vi avevo detto? Altro lavoro per me!”.
190
III
Breve storia del Satanacchia
Allora: alla fine del '700 inizi dell'800, all'epoca in
cui Parigi era la capitale del mondo, quando una
donna aveva un amante – di solito un baldo
ragazzotto ben più giovane in rapporto due a uno
– ed era particolarmente provata dalle ristrettezze
imposte dalla vita coniugale, questa, recandosi in
farmacia, si faceva preparare una certa mistura che
le veniva poi consegnata in una boccetta color
viola. Questo elegante gingillo, agghindato con un
fiocchetto rosso tenuto fermo da una goccia di
ceralacca, nascondeva al suo interno un temibile
segreto. Tra le più frequentate botteghe dove era
possibile reperire questo infausto composto
spiccavano la farmacia del dr. Champillon e la
Drogheria Dupont sulla Rue du Moine. Viste le
intenzioni, quest'ultima era spesso preferita alla
prima perché isolata dalle principali strade e ben
nascosta sotto un colonnato scarsamente
illuminato, anche nelle migliori giornate estive.
L'oscurità favoriva, come sempre, un certo
anonimato. Per le stesse ragioni per cui era
preferita dalle une, questa bottega era però evitata
dalle altre che, per evitare di arrischiarsi per quelle
oscure e malfamate stradine, le preferivano quindi
la prima.
191
Ora: poniamo il caso che il preparato in
questione fosse la versione moderna – destinata
alle signore appartenenti alle classi più agiate – di
un'antica pozione che, se debitamente miscelata
con olio di oliva e salvia, funzionava come base
per un potentissimo veleno inodore, incolore e
insapore; immaginiamo che fosse diffusa da molto
tempo tra il popolo, la gente comune... voilà! A
questo punto basterebbe aggiungere che era anche
detta Satanacchia o l'“ammazzatopi” e al lettore
non resterebbe che sfogliare un qualunque vecchio
erbario per ricavarne la ricetta in tutte le sue più
comuni varianti – compresa ovviamente quella
diffusa nella zona di Lylle che prevedeva un
utilizzo spropositato di grano Carlotta fermentato
in sostituzione al farro. Ma tant'è: il risultato era
sempre lo stesso medesimo sin dai tempi di Luigi
IX (cioè a quando è attestato l'inizio del suo
utilizzo in questa forma): nessuno s'era mai
lamentato per la variazione nell'ingrediente, né tra
le cuoche, né tra i commensali.
Originariamente l'ammazzatopi era stato
impiegato con successo per sterminare i ratti
durante l'epidemia di peste che aveva reclamato
decine di migliaia di vite a cavallo tra il
quattordicesimo e il quindicesimo secolo. Da qui il
nome. Il suo secondo più diffuso appellativo,
Satanacchia, se l'era meritato in quanto sin da
quando fece la sua comparsa era stato impiegato
192
dai più scaltri assassini, pretendenti al trono,
ignobili puttane e traditori di tutta Francia. In lui
avevano trovato un diabolico ed efficace alleato
per portare a compimento i loro crimini. Tra le
vittime più illustri ci furono il principe Filippo di
Champagna e il Conte d'Erlétte. Il caso di
quest'ultimo fu ricordato per molto tempo per i
raccapriccianti dettagli relativi alle torture inflitte
alla domestica, che aveva offerto alla contessa la
sua colpevole complicità, e la cui confessione
(tardiva ma ricca di prove e dettagli scandalosi)
garantì una pena esemplare alla nobildonna e
l'incarceramento a vita nella torre d'Eustâche per
la servetta compiacente.
That's it! Ecco quindi a grandi linee la storia del
temibile veleno che, al di là di qualsiasi
ragionevole previsione, finì per accompagnare
erroneamente i pensieri di Gustave Theodore
Rambleon, proconsole di Avalacchia e primo gran
maestro del Coro della Sacra Confraternita dei
Pellegrini Erranti di Gôgne sur la Mére. Mentre
osservava un piatto di tortellini di Bologna
cucinati alla cacciatora – per la precisione – e
ricevuti in dono da Bertrand De Süssberg, primo
consigliere dell'arciduca de la Papardelle, Magister
Superior dei territori de La Rochelle e Flichétte.
Perché erroneamente? Questo lo si vedrà dopo.
193
IV
I fatti
Occorre a questo punto delineare brevemente una
descrizione di messer Rambleon, per far sì che
anche il lettore più dotato sul piano della
scaltrezza intellettuale non sia tratto in inganno
dalla cronaca degli eventi che ebbero luogo quella
sera a Palazzo Champeliér. Occorre scongiurare a
tutti i costi che il nostro protagonista venga
scambiato per un provincialotto qualsiasi o, che
so?, per una persona non particolarmente sveglia.
Au contraire! Messer Rambleon – uomo posato ed
educato, benché dotato di una certa eccentricità
che lo rendeva antipatico ad alcuni e suscitava una
certa indifferenza in altri – era un vero asso del
ragionamento analitico o, come lo chiamava lui,
l'arte dell'addizione.
