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Milano, 1951-1954
Graziella e Salvatore
L’odore forte e pungente del vino rosso invadeva le scale di quella
che all’epoca era una delle più classiche case di ringhiera milanesi. A vederla così sembrava la scena di qualche commedia all’italiana, fatta di colori, odori e suoni inconfondibili. Ma quello che
più di tutto caratterizzava quelle mura a tratti scrostate e i panni
stesi al sole erano le persone: un piccolo mondo fatto di donne
affaccendate nel battere i tappeti e spazzare il ballatoio, bambini
intenti a giocare a campana al centro della corte e tanti tanti rumori di voci, di risate... di vita.
A quell’epoca Graziella, una ragazza di vent’anni dai grandi
occhi profondi e dal sorriso timido, lavorava come parrucchiera
per una giovane signora borghese che abitava qualche casa più
avanti, in una grande via fatta di botteghe, piccoli caffè e palazzi
da poco rimessi in piedi dopo i bombardamenti della guerra.
Quella mattina si era alzata di buon’ora per riassettare il piccolo appartamento dove viveva insieme agli zii, brave persone che
tanto la amavano e che mai l’avevano fatta sentire altro se non
una figlia.
Scese le scale con la gioia di un altro giorno da vivere, Graziella non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto per quell’odore
così forte di alcol che dalla cantina risaliva per tutta la casa.
Al suono dei suoi tacchi sugli ultimi gradini ecco far capolino
dalla porta del sottoscala un ragazzo tutto sporco in viso di polvere, sulle mani i segni purpurei e inconfondibili del vino e un sorriso distratto e ingenuo. L’aveva già visto altre volte, quel nuovo
arrivato, che da qualche mese era venuto ad abitare nella cantina
di quella vecchia casa.
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Il suo arrivo era stato seguito nel palazzo da un gran vociare
perché si trattava, come dicevano i condomini, di “un altro terrone”, venuto dal sud con la valigia di cartone in cerca di chissà
quale grande fortuna. Aveva raggiunto il fratello Angelo, che ormai da tempo abitava quello scantinato sporco e ammuffito e che
per il momento cercava di sbarcare il lunario imbottigliando vino
marsalato in fiaschi da rivendere porta a porta con entusiasmo e
umiltà.
Quella mattina la signora Mariuccia, la bella donna per cui
Graziella lavorava da alcuni anni come parrucchiera e tutto fare,
aveva alcune amiche in casa che aspettavano per la messa in piega
ed era questo il motivo della tanta fretta per cui Graziella stava
correndo per le scale, passando distrattamente davanti a quel giovane e rivolgendogli solo un veloce “Buongiorno”. La premura
non impedì però al suo volto di arrossire. Il ragazzo, capelli ricci
scuri come la pece e gli occhi profondi e così tanto espressivi, non
poté trattenersi, lasciandosi andare a una rapida risata.
Senza però neanche avere il tempo di risponderle, la vide passare davanti a sé, respirando solo una boccata di quel delizioso
profumo buono di sapone che ogni volta quella incantevole donna
lasciava al suo passaggio.
Per strada il brulicare di persone e rumori riempiva gli occhi
e le orecchie in una mattinata dal piacevole tepore primaverile.
Graziella passò davanti al caffè del signor Armando e le persone sedute a fare colazione la salutarono con un cenno veloce.
Non era una bellezza da copertina, certo, ma quella sua luce negli
occhi così piena di speranza ed entusiasmo nonostante le tante
fatiche e prove che la vita in soli vent’anni le aveva puntualmente regalato, facevano di lei una ragazza che si notava, ma che
soprattutto restava nel cuore. Non aveva mai avuto molti soldi e
del periodo della guerra portava con sé quella fame di riscatto e
quella voglia di normalità che ogni mattina la facevano svegliare
con il buon umore sul viso.
Puntuale come sempre varcò il portone di legno del grande
palazzo dove quella elegante signora abitava con suo marito, e
subito le tornò in mente la prima volta che aveva fatto visita alla
donna.
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Era stata la zia a trovarle quel lavoro da piccinina, facendole
lasciare il faticoso e poco redditizio impiego nella drogheria sotto
casa. Piena di entusiasmo, aveva fatto visita alla signora Mariuccia
il giorno stesso, presentandosi per quel posto e mettendosi a completa disposizione, desiderosa di imparare. Intimorita da quella
grande casa che in niente assomigliava alla sua così spoglia e modesta, aveva passato i primi minuti di quell’incontro a guardarsi
intorno, notando i quadri alle pareti, il grande pianoforte a coda e
il grammofono appena lucidato.
