1 Cristina García Pascual (Universitat de València) QUESTIONI DI

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1 Cristina García Pascual (Universitat de València) QUESTIONI DI
Cristina García Pascual
(Universitat de València)
QUESTIONI DI GENERE E DIGNITÀ UMANA*.
Il titolo del mio intervento è “Questioni di genere e dignità umana”. Credo che quello
che ci si aspetta da me, è che introduca nel dibattito sulla dignità umana ciò che è stato chiamata
la “prospettiva di genere”. Il mio punto di partenza è che la dignità delle donne non è diversa
dalla dignità degli uomini. Uomini e donne hanno in comune una stessa umanità e quelli che
sono gli standard di una vita degna per gli uomini sono alla stessa maniera gli standard di una
vita degna per le donne. Uomini e donne devono poter sviluppare le loro capacità liberamente
come condizione di dignità, e questo sviluppo viene reso possibile dal quadro normativo dei
diritti umani.
Questo punto di partenza, nonostante non sia cosi ovvio come potrebbe sembrare, non lo è
stato almeno all'interno del pensiero femminista. Piuttosto si tratta di un’idea controversa e la
sua affermazione richiede una giustificazione, che proverò a dare nel breve tempo di cui
dispongo.
Bisogna ricordare, che la lotta per la dignità, storicamente, è stata lotta per il
riconoscimento dei diritti. E proprio questa è stata la più classica delle rivendicazioni del
movimento femminista: la parità di diritti tra uomini e donne. Lo sviluppo della democrazia in
tutto il XX secolo sembrava aver soddisfatto quest’uguaglianza dinanzi alla legge e, tuttavia, ha
condotto il femminismo ad altre rivendicazioni, giacché l'uguaglianza formale non aveva
distrutto da sé la situazione di discriminazione in cui molte donne vivevano e vivono.
Le teorie femministe si sono mosse dalla domanda di cittadinanza politica delle donne
(suffragio elettorale) e riconoscimento dei diritti, alla maniera di Mary Wollstonecraft e Olympe
de Gouges, per giungere ad un'esplosione di teorie che – assumendo che l’uguaglianza di fronte
alla legge fosse stata conquistata, ma non era ancora sufficiente per affermare una reale parità
tra uomini e donne – hanno messo in discussione la presunta neutralità degli ordinamenti
giuridici, le trappole tese dalla nozione di “soggetto astratto” e, infine, sia l'unità morale del
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Giornata di studio “La dignità dell’uomo: testo e contesto”, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli
Studi di Modena e Reggio Emilia, Modena, 14 ottobre 2010. 1
soggetto, sia l’idea di dignità umana: con tutto ciò hanno messo in dubbio la capacità del diritto
di servire agli scopi della liberazione delle donne. Quando Carol Gilligan distingue tra due
imperativi morali, uno di sesso maschile (imperativo di rispetto per i diritti degli altri e, quindi,
di protezione contro le interferenze) e l’altro, concernente il mandato femminile (imperativo di
cura, una responsabilità di comprendere e alleviare i problemi "reali e riconoscibili” di questo
mondo) senza dubbio ella dà voce a un flusso di pensiero femminista che ruota intorno alla
diffidenza rispetto al diritto o, ancor di più, che rifiuta il diritto in quanto, di per sé, espressione
della ragione maschile o, se si vuole, della istituzionalizzazione del patriarcato.
Poiché si tratta di un’evoluzione delle teorie femministe ben nota, qui vorrei porre in
discussione tanto l’affermazione della parità di fronte alla legge per le donne, là dove non si
riconosca il diritto alla maternità, quanto la tesi che considera il diritto come strumento
esclusivamente maschile e, pertanto, inadeguato al fine di favorire le pretese di emancipazione
delle donne.
Credo che il riconoscimento di un eventuale diritto alla maternità nella sua dimensione
positiva e negativa influenzi direttamente lo status giuridico e politico delle donne nella società.
La cittadinanza è stata tradizionalmente legata all'idea di soggetto autonomo, in grado di
partecipare alla decisione politica dalla sua posizione libera da vincoli, mentre la capacità di
agire segna il passaggio dalla minore alla maggiore età. Se alle donne è negato il potere di
prendere decisioni circa il proprio corpo, sul loro futuro, e se generare e portare avanti
gravidanze non forma parte dell’insieme di decisioni riguardanti la loro sfera privata, allora la
cittadinanza delle donne e la loro capacità di agire risultano gravemente danneggiate, e ciò
restituisce attualità alla più tradizionale rivendicazione di uguaglianza dinanzi alla legge.
Il diritto alla maternità legato alle capacità naturali che differenziano le donne dagli
uomini, è, anche se a volte solo implicitamente, l'elemento centrale di una teoria dei cosiddetti
diritti specifici, sui quali si concentrano anche le critiche dirette contro l’unita del soggetto
morale. In primo luogo ho intenzione di affrontare queste critiche, per analizzare, in seguito, i
possibili contenuti di un diritto alla maternità prima facie inteso come libertà (tanto positiva
quanto negativa).