Sosteneva Rambleon che qualsiasi ragionamento
logico poteva portare alla soluzione di una data
questione solo se a questo si applicava un semplice
schema matematico che aveva come base
l'addizione. In sostanza il ragionamento doveva
articolarsi in vari passaggi ai quali si aggiungeva, di
volta in volta, un elemento nuovo in serie di tre e
poi due elementi nuovi per un singolo passaggio;
poi, di nuovo, un elemento per tre passaggi e così
194
via. Questo procedimento logico sembrava
funzionare sempre e si era dimostrato
apparentemente infallibile in più occasioni. Era
stato utilizzato anche nella soluzione di alcune
vicende criminose che erano venute all'attenzione
della Gendarmerie Royale e, per il suo prezioso
contributo, il proconsole ricevette persino delle
onorificenze.
O almeno questo è quanto sosteneva Rambleon.
I suoi detrattori infatti non mancavano mai di
mettere in dubbio le mirabolanti avventure di cui
era solito vantarsi. Ma, a onor del vero, occorre
dire che nel pittoresco paese di Gôgne sur la Mére
esisteva più di un circolo nel quale si radunavano
intellettuali e appassionati di scienza che si
dilettavano con enigmi scientifici e matematici di
ogni sorta. Si potrebbe tranquillamente dire che il
ragionamento logico fosse una vera a propria
moda all'epoca, e a Gôgne sur la Mére aveva preso
particolarmente piede. Ecco perché le critiche che
venivano mosse a Rambleon non dovrebbero
essere prese troppo in considerazione: l'invidia è
uno dei principali sospettati se si tratta di capire le
ragioni di queste critiche, tanto più se si tiene
conto del fatto che messer Rambleon – scapolo
per scelta, grande appassionato di arte e fine
conoscitore di qualsiasi impresa militare
dell'Impero sin dai tempi di Carlo Magno – era
una delle migliori menti in circolazione. L'unico
195
capace di rivaleggiare con lui era il consigliere
dell'Arciduca, Bertrand De Süssberg.
E i due rivaleggiavano eccome! La loro era una
partita sempre aperta. Diversamente da quanto
avveniva nei circoli durante le sfide regolari, dove
la prova veniva sottoposta allo sfidante in maniera
“ufficiale”, e fornendo gli elementi necessari per
poter iniziare l'investigazione, tra Rambleon e
Süssberg esisteva una sorta di tacito accordo in
base al quale qualsiasi interazione da parte
dell'altro era l'inizio di una nuova prova. Non
veniva nemmeno specificato quale fosse la prova,
perché capire in cosa consistesse faceva parte della
sfida stessa e, inoltre, molto spesso questo era
assolutamente necessario per potersi salvare la
pelle. Infatti il livello della sfida tra i due era
talmente alto, e la rispettiva sicurezza nelle proprie
doti intuitive così spropositata, che i due non
avevano nessun problema a mettere a rischio le
rispettive vite, né vedevano nella cosa una reale
minaccia o un motivo per indovinare intenzioni
criminose da parte dell'altro. Era normale
amministrazione per loro, diciamo. E questo ci
riporta al piatto di tortellini alla cacciatora che
quella sera madame Ivette De Lafontaine servì a
messer Rambleon.
Già da tempo il nostro sospettava l'inizio di una
nuova prova. A dire il vero ne era certo, anche se
196
fino ad allora non era ancora riuscito a mettere
insieme con certezza assoluta tutti gli indizi che,
tuttavia, non erano passati inosservati.
Sin da quando Süssberg aveva annunciato il suo
viaggio alla volta dell'Italia – durante il quale
avrebbe accompagnato l'arciduca durante le
consultazioni ufficiali in vista dell'imminente
Conferenza di Praga – messer Rambleon aveva
tenuto alta la guardia. Il primo incontestabile
indizio fu una cartolina proveniente da Salerno.
Sul fronte vi era riprodotto un grazioso acquarello
con alcune casette colorate, sul retro l'elegante
calligrafia di Süssberg che porgeva i suoi saluti in
un italiano quasi impeccabile. A questa seguì una
seconda cartolina; questa volta Süssberg era a
Taranto. La cartolina riproduceva una veduta
della città dalla quale, ancora una volta, si
porgevano i migliori saluti etc. etc. Fu poi la volta
della cartolina da Napoli, che ritraeva il bellissimo
golfo con il vulcano sullo sfondo, e poi ancora
quella da Chiavari. Rambleon ovviamente sapeva
che tutto si giocava sulle cartoline, ma mettendo
insieme le immagini che riproducevano non era
stato in grado di indovinarne il senso. Anche
l'analisi della calligrafia, e la ricerca di possibili
anagrammi nascosti nelle frasi, non aveva prodotto
nessun risultato apprezzabile. In effetti era riuscito
ad indovinare un messaggio in codice nascosto tra
i saluti, questi però si era rivelato essere un
197
meschino tentativo di depistaggio da parte di
Süssberg. Lo scopo era ovviamente quello di far
perdere tempo e preziose energie a messer
Rambleon (per la cronaca il messaggio criptato
diceva testualmente: “Complimenti mi hai trovato,
firmato Messaggio Criptato”).
Fu solo quando ricevette la cartolina da
Chiavari che qualcosa si accese nella testa di
messer Rambleon. Quando poi al suo ritorno a
casa si vide servire quel piatto di tortellini di
Bologna il cerchio si chiuse e dichiarò a sé stesso
che l'enigma era stato risolto!
 “Ivette per cortesia aggiunga un posto a
tavola. Fra non molto avremo un ospite”, ordinò
in tono trionfale.
