messico, la guerra dei narcos

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messico, la guerra dei narcos
MESSICO, LA GUERRA DEI NARCOS
Indice
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Introduzione
Prefazione: L'infiltrazione del male
“Siamo in guerra e ci sono danni collaterali”
Il confine con glia U.S.A. E “Los Zetas”
La mappa dei cartelli
Il Plan Merida
Giornalisti in Messico: “Se informi, muori”
Sequestro di beni mafiosi
La società civile: vittima o complice?
Armi, politica e moti popolari
Gli effetti della guerra messicana
di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
a cura di
Libera Internazionale
e
FLARE Network
Cynthia Rodriguez
Renato Forte
Renato Forte
Piero Innocenti
Adriana Rossi
José Gil Olmos
Renato Forte
Renato Forte
Renato Forte
Marcela Turati
INTRODUZIONE
a cura delle redazioni
E' la guerra più cruenta e sanguinosa del nostro tempo. Una violenza dilagante che interpella anche le nostre
coscienze. Consapevoli che anche in questo caso il nostro silenzio sarebbe connivenza, complicità inerte,
colpevole inadempienza, abbiamo deciso di prendere la parola e di urlare il dolore di un popolo. Abbiamo
scelto di raccontare ciò che sta avvenendo nelle strade di Mexico City e Ciudad Juarez, negli Stati di
Michoacan, Oaxaca, Tamaulipas e in tutto il territorio del Messico. Ma non solo del Messico. La strage
quotidiana, la lunga scia di crudeltà che accompagna la storia recente del Messico, ci riguarda tutti. I suoi
effetti condizionano pesantemente non solo la vita, l'economia, l'informazione, la politica del Paese
americano, ma anche gli USA, l'Europa, l'intera America Latina. Familiarizzare con le cifre dell'eccidio, con i
nomi dei cartelli dei narcotrafficanti e con la memoria delle vittime, diventa per noi impegno di giustizia e di
responsabilità. Per queste ragioni abbiamo ritenuto di raccogliere in un dossier le informazioni necessarie per
dare una ragione alle nostre domande. Una debacle umanitaria che non risparmia più nessuno. Alcuni lo
definiscono narcoterrorismo! La “guerra al narcotraffico” è diventata una vera e propria guerra civile (o
incivile come tutte le guerre!). Una guerra che non ha ampliato il fine originario del contrasto ai responsabili
del traffico di droga e oggi non risparmia più alcun colpo e nessun obiettivo. I cartelli della droga e gli
amministratori corrotti rimangono ancora gli attori principali e i primi destinatari di lucrosi profitti il cui
bilancio supera quello delle multinazionali. Riprendendo le parole di una delle autrici del reportage, il Messico
e i messicani sono ben lontani dal vedere una «soluzione pacifica a tanto dolore».
Di fronte a tutto questo, la comunità internazionale sembra silenziosa, indifferente, inefficace mentre la
cocaina invade anche le nostre strade e continua a mietere vittime in ogni angolo del pianeta. Per nulla
inerte invece sono le mafie nostrane che che vedono crescere i proprio patrimoni grazie al traffico e allo
spaccio non solo nel nostro Paese ma in giro per il mondo.
Abbiamo sete di segni di speranza e li stiamo cercando perché siamo coscienti che la stragrande
maggioranza della popolazione messicana è composta da gente onesta. Perché abbiamo conosciuto
associazioni, giornalisti, preti, magistrati, insegnanti... che non solo non ci stanno a sopportare questa
situazione, vogliono scrollarsi di dosso questo giogo pesante. Non si rassegnano e offrono quotidianamente
competenze, energie e tempo per diffondere un'altra cultura che non sia quella della violenza e del
malaffare. Sono i testimoni autentici di un Messico che vuole cambiare. Vuole voltare pagina offrendo altri
modelli rispetto a quello del “narco” potente e ricco che proviene dalle periferie emarginate e povere.
Abbiamo incontrato vite ferite, orfani di madri e di amici, di colleghi e di figli e ne vogliono onorare la
memoria con un impegno coerente e responsabile. Questo dossier vuole farsi eco e speranza di queste
stesse speranze per trasformarle in progetto. La solidarietà internazionale è un contributo essenziale non
solo perché nessuno si senta solo nel cammino di liberazione e riscatto, ma anche per dare forza all'impegno
civile di chi, dicendo no alla violenza, alla corruzione e al guadagno illecito, vuole provare a costruire un altro
futuro per il Messico e per noi.
“SIAMO IN GUERRA E CI SONO DANNI COLLATERALI”
di Renato Forte
Nel mese di aprile (2010, ndr) ero stato invitato dal Governo del Michoacan a tenere una serie di conferenze
nei cosiddetti TEC, le Università Tecnologiche, sull'impegnativo tema “L'impresa sociale: quale possibile
risposta alla crisi economica” ed un corso di 5 giorni per operatori pubblici ed operatori ong da tenersi in
Morelia, la capitale dello Stato.
Una volta arrivato, dall'aeroporto di Città del Messico ci dirigiamo verso Morelia. Veniamo subito inghiottiti
nel solito caos cittadino e superiamo una colonna di militari e poliziotti in assetto di guerra, con armi pesanti.
Molti dei militari sono tesi e procedono lenti e guardinghi.
Chiedo ironicamente ai miei accompagnatori a chi il Messico ha dichiarato guerra. Mi rispondono, con
tristezza, «al narcotraffico, ma la stiamo perdendo». La scena si ripete lungo tutta la strada ed il giorno dopo
a Morelia, la bella ed un tempo sonnacchiosa capitale dello stato del Michoacan.
La guerra è in atto dunque, ma fatico a vederne la ragione. Poi succedono una serie di eventi che mi
lasciano perplesso.
Alla vigilia della mia terza conferenza nella cittadina di Apatzingan, vengo invitato con molta cortesia a non
parlare di «lotta alla criminalità» perché potrebbe creare problemi fra gli alunni. Lo stesso consiglio mi viene
ripetuto, con vigore, a Lazaro Cardenas, principale porto dello Stato e crocevia, da sempre, di traffici non
solo leciti.
La mattina del 25 aprile a colazione vengo accolto dai visi preoccupati dei miei accompagnatori che mi
informano che durante la notte c'è stato un attentato alla Segretaria di Sicurezza Pubblica del Michoacan. Ci
sono morti e feriti e lei è ricoverata in gravi condizioni.
Rientriamo a Morelia ed andiamo a vedere il luogo dell'attentato: è una scena di guerra. Nella recinzione del
villaggio di fronte al quale è avvenuto lo scontro ci sono buchi grandi un pugno. Non so quale arma può
averli fatti, non mi intendo di armi, anzi le aborro.
Alla sera il telegiornale riporta le dichiarazioni di un alto esponente del Governo Federale: «Sono stati quelli
di Resistencia, che hanno voluto dare un segnale». Allibisco. Resistencia è un nuovo gruppo che cerca di
opporsi alla Familia Michoacana. Cosa significa quella dichiarazione? C'è solo una risposta plausibile: la
Segretaria sta con la Familia, i loro rivali hanno lanciato un avvertimento.
Pongo domande in giro. In pochi confermano la mia tesi, altri sviano il discorso, altri ancora si trincerano
dietro la formula «E' politica. Il Governo Federale è di destra (PAN), quello statale di sinistra (PRD)».
Mercoledì 27 aprile a S. Juan di Copala una carovana di attivisti per i diritti umani viene attaccata, muoiono
una messicana ed un finlandese. In televisione il Governatore dello Stato di Oaxaca dice: «Cosa ci facevano
laggiù in quel posto?».
Nel frattempo molta emozione continua a suscitare la morte di una bambina di 11 anni uccisa dalla polizia
durante un recente conflitto a fuoco con i narcos.
Ancora, in televisione il Presidente della Repubblica Felipe Calderon Hinojosa dice pacatamente: «Siamo in
guerra e ci sono danni collaterali».Mi appare quindi chiaro che non siamo in una stagione normale di un
paese normale e neanche di fronte ad una lotta tra Cartelli e, forse, neanche soltanto tra cartelli e polizia.
Ho ripreso a fare domande e a raccogliere il poco materiale esistente. Le risposte puntuali latitano ma il
quadro d'insieme è comunque spaventoso.
Potrei fermarmi alla cronaca e raccontare di cadaveri massacrati, teste mozzate, borse colme di lingue
umane depositate in punti strategici affinchè chi deve capire capisca. Tutti fatti che raggiungono le prime
pagine dei giornali messicani e, quando sono particolarmente atroci, attraversano l'oceano e giungono sino a
noi ma in modo tale da aumentare la confusione e nascondere quello che si cela dietro l'apparenza.
Ma io non sono un complottista per natura. Osservo e, quando mi è possibile, provo a capire.
Prima marijuana e oppio, ora cocaina e droghe sintetiche
Dice Don Winslow, giornalista e scrittore statunitense che si occupa di questi problemi, che l'emergere dei
cartelli della droga messicani è «un classico esempio di legge delle conseguenze non previste».
Negli anni 20, quando l'esportazione illegale negli USA di oppio coltivato sulle montagne dello Stato di
Sinaloa cominciò a raggiungere cifre importanti il Governo di Washigton impose al Governo Messicano di
distruggere quelle coltivazioni. E così avvenne, o quasi.
Venti anni dopo durante i preparativi per la Seconda Guerra Mondiale, gli USA si trovarono terribilmente a
corto di morfina per la difficoltà di trasportarla dal sud-est asiatico i cui mari erano presidiati dalla flotta
dell'Asse. Chiesero allora al Governo Messicano di incrementare la produzione di oppio. Costruirono
addirittura tratti di ferrovia per agevolarne il trasporto.
Terminata la guerra, gli USA si trovarono di fronte al problema del consumo di eroina. Iniziò così un nuovo
braccio di ferro che culminò nel 1975 con la creazione di una task force che spazzò via i produttori dalle
montagne e li disperse, creando le premesse per la nascita del mostro moderno.