Graziella non era mai stata in una casa del genere e quasi le
mancava il fiato nel vedere tanto benessere.
La signora Mariuccia avanzò di fronte a lei con incedere aggraziato e deciso, ma soprattutto con un dolce sorriso caldo e familiare. Da subito l’aveva accolta come una figlia, ma soprattutto
era stata per lei una sorta di Pigmalione, avendo la pazienza e la
voglia di insegnarle tutto, da come fare i capelli, a come tenere in
ordine la casa, fino a cosa indossare in ogni occasione.
Graziella non aveva potuto studiare, tra la guerra di mezzo e
quei pochi soldi che giravano in casa, e così aveva imparato tutto
giorno per giorno dal mondo, dalle persone che incontrava e da
ciò che la circondava.
Appena entrata nel grande appartamento salutò con la consueta timidezza le signore presenti, sgattaiolando velocemente fino al
ripostiglio dove con grande cura il giorno prima aveva riposto il
suo grembiule e le scarpe comode.
“Raccontaci, cara: quali viaggi ha in programma nei prossimi
mesi il tuo bel maritino?” disse una voce squillante dal salotto.
“Montecarlo e Siviglia per il momento”, rispose la padrona di
casa con tono fiero e al tempo stesso malinconico, “ma ha avuto
un tale successo il mese scorso che a breve credo si aggiungeranno altre date.”
“Ho sentito così tanto parlare delle doti canore di suo marito
che ormai sono curiosa di sentirlo...”, aggiunse una signora seduta
all’estremità del divano con in mano una tazza di tè.
Mentre raccontava delle ultime esibizioni del marito, Mariuccia si soffermò a osservare una fotografia appoggiata sul lucido
pianoforte: erano insieme fuori dalla Scala di Milano. Ricorda13
va benissimo quella sera con la prima del Rigoletto e quel lungo
abito di velluto nero che aveva fatto confezionare per l’occasione
dalla sua sarta di fiducia. Una vistosa ed elegante stola di pelliccia
sulle spalle e un pettinino a tenere i capelli da un lato ne facevano
quasi il ritratto di una diva del cinema, con quel portamento e il
luccichio negli occhi sognanti. Lei e Gianni, un uomo dal sorriso
contagioso e dal grande fascino, si erano conosciuti dieci anni
prima durante la guerra in una Milano scossa dai bombardamenti
e dall’incertezza. Era stato da subito un grande amore, fatto di
piccole tenerezze, sguardi d’intesa e allegre risate. Lui cantava
a bordo delle navi da crociera, quando viaggiare per mare era un
privilegio per pochi, e ogni mese si imbarcava a Genova alla volta
delle mete europee più in vista dell’epoca. Amava moltissimo sua
moglie e solo l’emozione degli applausi del pubblico lo rendeva
altrettanto pieno di entusiasmo e orgoglio.
Timidamente fece capolino in salotto la testa di Graziella con
i suoi ricci biondo cenere ordinati e poco al di sopra delle spalle. Mariuccia, che la trattava con tutta la tenerezza e l’amorevole
cura di una madre, la presentò alle amiche. Dopo aver chiesto loro
che cosa dovessero fare, Graziella si mise subito al lavoro con la
consueta sollecitudine, iniziando a preparare la permanente per
due di quelle signore ben vestite in tailleur grigio scuro, con i fili
di perle al collo e deliziosi cappellini come copricapo.
L’odore pungente e inconfondibile dell’acido per la permanente era ormai per lei un qualcosa di familiare. Respirandone
l’aroma aveva come un sussulto di rivincita verso il mondo e la
società, un’iniezione insomma di voglia di vivere ma soprattutto
di normalità.
Era una grande lavoratrice e la fatica e il sudore non l’avevano
mai spaventata, facendo di lei una piccinina ideale: discreta, educata, instancabile, volenterosa di imparare e di conoscere. Non si
trattava solo di pettinare e mettere qualche bigodino in testa alle
clienti, ma quell’impiego rappresentava per lei la vera possibilità di
riscatto verso quella vita che fino ad allora l’aveva se non maltrattata, almeno scossa come i rami di un albero in una notte di tuoni.