La signora De Lafontaine rimase un attimo
perplessa ma non fece in tempo a pronunciare
nemmeno una parola. La grossa campana in
ottone abilmente cesellata con immagini di draghi
ed elfi trillò allegramente. Spezzando il monotono
silenzio di Palazzo Champeliér annunciò l'arrivo
del nuovo ospite. La serie di due colpi ripetuti per
tre volte in modo molto rapido non poteva trarre
in inganno: la porta si aprì e un euforico più che
mai Bertrand De Süssberg fece il suo ingresso
all'interno della magione. Questi stette un attimo
fermo come se fosse in attesa di un segno e poi
attaccò a parlare:
198
 “Oh, oh, mio caro amico! Questo silenzio mi
bisbiglia nell'orecchio che...”. Ma fu subito
interrotto da un suono acuto e sgradevolissimo:
Bwhuaaa–bwhuaaa!!!
 “Cosa? Come?
sgomento Süssberg.
possibile!”
La trompétte?”, disse
“Non è assolutamente
 “E invece si, mon ami: l'enigma è stato
risolto!”, gli fece eco la voce trionfante di messer
Rambleon.
Si da il caso che ognuno di loro avesse adottato
un particolare segnale per rimarcare trionfalmente
che era giunto con successo alla soluzione
dell'enigma sottoposto. Nel caso di Rambleon il
segnale che ne annunciava la vittoria era una
vecchia trombetta arrugginita e stonata alla quale
era tuttavia molto affezionato. Era appartenuta,
pare, al generale De-Foe in persona ed era uno dei
pezzi forti della sua collezione di reperti storici.
“Ognuno combatte le proprie battaglie con le
armi che la Provvidenza gli ha fornito. Il generale
De-Foe celebrava la vittoria della spada con
questa trombetta ed io, Rambleon, allo stesso
modo celebro la vittoria della ragione!” ; così era
solito dire il proconsole prima di iniziare uno dei
suoi interminabili discorsi sull'analisi logica. Ma
non divaghiamo...
199
Con il volto in preda ad un'espressione mista a
incredulità e rabbia, Süssberg si fece strada verso
la sala da pranzo dove Rambleon l'attendeva.
Madame Ivette, poveretta, seguiva tutto questo
senza proferire nemmeno una parola e, mentre
ancora teneva in mano il pesante cappotto del
signor Süssberg, si chiedeva – com'è giusto che sia
– che cosa fosse la stramberia alla quale stava
assistendo.
Süssberg irruppe nella sala da pranzo e, con sua
grande sorpresa, vi trovò messer Rambleon seduto
a tavola che con fare elegante degustava i suoi
tortellini. Per un attimo un ghigno malefico
comparve sul volto di Süssberg; ma fu solo un
attimo perché il fare sicuro di Rambleon gli
lasciava intendere che la vecchia volpe doveva
saperla lunga.
 “Benvenuto, mio caro amico. Accomodatevi
pure...”, disse Rambleon facendo segno verso il
posto vicino al suo che la signora De Lafontaine
aveva preparato poco prima.
Süssberg si sedette obbediente al suo posto,
ansioso di sentire la soluzione dell'enigma. Questa
volta Rambleon doveva aver superato veramente
sé stesso: non solo aveva vinto la sfida ma
addirittura, con fare tronfio, portava la forchetta
alla bocca dimostrando di gradire superiormente
quella pietanza... avvelenata!
200
 “Forse avete chiesto a madame Ivette di
mostrarvi la boccetta?”
 “Quale boccetta?”, rispose Rambleon.
 “La boccetta col veleno, mio buon amico.
Era inclusa con la confezione di tortellini. Ho
lasciato all'interno un biglietto dove istruivo
madame su come versarlo sui tortellini non appena
questi fossero stati pronti per essere serviti; l'ho
spacciato come un ingrediente segreto della ricetta
originale, insomma.”
 “Non ne so proprio nulla”, disse Rambleon
un po' scocciato. “Ma vi assicuro”, proseguì, “che
sarebbe altresì scortese da parte vostra se rifiutaste
di unirvi a me a questa prelibata cena.”
Così dicendo servì un'abbondante porzione di
tortellini nel piatto di Süssberg che, con estrema
attenzione, seguiva ogni suo movimento.
 “Oh, non abbiate paura Süssberg”, disse
l'ospite sorridendo, “vi assicuro che sono
assolutamente innocui adesso. Nel mentre che
Ivette si recava alla porta ho provveduto a condirli
con un altro ingrediente speciale: l'antidoto!”
 “Diavolo di un Rambleon!”, esclamò
Süssberg. “Avanti raccontatemi tutto.” Rambleon
ghignò di gusto mentre Süssberg si portava la
forchetta alla bocca.
201
 “Sono davvero ottimi!”, disse questi.
 “Senza dubbio!”, confermò Rambleon che,
mentre riempiva generosamente il bicchiere del
suo ospite attaccò con la spiegazione:
 “Ovviamente in un primo momento pensai
che la natura e gli indizi della prova fossero
contenuti nelle illustrazioni delle cartoline. Niente
di più sbagliato. Ho spostato quindi la mia
attenzione sui messaggi di saluto scritti di vostro
pugno sulle stesse ma, come voi ben sapete, senza
nessun risultato utile. A parte quel vostro ridicolo
crittogramma che mi ha fatto solo perdere tempo,
s'intende. Molte grazie!”.
 “Non c'è di che”, disse Süssberg inchinando
ironicamente il capo mentre ingoiava l'ennesimo
boccone di tortellini.
