Il furto commesso dal lavoratore dipendente

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Il furto commesso dal lavoratore dipendente
Articolo pubblicato sul numero 21|2014 del 09/06/2014
Il furto commesso dal lavoratore dipendente
di Gesuele Bellini
Il tema che analizziamo in questo intervento è assai complesso e richiede delle fortissime attenzioni da parte delle aziende;
esaminiamo di seguito una parte rilevante della più significativa giurisprudenza e anche alcune fattispecie che possono
essere estremamente indicative dal punto di vista operativo
Lavoro : Rapporto di lavoro : Sanzioni disciplinari
C. Cass. sent. n. 25743 del 10.12.2007
C. Cass. sent. n. 14586 del 22.06.2009
C. Cass. sent. n. 17739 del 29.08.2011
C. Cass. sent. n. 2722 del 23.02.2012
C. Cass. sent. n. 8250 del 17.06.2000
C. Cass. sent. n. 9576 del 14.07.2001
C. Cass. sent. n. 8388 del 12.06.2002
Legge n. 604/1966 art. 3
Tra le attività illecite in cui, in taluni casi, possono essere
coinvolti i lavoratori dipendenti va ricordato il reato di furto
tenendo anche presente che, oltre le ipotesi del furto di beni
materiali o del prelievo di denaro, sempre più spesso si
registrano illeciti che hanno per oggetto la sottrazione di
documenti aziendali o il rimborso di spese non dovute, per cui,
in particolare, negli ultimi anni si sono registrate numerose
pronunce giudiziarie.
Tali fattispecie costituiscono indubbiamente comportamenti estremamente gravi per il dipendente
per cui la sanzione che ricorre più frequentemente è quella del licenziamento.
Invero, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il licenziamento per giusta causa,
oltre a poter essere correlato ad un inadempimento del lavoratore di tale e tanta gravità da non
consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro, deve ritenersi legittimo
anche nella diversa ipotesi in cui il comportamento, posto in essere dal lavoratore, pur non potendo
identificarsi con un inadempimento contrattuale, sia tuttavia gravemente lesivo della fiducia del
datore di lavoro e tale, quindi, da esigere sanzioni definitivamente espulsive.
Atteso che sono variegate le circostanze del furto del lavoratore oltre che per l’oggetto e la modalità
di condotta dello stesso, anche per il meccanismo dei controlli e per la reazione della parte datoriale,
si esaminano di seguito talune diverse fattispecie in cui le predette condizioni risultano essere più
rilevanti.
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Furto in occasione del proprio rapporto di lavoro e al di
fuori dello stesso
In dottrina si suole distinguere l’ipotesi dell’illecito penale commesso dal dipendente per fatti
estranei al rapporto di lavoro, con quello commesso nei confronti del proprio datore di lavoro.
Nel primo caso si ritiene che, qualora il lavoratore commetta un furto (o altro reato) al di fuori del
proprio rapporto di lavoro, e per questo venga arrestato, se lo stato di detenzione si protrae per un
periodo apprezzabile e la data di liberazione del lavoratore è incerta, determinandosi come
conseguenza l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, il datore di lavoro possa licenziarlo
anche se in assenza di un atto di recesso si ritiene che la risoluzione del contratto si determini
automaticamente (C. Cass. sent. n. 6154 del 18.06.1999).
Quest’indirizzo è contrapposto ad un altro filone - dominante - il quale ritiene che la materia del
lavoro presenta delle peculiarità che mirano all’esigenza di tutela del lavoratore in relazione a vari
eventi e perciò che impediscono l'applicazione delle norme generali in tema di risoluzione del
rapporto; pertanto, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione non produce effetti
automaticamente, ma può solo costituire un giustificato motivo di licenziamento a norma dell’art. 3
Legge n. 604/1966.
Il datore di lavoro che licenzia il lavoratore arrestato tuttavia non può sostituire definitivamente il
lavoratore licenziato, poiché la Legge 8 agosto 1995, n. 332, che ha introdotto l’art. 102-bis delle
norme di attuazione del c.p.p., stabilisce che, in caso di sentenza penale di assoluzione, per qualsiasi
motivo, anche meramente formale, o per prescrizione del reato, il dipendente licenziato ha diritto ad
essere reintegrato sul posto di lavoro, anche a distanza di anni.
Difatti, la reintegrazione deve essere disposta anche se nel frattempo tra le parti è intervenuta una
sentenza civile di convalida del licenziamento.
Nella circostanza invece che il reato, quale per es. furto o appropriazione indebita, sia commesso dal
lavoratore ai danni del proprio datore di lavoro, l’efficacia del licenziamento è sganciata dall’esito
del giudizio penale, ma rimane legata soltanto da quello del giudizio civile.