2. IL PROBLEMA DEI DIRITTI INDIVIDUALI E L'UNITÀ DEL SOGGETTO
ASTRATTO
L'obiettivo della parità dei diritti tra uomini e donne all'inizio è stato visto con sospetto da
un settore significativo del femminismo negli anni Settanta del secolo scorso. Da un lato, si
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sostiene, correttamente, che le donne hanno bisogni specifici legati alle loro capacità naturali e
che tali esigenze non sono soddisfatte semplicemente rinforzando le garanzie, come se la
differenza sulla quale questi bisogni si giustificano fosse soltanto circostanziale. I sistemi
giuridici dovrebbero, allora, necessariamente riconoscere i diritti esclusivi delle donne.
D'altra parte, si va oltre e si afferma che, il fatto che in poche Costituzioni o sistemi
giuridici appaia la donna come soggetto differenziato di diritti, è la prova che il diritto non è lo
strumento appropriato per salvaguardare le loro aspirazioni di libertà e uguaglianza. Da
significativi settori del femminismo si sostiene, oggi, che le donne hanno i loro propri diritti e la
mancanza del loro riconoscimento illustra il carattere ideologico e non neutrale del diritto stesso.
Ma quali sarebbero questi diritti propri delle donne? In che modo avrebbero modificato la teoria
generale dei diritti umani? In altre parole: si può tradurre la differenza in termini giuridici?
La teoria dei diritti umani riposa, com’è noto, sulla particolare rilevanza di questi per
soddisfare esigenze di dignità, uguaglianza e libertà. Il loro rapporto con i bisogni fondamentali
di tutti gli esseri umani giustifica sia la loro attribuzione o imputazione universale, sia che la
loro protezione sia la ragione d'essere della comunità politica. Inoltre, come è stato detto, i diritti
fondamentali non sarebbero niente più che i diritti umani resi "operativi tramite la loro
istituzionalizzazione" (La Torre, M., 2007, p. 1). Alcuni giuristi, come L. Ferrajoli, hanno
definito i diritti umani mediante un argomento che segue un ordine inverso. I diritti umani
sarebbero quelli che vengono imputati a tutti, intendendo per “tutti” le persone senza ulteriori
attributi e prescindendo della natura degli interessi tutelati. Così sarebbe l’imputazione
universale ciò che ci permetterebbe di qualificarli come diritti umani e non sarebbero, al
contrario, il loro contenuto o la loro speciale rilevanza a giustificare la loro attribuzione
universale. In ogni caso, senza entrare nel merito di questo dibattito, possiamo dire che queste
due prospettive affermano, come presupposto o come risultato, una certa coesione tra i soggetti
che formano il gruppo qualificato dallo status di persona, una certa unità di bisogni, di capacità
da sviluppare e di pretese nonostante la loro diversità.
Nondimeno, quando nel discorso universalista dei diritti dell'uomo si fanno strada le
rivendicazioni delle minoranze culturali, dei disabili, o delle donne, ci sono giuristi che hanno
creduto di certificare il fallimento di quel medesimo discorso e di avere la prova che i bisogni, le
rivendicazioni, le aspirazioni di vita non possono essere generalmente materializzate col
discorso dei diritti. In questo senso, secondo un settore del pensiero femminista, l'appello
all'universalità si rivela come uno strumento di oppressione. Il diritto è uguale in situazioni
diseguali e con ciò occulta e permette il perpetuarsi della discriminazione.
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Questa visione del diritto come strumento di standardizzazione insensibile alla diversità
naturale, ben si riflette nelle parole di Iris Marion Young, quando allude al "dilemma della
differenza", vale a dire, alla tensione tra universalismo e specificità dei diritti nella quale
rimangono intrappolati, a suo avviso, alcuni movimenti sociali contemporanei che lottano per i
gruppi oppressi. Young dice che questi movimenti "in primo luogo, devono continuare a negare
che ci siano differenze essenziali tra uomini e donne, neri e bianchi, persone abili e disabili ...
Ma d'altra parte ritengono necessario dire che esistono differenze di carattere gruppale tra
uomini e donne, bianchi/e, e neri/e, persone con piene capacità fisiche e disabili che fanno sì che
l'applicazione di un principio rigoroso di parità di trattamento ... sia ingiusto"(Young IM, 1996,
p.122).
Young, come altre femministe, ha una visione negativa del diritto e considera il ricorso
all'argomento dell'universalità dei diritti come uno strumento per realizzare l'uniformità,
schiacciando le differenze di gruppo e negando opportunità a chi non può essere equiparato al
modello del maschio, borghese, bianco e in pieno possesso delle sue facoltà mentali e fisiche.