 “Ah, davvero ottimi!”, sospirò.
 “Invero amico mio! E la mano di Ivette non
poteva che impreziosire questo piccolo gioiello
della gastronomia”.
 “Già. Ma la prego continui pure proconsole.”
Rambleon portò il fazzoletto alle labbra e poi
proseguì:
 “Arrivati alla terza cartolina, quella da
Napoli, ero ancora in alto mare; ma quando
ricevetti quella da Chiavari finalmente capii: le
202
città! I nomi delle città.”
 “Ah, vecchio diavolo!”, disse Süssberg con
voce roca.
 “Ma certo! Come potevo essere stato così
stupido? Confesso che la geografia non è il mio
forte e men che meno ho dimestichezza con quelle
terre così lontane dove lo splendore di Roma ha
lasciato il posto al banditismo e alla pastorizia! Ma
una veloce consultazione dell'Atlante du Relieu mi
ha confermato che c'era qualcosa fuori posto.
Salerno, Taranto, Napoli, Chiavari... quale razza di
ubriaco poteva aver compiuto un giro simile e
perché? Per un attimo pensai che forse alcune
fossero state recapitate in ritardo, ma verificando il
timbro postale potei appurare che l'ordine era
proprio questo. Bene: il nome delle città, mi
concentrai su quello. Era chiaro che i nomi delle
città nascondevano un messaggio.” – Süssberg
annuì con un cenno della mano.
 “E allora”, continuò il proconsole, “capii
immediatamente tutto. Quando questa sera
tornando a casa madame Ivette mi ha informato
che per cena ci sarebbero stati questi ottimi
tortellini ricevuti in omaggio da voi, non ho fatto
altro che avere la conferma definitiva: la prova
consisteva nell'indovinare il nome di una temibile
pozione, la quale poi, sarebbe stata usata per
avvelenare la pietanza che noi stiamo or ora
consumando!”
203
 “Fenomenale Rambleon”, disse sbalordito il
signor Süssberg. “Cosicché poi avete recuperato il
giusto antidoto e l'avete versato nei tortellini,
annullando così gli effetti del veleno. Devo
confessare che questa volta avete davvero superato
voi stesso. Non era semplice! Complimenti amico
mio”.
Rambleon, sempre più fiero di sé, si alzo in piedi
col calice in mano e, dopo aver appoggiato il
braccio alla mensola del camino, spiegò:
 “SA-lerno, TA-ranto, NA-poli, CHIA-vari...
SA-TA-NA-CHIA: Satanacchia, l'ammazzatopi!
Era così evidente!”. A questo punto Süssberg si
bloccò con la forchetta a mezz'aria:
 “Sa... Satanacchia..?”
 “Si, Satanacchia!”, disse Rambleon. “Un vero
diavolo di veleno. Ah, ah!”.
 “Ma no, stupido idiota! Era: sa-LE-rno, taRA-nto, na-PO-li, chia-VA-ri: Lerapova! Ogni
seconda sillaba. Ho adottato il metodo DeeKelly!”.
 “Lerapova...?”, ripeté serio Rambleon,
mentre fissando lo sguardo verso l'infinito
accarezzava il bordo del bicchiere.
 “Si idiota! Lerapova: lo «schioppacosacchi»,
il più potente veleno di tutta Madre Russia...”
204
I due si guardarono un'ultima volta prima di
essere imprigionati nell'improvvisa paralisi che la
lerapova provoca un attimo prima del collasso
cerebrale. Negli occhi dell'uno c'era lo sgomento,
negli occhi disillusi dell'altro l'incredulità e, senza
che ci fosse bisogno di dirlo, seppero di aver perso
tutti e due.
V
Epilogo
Madame Ivette de Lafontaine entrò nella sala da
pranzo a passo spedito. I piccoli passi ravvicinati
che contraddistinguevano la sua camminata
avevano un qualcosa di comico, sopratutto se si
tiene conto del fatto che il suo didietro,
stranamente
paffuto
e
rivolto
all'insù,
accompagnava ogni suo gesto con un curioso
movimento che ricordava in parte la gelatina, in
parte il burattinare buffo di un impertinente
pupazzo grassoccio.
Si mise tra il signor Süssberg e messer
Rambleon, che ancora stava appoggiato alla
mensola del camino con il bicchiere di Chateau
Lafite
in
mano.
Mentre
sparecchiava
metodicamente la tavola rivolse lo sguardo prima a
uno e poi all'altro e infine disse:
205
 “In ogni caso, signori, l'antidoto non avrebbe
funzionato lo stesso.”
Tirò su il candeliere e con grande eleganza
soffiò sulle candele spegnendole una alla volta,
come in un lento ed inesorabile conto alla
rovescia.
 “Arsenico miei cari. Banalissimo arsenico, la
cui aggravante non solo avrebbe reso vano
l'utilizzo di qualsiasi antidoto ma ha fatto sì che le
vostre brillanti menti – e qui assunse un tono
diabolicamente ironico – potessero rimanere vive e
vegete, imprigionate nei vostri corpi paralizzati. Se
non altro finché le risorse vitali non saranno
terminate ma – grazie al cielo – per un tempo
sufficientemente lungo per potervi rivelare
l'inganno nel quale vi ho tratti e del quale adesso
vi ho messi a parte.”
Il terrore negli occhi di Rambleon e Süssberg è
quanto di più atroce si possa immaginare: il loro
ingegno era stato tratto in inganno da una misera
cameriera. Questa consapevolezza, per loro, era
anche peggio della morte stessa!