Va ricordato, al riguardo, che il comportamento del lavoratore, anche se non incide esclusivamente
sulle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, è lesivo dell’interesse dell’impresa o
costituisce grave violazione dei doveri fondamentali del lavoratore, come quello del rispetto del
patrimonio dell’azienda, è sanzionabile con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro
inclusione o meno tra le sanzioni previste dalla specifica regolamentazione contrattuale, purché
siano osservate le garanzie previste dall’art. 7, commi 2 e 3 Legge n. 300/1970 (cfr. Cass. 22 agosto
1997, n. 7884).
Furto esiguo o di modico valore
In materia di furti del lavoratore dipendente di beni di modico valore, la giurisprudenza è divisa su
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diversi orientamenti.
Un primo indirizzo favorevole alla concezione c.d. oggettiva della giusta causa del licenziamento,
riconosce in quest’ultima non solo un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali, ma
anche qualsiasi altra circostanza o situazione esterna al contratto di lavoro, verificatasi nella sfera
del lavoratore ed idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti (in tal senso Cass., 23 luglio 1985, n.
4336; Cass., 20 settembre 1979, n. 4851 Cass., 17 febbraio 1978, n. 783; Cass., 10 gennaio 1975, n.
63, Cass., 27 ottobre 1973, n. 2800).
Per alcuni orientamenti, che fanno riferimento invece alla concezione c.d. soggettiva, la giusta causa
sarebbe invece ravvisabile esclusivamente in un vistoso inadempimento degli obblighi contrattuali,
imputabile a colpa o dolo del lavoratore.
Tuttavia, sotto il profilo pratico, la distinzione tra la prima e la seconda concezione è molto labile
soprattutto relativamente a quelle ipotesi in cui il vincolo di fiducia che lega le parti risulta essere
più intenso come, per esempio, nel rapporto di lavoro del dirigente (cfr. Cass., 20 gennaio 1994, n.
497; Cass., 29 aprile 1983, n. 2981).
Un'altra posizione ritiene che la gravità della condotta del lavoratore deve essere valutata sulla base
dell'elemento soggettivo, cioè il dolo o la colpa grave del dipendente che l’ha posta in essere
indifferentemente dall'ambito di riferimento, contrattuale o extracontrattuale.
In particolare, per questo filone giurisprudenziale la gravità del comportamento del lavoratore va
accertata sulla base del grado della sua colpevolezza, nella cui valutazione si deve contestualmente
tener conto di molteplici aspetti, tra cui la natura del fatto, le esigenze di organizzazione e la relativa
disciplina, la sintomaticità fattuale (Cass., 22 ottobre 1993, n. 10505).
La colpevolezza o il dolo, dunque, nel particolare comportamento fraudolento del prestatore sono
quasi sempre ritenuti elementi integrante la fattispecie della giusta causa, anche se in assenza di
inadempimento (Cass., 25 maggio 1995, n. 5742; Cass., 12 novembre 1993, n. 11180).
Infine un ulteriore indirizzo, che in qualche misura è complementare al precedente, si concentra
prevalentemente sulla valutazione dell'entità del danno economico causato al datore di lavoro dal
comportamento del prestatore.
Secondo un filone minoritario, invece, andrebbe valorizzato il profilo del danno al fine di escludere,
qualora questo sia esiguo, la legittimità del licenziamento (Cass., 22 ottobre 1993, n. 10505, Cass.,
29 agosto 2011, n. 17739).
Secondo tale orientamento, in diversi casi è stato ritenuta sproporzionata la sanzione di
licenziamento per giusta causa per l’esiguo furto commesso, soprattutto nel caso in cui si tratti di
dipendente “anziano” dalla carriera impeccabile; infatti, pur disapprovando il comportamento del
lavoratore, lo si è giudicato meritevole di una sanzione di minore entità rispetto al licenziamento
ritenendo che l’irrogazione della massima sanzione disciplinare, risulta giustificata solo in presenza
di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, ovvero addirittura tali da
non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.
In altre parole, l’indirizzo in argomento ha ritenuto che in tema di licenziamento per giusta causa o
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per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione
all’illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al
lavoratore in relazione al concreto rapporto che deve essere valutato in senso accentuativo a tutela
del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c.,
sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di
un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero tale da non consentire la prosecuzione
neppure provvisoria del rapporto, la cui valutazione spetta al giudice di merito (Cass., 29 agosto
2011, n. 17739, ; Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass. 22 giugno 2009, n. 14586; Cass. 1 marzo
2010, n. 5019; Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 21 maggio 2002, n. 7642).
L’esiguità del danno va comunque tenuta distinta dalla totale assenza dello stesso, nel quale ultimo
caso, secondo alcune decisioni, è indubbiamente elemento che non può essere trascurato ai fini della
valutazione complessiva del comportamento del prestatore e della sua gravità.