Miguel Angel Gallardo, ex poliziotto ed importante produttore, pose fine negli anni 70 alle lotte intestine tra
produttori, riorganizzandoli per piazze (plazas) e li convinse a rinunciare all'oppio per concentrasi sulla
cocaina proveniente dal Sud America e destinata agli USA. Questo non significa che le coltivazioni di
marijuana e di papavero da oppio siano scomparse dal Messico. Restano, così come resta il commercio e
l'esportazione. Hanno però perso di importanza, soppiantati da cocaina e droghe sintetiche. Miguel Gallardo
creò anche una cosiddetta Federacion che doveva derimere i contrasti tra le bande formates. Poi la
Federacion morì e nacquero così i cartelli che ripresero le lotte per il predominio del commercio.
Oggi la situazione è quantomai caotica ed in perenne movimento e cercheremo più avanti di darne una
ragionata quanto sommaria geografia. Qui è importante soprattutto segnalarne le cause inconfutabili:
- tra Messico e USA corre un confine di 3.169 chilometri
- gli Usa rappresentano appena il 5% della popolazione mondiale, ma consumano il 25% della droga che
gira nel mondo con un valore approssimato di 50 miliardi di dollari.
A questo voglio per ora aggiungerne un altro dato: nella sola Ciudad Juarez sono state ammazzate 6.000
persone, una ogni 400 abitanti, nel solo anno 2009.
IL CONFINE CON GLI U.S.A. e “LOS ZETAS”
di Renato Forte
Chi controlla la frontiera controlla il mercato
Se ne parla da anni. In Michoacan, dove ho lavorato a lungo, si raccontava dalla fine degli anni '90 di faide e
di omicidi lungo la costa del Pacifico, meravigliosa e deserta, ma nessuno se ne occupava seriamente. Erano
«cosa loro». Dei fantomatici cartelli, della ancor più fantomatica Familia. Insomma i cittadini per bene
scuotevano il capo e dimenticavano in fretta.
Poi i nomi sussurrati sono diventati più famosi dei divi delle soap opera e ora tutti sanno di “Chapo” Guzman,
di “Teo”, degli Arellano-Felix, di Beltran-Leyva e di “El Mayo” Zambada. Così come tutti sanno delle
suddivisioni in cartelli: Juarez, Sinaloa, Tijuana, del Golfo e poi los Zetas. Quest'ultimo merita un discorso a
parte per genesi e riflessi non solo sul mondo del crimine.
Ho visto le foto dei capi sulla rivista “Proceso”. Foto simili a quelle di molti latitanti: vecchie, sbiadite, di
gente ordinaria, orribilmente ordinaria, che fanno pensare alla banalità del male. Queste persone stanno
conquistando, o meglio stanno divorando un paese.
Prima di partire per il mio giro di conferenze un amico medico mi ha suggerito: «Se qualche automobilista si
comporta male mettendo a rischio la tua incolumità, tu non fare nulla. Sorridi e fa un cenno con le mani
come per dire: “scusi, ho sbagliato”. Un gesto sbagliato può essere l'ultimo. Quella è gente che spara senza
pensarci due volte».
Sempre su “Proceso” ho visto la foto impietosa del cadavere di Arturo Beltran-Leyva, seminudo e coperto di
sangue schizzato sul muro alle sue spalle. Una scena da macelleria resa assurda da una bottiglietta
semivuota di Gatorade al suo fianco. Lo sfondo è quello di una stanza spoglia di un salotto piccolo borghese,
quello di una normalità interrotta da una raffica. Ma era un capo ed era in guerra. La guerra per il mercato
della droga.
Si dice, si mormora più che altro, che i cartelli di Sinaloa e del Golfo siano i padroni della frontiera e si siano
uniti per consolidare questo dominio. La verità è che i due varchi principali verso l'eldorado USA (Tijuana e
Ciudad Juarez) sfuggono al controllo dei due cartelli e quindi i territori sono teatro di una lotta sanguinosa.
Che ci sia stata una trattativa pare accertato. I due maggiori cartelli, con i loro alleati, si sono riuniti e i
rispettivi capi (Eduardo Costilla “el Coss” e Joaquin Guzman “el Chapo”) hanno siglato un accordo per la
gestione dei territori fronterizi. E' stata una trattativa lunga che ha provocato una stagione di sangue
spaventosa a cui non han posto rimedio i 35.000 effettivi tra polizia ed esercito che il Governo aveva
mobilitato.
Secondo fonti della DEA l'accordo si sarebbe concretizzato alla fine del 2007 e consisterebbe in due punti
fondamentali: la fine delle violenze tra i cartelli sottoscrittori ed una mappa precisa di suddivisione del
territorio di frontiera. In pratica una riedizione dell'accordo di Gallardo e della sua Federacion.
Ci sono anche leggi interne che prevedono l'obbligo, quando si attraversa un territorio “nemico”, di avvisare
la controparte comunicando quanta droga si sta trasportando e in quale punto si intende oltrepassare il
confine. Chi contravviene sarà consegnato al cartello controllore che potrà disporre dei “contravventori”
come meglio crede (di solito ucciderli o consegnarli alla polizia).
Nel frattempo los Zetas, di cui parleremo diffusamente, abbandonano il cartello del Golfo e si costituiscono
come gruppo autonomo, mettendo in pericolo il fragile equilibrio. La scissione provoca alcuni inconvenienti
alla trattativa ed anche molti altri morti. Il negoziato tuttavia prosegue e, sempre secondo la DEA, si
conclude definitivamente nel febbraio di quest'anno (2010, ndr).
La DEA parla di un accordo solido, perchè di convenienza, tra il cartello del Golfo e quello di Sinaloa
attraverso il quale si controlla strettamente tutta la frontiera e quindi il traffico di larga scala. Gli altri gruppi
che controllano il resto del Paese dovranno, per forza, negoziare con loro. Dall'accordo risultano escluse
Tijuana e Ciudad Juarez dove i morti ammazzati crescono di giorno in giorno. E ci sono problemi anche a
Cohauila e Durango, ma di minore entità.
La DEA fa presente che il patto resta fragile a causa del crescere di piccoli cartelli, locali soprattutto, che
sgomitano per ottenere la loro fetta. In particolare tra il cartello del Golfo e los Zetas permangono
divergenze destinate ad aumentare.
La proliferazione di delinquenza organizzata, anche di piccola dimensione territoriale, ha fatto impennare sia
quella che con termine scorretto si definisce microcriminalità legata alle mafie (sequestri, pizzo, rapimenti
per estorsione) sia la violenza tout court.
Questi piccoli gruppi si sono estesi a macchia d'olio anche nei paesi e nelle campagne e terrorizzano la
popolazione, minacciano le istituzioni, controllano il territorio anche in maniera palese e sfacciata e fanno
crescere a dismisura l'insicurezza e la paura.
Del resto il clima generale è questo e i cartelli lo sanno benissimo. All'inizio della trattativa di cui abbiamo
parlato hanno fatto giungere un messaggio inequivocabile al Governo e a Felipe Calderon: «La pace sociale
dipende da noi, non dal Governo». Un modo diretto per mettere in chiaro chi comanda.
“Los Zetas”
Anche la seguente storia potrebbe rispondere alla legge delle conseguenze non previste come dice Don
Winslow, ma solo in apparenza.
Per rafforzare la lotta alla droga viene costituito negli anni '90 il GAFE (Grupo Aeromovil de Fuerzas
Especiales) con altresì il compito di pronto intervento contro rivolte e sommovimenti di piazza (ignoto è
ancora il nesso tra i due ruoli). Tale corpo speciale viene poi affiancato da una procura speciale per la
repressione dei delitti contro la salute pubblica (leggi innanzitutto lotta alla droga). Il GAFE viene messo alle
dirette dipendenze della Procura Generale dello Stato.
Questo percorso lo compie anche un militare di nome Guzman Decena sino a diventare capo del distretto di
Miguel Aleman, una città dello stato di Tamaulipas.
Qui, narrano le cronache, viene reclutato da tale Cardenas Guillen, capo del cartello ivi operante, con il
compito di proteggerlo dai suoi nemici. Nasce così il primo nucleo de los Zetas, composto soprattutto da ex
militari di forze speciali al servizio di protezione dei cartelli e, massimamente, dei loro capi.
Guzman capisce di aver creato una miniera d'oro. Lui dispone di personale qualificato, addestrato e ben
armato con cui difficilmente possono competere i delinquenti comuni dei vari cartelli. Si dedica a questa
paziente costruzione sino al dicembre del 2002 quando viene ammazzato in un ristorante di Matamoros,
sempre nello stato di Tamaulipas.
Al suo funerale una enorme corona di fiori porta questa scritta: «Ti portiamo nel cuore. Da parte della tua
famiglia: Los Zetas»
Alla sua morte gli subentra l'eroe della nostra storia, Heriberto Lazcano detto “el Lazca”. Ha 36 anni e viene,
manco a dirlo, dai corpi speciali dell'esercito.
Per chi conosce un po' di storia dell'America Latina in generale e del Centroamerica in particolare la dicitura
“corpi speciali” ricorda quanto di peggio, di tragico e di vergognoso è successo in quel continente.
“El Lazca” lavora sodo nel solco del suo predecessore e si prefigge un obiettivo preciso: trasformare una
struttura al servizio dei cartelli in un nuovo cartello. Il più potente di tutti.
Anzitutto prosegue la campagna acquisti di giovani militari da integrare tra gli Zetas per mantenere alto il
livello di professionalità del gruppo di fuoco. In seguito, apre uno spregiudicato gioco di alleanze, come
abbiamo visto prima. Si racconta di una riunione quasi plenaria tenuta in un campo di calcio a Matamoros in
cui ha fatto votare la possibile alleanza con il cartello di Sinaloa che è stata respinta. Di conseguenza si è
progressivamente allontanato anche dal cartello del Golfo cosa che ha provocato scontri armati ed assassinii.