VI
Postilla
La signora De Lafontaine non fu mai perseguita
per il suo crimine. In verità mai nessuno ne seppe
206
nulla. Tornò al paese natio dove grazie ai risparmi
di una vita, messi faticosamente da parte, rimise in
sesto la casa di famiglia. Vi si stabilì
definitivamente e lì rimase fino alla fine dei suoi
giorni, vivendo una vita monotona ma felice, in
compagnia dei suoi tre gatti.
VII
Epitaffio
Un bambino vestito di stracci teneva le sue manine
strette ai pilastri arrugginiti del cancello, mentre
osservava con attenzione due strane luci violacee
che ondeggiavano all'interno del Cimitero de La
Papétte. “Fuochi fatui!”, pensò. Doveva trattarsi
di fuochi fatui come aveva sentito raccontare dai
ragazzi più grandi. Si considerò fortunato ad
averne potuto vedere non uno ma addirittura due.
Si mise in attesa aspettando l'evolversi degli eventi,
ma quando cominciò ad udire addirittura delle
voci scappò via terrorizzato invocando la mamma.
“Qui giace messer Rambleon: da lui
l'intelletto temette di essere vinto, ora
che egli non c'è più teme di non
sopravvivergli”.
 “Ma che razza... ma cosa vuol dire? È
ignobile!”
207
 “Ha! E cosa dovrei dire io!?”, rispose
Süssberg ondeggiando indispettito mentre il suo
fiammeggiare prendeva una colorazione rossastra.
 “Oh, suvvia Süssberg! Il vostro epitaffio è
semplice ma dignitoso”, disse Rambleon.
 “Non lo credo affatto!”, sbottò Süssberg. “È
un meschino plagio dell'epitaffio di Schiaparelli!”
 “Non mi pare poco! Ma il mio? É così...
così... volgare! Pacchiano oserei dire!”.
 “Oh, ma guardate Rambleon”, lo interruppe
Süssberg, “arriva il generale!”.
 “Oh, bene! Questa sera oserò chiedergli
come andarono veramente i fatti sul campo di
battaglia a La-Fayette”, disse l'ex proconsole
pieno di entusiasmo (che manifestò con
un'improvvisa spruzzata di verde che gli illuminò
la fiamma come quella sul cappello dei soldatini a
guardia del Famedio). Le due fiammelle si
mossero lentamente e con fare incerto in direzione
dell'ossario.
 “Crede che anche noi un giorno potremmo
avere un aspetto più concreto come il Generale,
mio caro Süssberg? Con la spada e tutto il resto...”
 “Non ne ho idea. Non sono certo di
conoscere ancora bene come funzionino le cose
ora che siamo... così. In questa nuova condizione
insomma”.
208
 “Morti!”, disse secco Rambleon.
 “Non siamo morti amico mio. Pensiamo e
comunichiamo ancora. È solo una condizione...
differente, ecco.”
 “Si, non lo metto in dubbio. Ma secondo i
criteri rispetto ai quali siamo sempre stati abituati
a pensare noi siamo morti. Fermo restando che i
misteri dell'aldilà – dei quali io e lei pian piano
stiamo scoprendo la natura – sono un fatto incerto
per i viventi, si capisce...”.
 “Beh, io trovo che da questa esperienza
potremo trarne tante nozioni utili per ampliare la
nostra conoscenza”, osservò Süssberg.
 “Poco cambia... sempre morti siamo!”
 “Ma mio caro Rambleon, sarà bene abituarsi
all'idea. Non credo ci sia data molta scelta”,
rifletté Süssberg. “E poi sa che le dico? A me
questa nuova condizione non è che mi dispiaccia,
dopotutto.”
 “Si, ma tutto questo fiammeggiare... mi da
noia! E poi mi sento così impacciato”.
Le due fiammelle si fermarono per un attimo, in
silenzio, come se stessero rispettivamente
riflettendo su problemi esistenziali nuovi di zecca
e del tutto sconosciuti ai viventi. La verità è che in
loro era presente la consapevolezza di essere stati
209
imbrogliati due volte: una da madame De
Lafontaine e l'altra da una natura capricciosa,
variabile e lunatica, che non aveva dato loro
nemmeno il tempo di risolvere i grandi enigmi
della vita che già gli metteva sotto il naso quelli
della morte.
Ma per fortuna quel triste silenzio fu rotto dal
loro nuovo amico e mentore:
- “Oh, oh, buonasera signori!”, disse con tono
cordiale il generale mentre dalla bocca tirava
avidamente un grosso sigaro che, pian piano,
cominciava ad accendersi grazie a Rambleon che
prestava il suo passivo aiuto come un improvvisato
accendisigari.
Felici di poter ascoltare le parole di quel nobile
vecchio eroe, i fuochi fatui si illuminarono ad
intermittenza di tutti i colori dell'iride mentre
seguivano il fantasma del Generale giù
nell'ossario. Intanto una fitta nebbia si alzò
rapidamente dal mare. Abbracciò delicatamente il
cimitero e, mentre un colpo di vento spense i due
lampioni di fronte al cancello, la luna si affacciò
per un attimo dalle nubi, dando la buonanotte al
piccolo paese di Gôgne sur la Mére, che ora
poteva finalmente dormire sereno.
210
resoconto rinvenuto tra le
pagine di un libro
Dal diario di messer Rambleon.