Contro questa legge uniforme dirà: "L'obiettivo non è quello di fornire un indennizzo speciale a
coloro che si allontanano dalla norma fino a quando riescano ad arrivare alla normalità, ma è
quello di de-normalizzare le forme nelle quali le istituzioni formulano le loro regole, rivelando
le circostanze e i bisogni plurali che esistono o dovrebbe esistere, tra loro"(Young I.M., p. 124).
Si afferma, cosi, che il diritto è un prodotto progettato per soddisfare gli interessi dei
soggetti più potenti all'interno di una società, attraverso una critica che sembra costruita
piuttosto dal punto di vista della filosofia politica che da una prospettiva giuridica. Allo stesso
modo che la teoria marxista respingeva il diritto, perché era espressione degli interessi della
borghesia e strumento di oppressione del proletariato, il diritto sarà ora, per alcune femministe,
espressione del patriarcato e uno strumento di oppressione delle donne indirizzato alla
perpetuazione di situazioni discriminatorie.
In questa analisi, ciò che innanzitutto provoca perplessità concerne le sue conseguenze
sconcertanti. Come possiamo concepire un diritto che non utilizzi l’espediente della universalità
o del soggetto astratto? Come possiamo immaginare la de-normalizzazione, se la legge è uno
standard, una norma? Ma, soprattutto, come possiamo ragionare prescindendo dalla pretesa di
universalità di ciò che affermiamo? La posizione di Young si presenta come un invito a che il
diritto persegua un corretto trattamento delle differenze di gruppo, ma il suo argomento non
intraprende, alla fine, questo cammino. Invece, Young sosterrà che, insieme a diritti generali
riconosciuti a tutti gli individui, i sistemi giuridici dovranno garantire diritti specifici, secondo le
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circostanze particolari di alcuni gruppi. Ma anche qui, rimaniamo pieni di dubbi: forse che non
si mettono a rischio le differenze individuali, se si dissolvono nella differenza di gruppo?
La tesi di Young equivarrebbe a ciò che è stato chiamato "l’essenzialismo" del movimento
femminista. Sarebbero "essenzialisti" gli argomenti che parlano di donne o di genere, senza
rendersi conto che di nuovo si sta cadendo in una generalizzazione che cancella le differenze.
Cioè, molte opere classiche del pensiero femminista sarebbero "essenzialiste", per esempio,
perché quando pensano alla realtà delle donne si pongono solo i problemi di un settore di queste:
delle donne bianche, di classe media o alta e di cultura occidentale. Questo sarebbe, quindi, un
discorso insensibile alla situazione e ai bisogni delle donne di altre razze, status sociali, culture e
religioni.
La critica del diritto e dell'uso del soggetto astratto diventa, così, un argomento a “china
scivolosa”, in primo luogo, perché non è possibile affermare l’uguale umanità degli uomini e
delle donne, e poi perché nemmeno è possibile, senza fare dell’"essenzialismo", parlare di
genere, cioè parlare delle donne come un gruppo qualificato da elementi comuni, allorché
l'esperienza del sessismo non è vissuta in modo uguale nel contesto della razza, della classe,
dell’etnia, della religione o di altre differenze (Minow, M. e Spelman, EV, 1990, pp.1597 ss.).
Ma una volta che ci ritroviamo all’interno di un gruppo qualificato dalle esperienze in comune,
in che posizione si trovano le differenze individuali? Se la soggettività umana ha come
conseguenza che le stesse esperienze, ad esempio, di discriminazione non siano vissute nello
stesso modo dalle sue vittime, anche il riferimento al gruppo di donne, ad esempio, delle schiave
nere, in questo caso sarebbe un "essenzialismo" che nasconde differenze.
La critica del soggetto astratto può anche essere auto-distruttiva. Se ogni donna parla dal
proprio punto di vista, sembra difficile stabilire una sorta di principio che dia contenuto a una
teoria. Nella sua origine il femminismo, per definizione, è un universalismo costruito sull'idea
che l'oppressione delle donne sia trasversale rispetto a razze, culture, religioni e status sociale. In
qualche modo il genere è costruito, in parte, dalla consapevolezza di essere vittima di
discriminazione o di appartenenza a un gruppo discriminato e, in parte, dal punto di vista di
colui che discrimina, il cui sguardo è una sorta di elemento unificante dei soggetti che
potrebbero non avere nulla in comune, al di là del fatto di essere l'oggetto del suo sguardo. Per
chi discrimina in base al sesso è il sesso stesso (l’essere donna) che rende il soggetto inferiore,
indipendentemente dalla sua razza, religione, cultura o dallo sue caratteristiche specifiche.
Pertanto, come dice Okin "le teorie emerse in contesti occidentali possono chiaramente essere
applicate, almeno in gran parte, alle donne che vivono in contesti culturali molto diversi.