Oggi lo danno alleato dei Beltran-Leyva e dei cartelli di Tijuana e Juarez, cioè in posizione assai
avvantaggiata nella lotta per il controllo della frontiera.
Ma “el Lazca”è un innovatore del crimine e l'attenzione sul suo gruppo, da parte della DEA è altissima.
Vediamo perchè.
La DEA afferma che una delle ragioni dell'accordo tra i cartelli del Golfo e di Sinaloa è il tentativo di arrestare
l'ascesa de los Zetas. I miei interlocutori hanno fornito risposte diverse su questo punto ma tutti concordano
sulla estrema pericolosità degli ex militari.
Anzitutto per il livello di armamento estremamente moderno, sofisticato e letale di cui dispongono. In
secondo luogo per il livello “professionale” dei membri attivi. A questo proposito si parla di integrazione di ex
membri della forze speciali del Guatemala, i temibili Kaibiles. Infine per l'organizzazione. Pentiti
dell'organizzazione, secondo la rivista “Proceso”, la descrivono così: al livello più basso ci sono “gli occhi della
città”, semplici cittadini che devono vedere e riferire; seguono i responsabili delle tiendas, i punti dove si
spaccia la droga; vengono poi gli armati di fascia bassa; infine, sopra di loro, ci sono “los Zetas nuevos”, gli
ex militari Messicani e Guatemaltechi equipaggiati con armi da guerra, giubbotto antiproiettile e casco in
Kevlar. A loro spettano le decisioni ed il comando delle operazioni. Parallelamente vi sono un comandante
della piazza ed un contabile che pagano i salari e raccolgono i proventi dell'illegalità.
Dunque al commercio della droga, come in tutti gli altri cartelli, si uniscono attività criminose di nuovo tipo
quali il pizzo, i sequestri, il furto di benzina su vasta scala a danno della Pemex con conseguente
organizzazione della vendita clandestina, ed il furto di camion.
Leggendaria è poi la ferocia de “el Lazca” sia con gli avversari che con i sottoposti disubbidienti. Pare che il
suo maggior divertimento sia vederli morire lentamente di fame e di sete. Per far sparire i cadaveri ne hanno
inventata una originale: la notte aprono le tombe di ignari morti e mettono a far loro compagnia l'assassinato
di turno. Forse non è esagerata la preoccupazione della DEA.
LA MAPPA DEI CARTELLI
di Piero Innocenti
Il seguente articolo è stato pubblicato sul numero di novembre 2009 del mensile Narcomafie.
Attualmente sono sette i cartelli più quotati in Messico. Il più importante – e il più violento – è ancora quello del
Golfo. Il suo leader, Osiel Cardenas Guillen, dirige l’organizzazione da un carcere americano dove si trova recluso
da circa cinque anni. Un ruolo di primo piano nell’organizzazione era stato assunto, negli ultimi due anni, da Alberto
Sanchez Hinojosa (detto “El Tony”). Questi è stato arrestato dalla polizia messicana il 5 settembre 2008 a Tabasco,
nel sud del paese, dopo che, a luglio, nelle acque del Pacifico, a Salina Cruz, era stato bloccato un sottomarino
carico di oltre cinque tonnellate di cocaina colombiana destinata al cartello del Golfo. L’arresto, a suo tempo, di
Cardenas Guillen aveva provocato una guerra tra i vari cartelli per la spartizione del mercato. Una tregua si è avuta
con un accordo raggiunto con il cartello di Tijuana, gestito dai fratelli Ramon e Javier Arellano Felix (quest’ultimo,
soprannominato “El Tigrillo”, è stato catturato dalla Polizia nell’agosto del 2006). Il “braccio armato” del cartello del
Golfo è costituito da un gruppo di paramilitari, ex appartenenti alle forze armate, denominato Los Zetas (è per
questo che il cartello, talvolta, viene indicato col nome di Golfo-Zeta). Il recente attentato a Morelia (vedi art. p.28,
ndr.), capitale dello Stato di Michoacan, con l’uso di bombe che hanno causato la morte di nove persone ed il
ferimento di oltre cento, rischia di riaccendere un conflitto tra cartelli, in realtà mai sedato. Il grave atto sarebbe
attribuibile a un gruppo legato al cartello del Golfo, già evidenziatosi per omicidi efferati, con decapitazioni e
mutilazioni, avvenuti nella stessa capitale. Il cartello del Golfo ha rapporti di affari molto stretti con gruppi di narcos
guatemaltechi; tra questi si evidenziano “los Mendoza” e “los Lorenzana”. La situazione al confine con il Guatemala
è diventata talmente preoccupante per i traffici di droga che il Governo ha deciso l’invio nell’ottobre 2008 di un
contingente di soldati per il pattugliamento di dodici zone, indicate come “pasos ciegos”, perché interessate da
traffici illeciti.
Il cartello di Tijuana controlla i circa tremila chilometri del confine con gli Stati Uniti. I fratelli Arellano furono
accusati, tra l’altro, dell’omicidio del cardinale di Guadalajara, Juan Jesus Posadas Campos, avvenuto in questa città
il 24 maggio 1993, forse per sbaglio, durante un conflitto a fuoco con appartenenti al cartello di Sinaloa. Il nostro
pagherebbe cifre milionarie nella corruzione della polizia e di altre autorità. Dal carcere di “alta sicurezza” La Palma,
di Almoloya (Stato del Messico), dove si trova attualmente recluso, Arellano continua a dirigere la propria
organizzazione che si ritiene “alleata” con il cartello del Golfo.
Il cartello di Sinaloa (o cartello del Pacifico) ha come capi Ignacio Coronel Villareal e Joaquin Guzman Lorea
detto anche “El Chapo”, famoso anche per l’evasione, nel 2001, da un carcere, sempre di “massima sicurezza”. Il
cartello si è sviluppato intorno agli anni Novanta e oggi esercita un controllo sul mercato delle droghe in ben
diciassette Stati messicani. Che gli affari vadano bene si può rilevare anche dal recente sequestro (14 settembre
2008), in un colpo solo, di oltre 26 milioni di dollari in contanti, effettuato da reparti dell’esercito a Culiacan Rosales,
capitale di Sinaloa, durante un’operazione antidroga. Si è trattato del secondo maggior sequestro di denaro
contante nella lotta alla criminalità organizzata: il sequestro record, che portò all’arresto di due persone di origine
asiatica, risale al marzo 2007, con 205 milioni di dollari in contanti, destinati al pagamento di un’ingente spedizione
di precursori chimici. Il malloppo del sequestro di settembre era invece in possesso di un imprenditore cinese
inserito in un gruppo criminale specializzato nei traffici di efedrina e di precursori chimici. Alcuni osservatori hanno
attribuito l’escalation di omicidi, registrata nei primi mesi del 2008, a una conflittualità interna al cartello dovuta a
nuovi equilibri che si stanno cercando di ricostruire. Che Ciudad Juarez sia una città pericolosa lo testimonia il
ritrovamento di trentatré cadaveri, sezionati, in un cortile del quartiere La Cuesta, in concomitanza con
un’operazione di polizia che aveva portato al sequestro di una tonnellata e mezzo di marijuana. L’episodio è del
marzo di quest’anno. Che la situazione sul piano del contrasto alla criminalità sia incontrollabile, lo testimoniano
anche le ultime notizie – 7 ottobre 2008 – fornite dalla magistratura messicana, che danno conto di sedici persone
assassinate a Ciudad Juarez e a Chihuahua per scontri fra i cartelli della droga.
Il cartello vanta moltissimi fatti di sangue e di violenza attribuiti alla propria unità paramilitare denominata “Los
Negros”, attivata per contrastare le operazioni del cartello del Golfo. Si ritiene collegato strategicamente con il
cartello di Juarez.
È la famiglia di Carrillo Fuentes a rappresentare l’ossatura del cartello di Juarez, le cui origini risalgono agli anni
Ottanta, quando il suo capo era Amado Carrillo Fuentes, soprannominato “il signore dei cieli” (per i grandi
quantitativi di cocaina trasportati utilizzando piccoli aerei), personaggio molto discreto, morto nel 1997 in una
clinica messicana durante un intervento di chirurgia plastica per cambiare i lineamenti del volto.
Il cartello Milenio è emerso nelle indagini, per la prima volta, nel 1999, quando fu arrestato Gilberto Garza
Garcia, soprannominato “El Guero”, elemento importante del cartello di Juarez. Da lui la Polizia apprese della
presenza dei fratelli Valencia che trafficavano in cocaina utilizzando la flotta di imbarcazioni per la pesca del tonno.
Nonostante l’arresto di Armando Valencia, meglio noto come “El Maradona”, avvenuto nell’agosto 2003,
l’organizzazione è in continua espansione e i suoi centri operativi più importanti sono quelli di Michoacan, Aguililla,
Jalisco e Guadalajara.
I fratelli Josè de Jesus, Luis Ignacio e Adàn Amezcua Contreras, meglio noti come “los reyes de las
metanfetaminas” (“i signori delle droghe sintetiche”), sono i padroni del cartello di Colima. Dalla prigione di
Jalisco, dove dovrebbero “alloggiare” per una cinquantina di anni per condanne subite, i Contreras, come in molti
casi analoghi, seguono in prima persona i loro affari sempre meglio remunerati per il progressivo aumento del
consumo di anfetamine che si va registrando in tutto il Messico.
L’organizzazione, infine, di Pedro Diaz Parada – il cartello di Oaxaca – ha un buon mercato in almeno sette Stati
ed è specializzata nel commercio di marijuana in particolare nell’istmo di Oaxaca. Arrestato per ben due volte,
Pedro Parada è sempre riuscito ad evadere e, sino ad oggi, non è stato ancora ripreso.