Una dopo l’altra, acconciò le signore presenti senza indugiare
in futili chiacchiere, con cura e precisione. Verso le undici e mez14
za aveva già terminato e tutte erano entusiaste dei propri capelli,
pronte a fare compere e prepararsi per il grande ballo che quella
sera una delle più care amiche della signora Mariuccia dava a casa
propria in occasione della promozione del marito.
“Bene Graziella, stai diventando sempre più brava”, disse Carla, una delle sue clienti abituali, toccandosi i perfetti ricci sotto il
cappellino di lana e facendo scivolare velocemente nella tasca del
grembiule ormai bagnato e sporco cinquanta lire.
Poi indossando il cappotto proseguì: “Sto parlando di te a tutte
le mie amiche”. Nel chiudere la porta l’amica disse a Mariuccia:
“Hai fatto bene a prendere con te Graziella. Sei stata fortunata,
con tutto quello che si vede in giro. L’è proprio ‘na brava tosa!”
Appena uscite dall’appartamento, Graziella si cambiò grembiule e andò in cucina a preparare il pranzo. Aveva imparato anche a cucinare, da quando lavorava lì. A casa non aveva mai avuto
grande confidenza con il cibo, tra la zia Angela che sapeva a malapena fare un sugo di pomodoro e quella fame che si portavano
dietro dalla guerra. Un pezzo di pane e un filo di olio buono erano
già un pranzo da re con quel languore costante che non li abbandonava mai.
Mentre girava il ragù, pensò a quanto le sarebbe piaciuto un
giorno poterlo cucinare per suo marito, magari con una bella bimba sorridente accanto e un mazzolino di fiori al centro della tavola.
Tra qualche faccenda di casa e i preparativi per la serata arrivarono in fretta le sei, orario in cui Graziella salutò la signora
Mariuccia e uscì per tornare a casa.
A quell’ora la strada era un frenetico andirivieni di facce, impegnate chi a rincasare, chi a fare compere, e nell’aria si levava un
inebriante profumo di cibo, un miscuglio di odori tra il profumo
del pane caldo appena sfornato e l’inconfondibile aroma del minestrone ancora sul fuoco.
Con passo veloce e deciso percorse un bel tratto di strada assorta nei suoi pensieri, poi d’un tratto si fermò. Si trovava ancora
una volta di fronte al piccolo negozio di libri dove di tanto in tanto, appena le sue finanze glielo permettevano, le piaceva regalarsi
gli ultimi volumi messi in mostra sugli scaffali polverosi delle
novità. Pur avendo avuto poche possibilità di studiare, da bam15
bina aveva amato la lettura sin da subito, forse per quell’impiego
da commesso in una grande libreria nel centro di Milano dello zio
Augusto, o forse perché attraverso quelle storie riusciva a evadere
dalla propria realtà, perlustrando mondi molto diversi dal suo.
Non era un’appassionata di romanzi rosa come abitualmente
ci si poteva aspettare da una giovane donna dell’epoca, ma aveva una vera e propria attrazione per i gialli, da Agatha Christie
al tanto amato Georges Simenon, fino alla sua preferita Carolina
Invernizio. Quella scrittrice di romanzi d’appendice, così anticonformista per i tempi, aveva sconvolto gli animi di tanti lettori, che
trovavano così strano leggere di sanguinosi delitti o misteriosi rapimenti da una penna rosa all’apparenza tanto dolce e aggraziata.
La sepolta viva l’aveva letto tutto d’un fiato il mese prima e
ora sullo scaffale dedicato ai romanzi la sua attenzione era stata
catturata da un inedito volume, dall’inequivocabile titolo Il bacio
di una morta.
Frugò velocemente nella borsetta e vi trovò la mancia della
giornata. Sapeva che lo zio avrebbe avuto certamente da ridire,
ma lei faceva così tanto per quella famiglia, e la lettura era uno dei
pochi lussi che talvolta si concedeva, non senza qualche rimorso.
In famiglia era la sola che portava ogni settimana a casa i soldi
e dovevano servire per l’affitto, la poca spesa, che quando si riusciva si andava a fare al mercato, e le medicine per quell’emicrania così insistente che ogni due giorni colpiva la zia, impedendole
di fare qualsiasi cosa e obbligandola a stare a letto al buio.