Per la parte maggioritaria è invece, ritenuto irrilevante ai fini della configurabilità di una giusta
causa di licenziamento l'assenza di un danno patrimoniale, ove il comportamento illecito del
lavoratore abbia determinato il venir meno della fiducia (Cass., 23 agosto 1996, n. 7768).
Tale giurisprudenza ha affermato che il rapporto fiduciario con il dipendente che si è macchiato del
reato di furto o appropriazione indebita viene compromesso in maniera irreversibile, anche quando il
valore delle somme di cui si è illegittimamente appropriato è molto modesto (Cass., 17 agosto 2012 n.
14551).
Furto in azienda: relazione col giudizio penale
Alcune sentenze hanno affrontato la questione del rapporto tra licenziamento e giudicato in sede
penale.
Al riguardo, va segnalato un filone giurisprudenziale che è dell’avviso che il giudice non sia
obbligato a tener conto dell'accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma
ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire
a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito del procedimento penale.
Secondo il citato indirizzo, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della
verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere operata solo alla stregua
della ratio degli artt. 2119 c.c. e della Legge 15 luglio 1966 n. 604.
In altre parole, il convincimento del giudice può limitarsi a tenere in considerazione tutti quei fattori
tipici per le condizioni della rescissione del contratto di lavoro, tra cui l'incidenza del fatto
commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, le esigenze
poste dall'organizzazione produttiva e le finalità delle regole di disciplina postulate da detta
organizzazione, considerazioni queste esaminate indipendentemente dal giudizio che del medesimo
fatto dovesse darsi ai fini penali, senza incorrere in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi
la legittimità del recesso nonostante l'assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime
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vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell'immediata risoluzione del rapporto
(Cass., 15 gennaio 2013, n. 802).
Furto non provato, ma fortemente sospettato: possibile
licenziamento
Secondo un certo indirizzo giurisprudenziale, nella circostanza in cui nei confronti del lavoratore vi
siano forti sospetti che lo stesso abbia commesso un furto in danno dell’azienda presso la quale
lavorava, anche se non vi sono delle prove specifiche, ma solo delle gravi circostanze indiziarie, può
essere egualmente comminato il licenziamento laddove risultino poco credibili le sue giustificazioni.
Invero, pur non essendoci la prova provata della colpevolezza del dipendente nella sottrazione di
beni aziendali, nella circostanza che la situazione nel suo complesso e le sue giustificazioni risultino
non convincenti, si ritiene comunque leso il rapporto di fiducia tra le parti e al riguardo poco rileva
se il dipendente abbia materialmente commesso o meno il furto; ciò che rileva, in questo contesto, è
la condotta del dipendente che appare gravemente lesiva del vincolo fiduciario e da tali conclusioni
ne discende la legittimità del licenziamento intimato (Cass., 10 novembre 2011 n. 23422).
Anche in merito alla valutazione delle risultanze delle prova testimoniale, quando vi sono delle
contraddittorietà, “il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri,
come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la
motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a
fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro
limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere
ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente
incompatibili con la decisione adottata” (Cass., 5 ottobre 2006, n. 21412; Cass., 26 febbraio 2007, n.
4391; Cass., 24 luglio 2007. n. 16346).
Dimissioni del lavoratore sotto la minaccia di denuncia in
caso di furto
Non sono rari i casi in cui il datore di lavoro, sorprendendo il dipendente che sottrae dei beni
all’azienda, preferisca liberarsene in modo semplice inducendolo alle dimissioni sotto minaccia di
una denuncia penale per furto.
In simili ipotesi la giurisprudenza ha più volte escluso la legittimità della condotta datoriale “sia in
presenza di una pretesa fatta valere nella convinzione di esercitare il diritto al licenziamento del
lavoratore dipendente, in modo illecito per evitare arbitrariamente la contesa giudiziaria,
conseguendo in tale ipotesi la qualificazione del fatto quale esercizio arbitrario con violenza alla
persona, di cui all'art. 393 c.p., sia nell'ulteriore eventualità che l'agente intendesse conseguire il
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profitto del mancato pagamento delle competenze maturate dalla prestatrice di lavoro subordinato,
ricadendo tale ipotesi nella contestata imputazione di estorsione ex art. 629 c.p.” (Cass. pen. Sez. VI,
19 aprile 1996, n. 403).