A questi sette cartelli, secondo alcuni analisti, occorrerebbe aggiungere l’organizzazione (il cartello di Jalisco)
guidata dal colombiano Juan Diego Espinosa Ramirez (detto “el Tigre”) e dalla sua compagna, la messicana Sandra
Avila Beltran (conosciuta come “la Reina del Pacifico”), arrestata nel dicembre 2007.
La disinvoltura evidenziata dai cartelli messicani nelle strategie e nelle alleanze, il ricorso a forme di violenza
incomparabili, la flessibilità nell’individuare sempre nuove rotte e nello stringere nuovi legami allorché la rete perde
qualche maglia e subisce qualche strappo in seguito a qualche operazione di polizia, il condizionamento esercitato
nei confronti degli apparati politici e di polizia dimostrano, ogni giorno di più, che la criminalità mafiosa messicana
sta portando il paese verso una situazione di irrecuperabile crisi democratica.
IL PLAN MERIDA
di Adriana Rossi
Si chiama Iniziativa di cooperazione per la sicurezza regionale – denominazione che esprime con chiarezza la
finalità ultima alla quale risponde la sua elaborazione – ma è meglio conosciuta come Piano Messico, nome
abbandonato pochi mesi fa e sostituito da Iniziativa Mérida, una modifica promossa per prudenza dalle
stesse autorità per evitare facili e poco graditi accostamenti con il Plan Colombia, di cui è fratello minore e
non meno controverso.
Il Plan Mexico è stato presentato come un piano per affrontare l’espansione e la crescente violenza delle
grandi organizzazioni criminali imperanti in Messico e con derivazioni in America centrale: i sette cartelli della
droga e le bande di sicari al loro servizio, tra i quali si annoverano Los Zetas e Los Pelones, messicani, Los
Kaibiles, ex militari guatemaltechi, le “clicas” (cellule) della Mara Salvatrucha di origine salvadoregna, che
agiscono nel sud del territorio messicano, e le bande del quartiere Logan di San Diego in California che con
la M, una derivazione della Mara apparsa nella Bassa California, coprono il territorio del nord al confine con
gli Stati Uniti.
Cifre da guerra. Feroci, spietati, i cartelli disseminano di cadaveri il territorio messicano in un crescendo di
cui non si riesce a vedere la fine. Dall’insediamento del presidente Felipe Calderón, avvenuto il 1º dicembre
del 2006, fino a settembre di quest’anno, la cifra dei morti in scontri armati, esecuzioni individuali e collettive
si avvicina ai 4 mila, di cui 2 mila solo nel breve periodo dei primi sei mesi dell’anno in corso. Cifre da guerra,
una doppia guerra, scatenatasi tra cartelli rivali e tra i cartelli e lo Stato. Dalla ricerca di mercati interni della
cocaina, agli arresti ed estradizioni agli Stati Uniti di alcuni dei capi (fattore di indebolimento di alcune
organizzazioni come il Cartello del Golfo), il dilagare del potere del cartello di Sinaloa, l’emergere di nuovi
gruppi in feroce competizione con i vecchi, storie di alleanze e di tradimenti, la ricerca affannosa di
precursori chimici come l’efedrina per la produzione dell’ecstasy, che con le metanfetamine è la nuova moda
e il nuovo mercato negli Stati Uniti: queste le cause di un conflitto che si estende per aree e regioni fino a
pochi anni fa considerate intatte ed estranee alla produzione e al traffico, come la zona del Chiapas, la
patria del subcomandante Marcos, dove ultimamente sono apparsi i primi “narco morti”.
Un bilancio negativo. Per ristabilire un ordine interno minacciato, e con una polizia incapace, inefficiente,
corrotta e infiltrata dai narcotrafficanti, il governo di Calderón ha preso la decisione di mobilitare l’esercito.
Le Forze armate messicane godono di uno statuto speciale e di una grande autonomia, nonostante siano
subordinate al potere civile. A partire dal 1995 fanno parte del Consiglio Nazionale della pubblica sicurezza
(Consejo Nacional de Seguridad Pública), dove partecipano al disegno di politiche e alle decisioni in merito
a problemi riguardanti l’ordine interno. Nel ’96 la Corte suprema ha stabilito che le forze armate possono
intervenire in questioni di ordine interno su richiesta delle autorità civili.
Su questa base il presidente, nell’impossibilità di contenere l’avanzata narco, ha schierato nel 2006 una forza
di quasi 40.000 militari e ha, nel 2007, ordinato la formazione di una forza speciale dell’esercito per frenare
l’ondata di violenza che sommerge il paese, tutte misure approvate dal 60% della popolazione secondo i
sondaggi di opinione. Nonostante siano state intercettate 50,3 tonnellate di cocaina nel 2007 e che fino al
luglio del 2008 siano state arrestate 22.000 persone e sequestrate 11.000 armi, il bilancio della lotta sferrata
è negativo, perché assolutamente insufficiente per far fronte alla minaccia dei cartelli.
Data la situazione, il governo di Calderón ha pensato (o è stato aiutato a pensare) a una soluzione di
maggiore portata, l’Iniziativa Merida, appunto.
Un prodotto made in Usa. Il governo messicano ne rivendica la paternità, ma secondo alcuni analisti
l’Iniziativa è un tipico prodotto made in Usa in materia di sicurezza. Saranno gli Usa a finanziarlo e a
rifornire il Messico e l’area centroamericana e dei Caraibi (Repubblica Dominicana e Haiti per l’esattezza) di
equipaggiamenti, materiale bellico e tecnologia per gli anni previsti dal piano, che sono, per il momento tre.
E sono gli Usa che l’hanno approvato con emendamenti rispetto alla proposta iniziale presentata al
Congresso dal presidente Bush.
I primi contatti – di cui si ebbe notizia a gennaio del 2007 – per arrivare a un accordo tra i due paesi sono
avvenuti tra il Procuratore generale della Repubblica, Eduardo Medina Mora e il Procuratore della giustizia
americana, Alberto Gonzales. Ne fece seguito un incontro tra presidenti, a Mérida (da qui il nome di
Iniziativa Mérida), nel quadro della visita effettuata a marzo da Bush in Messico e Guatemala. Nel
comunicato congiunto Bush e Calderón segnalarono i temi di interesse comune tra i due paesi, quali libertà
di commercio, democrazia e governabilità, che a loro volta poggiano su sicurezza e prosperità, che
dovrebbero contribuire alla trasformazione dell’“America del nord nella regione più prospera, sicura e
competitiva del mondo”, come recita il testo, se non fosse per la presenza della criminalità organizzata,
considerata una aperta minaccia per l’insieme dei paesi della regione, inclusi gli Usa, che condividono con il
Messico una frontiera porosa. E per risolvere il grave problema della sicurezza minacciata, l’Iniziativa Mérida
sorge come strumento per garantirla.
Gli obiettivi quindi si centrano attraverso il miglioramento della struttura e del funzionamento
dell’intelligence, della capacità operativa e del coordinamento tra gli organi di sicurezza. Ciò si dovrebbe
tradurre in una più effettiva vigilanza e controllo del territorio, specialmente delle frontiere, in una più
efficace raccolta di dati riguardanti l’ordine interno, in un effettivo scambio di informazioni tra gli organismi
di sicurezza a livello interno e con gli Stati Uniti in funzione di proteggere gli stati e i governi dalle
organizzazioni criminali e impedire non solo il flusso di droghe illecite, che transitano per il corridoio
centroamericano, ma anche la presenza di altre minacce transnazionali (terrorismo). E stranamente il
budget per il Messico e l’America Centrale appare inserito in quello più ampio della Guerra contro il
Terrorismo (War on Terrorism) presentato per il 2008 dalla Casa Bianca, tra i fondi richiesti per Afghanistan,
Iraq, Darfur, il sud del Sudan ed altri teatri di conflitto.
Lo spauracchio del terrorismo. Per l’Iniziativa è previsto lo stanziamento di 1 miliardo e 600 milioni di
dollari in tre anni, dal 2008 al 2010, a carico degli Stati Uniti. Per il 2008 il presidente Bush aveva richiesto
550 milioni per il Messico e 50 per il Centroamerica, cifre modificate dal Congresso che ha approvato
rispettivamente 400 e 60 milioni, un’inezia comparata ai 196,4 bilioni di dollari richiesti per lo stesso periodo
per finanziare le varie azioni della Guerra contro il terrorismo. Tra i fondi, 17 milioni di dollari sono riservati
per i primi due anni al Centro di Indagini e Sicurezza Nazionale (Centro de Investigación y Seguridad
Nacional – Cisen) del Messico. L’obiettivo è il rinnovo della banca dati in collaborazione con l’Istituto
Nazionale della Migrazione da integrare alla Piattaforma Messico, il sistema nazionale di sicurezza del
governo dove confluisce l’informazione di tutti gli organismi addetti all’ordine interno. Il Cisen mediante la
Piattaforma Messico informerà sugli operativi di tutti gli organismi messicani in coordinamento con gli Stati
Uniti, il Centroamerica ed altri potenziali soci, in una rete di scambi che ha tutto l’aspetto di un gigantesco
centro di spionaggio finalizzato, in teoria, a salvaguardare la regione.
Nonostante il governo messicano abbia più volte posto l’accento sulla natura della Iniziativa come
programma antidroga e anticrimine, esiste una certa inquietudine sul possibile coinvolgimento della nazione
in una guerra contro il terrorismo, che, nella peculiare visione di Washington, è associato al narcotraffico e
alla criminalità organizzata, specialmente in America Latina. Le preoccupazioni trovano fondamento in notizie
provenienti dagli Usa, smentite dalle autorità messicane, che insinuano possibili connessioni per esempio tra
il cartello di Tijuana di Arellano Felix con il terrorismo, mediante il lavaggio di capitali provenienti dal
narcotraffico, nella zona della Bassa California.