Arrivata nel cortile del 33 dove abitava ormai da quando aveva
tre anni, venne fermata subito dall’amica Bruna che impaziente la
stava aspettando da più di mezz’ora.
“Finalmente, era ora! Ma dove eri finita?” le disse una ragazza
dai capelli neri raccolti in un delizioso chignon. “Ah, ecco il motivo di questo ritardo, ti sei fermata ancora in libreria per uno dei
tuoi sanguinolenti romanzi del mistero”, proseguì facendo cadere lo
sguardo sulla copertina rosso fuoco che Graziella stringeva al petto.
“Bruna, lo sai che mi piacciono. Che ci posso fare?” rispose,
non riuscendo a trattenere un timido rossore sul volto.
Con un’espressione di disgusto in viso l’amica cambiò immediatamente discorso: “Allora siamo d’accordo? Ci vediamo alle
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otto qui sotto. Mi raccomando non far tardi che poi finisce che non
troviamo più neanche un cavaliere libero per ballare. O almeno,
io non lo trovo perché tu riesci sempre ad accaparrarti i migliori
con quel tuo modo di sgambettare così frenetico e trascinante.”
Graziella amava ballare e non perdeva una sola serata al dopo
lavoro di Via Valtellina. Da subito si era appassionata a quei ritmi
nuovi portati dagli americani: il boogie e il charleston erano i suoi
preferiti.
“Oltre che bella è anche una ballerina, quindi!” disse con tono
divertito una voce alle spalle delle due donne. Si trattava del ragazzo che la mattina Graziella aveva visto frettolosamente uscendo di casa e al quale non aveva riservato che un veloce saluto, un
po’ per timidezza e un po’ per quel senso del dovere che non le
faceva certo perdere tempo prima di andare al lavoro.
Graziella si girò di scatto, lanciando uno sguardo severo a
quell’uomo che si era intromesso nei loro discorsi di donne.
“Sfacciato, non le hanno mai detto che non si ascoltano i discorsi altrui?” sentenziò, prendendo nel frattempo per mano
l’amica e spingendola con sé più distante verso le scale.
“Buongiorno Salvatore! Come state tu e tuo fratello?” chiese
con tono quasi spudorato l’amica.
“Bene, ma... è sempre così di buon umore?” disse ridendo Salvatore, che non riusciva a staccare gli occhi da quella giovane
donna così incantevole e sfuggevole.
“No, solo con chi non...” Bruna non riuscì neppure a finire
la frase, che venne strattonata, per finire poi contro l’arrugginito
corrimano nell’androne.
“Corri corri, ma prima o poi ce la farò a parlarti”, urlò con fare
divertito quel ragazzo che a Graziella piaceva sempre meno: troppo irruento e sgarbato per essere poco più che uno sconosciuto.
Finita la prima rampa di scale Bruna fermò all’improvviso
l’amica e seria in viso le disse: “Ma perché fai così? Non hai
visto quanto è carino?” Graziella non riuscì proprio a trattenere
una smorfia di disgusto e le rispose: “Ma chi? Quello lì? Figurati.” Poi, senza indugiare in altre perdite di tempo, salutò Bruna,
assicurandole che per le otto sarebbe stata pronta per andare a
ballare.
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Certo, quei suoi continui ritardi non erano dovuti a lentezza o
civetteria nel prepararsi per uscire, ma solo al fatto che dovesse
pensare a tutto lei in casa, tra la cena da mettere a tavola e la cucina da riassettare.
Ad aspettarla sulla soglia di casa come ogni giorno la nonna,
una donna sugli ottanta anni con il viso segnato dal tempo e dalle
fatiche di una vita senza troppi agi e gioie.
Accanto a lei la piccola Teresa, la cugina di soli sei anni, che
ormai da tempo viveva con loro. Era un vero peperino, ma in casa
certo rallegrava tutti con il suo temperamento forte e le marachelle che ogni giorno facevano indispettire gli zii, che di figli non ne
avevano mai avuti ma che con Graziella e Teresa erano stati come
un padre e una madre.
La nonna alzò gli occhi, fissando per un attimo Graziella, e
in quello sguardo riuscì a racchiudere così tante parole che alla
giovane bastò guardarla per capire, entrare di corsa in casa, nascondere il libro appena comprato sotto il suo cuscino e mettersi
subito a cucinare.