Gôgne sur la Mére,
25 Settembre 1889
Il giorno ventitré del mese di settembre 1899 io,
Gustave Theodore Rambleon, mi trovavo presso la
Biblioteca Imperiale di Sarprech a svolgere, come
di consueto, il mio lavoro di ricerca sui funghi
alpini. Mentre consultavo un antico volume trovai
custodite in esso alcune carte. Mi apparve chiaro
sin da subito che si trattava delle pagine strappate
di un diario. Riporto di seguito quello che vi era
scritto, avvisando sin da subito il lettore che la
narrazione è priva di un inizio e anche di una fine
211
visto che, per l'appunto, si trattava solo di alcune
pagine di quello che pareva essere un resoconto
ben più ampio. Ne riporto il contenuto in quanto
si tratta di materiale bizzarro che sicuramente
stimolerà la fantasia di alcuni e la curiosità di altri.
Se non altro perché ad oggi non è ancora dato
sapere a quale spedizione marittima siano riferiti i
fatti in esso contenuti, né il vero nome delle
località citate, visto che non risultano su nessuna
mappa.
***
Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro.
«[...] Al terzo giorno di navigazione approdammo
ad uno scoglio in mezzo al mare detto Rauco o
Isola dei Grampi. Il capitano Albion si guardò
misteriosamente attorno e poi disse che sì: doveva
essere proprio quello il luogo in cui si trovava
prigioniera la principessa Shila. Evviva!,
finalmente l'avremmo salvata. Ma dopo
innumerevoli giorni di navigazione eravamo
stremati dalla fame e dalla sete; le nostre misere
provviste infatti erano finite da un pezzo.
Sfortunatamente non c'erano fonti alle quali
abbeverarsi su Rauco ma, fortunatamente, c'era un
temporale in vista.
212
Piovve. Riempimmo le nostre borracce e ci
dissetammo in abbondanza. Ma la fame
continuava a svuotarci delle nostre forze e il nostro
animo, attimo dopo attimo, diventava sempre più
sottile e fragile. Mentre esploravamo quell'arido
scoglio più di un uomo fu preso dallo sconforto:
qualcuno pianse pensando alla famiglia che non
avrebbe mai più rivisto, qualcun altro si lasciò
andare a una vera e propria crisi isterica, subito
messa a tacere a suon di schiaffoni dal capitano
Albion in persona.
Sapevamo che la principessa doveva trovarsi lì
da qualche parte e questo ci rendeva
estremamente felici, ma eravamo terribilmente
preoccupati perché la verità era che con cinque
giorni di navigazione non saremmo stati in grado
di ritornare al nostro porto, viste le condizioni.
Non avremmo nemmeno potuto provvedere al
sostentamento della principessa. Potevamo solo
sperare di cacciare o pescare qualcosa prima di
ripartire ma non avevamo più con noi le nostre
armi o altri utensili: tutto era andato perduto
quando eravamo stati sorpresi da un temibile et
burrascoso uragano. La situazione, insomma, era
molto critica: eravamo lì per prestare soccorso ma
ne avevamo bisogno a nostra volta. Ma avevamo
promesso di salvare la principessa e avremmo
cercato di farlo a tutti i costi, anche se la fame ci
tagliava da dentro. Come avremmo voluto
213
affondare i denti dentro un bel cosciotto
d'agnello!
Anche se non lo dava a vedere il capitano era
molto preoccupato. Avevo imparato a leggere la
sua mimica facciale negli anni passati insieme per
mare e ora i tratti del suo viso gridavano a gran
voce “salcha garga!” che, tradotto dal gerlanovalentino
significava
approssimativamente:
“maledizione infausta!”.
Dopo un'interminabile ricerca il giovane
Bartholomew Malamais indicò al resto della
spedizione un punto in mezzo ad alcuni massi non
dissimile dal resto del limitatissimo territorio di
quello sperduto scoglio in mezzo all'oceano. Ma
aguzzando la vista era possibile scorgervi una
rientranza. Ci recammo presso il luogo indicato
dal giovane marinaio e potemmo vedere che si
trattava del minuscolo ingresso di una grotta di
discrete dimensioni. Al rumore dei nostri stivali
fece eco un suono che pareva avere delle
caratteristiche umane. Un singulto!
Un uomo collassò privo di forze. La fame stava
per fare una nuova vittima. Albion si fece strada
nella grotta con una torcia e noi lo seguimmo ma
subito egli ci intimò di aspettarlo lì. Ci
guardammo negli occhi e ubbidimmo.
Sentivamo i passi lontani del capitano che si
faceva strada nei meandri della grotta. Mentre
214
aspettavamo un uomo caricò la sua pipa con della
sterpaglia secca trovata lì per terra. Un altro tirò
fuori un ritratto della principessa Shila. Ci
mettemmo tutti attorno a lui perché fra noi molti,
compreso il sottoscritto, non l'avevano mai veduta.
Rimasi, come molti, un po' perplesso. Era grassa.
Molto grassa. Non era per niente quella leggiadra
creatura della quale tutti parlavano. Aveva
qualcosa di terribilmente sgraziato, persino
disgraziato, oserei dire. I suoi lineamenti
disegnavano, senza nessuna ombra di dubbio, le
fattezze di una persona che poteva essere definita,
senza troppi giri di parole, brutta!