Questa denuncia, alla quale si potrebbero aggiungere quelle formulate a suo tempo contro le Maras
centroamericane accusate di mantenere vincoli con agenti del gruppo islamista di Al Qaeda, sembra
rispondere alla preoccupazione-ossessione di Washington per il terrorismo, divenuto minaccia
onnicomprensiva di tutte le altre minacce, più che riflettere una realtà regionale.
Un nuovo paradigma. L’Iniziativa Mérida non è reputata un comune programma di assistenza. È, in base
alle parole pronunciate da Thomas Sharon, segretario di Stato aggiunto per gli affari dell’emisfero
occidentale, un nuovo paradigma di collaborazione in materia di sicurezza. Altamente integrato, supera
l’ambito regionale creando un sistema interconnesso al quale partecipano anche i programmi dell’area
andina, costituendo una fascia blindata che va dalle Ande fino alla frontiera sudovest degli Stati Uniti.
Sebbene Shannon affermi che il 60% dell’assistenza destinata al Messico è diretta agli organismi della
società civile – soprattutto quelli incaricati di applicare la legge e che saranno sottoposti a riforme
istituzionali per garantire lo stato di diritto – e il governo di Calderón sottolinei il carattere di sviluppo
istituzionale che riveste l’iniziativa, l’accento è posto nel settore militare, che riceverà 116,5 milioni di dollari
per l’anno 2008. Anche se, per il taglio dato dal congresso americano, forse non potrà ricevere, almeno per
quest’anno, le due aeronavi per il pattugliamento marittimo per un totale di 100 milioni di dollari e vari
elicotteri dal costo di 13 milioni di dollari ciascuno. In quanto al Centroamerica, in Guatemala già si sta
predisponendo la mobilizzazione dell’esercito per controllare la frontiera con il Messico, divenuta
sommamente pericolosa per la presenza delle organizzazioni criminali che gestiscono il narcotraffico e
l’immigrazione illegale di clandestini.
L’Iniziativa Mérida, in quanto nuovo paradigma, è parte di un’architettura molto più vasta, dove si combinano
una serie di interessi che superano quelli messi in pericolo dalle organizzazioni criminali. È il risultato,
insieme agli altri piani e iniziative sparse per il continente, di una visione politico-militare concettualmente
costruita durante gli anni 90 dai falchi del partito repubblicano, gli stessi che hanno governato gli Usa negli
ultimi otto anni.
Minacce asimmetriche. Usciti vittoriosi dal confronto Est-Ovest che ha decretato la loro indiscutibile
egemonia, i repubblicani si sono votati a diffondere principi propri come la pace (nel senso di pace
americana come loro stessi la definiscono), la democrazia (nel senso di democrazia formale basata sulla
divisione dei tre poteri e di libere elezioni) e la libertà cui nucleo essenziale è la libertà di commercio.
Una libertà che è diventata bandiera e che ha ispirato iniziative come la firma dei Trattati bilaterali di Libero
Commercio, la creazione del Nafta (l’Area per il libero Commercio di America del Nord che include Usa, Canada e
Messico) e il Progetto Puebla-Panamà, corridoio commerciale dell’istmo centroamericano. Per non parlare dell’Area
di Libero Commercio delle Americhe, Alca, che è rimasto relegato nel cassetto per l’opposizione dei paesi del
Mercosud e Venezuela.
Ma nell’era postcomunista, pace democrazia e libertà, secondo gli Usa, sono di nuovo messe in pericolo dalla
presenza di minacce non più provenienti da stati, ma da entità non governative. Sono le minacce
asimmetriche che obbediscono a logiche differenti da quelle che reggono gli stati e che, in possesso di un
potere inferiore ad essi, usano strategie e tattiche specifiche che permettono loro di affrontarli.
La lista di queste minacce confezionata dagli Stati Uniti è lunga, ma in America Latina sono emergenti il
narcotraffico, la criminalità organizzata e il terrorismo. Queste minacce possono trovarsi in qualsiasi luogo,
possono manifestarsi in qualsiasi momento, sono trasnazionali e pur essendo differenti tra di loro possono
arrivare a stabilire alleanze, mettendo a rischio governi, società, ordine interno, sicurezza nazionale e
regionale. Per gli Stati Uniti ciò che è in pericolo è l’essenza stessa della nazione, che si trova nelle mire di
malviventi e terroristi, minata dalla diffusione di droghe che distrugge la gioventù. Minacce che non possono
essere fonteggiate solo dalle forze dell’ordine, ma per il cui contrasto devono essere coinvolte le forze
armate, che dovranno intervenire in qualunque parte del mondo, in difesa dei supremi interessi della
nazione.
Dietro la guerra preventiva. Questa visione, in cui si perde la linea che divide la sicurezza dalla difesa, ha
permesso agli Stati Uniti di elaborare la dottrina militare della guerra preventiva (l’Iraq ne è l’esempio più
clamoroso) ed è la stessa che ha dato luogo a un progressivo processo di militarizzazione del continente
americano. Reti di radar, basi, Centri Operativi di Avanzata; la Quarta flotta che vigila sulle coste del
Sudamerica, i consiglieri militari installati in vari paesi, società private di sicurezza (i moderni mercenari) con
regolari contratti con il Dipartimento di Stato degli Usa accusati in zone di conflitto di abusi e illeciti; corpi di
polizia militarizzati e militari coinvolti in questioni di ordine interno e accusati di violazione di diritti umani,
manovre militari in funzione antinarcotica e antiterrorismo, e i piani di fumigazioni massicce che distruggono
coca ed equilibri ecologici, come il Plan Colombia, che non è riuscito a frenare né flusso di droga verso gli
Stati Uniti né la guerra interna in Colombia. E adesso il Piano Mérida, che, inserito nella stessa logica, rischia
di sommergere la regione in una spirale di conflitti non certo al riparo degli abusi del potere.
È un piano concepito come il braccio armato di un disegno egemonico di estensione dei mercati, di controllo di
territori considerati strategici e che non riesce a immaginare una sicurezza in termini di giustizia sociale, in un
continente, l’America Latina, in cui la disuguaglianza è tra le maggiori del mondo, scenario ideale per il
manifestarsi della violenza, dalla comune alla organizzata, si chiami questa narcotraffico o terrorismo.
GIORNALISTI IN MESSICO: “SE INFORMI, MUORI”
Di José Gil Olmos
Nell'anno 2000 nessun giornalista è morto o scomparso per aver investigato il crimine organizzato. Oggi, gli
assassinati sono 62 e gli scomparsi 11, senza che un solo responsabile sia stato incarcerato o giudicato.
Questa situazione drammatica ha fatto del Messico il Paese più pericoloso in cui esercitare la professione di
giornalista, tanto che in alcune regioni vige il seguente dilemma: se informi, muori.
Prima che il narcotraffico si manifestasse come un gruppo di potere capace di incidere sulle decisioni dello
Stato Messicano, soltanto un giornalista era stato assassinato. Il 30 maggio 1984, a Città del Messico, un
uomo armato uccise il famoso cronista Manuel Buendía, il quale si distingueva per aver denunciato la
corruzione di personaggi influenti, così come gli affari di gruppi radicali di estrema destra.
In quell'epoca, l'assassinio di Buendía smosse profondamente l'opinione pubblica per molti anni. La sua
morte cominciò a perdere importanza quando una decina di anni fa iniziò la mattanza degli operatori
dell'informazione in varie regioni controllate dalla criminalità organizzata.
Il caso più simile a quello che sta succedendo alla stampa Messicana è la Colombia, dove dal 1977 ad oggi
sono stati assassinati 136 giornalisti. Senza dubbio, il rischio che gli operatori dell'informazione corrono nei
due Paesi è oggi molto diverso; infatti, mentre nel Paese Sudamericano i casi sono sporadici – appena una
decina negli ultimi otto anni – in Messico gli omicidi sono stati 40 negli ultimi sei anni.
Gli ultimi due anni sono stati fino ad ora i più critici e violenti per la stampa Messicana. Da gennaio 2008 al
giugno 2010 sono stati assassinati 24 operatori dell'informazione e cinque sono scomparsi. La Commissione
Nazionale per i Diritti Umani ha registrato nello stesso periodo 533 segnalazioni di offese a giornalisti durante
l'esercizio del proprio lavoro, come omicidi, lesioni, minacce di morte, attentati agli uffici, spionaggio
telefonico, perquisizioni illegali, furto di materiali e vigilanza presso i domicili privati.
Secondo le indagini ufficiali gli autori delle aggressioni sono molteplici ma la maggior parte di quelli
identificati sono le stesse autorità politiche e di polizia degli Stati; questo corrobora gli alti indici di
corruzione; in secondo luogo si segnalano diversi gruppi legati alla criminalità organizzata che utilizzano le
proprie strategie di comunicazione.
Attualmente, ci sono informazioni su sei grandi gruppi di narcotrafficanti: Los Zetas, composto da ex militari,
che si distinguono per essere i più violenti di tutti; il Cartello del Golfo; il Cartello di Sinaloa, la Famiglia
Michoacana; il Cartello degli Arellano; il Cartello dei Beltrán Leyva.
Los Zetas sono quelli che hanno stabilito i controlli più ferrei sulla stampa: minacciano di morte i reporter, li
sequestrano e colpiscono, ed inoltre dispongono di operatori dell'informazione al loro servizio che sono
infiltrati nelle redazioni dei mezzi di comunicazione per esercitare il controllo dei giornali dall'interno.
Un altro gruppo che a sua volta dispone di una strategia informativa è la Famiglia Michoacana la quale
emette comunicati stampa e e dispone addirittura di un portavoce che contatta i reporter per fornire loro
informazioni, oppure denaro per comprare il loro silenzio, o ancora per minacciarli di morte.