Mentre pelava le patate, entrò lo zio Augusto, un uomo sulla
cinquantina, dall’aspetto bonario e placido, a cui Graziella voleva
un gran bene.
“Ah, sei tornata”, fu la prima cosa che disse entrando nel piccolo appartamento. “Hai fatto tardi oggi. Spero che ti paghi tutti
quegli straordinari, altrimenti sai che bell’affare”, continuò con
tono severo.
Non aveva mai nutrito una grande simpatia per quella signora
così benestante ma soprattutto così gentile nei confronti di quella
che in fin dei conti era una semplice lavorante.
Dalla guerra si portava dietro una certa diffidenza nei confronti di chi aveva più di lui, e quello che lo rendeva così sospettoso
era il dubbio che quel benessere fosse frutto di una vicinanza al
Fascio, che lui da sempre aveva disprezzato. In casa ancora si ricordavano di quella mattina in cui, preso da un moto di ribellione
verso i dettami del Duce, aveva spinto dall’armadio la camicia
rossa che anni prima aveva comprato in Piazza Duomo forse per
un improvviso gesto di vanità. Spavaldo e quasi divertito, aveva
varcato la soglia del portone del 33. Non c’era persona che non
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si girasse al suo passaggio e gli sguardi della gente erano tra il
terrorizzato e il divertito.
Non riuscì a fare che pochi passi che una camionetta gli si
accostò, chiamata dal vicino di casa, come un fedele cane da guardia col suo padrone. Dall’abitacolo uscì un soldato che, con aria
incredula, lo prese con forza per il braccio. Fu una lunga giornata
per lo zio, ma ancora di più per chi a casa lo stava aspettando.
Al passare delle ore la preoccupazione crebbe e la nonna iniziò
a pensare al peggio. Poi alle cinque del mattino fece ingresso in
casa un uomo stravolto dalle tante percosse. Con indosso la camicia della mattina prima ormai stracciata e resa un cencio, si
accasciò sulla branda che condivideva con la moglie. Tutto serio
in volto, ferito nell’animo da quel potere che a stento cercava di
capire, si girò contro il muro e di quell’episodio non parlò mai più
ad anima viva, troppo colpito nell’orgoglio.
“Tra quanto è pronto?” chiese lo zio, avvicinandosi alla pentola per respirare una boccata di quel buon aroma.
“Tra mezz’ora è a tavola”, rispose lei.
Come ogni giorno allora si sedette sulla piccola poltroncina
e si mise a leggere il giornale. A ogni notizia si lasciava andare
a un sonoro commento, tra l’indispettito e il contrariato, troppo
risentito per quel mondo che stava cambiando così rapidamente
sotto i suoi occhi.
Graziella, approfittando quindi della minestra sul fuoco, corse
dalla nonna che nel frattempo si era messa a pulire qualche manciata di fagioli, regalo di una vicina di casa appena rientrata dalla
campagna.
“Nonna, stasera vero che mi accompagni a ballare?” disse con
l’euforia di una bambina che sta per scartare un grande pacco
regalo la mattina di Natale.
“Ma Graziella, su, ci siamo state due giorni fa”, le rispose la
nonna senza nemmeno alzare lo sguardo dalle mani che meccanicamente pulivano i fagioli.
Ogni volta che doveva andare a ballare c’era un piccolo rituale
da cui, poverina, non poteva proprio tirarsi indietro. La ragazza
sapeva benissimo infatti che per convincerla avrebbe dovuto pagare dazio, allungandole cinque lire, che come sempre l’anziana
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donna avrebbe messo nella tasca del vestito nero che portava da
quando Graziella aveva memoria.
A cosa poi le dovessero servire quei soldi, Graziella proprio
non lo sapeva, ma le andava bene così, pur di poter andare al dopo
lavoro per fare quattro salti con le amiche.
In fin dei conti anche alla nonna piaceva, perché si metteva
seduta con la Rosa e l’Anna in un angolo della piccola sala adibita
alle danze e chiacchierava del più e del meno.
A tavola quella sera si parlò poco per non disturbare la zia
sdraiata a letto con una terribile emicrania. Fu solo alla fine della
cena che Graziella ruppe quel silenzio ormai diventato così insopportabile.
“Io e la nonna andiamo al dopo lavoro appena finito.”
“Graziella, anche oggi? E tu non le dici niente?” disse lo zio,
rivolgendosi all’anziana madre.