Non nascondo che pensando a tutta la fatica
che avevamo fatto, per un attimo la mia mente mi
suggerì un pensiero del quale mi vergognai
profondamente. Ma quali che fossero le nostre
parole e i nostri dubbi furono ben presto interrotti
da un suono proveniente dalle viscere della terra:
un urlo! O almeno così parve a molti di noi.
Possibile? Eravamo incerti: forse si era trattato del
verso di qualche animale. Ma a tutti noi era
sembrato proprio il grido improvviso e disperato
di una donna in pericolo. Seguirono vari rumori
confusi. Poi sentimmo dei colpi di pietra e infine il
rumore distinto di una pesante spada che
affondava la sua lama in qualcosa di morbido. Era
215
Filindilarda, la spada del capitano; su questo non
ci potevano essere dubbi.
Il vice secondo mozzo portò la mano vicino alla
bocca e gridò in direzione delle tenebre: “Cosa
succede capitano? Stiamo venendo in vostro
soccorso!”. Ma subito la voce possente e rauca di
Albion gli fece eco: “Non muovetevi! É un
ordine! Va tutto bene, sto risalendo.”
Da lì a poco udimmo i passi del capitano che si
dirigeva verso di noi. Lo vedemmo arrancare con
un grosso fagotto tenuto insieme alla bella meglio.
Eravamo tutti stupiti e lo fummo ancora di più
quando lo buttò a terrà davanti a noi: “La
principessa non c'era ma al suo posto ho trovato
questa specie di maiale selvatico”, disse.
“Finalmente potremo nutrirci miei uomini!
Philibert: accendi il fuoco!”, ordinò.
Rimanemmo tutti in silenzio finché l'arcicommodoro Filinberg non iniziò a parlare: “Che
pelle liscia questo maiale capitano... Così curata.”
Albion ci guardò tutti e pronunciò le seguenti
parole: “Temo che la principessa ormai sia
perduta. Abbiamo fatto del nostro meglio, uomini.
Non ci resta che nutrirci e sperare che questo ben
di dio ci basti per riattraversare l'immenso unt
eterno oceano al quale abbiamo sacrificato le
nostre forze e le nostre speranze”.
216
Sembrava come se ognuno di noi fosse cosciente
di una verità che non osava, non poteva e, in
fondo, non voleva pronunciare. Tacemmo.
Philibert accese il fuoco e ognuno di noi aiutò a
radunare i pezzi della bestia appena macellata da
Albion. Di tanto in tanto qualcuno fissava il suo
sguardo su questo o quel dettaglio anatomico
facendo finta di stupirsi di fronte a quelle forme
così rosee e un po' troppo delicate per un maiale
selvatico. Mangiammo abbondantemente e con
gusto quell'ottima carne. Che io ricordi in tutta la
mia vita non ho mai mangiato carne di maiale o di
nessun altro animale così buona. Fu un pasto che,
senza ironia, definirei regale.
Il giorno dopo Gustave Peyotte […]»
***
Qui si interrompe, ahimè, questa bizzarra cronaca.
Ora non so dire se si tratti di una storia vera o
piuttosto del delirio di qualche alienato. Sta di
fatto che tutto questo sembra suggerire alla mia
mente una serie indeterminata di pensieri. Ma non
è di certo compito di un modesto curioso come
me approfondire eventuali pensieri sull'etica, la
morale e le meccaniche della mente umana in
situazioni di estremo bisogno.
217
Mi limiterò a dire che... oh! Madame
Ivette mi chiama. É pronta la cena. Tortellini di
Bologna con retrogusto di satanacchia.
Si preannuncia un serata divertente, pare!
– G.T. Rambleon
218
da un antico manoscritto
rinvenuto a gôgne sur la
mére
Trascrizione ad opera del professor Jean
Philippe Lippe della facoltà di promantica
comparata dell’Università di San Kristoburgo.
Procedeva mistica in coro a fila indiana nostrana
processione di donnole nere. Vincendo antiche
partite alle paure, vedove venendo vedevo tutte
intoppate a palombare, ma di boccaglio carenti.
Avrei osato chiedere? Si lo feci: “Di dove il fiato
vi viene? Di dove l’aere prendete, lo mesto canto
‘sì forte a salmodiare?”
– “Si respira alla bisogna”, una voce di
streghevolezza acuta disse. “Si sugge l’anime nella
219
notte!”, puttanesca la seconda, della prima
compara, rincarò ghignando.
– “Ha, haha, hahaha” di coral’ S.S.-teutonicoinno fecero tutte in malevola associazione! “Noi
vedove si succhia mariti e più spesso di quanto
non lo si creda anche ben più d’uno!”.
– “E se di mariti la carenza è troppa, d’altri omi
si sugge trippa!”, proseguì pro-rompend’il silenzio
un’altra.
– “Uauauà!”, lo diabolico riso di bocche
sbauscianti verdi liquami, sdentate ma di canini
dotate,
l’oculo
indiabolato,
non
poco
terrorizzommi. Li brividi sulla schiena a grattarola
fin sullo cervello come
mille
ragnoli
arrampicommisi: ah! No! Nevermore! Fuggemmi
rapidevole di terror alimentato che il pensier m’è
tardo al ricordare. 'Si tanto cagommi di paura
all’orizzonte rosso sul tristo far del crepuscolo
dusk, che’l raziocinio fece sciopero strike e
piombato in un buio darko svenetti e più nulla
ricordamnibus.