A causa delle condizioni di pericolo per i reporter messicani sono state create delle “zone di silenzio”nelle
quali è impossibile informare sugli omicidi, sugli scontri con la polizia, sui sequestri e sulle estorsioni a danno
della cittadinanza, a pena di essere assassinati. Una di queste zone è quella di Tamaulipas, confinante con il
Texas, dove ci sono state battaglie per la strada, delle quali i media messicani non hanno dato notizia.
Questo vuoto informativo fu colmato dai cittadini stessi attraverso internet – twitter, facebook, blogs .
Nel 2006 il Governo Federale creò una magistratura speciale per indagare le aggressioni e gli omicidi di
giornalisti. L'iniziativa però si rivelò un fallimento: ad oggi non ha individuato nemmeno un solo responsabile
e tantomeno condannato nessuno per gli assassinii e le aggressioni ai giornalisti.
Lo stato di impunità in cui vivono i responsabili degli assassinii dei giornalisti ha provocato una fragilità
ancora maggiore per la stampa messicana. Diverse organizzazioni internazionali, come l'ONU,
l'Organizzazione degli Stati Americani, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti di New York, Reporters
Sans Frontieres, Articolo 19 e la Società Interamericana di Stampa hanno manifestato la propria
preoccupazione per i rischi che corrono i reporter messicani, proponendo maggiori misure di sicurezza e
cambiamenti alla legge affinchè siano le autorità locali e non quelle federali ad indagare le aggressioni.
Finora, però, le condizioni non sono cambiate. Persiste la stessa situazione di pericolo per i giornalisti e per
tutta la società messicana: 30.000 vittime negli ultimi quattro anni, diretta conseguenza della guerra contro
la criminalità organizzata.
I giovani giornalisti messicani descrivono in maniera chiara questa situazione: «Siamo i primi corrispondenti
di guerra nel nostro stesso Paese».
SEQUESTRO DI BENI MAFIOSI
di Renato Forte
A questo punto qualcuno si domanderà che fine fanno gli appartamenti, le auto di lusso, il denaro e i gioielli
sequestrati a persone come Griselda Lopez Perez, ex moglie di “el Chapo” Guzman.
Non lo so, non lo sa nessuno di quelli che lo dovrebbero sapere, cioè tutti, e chi lo sa è estremamente restio
a parlarne.
Viaggiando sull'autostrada che da Guadalajara porta a Morelia, quasi appena entrati in territorio Michoacano,
si percorrono chilometri di verdi pascoli curati come nella migliore Svizzera, circondati da un'alta rete di filo
spinato. In lontananza si scorgono animali al pascolo, stalle, costruzioni di tipo abitativo. Un clima da sogno,
interrotto da una leggera gomitata di chi mi accompagna che, indicandomi il luogo dice: «Questo è della
Familia», e non si riferisce a moglie, figli, avi e parentela varia. Il riferimanto è alla Familia michoacana, il
cartello che domina lo stato. Il cartello anomalo perchè non ha un capo riconosciuto ma federa 12 o 13
minicartelli. Uno dei leader riconosciuti “el Theo” si è fatto pizzicare e langue in un carcere di massima
sicurezza, temo in attesa di evasione.
«E' un'estensione grandissima di terreni e pascoli con centinaia, forse migliaia di capi di bestiame, la
magistratura lo ha sequestrato alcuni anni fa ma il proprietario ha fatto opposizione e adesso non si capisce
chi lo governa, chi ci abita, chi lo gestisce», afferma il mio compagno di viaggio.
Oso chiedere come funziona con i sequestri di beni e un'anima caritatevole mi fornisce le pagine dedicate a
questo problema della rivista “Proceso”.
Il titolo «Narcolavado, otra guerra perdida» non invita alla lettura ma non leggerlo sarebbe un errore. Alcuni
interessanti dati si ricavano.
Il primo è che ad una richiesta del giornale alle competenti autorità di avere una panoramica completa
dello stato della lotta al riciclaggio di denaro sporco, anche attraverso confisca di beni e di capitali, la risposta
è stata che non era possibile, si trattava di informazioni riservate o confidenziali [sic] (“Proceso”, n. 1748,
May 2 2010).
Allora “Proceso” investì l'Istituto Federale di Accesso alle Informazioni che diede ragione alla loro richiesta
ma in forma accorpata. In altri termini, il solo ammontare totale dei beni mobili e immobili, includendo le
imprese, che sono stati sottratti al narcotraffico nel periodo 2000/2009 e poi già alienati.
Anche così illegibilmente aggregati i dati qualche motivo di interesse lo offrono.
Nei sei anni della presidenza Fox (dicembre 2000 – novembre 2006, ndr) furono liquidati 59.298 beni con un
ricavo totale di 676.120.533 pesos. Nei tre anni successivi, presidenza Calderon e muso duro contro i narcos,
10.572 beni con un ricavato di appena 185 milioni di pesos.
Se passiamo alle imprese, come quella agricola della Familia di cui sopra, ne sono state sequestrate 55, 33
delle quali sono ritornate in possesso dei proprietari a seguito di sentenze dei tribunali. Ovvero, il Governo ha
perso oltre il 60% delle cause.
Se passiamo alle cifre complessive la cosa è maggiormente ridicola, quei 185 milioni di pesos non sono
neanche il 7% della fortuna che la rivista Forbes attribuisce a “el Chapo” Guzman (mille milioni di dollari),
considerato uno degli uomini più ricchi del mondo. Quei 185 milioni rappresentano a malapena lo 0,15%
degli utili annuali di tutti i cartelli insieme.
Una elemosina che si può a cuor leggero attribuire ad uno stato perlomeno inefficiente se non addirittura
colluso.
La DEA segnala di avere una lista di 116 imprese che provvedono al riciclaggio del denaro sporco, 48 delle
quali sarebbero parte del cartello di Tijuana, cinque del cartello Milenio, 16 dei Beltran-Leyva e uno della
Familia. Altre 40 sarebbero del cartello di Sinaloa, cinque del “mayo” Zambada, e le rimanenti sono di
attribuzione incerta.
Di tutte queste imprese ne sono state sequestrate 8 di cui 7 sono già state reintegrate ai proprietari, guarda
caso, del cartello di Sinaloa.
LA SOCIETA' CIVILE: VITTIMA O COMPLICE?
di Renato Forte
Mi sono inerpicato nell'estremo nord del Michoacan fino a Cotija. Per arrivarci ho attraversato meravigliosi
campi di fragole e di more. Cotija sta per entrare in guerra per difendere il suo pregiato formaggio, il queso
cotija, conosciuto in tutto il Messico e vincitore di premi internazionali.
Il Governo intende fare approvare una legge che bandisce il formaggio da latte crudo, un metodo di
lavorazione che si perde nella notte dei secoli, ma che oggi pare improvvisamente essere fonte di chissà
quale pericolo.
Mi portano a vedere un produttore artigianale mentre compie la sua opera. E' una donna sui 50 anni, dagli
occhi chiari e dal sorriso perenne. Ha 14 figli ed è rimasta vedova. Impasta concentratissima spiegandomi
tutte le operazioni, mentre la figlia mi offre differenti assaggi della loro produzione. E' un formaggio a pasta
semimorbida, lievemente salato, squisito. Accompagnato con il miele perderebbe tutta la sua particolarità.
Intorno al suo magazzino tutto è povero, tutto è precario, ma lei sorride e quando la forma è pronta la mette
sotto pressa sollevando una pietra che io stesso non riuscirei nemmeno a spostare di un centimetro,
Poi usciamo fuori e mi racconta la sua vita, una vita di stenti e di rinunce. I figli maggiori però sono
quasi sistemati ed i minori vanno a scuola e «tutti si tengono lontani da quelle brutte cose che si vedono al
giorno d'oggi».
Le chiedo come si faccia a combatterle, quelle brutte cose, affinchè non prevalgano. Sorride e scuote il capo.
Non lo sa, lei non ha studiato ed è tutta la vita che combatte per mettere un piatto in tavola e non sempre
c'è riuscita. Tace un poco, forse non vorrebbe aggiungere nulla, poi, con un sorriso incredibile: «Ma
dobbiamo farlo. Ci hanno portato via tutto. Che non ci portino via anche i nostri figli».
E' ovviamente difficile riassumere una serie infinita di posizioni raccolte durante il mio viaggio, ma due
sensazioni emergono sulle altre. Da un lato la paura, dall'altro l'impotenza.
I messicani osservano l'avanzata dell'ondata di violenza come guardano l'onda nera del petrolio che avanza
inesorabile nel Golfo del Messico: vedono il problema, ne percepiscono la pericolosità ma non sanno come
intervenire concretamente. Soprattutto si sentono soli ed abbandonati dal loro Governo. Un capitolo a parte
lo meritano infatti i giovani che sono le vittime tra le vittime.
Anzitutto, un mero dato statistico: sono i giovani tra i 12 e i 18 anni la maggioranza dei morti tra i narcos, tra
i militari e tra la popolazione civile coinvolta. E sono anche i più esposti al reclutamento del crimine. Il Paese
sta patendo pesantemente la recente crisi economica, accentuata dal fatto che il Messico non ha
minimamente risolto i suoi problemi di povertà e, soprattutto, i suoi problemi di giustizia sociale e di
contrazione, per lo meno, delle disparità aberranti tra una minoranza di ricchissimi e una maggioranza di
disperati.
E' fortemente cresciuta a causa della crisi e dell'ignavia dei politici la generazione “ni ni”, ovvero la
generazione di “ni estudio, ni trabajo”. Una massa grandissima di giovani che non hanno retroterra, cultura,
mete accessibili, in una parola, futuro.
E' un bacino allettante per la malavita organizzata che offre soldi, non molti, ma soprattutto offre una
“collocazione sociale”. Avere un ruolo, sia pure criminale, è meglio che non avere nessun ruolo.
Una banda può anche essere il surrogato di una famiglia che non c'è, se non formalmente. I narcos lo hanno
capito e la loro influenza cresce tra questi giovani sbandati e loro ne approfittano usandoli come carne da
cannone.