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Ovunque, in tutte le classi, in tutte le razze e in tutte le culture si trovano analogie nelle
caratteristiche di questa disuguaglianza, così come per quanto riguarda le sue cause ed effetti,
ma spesso la sua estensione o la gravità differiscono" (Okin, SM, 1996, p. 203). Spesso, per
costituire una concreta espressione di una cultura o di un genere, la critica alla teoria dei diritti
umani confonde il contesto di produzione della regola con il suo contesto di giustificazione. Se
in un particolare contesto (occidentale o orientale), in un momento specifico (presente o
passato), si afferma la giustezza di una certa teoria, il valore di questa non si dovrebbe discutere,
esaminando solo la sua origine, ma necessariamente entrando nel suo merito, indipendentemente
dal contesto di produzione (La Torre, M., 2000, p. 19).
Tutto ciò non significa che nel processo d’individuazione dei membri del gruppo si
debbano ignorare le differenze individuali. Piuttosto, queste dovrebbero essere analizzate in
modo che si possa realizzare la giustizia concreta. Ma dare conto delle differenze, affermare
diritti specifici, o misure di azione positiva o di discriminazione inversa, non deve allontanarsi
dal diritto. Al contrario, in questi casi si tratta di una funzione dell’ordinamento giuridico in uno
Stato costituzionale. Infatti, tale funzione consiste nel proteggere e salvaguardare le differenze e
nell’eliminare le diseguaglianze e le discriminazioni. Per questo l'affermazione di diritti
specifici non è un argomento contro l'universalità dei diritti umani, ma piuttosto un meccanismo
che consente la loro piena realizzazione. L'universalismo dei diritti può essere inteso in due
modi. In senso forte, "l'universalità significherebbe che tutti i diritti del catalogo dei diritti umani
dovrebbero essere attribuiti a tutti gli esseri umani con assoluta indipendenza dalle loro
circostanze personali". In senso debole, invece, esso "significherebbe che [i diritti] vengono
attribuiti a tutti gli esseri umani che si trovino, o siano, in una situazione particolare che
generano bisogni specifici, bisogni che danno giustificazione a quest’attribuzione (ma non per
chi non si trovi in tale posizione)" (García Manrique, R., 2004, pp 48-49). Il soggetto "donna",
come titolare dei diritti umani specifici, non comporta in nessun caso una rottura nella teoria
della universalità di questi, se intendiamo l'universalità in senso debole. Così come si possono
dare diritti fondamentali relativi a certe situazioni sociali e posizioni (il diritto di sciopero
rispetto ai lavoratori), del pari possiamo parlare di diritti specifici delle donne aventi carattere
universale, per esempio, del diritto alla maternità.
3. IL DIRITTO ALLA MATERNITÀ COME LIBERTÀ POSITIVA
Come ho anticipato, nel cuore di ogni affermazione dei diritti specifici delle donne si trova
il diritto alla maternità, anche se in pochi sistemi giuridici positivi esso si riscontra come diritto
espresso.
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Il diritto alla maternità è configurato come una libertà prima facie positiva (o libertà di)
che è appunto la libertà di generare e di portare avanti la gravidanza. E allo stesso tempo deve
concepirsi come libertà negativa (libertà da), cioè come il diritto delle donne a non essere
costrette a diventare mamme contro la loro volontà: si tratta di un’immunità del corpo contro la
servitù (Ferrajoli, L., 1999, p. 85.) In secondo luogo il diritto alla maternità è anche un diritto a
prestazioni nell'ambito della sanità pubblica, che deve garantire condizioni che favoriscano le
donne ad avere bambini liberamente.
La secolare incapacità dei sistemi giuridici di dare conto della differenza sessuale,
evidente nella negazione della autodeterminazione in materia riproduttiva, ha legato spesso il
destino delle donne ai gruppi più svantaggiati della società. Poiché le donne non sono autonome,
per tutto il XIX secolo cammineranno assieme alle classi lavoratrici per rivendicare la
cittadinanza politica. Poiché alle donne non è permesso di decidere per se stesse, apparterranno
alla stessa categoria dei minori. Donne e bambini saranno soggetti tutelati in quanto non in
grado di capire o gestire i propri interessi. In definitiva, poiché il corpo delle donne presenta una
natura diversa, le donne e gli schiavi (Arendt, H., 1993, p. 78) si troveranno in alcuni momenti
della storia a condividere un comune destino con gli animali e i beni materiali, tutti oggetti del
diritto di proprietà. Usando un'espressione di Simone de Beauvoir, le donne hanno rappresentato
così la più "pura alterità" (De Beauvoir, S., 1999, p. 52), che ha comportato una concentrazione
di posizioni discriminate e la più radicale rappresentazione della disuguaglianza.
3. 1. Maternità vietata. Libertà di portare a termine la gravidanza di fronte alle
coercizioni.