Va fatto rilevare tuttavia che il citato indirizzo non è del tutto pacifico giacché, secondo un altro
filone, si ritiene che la richiesta di risolvere con il recesso del dipendente il rapporto di lavoro,
risulta priva del carattere d'ingiustizia laddove non è posta in essere per soddisfare scopi personali
non conformi a giustizia e si limita a evitare al lavoratore la procedura, infamante per l'oggetto della
contestazione, della esplicitazione della giusta causa e dal procedimento penale per il furto
contestato (Cass. 20 gennaio 1999, n. 52456).
In altre parole, secondo questo indirizzo, quando risultando evidenziati oggettivi elementi a carico
del lavoratore, la minaccia datoriale del licenziamento e della denunzia deve essere riguardata, non
solo in relazione alla previsione normativa dell'art. 1435 c.c., ma in particolar modo con riferimento
a quella del successivo art. 1438 c.c., in base al quale è legittima la minaccia “ove essa consista nella
prospettazione di far valere un diritto in pregiudizio di alcuno, ma con esclusione del perseguimento
di un ingiusto vantaggio” (Cass. pen. Sez. VI, 12 aprile 1999, n. 1281).
Limiti all’uso di videoregistrazioni come prova in caso di
furto
Vi è da porsi la domanda se il controllo a distanza con una telecamera collocata da parte del datore
di lavoro che coglie il furto di un dipendente può provare un illecito disciplinare.
Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato la validità del licenziamento intimato al dipendente,
specificando che gli impianti di videosorveglianza, ai sensi dell’art. 4, co. 1 della Legge n.300/1970,
se sono autorizzati al controllo dell’attività lavorativa e per la tutela del patrimonio aziendale la
registrazione può essere ammessa come prova valida a dimostrare l’illecito del prestatore.
L’art. 4, co. 2 della Legge n.300/1970, infatti, fermo restando il divieto assoluto ed inderogabile
previsto dall’art. 4, co. 1, di installazione ed uso di apparecchiature esclusivamente destinate al
controllo dell'attività dei lavoratori, per i c.d. controlli intensionali, ammette un controllo per
esigenze organizzative e produttive, ovvero per la verifica della salute e sicurezza dei lavoratori,
anche se questo tipo di controllo può portare, indirettamente ad un controllo delle condotte dei
lavoratori; per la liceità degli impianti di controllo è comunque necessario che sussista un accordo
tra il datore di lavoro le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in assenza di detto accordo, si
ottenga un provvedimento autorizzativo della Direzione Territoriale del Lavoro, Servizio Ispettivo, il
quale dispone le modalità per l'uso degli impianti ammessi. Premesse tali condizioni, la registrazione
che riprenda la violazione operata dal dipendente nei locali aziendali è ammissibile come prova del
licenziamento (Cass., 22 dicembre 2011, n. 6468; Cass., 1 giugno 2010, n. 20722).
Si ricorda in tal proposito che la violazione dell'art. 4 St. Lav. è sanzionata penalmente (art. 38,
richiamato dall'art. 114 del D.Lgs. n. 196/2003 - Codice della Privacy - e dall'art. 171 della medesima
legge) e da luogo inoltre alla denunzia ex art. 28 Legge n.300/1970, in cui il giudice che ritenesse
fondata la domanda può adottare ogni provvedimento opportuno idoneo a ripristinare la situazione
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antecedente la messa in atto dell'attività antisindacale.
La prova acquisita, per costante giurisprudenza, ai fini della controversia giuslavoristica
eventualmente fondata su tale prova, è inutilizzabile (Cass., 17 giugno 2000, n. 8250).
Queste conclusioni, secondo un certo indirizzo, possono subire delle eccezioni in caso di
procedimento penale durante il quale si ammette che al datore di lavoro, ai sensi dell'art. 191 c.p.p.,
non si possa precludere l'utilizzabilità della prova ancorché acquisita in difformità dalla procedura
prevista.
In tema di controlli del datore di lavoro, va inoltre sottolineato che la giurisprudenza è ormai univoca
nel ritenere lecita la possibilità per lo stesso di avvalersi del supporto di soggetti diversi da quelli
indicati dagli artt. 2 e 3 Legge n.300/1970 ed addirittura estranei all'azienda, quali le agenzie
investigative private (Cass. 18 novembre 2010, n. 23303 ; Cass. 10 luglio 2009, n. 16196; Cass. 12
giugno 2002, n. 8388; Cass. 14 luglio 2001, n. 9576; Cass. 3 luglio 2001, n. 8998; Cass. 18 febbraio
1997, n. 1455; Cass. 23 agosto 1996, n. 7776; Cass. 25 gennaio 1992, n. 829).
In tal senso, si ritiene corretta la condotta ispettiva del datore di lavoro volta ad individuare la
perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti posti in essere dal dipendente, laddove entri in
gioco il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, costituito non solo dal complesso
dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il
pubblico (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass. 22 dicembre 2009, n. 26991).
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