A livello culturale la malavita comincia ad avere appeal. Mi dicono che gruppi hip-hop di discreto successo
cominciano a cantare le gesta di capi riconosciuti. Mi fanno ascoltare canzoni dedicate al “Metro 3”, ”el 90”
“el comandante Poli”. Sono narcos famosi su tutta la frontiera messicana per la loro crudeltà e mi dicono che
vi sono aree marginalizzate del paese dove questa musica vende bene, esclusivamente tra giovani e
giovanissimi.
Per contro in Monterrey mi parlano di una fioritura di “colonias”, noi diremo centri sociali, dove nasce un'altra
musica che si coniuga ad un diretto impegno politico, ovviamente contro la politica politicante dei partiti e
delle istituzioni. Ovviamente questi movimenti sono contrastati sia dai narcos che dalle forze dell'ordine.
Le loro canzoni parlano di poliziotti che fanno estorsioni, incarcerano senza motivo, esercitano il loro potere
sui più deboli ed emarginati, ma anche di amore, disamore, discriminazione, povertà e devastazione
dell'ambiente.
Un impulso alla loro crescita è venuto da un episodio che vale la pena raccontare. Tramite i soliti mezzi di
comunicazione giovanile si riuniscono a Monterrey il 17 maggio 2009 più di 300 grafiteros che in poco tempo
ricoprono quasi un chilometro di Avenida Constitucion (principale strada di Monterrey, ndr).
Interviene la polizia che ne arresta diversi (il numero preciso si ignora), li porta davanti al giudice il quale
impone loro una cauzione di 20.000 pesos per essere liberati in attesa del processo. Chi non li ha, presumo
la maggioranza, resta in carcere. Le pene possono arrivare fino a 10 anni di carcere. Il Governo si riunisce in
seduta straordinaria per discutere se aumentare le sanzioni ai graffitari [sic]. Non so come sia andata a
finire, spero bene, ma penso male. Così come penso tutto il male possibile di un Governo che si riunisce
straordinariamente per un'emergenza minore e non ha ancora trovato gli assassini che alle 2:40 di sabato 15
maggio 2006 sono entrati al “Punto vivo bar”, stracolmo di ragazzi che ballavano, hanno aperto il fuoco e
lanciato due granate.
Quattro ragazzi sono morti, 25 feriti, alcuni dei quali amputati, altri con schegge nelle ossa con cui
convivranno per sempre. Il motivo era di eliminare Daniel Zamora, soprannominato “el Danny Boy”,
uno dei capi de “la EME” una mafia dei messicani emigrati in California, alleata del cartello di Sinaloa.
Ovviamente “el Danny Boy”, si è salvato.
Dal giorno della riunione straordinaria del Governo hanno cominciato a circolare magliette con la scritta “sii
narcos, sii politico, ma non graffitero”, oppure “sii corrotto, sii deputato, ma non graffitero”. Inutile dire che
le magliette vanno a ruba.
Tuttavia, è importante riportare una serie di segnali positivi. Nei TEC dove ho parlato, molti studenti mi
hanno fermato alla fine della conferenza per parlare di politica, sempre, e di mafia, molte volte. Colleghi e
professori mi hanno richiesto di tenere una conferenza su questo tema in relazione alla possibilità di
utilizzare i beni confiscati alle mafie per sostenere progetti di sviluppo sulle aree a maggior densità di
economia illegale. La presentazione, ovviamente sommaria, dell'esperienza italiana ha destato molto
interesse. Ancora, nel Municipio di Jijilpan, terra natale di Lazaro Cardenas, tutte le forze politiche e sociali
lottano per la creazione di un centro di recupero e reinserimento per drogati che è all'avanguardia per i
mezzi in campo e gli obiettivi che si propone.
Insomma, tra le tenebre, qualche luce di flebile speranza si intravede, pericolosamente esposta al rischio di
spegnimento se non sapremo aiutarla, sapendo che il problema del Messico non è il problema del Messico,
ma un problema che riguarda l'America Latina, il Nord America e l'Europa.
ARMI, POLITICA e MOTI POPOLARI
di Renato Forte
«In Messico girano troppe armi»
Con chiunque tu parli in Messico ad un certo punto del colloquio il tuo interlocutore ripeterà questa frase.
Purtroppo è vero e non solo nella oscena esposizione dell'esercito e della polizia o nei nascondigli dei narcos.
Le armi sono diffuse in tutto il paese, in tutti gli strati della popolazione e ancor di più nelle campagne.
Nell'ultima visita a Città del Messico il Segretario di Stato Hilary Clinton ha esortato il Governo Messicano «a
fare di più nella lotta contro la droga». La Clinton si è sentita rispondere da Calderon che gli USA dovrebbero
fare di più per fermare la libera vendita delle armi nel loro paese. Voci di corridoio affermano che il
Segretario di Stato statunitense abbia dato ragione al presidente messicano, aggiungendo che l'attuale
situazione generale del suo paese non consente all'amministrazione di compiere un'azione che irriterebbe la
potente lobby delle armi.
La realtà che mi raccontano è che tutto lungo il confine tra USA e Messico siano nate rivendite di armi come
fossero panetterie.
I lauti proventi della vendita di droghe vengono in parte riciclati in armi che entrano in Messico e vengono
vendute al mercato nero. Certo i primi destinatari sono i cartelli stessi. Non a caso circolano statistiche,
ovviamente non controllabili, che parlano di percentuali altissime di armi sequestrate dalla polizia di
provenienza “legale” direttamente dagli USA.
Il Messico politico
I principali partiti politici messicani sono 3:
- il PRI, partido revolucionario istitucional
- il PAN, partido de accion nacional
- il PRD, partido revolucionario democratico
Il PRI è stato il partito di governo per 71 anni (un tempo infinito) in cui ha avuto senz'altro il merito di
lavorare ad una modernizzazione del Paese (per altro lungi dall'essere conclusa, si pensi, ad esempio
all'arretratezza dei servizi in generale ed al credito in particolare, veramente medievale, o al sistema fiscale,
o, peggio, a quello giudiziario). Era un partito jolly dove potevano coesistere la difesa dei privilegi più
vergognosi con l'anelito ad una maggior giustizia sociale. L'uscita dell'ala sinistra, che approda al PRD, fa sì
che oggi (e lo si vede da alcuni, non pochi, governatori Statali) il PRI sia il ricettacolo delle ambiguità,
quando non delle connivenze, della peggior politica.
Il PAN è un partito conservatore tipico del Sud America: cauto, bigotto, suddito fedele degli USA, convinto di
stare dalla parte giusta per casta più che per ragionamento. E' andato al potere con il Presidente Fox nel
2000 e confermato con Calderon nel 2006. Come quasi tutte le destre che governano in questi tempi
calamitosi l'aggettivo che più gli si attaglia è: inadeguato.
Il PRD, fondato da un nome che in Messico continua a contare molto: Cuautemoc Cardenas, storico
Governatore del Distrito Federal e figlio del padre della patria Lazaro, si può considerare un partito di centro
sinistra. Nel 2006 ha presentato alle elezioni quale suo candidato il Governatore del Distrito Federal Andres
Manuel Lopez Obrador, meglio conosciuto come AMLO.
Possiamo dire, senza timore di smentite, che AMLO è stato il protagonista delle elezioni del 2006 e solo un
“avventuroso” conteggio dei voti (tipico a quelle latitudini) lo ha privato della presidenza.
Ora il PRD, nel silenzio del suo padre fondatore Cuautemoc Cardenas, è in affanno. Una parte di esso
vorrebbe mantenere una posizione di dura opposizione a Calderon, altri vagheggiano alleanze perchè vedono
il pericolo di un risorgente PRI.
Nulla di nuovo sotto il sole della sinistra. L'anno prossimo si voteranno molti dei Governatori statali (gli Stati
sono 31 più il Distrito Federal ). Elezioni non trascurabili perchè sia pure tra mille difficoltà il federalismo
vero, non di facciata, avanza nel paese, anche se questa avanzata non ha solo lati positivi.
I moti popolari
Il Messico è un paese molto vivo sul versante scioperi, proteste, manifestazioni, che sono molte volte
represse, in alcuni casi anche brutalmente dalle forze dell'ordine.
Anzitutto vi è una conflittualità diffusa a livello delle comunità indigene i cui diritti sono molto spesso
ignorati, quando non repressi. Ma qui le ragioni sono chiare ed evidenti.
In altri casi sono la spia di problemi giganteschi latenti e legati alle precarie, se non miserrime, condizioni
sociali.
Il fenomeno migratorio spacca le famiglie e svuota i paesi. Le vedove bianche sono diffusissime ed i figli
restano per lo più affidati permanentemente ai nonni.
Poi vi sono le proteste a carattere più politico come il presidio durato mesi dello Zocalo (che cos'è?) per
protestare contro il dubbio risultato elettorale che ha consegnato il paese a Felipe Calderon. Ma anche le
manifestazioni a ricordo dell'eccidio del 2 ottobre del 1968 in Piazza delle tre Culture, che in alcuni casi
vengono preventivamente abrogate per timori d'incidenti.
Di particolare importanza a questo riguardo per il suo valore paradigmatico sono i moti di Oaxaca che ancor
oggi, a distanza di 4 anni, pesano sulla coscienza politica del Paese. Lo stato di Oaxaca, ricco di risorse ma
povero di soldi, è governato dal PRI, nella persona di Ulisses Ruiz Ortiz, abbreviato URO, eletto durante uno
strano black-aut elettrico durante il quale i suoi voti sono miracolosamente cresciuti nello spoglio delle
schede. La provvidenziale mano dei narcos, dicono le malelingue. Fatto è che nei primi 15 mesi della sua
amministrazione si verificano ad Oaxaca 29 omicidi politici.