Per eliminare le discriminazioni occorre, allora, affermare l'autonomia, la capacità di
agire, e la personalità della donna, elementi tutti difficili da mantenere se le si nega il diritto
all'autodeterminazione in materia riproduttiva. Tuttavia, ed è interessante, sia nella teoria
femminista sia nella teoria del diritto, allorché si parla di diritti specifici delle donne, piuttosto
che al diritto alla maternità tradizionalmente si fa riferimento al diritto all'aborto. C'è una storia
di rivendicazione del diritto all’aborto nel movimento femminista, che non corre parallela alla
rivendicazione del diritto alla maternità. Anzi, si potrebbe dire che nelle figure centrali del
pensiero femminista, prima che la configurazione della maternità come diritto, troviamo la
maternità concepita come un peso, come condizionamento biologico, come situazione che
esclude o rende impossibile la presenza nella vita pubblica delle donne, cioè essa viene intesa
come un destino del quale bisogna liberarsi. Se le donne vogliono essere padrone di se stesse e
conquistare l’uguaglianza, la realtà della maternità sembra dover essere ignorata. Vale ricordare
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a questo proposito, ancora una volta le parole di Simone de Beauvoir, per la quale "la donna è
un uomo con un corpo che la disturba, soggetto a processi che le sfuggono ed esposto alla
riproduzione" (De Beauvoir, S., 1998 , p,). Per una pensatrice come S. de Beauvoir, l'immagine
della donna intrappolata in continue gravidanze, anche rischiose per la sua salute, senza la
libertà di coltivare altre occupazioni, non è una realtà superata o propria solo di paesi lontani,
ma una realtà fin troppo vicina.
Questo modo tradizionale di affrontare la questione della maternità ha impedito di
considerare adeguatamente contesti nei quali la decisione di generare o portare a termine una
gravidanza è perseguita o punita severamente. In nome della liberazione dalla maternità, intesa
come un peso, si è dato sostegno a politiche di controllo delle nascite, a volte coercitive, talvolta
anche presentate come benefiche per le donne. Esempio ben noto sono le campagne di
sterilizzazione in India e la "politica del figlio unico" praticata in Cina, così come lo sono altre
normative che disciplinano le nascite, alterando le opportunità (accesso alla casa, servizi sanitari
...) in modo così drammatico, che i cittadini non hanno altra scelta che comportarsi come il
governo richiede.
Nello stesso momento in cui si effettuano politiche per il controllo delle nascite in alcuni
paesi asiatici sulla base di teorie neo-malthusiane, nei paesi sviluppati sono incoraggiate
politiche pro-nataliste. In entrambi i casi, le donne sono le principali destinatarie dei messaggi;
sia quando si glorifica la maternità incoraggiandole alla procreazione, sia quando le si scoraggia,
ricordando loro le preoccupazioni per il futuro dei propri figli e la migliore qualità di vita delle
famiglie con pochi figli. Inoltre, alla popolazione femminile sono indirizzati incentivi per la
fertilità, oppure vengono distribuiti contraccettivi, ovvero sono oggetto di campagne di
sterilizzazioni: tutte misure, queste, raramente accompagnate da informazioni e cure efficaci per
la salute delle donne. Questo tipo di campagne mostrano una visione puramente strumentale
delle donne, convertite in mezzi (spesso attraverso imposizioni e coercizioni) mediante cui
disincentivare o promuovere le nascite, intese come una esigenza dipendente dal contesto. Il
corpo femminile sembra appartenere alla società, per servire interessi eteronomi, ignorando le
decisioni, i desideri, i progetti di vita, i sentimenti, in ultima analisi, l’autonomia o la capacità
della donna di gestire i propri interessi.
Con questo non voglio dire che la preoccupazione di molti paesi in via di sviluppo per la
crescita della popolazione sia una preoccupazione illegittima. Aveva ragione Mill, quando
diceva che «non si è ancora giunti a riconoscere che dare esistenza a un figlio senza la sicurezza
di potere non solo fornire cibo per il corpo, ma anche istruzione e educazione per il suo spirito, è
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un crimine morale contro la prole infelice e contro la società"(Mill, J., S., pp.193-194). Tuttavia,
qualsiasi misura intesa a rafforzare la responsabilità per la nascita non può essere costruita
contro le donne, sulla loro cosificazione o riduzione a semplici macchine di riproduzione in
grado di essere ferme o mese in moto, sulla base delle esigenze della comunità. Tali misure
devono basarsi, piuttosto, sul miglioramento delle posizione sociale delle donne. "Non
sorprende che – come spiega Amartya Sen – in generale la riduzione del tasso di natalità sia
stata associata al miglioramento della posizione delle donne, mentre la possibilità di fare sentire
la loro voce, di solito è intesa come conseguenza dello sviluppo delle opportunità d’istruzione e
partecipazione alla vita politica "(Sen, A., 1995, p. 6).
In definitiva, sia le misure di controllo delle nascite, sia quelle volte a promuoverle
devono essere basate sul pieno rispetto dei diritti delle donne. Non sembra legittimo che lo
sviluppo delle politiche di controllo delle nascite sia costruito su qualche argomento per cui sia
negata ogni possibilità di opportunità di sviluppo personale di educazione. E nemmeno
risultarano legittime le politiche pro-natalità che danno sussidi alle madri per dedicarsi
esclusivamente alla cura della loro prole o esaltano la figura materna e la sua funzione sociale,
sacrificando la presenza delle donne nello spazio pubblico.