Or quando ch’io la ragion in teschio mio riebbi
avuta, presto imparai che lo stanzün dello ‘spedale
ospitava me medesimo e lo corpo mio, allo quale
cura et attenzione fu data non in quantità minore,
bensì superiormente eccelsa. Durante la
scappatoia da codelle orride vedove sbauscianti mi
220
si disse che il mio piedarello fu tratto in difetto et
io cadetti in un fossato ricolmo di acqua. Quello
acquitrino stagnante fu di me salvezza e causa di
qualche male. La crapa, seppur ben ragionante di
raziocinio novo, potea esser girovoltata solo al lato
destriero, poiché lo collo mi fu in difetto a manca.
Ma sebbene lo piedarello et lo collo doloranti che
mi furono fubbi fortunato a non cagionarmi un
ramo in un oculo o, che so?, la mort’impersona.
Quindi era andata, sia beninteso, alquanto bene.
Acclimatato che mi fui a codesto luogo che ben
lieto fossi di trovarmici-in, un passo zoppo
annunciommi la venuta del gentil omo che si prese
cura dello corpo mio malconcio.
– “Mio buon amico finalmente avete ripreso
conoscenza! Sono l’arcidoktor Harcibald von
Foëhn, master superior di questo ‘spedale, nonchè
gran reggente dell’abbazia dei Sakri Skalzi qui sul
monte. Lassù! Vede?”, disse indicando qualcosa
fuori dalla finestra.
– “Sssine...”, repliconzi me medesimo con poca
convinzione.
– “Ahah, che sciocco ch'io mi sia!”, disse
l’arcidoktor indovinando la mia perplessità. “È
notte ed è chiaro che un forestiero come voi che
non conosce la zona non è avvezzo a scorgere le
lanternine poste alle finestre dell’abbazia. Ma non
perdiamo tempo. Sarò sincero con voi mio caro
221
amico: potevate finire male con quella brutta
caduta. Ma per fortuna vostra avete riportato solo
uno stortamento del piedarello destro e un
ammaccamento agli ossicini del collo. Nulla di che
insomma, anche se le vostre condizioni iniziali mi
avevano fatto pensare a una situazione ben più
grave. Eravate infatti preda di una terribile febbre
e nel delirio più totale andavate raccontando cose
assurde alle quali, sarò sincero, non ho voluto dare
ascolto in quanto ridicole e stupide. Cretine, dai.
Ad ogni modo data la situazione e in qualità di
gran reggente dell’abbazia, vista l’apparente
prossimità
al
regno
della
morte
che
contraddistingueva la condizione medica di voi
stesso medesimo, ho voluto ascoltare le roche
preghiere della vostra fidanzata. Quindi per
evitarle il disonore in caso di vostra morte, e nel
pieno rispetto delle regole della cavalleria, vi ho
dichiarato marito e moglie. Coi poteri conferitimi
può baciare la sposa. Auguri.”
– “Ma, aspettate: quale sposa arcidoktor?”
L’arcidoktor, che nel frattempo si era alzato
dalla sedia a dondolino e stava andando
nuovamente via, si girò e fece marcia indietro. Si
avvicinò e allungandosi verso di me prese la mia
testa fra le sue mani.
Ci fu uno scatto violentissimo della noce del
capocollo: traaack!
222
– “Qvesta sposa! Ja!?”, disse von Foëhn
girando il mio collo dall’altra parte.
Non feci in tempo a gridare perché il terrore più
atroce e inconcepibile per qualsiasi essere umano
si impossessò di me. Mentre l’arcidoktor gridava
istericamente “può baciare la sposa, può baciare la
sposa!” prima di intonare un allegro yodel fuori
luogo, un’orribile vedova, nera e ricoperta tutta
quant’a testa fasciata, mi fissava coi suoi occhi
diabolici! E proprio mentre stavo per trovare la
forza per liberare un ultimo estremo grido: plop!
Un boccaglio nella mia bocca inserito mi fu e
attraverso la plastichina trasparente di quel tubo
potei vedere chiaramente la mia anima che veniva
risucchiata in direzione di quel sozzo, orrido, nero
pozzo senza fondo che era la bocca della vedova e
dal quale decine, centinaia, migliaia di mariti
trapassati, gridavano: “Aiutooo!”
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INDICE
5 Introduzione
15 Corpi interrotti
25 Il signore dei vermi
29 La stanza dei bambini
35 La torre del cimitero
45 Il morto
49 Il treno
61 Una non storia sull’Amore, il Vuoto e il Buio
67 La tradizione del Balek in Epîstäfth
73 Un estratto dal Libro delle Duecento Verità
85 Un dialogo tra Nulla e Nessuno
89 Man Dragora
93 Proprio in quel momento una piccola stella fece
capolino tra le fronde dell'albero
101 Una cena al Papadonprich
113 Escape
119 Non s’è padroni
123 Quid est Veritas, Claudia?
125 Il gnomo dei funghi caprini
133 Luysä
147 Il palumbro
153 L'elisir di corta vita
161 Moby Lick – ovvero, La balena nella scrittura di
scena in un teatrare improvvisato nel cesso.
165 Un miracolo sconosciuto
173 Un sogno
177 Una venuta di Ishtar
183 Il viaggio di ritorno
187 Una spremuta di Satanacchia
211 Resoconto rinvenuto tra le pagine di un libro
219 Da un antico manoscritto rinvenuto a Gôgne sur
la Mére
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