“Questa non ascolta certo le parole di una povera vecchietta
come me. Lasciala fare finché è giovane”, rispose la nonna, non
riuscendo a trattenere un malizioso e complice occhiolino.
Quella donna vestita sempre di nero, che negli occhi racchiudeva tutto il suo dolore per una vita di sofferenze e dispiaceri, celava nell’animo un inaspettato senso dello humour ed
era capace di sorprendere per la sua puntuale predisposizione
allo scherzo.
I quattordici figli che aveva avuto dal marito, ormai morto alcolizzato in un vicolo di Ferrara, decimati dalle malattie e dalla
carenza di cibo, l’avevano fatta crescere troppo in fretta, scuotendola di fronte al dolore che una vita di miseria può riservare a chi
non ha vie d’uscita. Orfana, era stata data in sposa a quell’uomo
così cordiale durante il fidanzamento, ma che poi dal primo giorno di matrimonio si era dimostrato una bestia, un orco, per quella
bambina di tredici anni che immancabilmente veniva picchiata
e poco dopo messa incinta, per soddisfare gli appetiti di chi non
conosce altro se non l’istinto più animale e brutale.
Lavati i quattro piatti che in tutto avevano in casa, Graziella
prese la borsetta e si guardò un attimo nel piccolo specchio tondo
appeso dietro alla porta. Non sapeva che cosa fosse la vanità, e
così, sistemato il pettinino nero dietro l’orecchio, si avviò verso
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l’uscita sotto braccio alla nonna, che nel frattempo si era messa
sulle spalle lo scialle di sempre.
Quella sera al dopo lavoro Graziella ballò fino a che le gambe
la potevano reggere in piedi e, come sempre, catturò gli sguardi
di chi a malapena sapeva fare due passi al ritmo di quelle musiche
nuove.
Bruna cercava in tutti i modi di starle dietro, ma era come se
su quelle note Graziella potesse finalmente sentirsi libera, allegra
e leggera. Nessuno le aveva mai insegnato a ballare, ma come per
tutto il resto, le era bastato osservare i passi degli altri per saperli
ripetere con grande naturalezza.
Tra i soliti volti che ogni giovedì si radunavano in quella piccola balera, così modesta ma incredibilmente allegra, Graziella
notò anche quello di chi non avrebbe voluto vedere.
Un giovane alto e magro, appoggiato al muro opposto a lei,
rideva di gusto attorniato da alcuni amici. Era Pino, un ventenne che qualche mese prima l’aveva corteggiata per diverse sere,
fino a convincerla a uscire insieme. Per un attimo Graziella aveva
provato attrazione e affetto per lui, ma poi, dopo un paio di pomeriggi passati da sola a casa, aveva deciso di cessare sul nascere
quella relazione. Sentiva di non poter convivere con quella passione così ingombrante e presente nella vita di lui. Ogni domenica
infatti andava a correre in bicicletta al Vigorelli, pur sapendo che
quello sarebbe stato l’unico momento che avrebbero potuto passare insieme.
Fortunatamente Pino le rivolse solo un cordiale sorriso, che
lei ricambiò timidamente abbassando lo sguardo e continuando
a ballare.
Rientrando a casa, con le scarpe che le facevano male per il
gran ballare, Graziella non poté fare a meno di notare una luce
accesa nella finestra del sottoscala. Pur ignorando quel giovane,
provava una nuova curiosità verso di lui, che cercò subito di scacciare dalla mente.
Le settimane passarono con la consueta routine di gesti e di
parole, finché una sera, mentre Graziella accompagnava in strada
l’ultima cliente della giornata che era venuta a casa sua per la tinta
e la messa in piega, notò che dalla porta della cantina stava uscen21
do un giovane inaspettatamente elegante, tutto preso a fischiettare
un motivetto allegro e dal ritmo contagioso.
Per un attimo non l’aveva riconosciuto, poi eccolo: si trattava
proprio del ragazzo che Bruna chiamava... ‘Oddio come si chiamava?’, pensò Graziella. Ah sì, Salvatore!
L’aveva sempre ignorato, troppo presa dalle sue faccende ma
anche troppo timida per dare confidenza a qualcuno che non conoscesse bene, eppure ora lo vedeva con occhi diversi, forse perché ripulito dalla polvere e dal sudore, o semplicemente perché
in ghingheri pronto a uscire col fratello chissà dove. Graziella
lo scrutò dalla balaustra del primo piano, cercando di non farsi
vedere.