3. 2. Libertà di gestazione e nuove tecnologie
Oggi raramente il femminismo costruisce la liberazione delle donne attraverso la
negazione della maternità. Decidere di non avere figli non rende le donne delle fallite e averli,
anche se è sempre costoso, non necessariamente le sottrae alla vita pubblica, soprattutto in
presenza di politiche adeguate per conciliare lavoro e vita familiare. Adesso, la riflessione sulla
maternità subisce, invece, l'impatto delle nuove tecniche di riproduzione assistita e delle loro
prospettive di sviluppo futuro, che ci permettono di immaginare nuovi scenari e, dunque, di
proporre un nuovo rapporto tra le donne e i loro corpi. Il femminismo è aperto, quindi, al
dibattito sulle nuove tecniche di riproduzione assistita e alla valutazione del loro impatto sullo
status delle donne nelle società contemporanee. Particolarmente controversa, in questo senso, è
la cosiddetta maternità surrogata, o utero in affitto, vale a dire il contratto, reso possibile dai i
progressi della tecnologia della riproduzione, attraverso il quale viene pagata una donna per la
gestazione di un embrione per conto altrui.
I contratti di maternità surrogata sono possibili oggi in alcuni paesi europei come Gran
Bretagna, Olanda, Ungheria e Norvegia e al di fuori dell'Europa, in Australia, Stati Uniti,
Israele, Sud-Africa, Brasile e Corea. In Spagna questo tipo di contratti è vietato.
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La maternità surrogata è un buon esempio delle possibilità offerte alle donne dalle nuove
tecnologie riproduttive, possibilità che possono essere interpretate sia come nuove forme della
loro oppressione, mercificazione o degradazione (Sandel, M. 1998), oppure come mezzo di
liberazione, affermazione di autonomia e controllo del corpo (Shalev, C., 1989).
A quest'ultimo riguardo, l'avvocato israeliano C. Shalev sostiene la forza di
emancipazione delle tecniche di riproduzione, che consentirà alle donne la possibilità di unire
due aspirazioni che sembravano impossibili da conciliare: da un lato, la liberazione dalla servitù
del corpo, il cosiddetto orologio biologico, la gravidanza e il suo carico e, dall'altro, il desiderio
di avere figli geneticamente propri. Le nuove tecnologie, sostiene, consentono il passaggio dalla
libertà negativa, il diritto di non procreare introdotto dalla contraccezione, alla libertà positiva, il
diritto di procreare, quando, con chi e con i metodi che si desidera. (Shalev, C., p.32).
Non sembra casuale che la difesa di questi contratti da parte di Shalev si sviluppi nel
contesto giuridico-politico israeliano, dove a partire dagli anni Novanta nella sanità pubblica si è
dato un grande impulso per utilizzare le tecniche di riproduzione assistita, inclusa la maternità
surrogata. L'interesse dello Stato di Israele, tuttavia, non ha a che fare con la promozione dei
diritti delle donne e la tutela della sua salute, e nemmeno col diritto alla maternità, bensì ancora
una volta con politiche a favore della natalità, nelle quali – in questo caso – gioca un ruolo
importante e inquietante il legame di sangue come modo per trasmettere l'appartenenza politica
allo stato.
La maternità surrogata – si dice – costituisce un mezzo di emancipazione della donna, il
modello di maternità libera per eccellenza, pensata adesso come la libertà, non solo di generare
e portare avanti una gravidanza e, quindi, come un diritto esclusivo delle donne, ma concepita
anche come un diritto ad avere un bambino, di per sé riconoscibile indifferentemente al maschio
e alla femmina, ma raggiungibile solo attraverso il corpo di una donna. I progressi scientifici
nella riproduzione e la disciplina del contratto attraverso la figura della maternità surrogata
condurrebbe uomini e donne a condizioni di parità mai prima raggiunte nella storia.