Il conseguente clima è di grande indignazione e qualsiasi scintilla può provocare un incendio. La scintilla è
data da un tranquillo sciopero di maestri (figura importante, soprattutto nei piccoli municipi) che nell'autunno
del 2006 scendono in piazza per chiedere aumenti salariali.
I maestri, come sempre si usa in Messico, occupano la piazza principale ma URO non sopporta trasgressioni
e li fa sgomberare nottetempo dai suoi soldati. Il popolo di Oaxaca non la prende bene di vedere chi educa i
propri figli preso nottetempo a bastonate solo perchè rivendica il diritto ad una vita migliore. I cittadini
scendono in piazza al fianco dei maestri e rispolverano un'antica forma di potere indigena assembleare,
l'APPO, al grido di «Fuori URO da Oaxaca!».
Ma URO non solo resiste ma mobilita la terribile PFP, la polizia federale preventiva. Ogni notte la PFP compie
assalti al pacifico accampamento degli scioperanti. Ci sono morti, feriti e arresti preventivi finchè una notte
succede il fattaccio: a morire è Brad Will, giornalista americano di Indimedia. Della sua morte sono incolpati
gli scioperanti e URO chiede alla PFP di porre fine alle proteste «costi quel che costi».
La PFP entra in città per “proteggere” i cittadini di Oaxaca. Ma i cittadini non la vogliono. A migliaia, a mani
nude, chiedono di fermarsi, di avere coscienza. Tutto inutile.
La violenza aumenta in modo esponenziale. Si susseguono arresti illegittimi, i militanti fuggono dalle case, i
maestri vengono arrestati nelle aule dove fanno lezione. La PFP assume e mantiene il controllo di città e
villaggi.
Tutto questo per qualche pesos di salario in più? Le ragioni sono ovviamente ben altre. Oaxaca, lo dicevamo
prima, è uno stato ricco di materie prime tra cui l'uranio ed è in una posizione strategica per il transito delle
merci, costruendo strade adatte. Ma scavare o costruire è difficile su un territorio di microproprietari, quelli
che avevano beneficiato della riforma agraria della rivoluzione. Allora occorre rendere operante la legge del
1993 che dichiara alienabili quelle terre. Ma la gente si oppone. Allora per le autorità è l'occasione migliore
per sperimentare proprio lì quella “strategia contra insurgencia”, che i ragazzi migliori, quelli che finiscono
nella PFP, hanno imparato negli USA.
GLI EFFETTI DELLA GUERRA MESSICANA
Di Marcela Turati
Nel dicembre 2006, undici giorni dopo aver assunto la Presidenza del Messico, Felipe Calderón Hinojosa
ordinò all'Esercito di assumere compiti di pubblica sicurezza nelle strade del Paese. Alcuni mesi dopo, ci
informò che eravamo appena entrati in guerra: la chiamò 'Guerra contro il Narcotraffico', la quale, ci avvertì,
ci sarebbe costata molte vite e sarebbe durata fino all'ultimo giorno del suo mandato. La vittoria finale
sarebbe arrivata quando i cattivi saranno finiti.
Inviò 90 mila soldati, 15 mila marinai e 35 mila poliziotti federali al fronte. E, come se il conflitto bellico fosse
scoppiato al solo menzionarlo, il Paese si trasformò in una polveriera. I gruppi del narcotraffico trasferirono
per le strade i loro conflitti domestici. Luoghi qualunque si trasformarono in campi di battaglia, come la
famosa spiaggia di Acapulco o un esclusivo condominio di Cuernavaca, il tranquillo santuario in cui gli
abitanti della Capitale trascorrono il fine settimana; come le porte del Tec di Monterrey, l'università in cui
studiano i figli delle elites, oppure la sempre violenta e conflittuale Sierra del Nord.
I gruppi criminali mostrarono il proprio arsenale, composto di granate capaci di fare a pezzi le persone,
lanciarazzi capaci di abbattere gli aerei, mitragliette che sparano 900 colpi al minuto o pistole capaci di
penetrare la maggior parte dei blindati, e l'Esercito messicano mostrò il proprio.
Era come se una macchina per uccidere fosse stata attivata e producesse cadaveri in serie. Ne ha prodotti in
media 20 al giorno, senza sosta, instancabile. Il Paese intero si è trasformato in una fossa comune a causa di
questa guerra civile.
Dopo quattro anni di Governo ci informarono che i messicani morti in questa guerra erano 28 mila, però che
non ci dovevamo preoccupare perchè il 90% erano narcotrafficanti e solo il 10% (“la minoranza”, come disse
il Presidente) erano innocenti. Erano, secondo come li chiamarono, i “danni collaterali” della guerra. Come se
si fosse stabilita una quota di persone sacrificabili.
I 28 mila morti rappresentano un terzo dei morti totali dei 12 anni di guerra civile in El Salvador, supera il
numero di desaparecidos nelle dittature argentine degli anni 70 o le vittime della mafia italiana in un secolo,
quelle del terrorismo o dell'ETA o della guerrigilia irlandese.
Le statistiche ufficiali non comprendono i mutilati gravi, gli scomparsi, quelli che sono morti negli ospedali,
agonizzanti per le torture o per le ferite da arma da fuoco.
Tutti possono morire: politici, avvocati, giornalisti, casalinghe, anche se c'è un profilo che si ripete in molte
delle vittime giovani: famiglia disintegrata, studi lasciati a metà, provenienza da quartieri emarginati,
coinvolgimento nello spaccio di droga o in altri passaggi della catena del narcotraffico. Si parla di un
'giovanicidio', di pulizia sociale.
Quando ce ne siamo resi conto, i bambini stavano già giocando a fare i poliziotti ed i sicari, non avevano
paura del cavaliere senza testa perchè sui loro cellulari avevano registrati veri corpi smembrati. Durante le
lezioni di educazione fisica insegnano loro a buttarsi per terra e proteggersi dalle sparatorie. Nelle scuole
installano pulsanti d'emergenza. Le notizie sanguinose fanno parte della nostra vita.
Ci ha fatto orrore scoprire una pila con i corpi di 24 muratori assassinati in un bosco nella zona di Città del
Messico. Dopo la granata che uccise 9 cittadini innocenti e en ferì un'altro centinaio che festeggiavano il
Grido d'Indipendenza nella zona di Morelia. Poi successero i massacri: il primo gruppo di caduti furono 13
ragazzi che giocavano per strada in un paese di montagna nella regione di Chihuahua (tra loro un bambino
di un anno), anche se l'attacco più famoso fu quello contro i giovani che festeggiavano in una casa a Ciudad
Juarez, nel quale furono uccisi in 15.
La galleria degli orrori è stata così ampia e ripetitiva che l'indignazione si era esaurita al tempo dello
sterminio sistematico nei centri di riabilitazione, dei sollevamenti nelle carceri, della morte quotidiana di
anonimi cittadini. A questo punto, ci eravamo abituati ai codici del sangue. E ogni notizia sordida viene
superata da una peggiore.
Pensavamo di aver già visto tutto il male possibile quando ci siamo accorti dell'esistenza di 'El Pozolero', il
narcotrafficante pentito che confessò di aver disintegrato, in un anno, 300 nemici dissolvendoli nell'acido. Poi
ci fu l'esplosione un un'autobomba, che smise di essere una novità quando simili esplosioni avvennero in altri
luoghi. Si seppe più tardi la storia dei prigionieri che uscivano di notte dalla carcere per commettere massacri
– equipaggiati con armi e veicoli prestati dai custodi, con il permesso e la benedizione della direttrice – e che
a mezzanotte tornavano a dormire nelle loro celle. Più tardi, la fucilazione di 72 migranti che si rifiutarono di
trsformarsi in sicari ci fece venire la pelle d'oca.
Sì, settantadue martiri pacifisti:1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51,
52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72. per noi sono meri numeri,
ma per le loro famiglie sono William, Lizardo, Yeini o Pedro.
La narcoviolenza ha invaso la nostra vita quotidiana, ha alterato i nostri costumi più intimi, instaurato un
regime di terrore, provocato ondate di panico che sono terminati con coprifuochi auto-imposti e proposte di
sospendere i nostri diritti individuali. Ha addirittura colonizzato il nostro linguaggio, aggiungendogli parole
che spiegano fenomeni barbari per i quali non avevamo un vocabolario.
C'è per esempio la parola 'encajuelado' (letteralmente 'inbagagliato', che si riferisce a chi viene trovato morto
nel bagagliaio dell'auto), 'ejecutado' (fucilato), 'levantado' (lett. Sollevato, preso a forza da un auto e
scomparso), 'desintegrado' (dissolto nell'acido) o 'encobijado' (lett. Incopertato, cadavere avvolto in una
coperta). La conta dei morti viene chiamata l''ejecutometro'; il territorio in disputa, la piazza; se la violenza
sale diciamo che si riscalda; l'attività di uccidere si chiama 'sicariare'; l'estorsione è la quota.
L'ONU e la Croce Rossa Internazionale non hanno il coraggio di dichiarare che il Messico vive una guerra o
un conflitto armato, anche se vediamo che i suoi effetti sono simili a quelli di una guerra formale: cittadini in
esilio per la paura; paesi fantasma dai quali gli abitanti sono fuggiti; gruppi di orfani e vedove nell'indigenza;
delinquenza sconfinata; estorsioni, omicidi, sequestri; liste per fingersi persone scomparse; atti terroristici
con autobombe o utilizzo di ostaggi; massacti e fucilazioni di massa; anarchia; paura generalizzata.
Si dice che 50 mila bambini sono rimasti orfani per colpa della violenza. Ogni giorno sono di più.
Attualmente, le vittime stesse organizzano 'laboratori del lutto' in cui in 12 sessioni le innumerevoli persone
con un familiare assassinato (6 mila in tre anni) cercano di mitigare un po'il dolore e rompere la catena di
odio generata dalla violenza. Però, per il momento, non si vede una soluzione di speranza per tanto dolore.