Quella casa era tutt’altro che silenziosa e un miscuglio di voci
e di suoni coprivano le parole che i due fratelli si stavano scambiando proprio nel cortile ormai vuoto a quell’ora. Mossa da una
curiosità che le sembrava estranea e del tutto inattesa, si sporse
per ascoltare meglio, non accorgendosi di colpire distrattamente un vaso di gerani appeso proprio lì accanto, che si ruppe in
tanti cocci. Salvatore si girò d’istinto. Tra le lenzuola appese ad
asciugare e la ringhiera arrugginita del primo piano vide gli occhi
di Graziella che indietreggiavano timidamente in cerca di un nascondiglio. Lui non disse nulla, ma non riuscì a trattenere un dolce
sorriso divertito, che per tutta la notte Graziella non fece altro che
ricordare. Nel letto continuava infatti a ripensare a quell’incontro
e a come d’improvviso vedesse con altri occhi quel giovane.
Nello stesso momento lui, dal sottoscala in cui dormiva tutto
rannicchiato su una piccola branda, pensò invece che i consigli
di Bruna avevano funzionato. Finalmente quella giovane si stava
accorgendo di lui. Era bastato mettersi un po’ in ghingheri per
destare la sua curiosità.
La mattina dopo, uscendo per andare a lavorare, Graziella
lanciò un’occhiata alla porta del sottoscala, quasi sperando che
passando, lui la sentisse e uscisse a salutarla. Invece tutto rimase
fermo.
La giornata trascorse come al solito tra i capelli da fare alle
clienti della signora Mariuccia, che nel frattempo aveva comprato
un piccolo negozio proprio sotto casa, e qualche faccenda da sbri22
gare nel suo appartamento dove a Graziella faceva sempre piacere
andare a lavorare.
Non appena infatti c’era un momento di calma chiedeva alla
signora Mariuccia di poter salire per riordinare e prepararle qualcosa per il pranzo. C’è chi avrebbe criticato tutto quel lavoro in
più, ma era lei stessa a desiderare di pulire e riassettare quella
casa che curava con tutto l’amore del mondo, poiché rappresentava forse quel che lei non aveva ancora, ma che avrebbe tanto
desiderato. Sia chiaro, non per avidità ma perché una casa come
quella era in fin dei conti il focolare ideale per vivere col proprio
marito, prendendosi cura di lui e dimostrando a se stessa e agli
altri di valere qualcosa.
“Cara, fermati a pranzo oggi. Mi farebbe molto piacere e poi
altrimenti sarei tutta sola”, disse dolcemente la padrona di casa.
Graziella acconsentì, pur sapendo che a casa gliene avrebbero
dette quattro come al solito. Allo zio ma soprattutto alla nonna
non stava bene che lei si fermasse a pranzo da quella signora.
L’egoismo di chi ha sofferto la miseria e conosce i crampi della
fame troppo spesso veniva fuori in quelle brave persone che non
riuscivano a essere felici del momentaneo benessere altrui. Non
era cattiveria, ma solo invidia per un piatto caldo un po’ più elaborato rispetto alla loro minestra di tutti i giorni.
Al rientro dal lavoro, quel pomeriggio trovò Salvatore intento
a caricare i fiaschi di vino sul retro dell’Ape. Troppo timida per
rivolgergli per prima la parola, aspettò che fosse lui a dirle qualcosa. Dal tendalino dell’autovettura ecco far capolino la testa di
Angelo seguita un attimo dopo da quella di Salvatore.
“Buongiorno Graziella, come state oggi?” le disse quest’ultimo.
“Non c’è male, grazie. E voi? Sempre dietro a quel vino, eh?”
“Abbiamo un paio di consegne da fare in Porta Nuova, poi
rientriamo”, proseguirono i due fratelli.
“Buon lavoro allora!” disse lei, salutandoli con un dolce sorriso.
Non fece in tempo a fare un paio di gradini che sentì una mano
afferrarla al braccio e quell’attimo le sembrò durare un’eternità.
Sorpresa per quel gesto così avventato e inatteso, si girò di scatto,
sperando con tutta se stessa che si trattasse di quel ragazzo dai
grandi occhi profondi.
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