La difesa dei contratti di sostituzione, avanzata da alcuni settori del femminismo, suscita
di nuovo perplessità e anche il bisogno di un'analisi più dettagliata di quanto io possa tentare
qui, per cui mi limito ad alcune considerazioni in merito a ciò che possiamo e dobbiamo
aspettarci dalle nuove tecnologie in rapporto al diritto alla maternità. Il punto di partenza per
posizioni come quella di Shalev, può essere l’analisi di Simone de Beauvoir: il corpo femminile
come oggetto di una possibile gravidanza è chiaramente un elemento condizionante, un
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handicap o un elemento di disuguaglianza naturale. Di fronte a questo, si articola il diritto di
autodeterminazione in materia riproduttiva come domanda di libertà negativa, libertà di non
essere madre, e quindi anche di libertà di abortire. Al contrario, è possibile concepire la
maternità come una libertà positiva (possibilità che non vede S. De Beauvoir), allorché posso
svincolare la fecondazione, la gravidanza e la maternità, per cui tutti questi momenti del
processo di riproduzione possono essere soggetti alle condizioni delle parti contraenti, che
liberamente e autonomamente si regolano sulla base del diritto contrattuale. Il diritto consente
qui l'autonomia sia della donna che offre il suo grembo a pagamento, sia dell’uomo o della
donna che contrattano tale prestazione. Tuttavia, non tutte le parti di questo contrato sono nella
stessa posizione: una parte mette i soldi, forse ovuli, o sperma propri, ma l’altra parte, la donna
che affitta l’utero, si offre in un processo che la trasformerà visibilmente agli occhi degli altri e,
forse, anche intimamente.
Si potrebbe dire, cosi, che soltanto pensando la gravidanza come un processo che non si
verifica in me, ma nel mio corpo o in una parte di esso, cioè solo separando il corpo dalla
personalità, dall’io o dall'individualità, si può paragonare il contributo di sperma, ovuli o denaro
con il contributo del corpo. La gravidanza è definita come una prestazione, come una attività
(anche se è impossibile dire in cosa consista tale attività), e la sua sottomissione alle leggi del
mercato si presenta come qualcosa di sorprendente al pari della la sua razionalizzazione.
Di fronte a soggetti autonomi che liberamente contrattano, i divieti sembrano paternalisti,
e la maternità surrogata si presenta come un contratto nel quale tutte le parti traggono un
vantaggio, oppure – come è stato detto – "nessuno è avvantaggiato a scapito di un danno altrui"
(De Lora, P. e Gascón, M., p. 86). È facile immaginare un contratto di vendita di bambini, in cui
tutte le parti escano avvantaggiati ovvero, in cui l'oggetto della transazione, il bambino, trovi
una famiglia e un futuro, e tuttavia possono darsi buone ragioni per rifiutare la vendita di
bambini, e limitare l'autonomia delle parti a tale riguardo.
Nel quadro tradizionale della teoria liberale, affinché il contratto di surrogazione sia
effettivamente rispettoso dell'autonomia delle donne, che affittano il loro grembo, dovrebbe
essere reversibile, cioè non potrebbero essere considerati rispettosi dell'autonomia della volontà
quei contratti che comportino la rinuncia alla titolarità di un diritto (la maternità in questo caso).
Sarebbero clausole abusive il divieto dell’aborto, o l'obbligo di farlo dopo la scoperta di
malformazioni fetali, e l'obbligo di sottoporsi all'amniocentesi. La donna che affitta il suo
grembo dovrebbe poter decidere di tenere il bambino nato dal suo grembo alla fine della
gestazione. Ma anche qui, se il contratto contiene tutte queste clausole, se la donna che affitta il
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grembo può tenersi il bambino e, soprattutto, se c’è una controprestazione economica, quale sarà
la differenza tra questo contratto e il contratto de compravendita di un bambino? Le stesse
ragioni, che ci portano ad obiettare contro lo scambio di bambini per denaro, dovrebbero essere
valide per lo scambio di gestazione per denaro.
Se così fosse, il divieto del contratto di maternità surrogata non sarebbe un divieto diretto
contro il diritto alla maternità, ma contro la possibilità di vendere il "prodotto" della gravidanza.
Divieto del tutto giustificato, anche se il ventre in affitto è il risultato di un contratto liberamente
stipulato e, di nuovo, utile a tutte le parti.
Pertanto, la mia critica alla maternità surrogata non è basata sull’esaltazione della
procreazione naturale contro la procreazione artificiale. A questo proposito si deve ricordare J.
S. Mill quando – nel Saggio sulla religione – considera irrazionale e immorale l'idea che l'uomo
debba seguire la natura come criterio per le proprie azioni. Certamente, “ci sono cose che
accadono in natura che sono proibite moralmente o giuridicamente agli esseri umani” (Mill, JS
1874, p. 105). Pertanto, se la natura richiede poco per essere genitori, allorché la paternità non è
naturale, ma richiede l'intervento di terzi (come avviene, ad esempio, nell'adozione), la sua
regolamentazione non può essere lasciata a interessi privati, per non parlare delle leggi di
domanda e offerta.
Tuttavia, l'aspetto più sorprendente della discussione sulla maternità surrogata è quello dei
suoi presunti legami col raggiungimento di un'effettiva parità tra uomini e donne. Certo, una
donna potrebbe trovarsi in una posizione di parità con un uomo, entrambi donanti
rispettivamente di ovuli e spermatozoi, quando, per esempio, decidono di affittare il grembo di
un'altra donna, ma la situazione di quest'ultima difficilmente può essere interpretata come
paritaria, soprattutto se l’affitto del grembo ha luogo contro un prezzo pattuito. La sua
partecipazione al contratto può essere libera, volontaria e autonoma, ma ciò non farà sì che il
suo contributo sia comparabile al contributo delle altre parti del contratto. Si potrebbe dire che la
maternità surrogata contribuisce alla liberazione delle donne tanto quanto può contribuire il
lavoro delle cameriere o delle domestiche all'accesso delle donne alla vita pubblica. Ma la teoria
femminista deve essere inclusiva: la liberazione di alcune donne non può significare la schiavitù
di altre donne.
Secondo alcuni settori del femminismo, la fiducia nel progresso scientifico suggerisce che
senza di esso non sarebbe possibile la parità giuridica tra uomini e donne, cioè senza il
progresso tecnologico sarebbe insormontabile la differenza naturale tra i due sessi. Così, la
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scienza ci libererebbe da noi stessi, ci guarirebbe da una malattia, e l'aspettativa di una
gravidanza extra-uterina nelle macchine diventa il sogno di liberazione o il sistema ideale di
riproduzione. È come se di fronte al razzismo la proposta fosse la possibilità di cambiare il
colore della pelle attraverso cure mediche o interventi di chirurgia estetica: un’opportunità di
liberazione per gli anziani o per chi contravviene ai canoni di bellezza del momento.
Il voler considerare le donne come cittadini ci costringe a capovolgere questa loro
rappresentazione come corpi semplici e perfettamente isolabili dalla loro individualità. La
gravidanza è un modo diverso di essere nel mondo ed è anche un modo diverso di essere
percepiti dagli altri. Lo speciale rapporto instaurato tra il feto e la madre è un rapporto unico, un
processo che coinvolge l'intero equilibrio psico-fisico delle donne. A volte il diritto ha difficoltà
a tradurre quel rapporto specialissimo in termini giuridici. Così, troviamo molte
rappresentazioni contro-intuitive e difficili da accettare come quando la donna incinta e
l'embrione (o feto) sono rappresentati come i due lati di un rapporto "adversarial" con interessi
in conflitto, o come quando si cosifica il corpo delle donne e si rappresenta come un contenitore
o, come ho detto prima, allorché si dice che la gravidanza è un'attività (ma non si sa di che tipo)
e quindi può essere alienabile.
Una regolamentazione giuridica del diritto alla maternità deve rendere conto della
situazione particolare delle donne in relazione alle loro capacità di generar, deve prendere sul
serio la loro autonomia, tutelare la loro salute e, infine, consentire loro di esercitare liberamente
le loro responsabilità. L’integrità fisica e l’autodeterminazione rispetto al corpo delle donne,
significano prima di tutto il rifiuto a essere sottomesse a decisioni eteronome, o che si
giustificano con degli interessi alieni rispetto alla donna stessa. Il corpo femminile non
appartiene alla società. Non è la società che sulla base di interessi politici o economici possa
imporre la gravidanza o la maternità. Sarebbe una lesione, come ci ricorda Ferrajoli, del secondo
imperativo categorico kantiano, per il quale nessuno può essere trattato meramente come un
mezzo o uno strumento. La procreazione non può essere considerata per scopi non propri, ma
solo come un fine in sé (Ferrajoli, L., 1990, p . 85). In secondo luogo, l'affermazione del proprio
corpo contro le interferenze esterne significa anche assumersi delle responsabilità.
Il corpo non ci appartiene come una proprietà che si possa alienare, anche se, di certo, ha
le sue ipoteche sociali. La capacità di generare porta con sé una grande responsabilità, in linea di
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principio, rispetto all'embrione o al feto e anche con riguardo a se stesse, ma anche con riguardo
agli uomini, alla famiglia, alla società, e addirittura alla specie umana.
Negare alle donne l’autodeterminazione in materia riproduttiva significa negare la loro
considerazione d’esseri autonomi, con capacità di costruire e governare il loro progetto di vita. Il
riconoscimento del diritto alla maternità rappresenta l'accesso alla maggiore età da parte delle
donne, l'acquisizione della loro piena cittadinanza e, in definitiva, l'affermazione del loro status
di individui forniti di competenza morale per decidere su se stessi.
Per condurre una vita degna, le donne come gli uomini hanno bisogno di autonomia,
capacità di agire e personalità. Hanno bisogno di autonomia, sebbene anche una vita senza
autonomia può essere ritenuta degna e sebbene l’autonomia non esaurisca il concetto di dignità.
Hanno bisogno di capacità di agire nonostante non si consideri indegna la vita dei minori o di
coloro che non possono gestire da sé i loro interessi. Infine, hanno bisogno di essere
riconosciute come essere umani e non come beni materiali o come animali, e questo non
significa negare che tutte le creature viventi o la stessa natura nel suo insieme possiedano una
loro dignità.
Affermare la dignità delle donne richiede tutto ciò, il che si riassume nel loro
riconoscimento come esseri umani completi o – come dice S. Weil – come “attenzione
creativa”.
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