“localizzazione” della politica nei regimi ibridi dell`Asia meridionale

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“localizzazione” della politica nei regimi ibridi dell`Asia meridionale
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La “localizzazione” della politica nei regimi ibridi dell’Asia meridionale. Il caso del
Pakistan.
Diego Abenante
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Trieste ([email protected])
(Versione provvisoria – si prega di non citare senza il consenso dell’autore)
Abstract
Despite their seemingly different political paths, India and Pakistan have both
experienced a shift from the national to the local dimension of politics. The reasons
behind this shift are assumed to be of a quite different nature. In the case of India,
this evolution is widely connected to the crisis that has affected the Congress since
the late 1980s, and, secondly, to the political strategy followed by Indira Gandhi in
the 1970s and the early 1980s of disconnecting the traditional links of the party to
the regional notables. Both elements contributed to make the Congress increasingly
dependent on regional caste/kinship-based political organizations. The similar
evolution observed in Pakistan has been explained, in part, with reference to the
structural weakness of the mainstream political parties - in particular the Pakistan
People Party and the Pakistan Muslim League – and their dependence on kinship and
religious structures and hierarchies, and, in part, with the impact of military regimes.
The latter would have constantly aimed to depoliticizing society by putting formal
and informal obstacles to the activities of the political parties, and reinforced the
biradari (extended family/caste) loyalties at the provincial and district level. There is
however a relevant difference between the two cases, in so far the role played by
castes in India has been since long identified as a factor that favors democratization.
A recent analysis has even emphasized a “vernacularization” of democracy
(Michelutti 2007). On the contrary, in the Pakistani case, “caste” groups have been
identified as an obstacle towards the consolidation of democracy. While in both
cases the evolution of the political system seems to emphasize the relevance of
political culture for the process of democratization, the result seems to be radically
different. The paper will aim to discuss this paradox, through an analysis of the role
played by descent groups in the electoral process and the political bargaining in an
area of South Western Punjab.
Introduzione
La letteratura sulla transizione e sul consolidamento democratico ha da tempo
posto in luce che la presenza di gruppi ascrittivi può costituire un fattore di ostacolo o
d’impedimento al processo di democratizzazione. Com’è noto, secondo una definizione
“procedurale” della democrazia (Schumpeter 1994, Dahl 1971), questa può dirsi
esistente in presenza di alcuni requisiti di base, quali l’esistenza d’istituzioni
rappresentative, di elezioni trasparenti e a scadenza regolare, di diversi partiti, di una
stampa libera da censure (Morlino 2003, Grilli di Cortona 2009, Diamond e Morlino
2005). Da questo punto di vista, tutti i sistemi politici dell’Asia meridionale potrebbero
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considerarsi come rientranti nella categoria delle democrazie. A una più attenta analisi,
tuttavia, può rilevarsi come le “democrazie” sud-asiatiche presentino dei problemi
relativamente a ciascuno dei requisiti elencati (Wagner 1999). In particolare, si può
rilevare come il requisito delle libere e trasparenti elezioni sia in sé connesso
all’esistenza delle condizioni che garantiscono una piena partecipazione degli attori
politici e una libera manifestazione del consenso. La presenza di segmentazioni di
carattere religioso o etnico, che è fattore caratteristico non soltanto della maggiore
democrazia dell’area, ovvero l’India, ma della totalità dei sistemi politici dell’area, è
uno dei fattori che è stato classicamente considerato come sfavorevole per lo
stabilimento della democrazia (Lijphart 1996).
Una consolidata letteratura ha rilevato come l’assenza di ostacoli alla
partecipazione politica - ovvero la non esclusione permanente di un gruppo sociale costituisca, insieme alla libera competizione e alla presenza di libertà civili e politiche,
uno dei requisiti fondamentali per la costruzione di una democrazia. Le principali
analisi della democrazia tendono a porre l’accento sul carattere della “fluidità” nella
formazione del consenso e nell’espressione di questo attraverso i meccanismi elettorali.
Secondo Dahl (1971), la caratteristica essenziale della democrazia è da individuarsi
nella competizione e nella partecipazione d’individui e gruppi organizzati, e sulla loro
selezione attraverso libere elezioni. Così, secondo un classico modello, in una
democrazia il sistema dei partiti richiede la presenza di voti “oscillanti” e di
organizzazioni che competono tra loro per la conquista del centro della scena politica
(Downs 1957). Se dunque, la teoria politologica ha enfatizzato la fluidità e
l’“aleatorietà” del meccanismo di formazione del consenso, essa ha altresì marcato la
contraddizione tra la natura segmentaria delle società plurali e il sistema democratico.
Questa incompatibilità risiederebbe nella tendenza alla politicizzazione delle identità
ascritte, la quale costituirebbe un ostacolo insormontabile sia alla competizione
democratica, sia all’inclusione di gruppi diversi nella gestione del potere. Da qui la
conclusione secondo la quale la democratizzazione costituirebbe uno sviluppo
sfavorevole in queste società, poiché provocherebbe una politicizzazione d’identità
prima fluide, l’inefficacia del processo elettorale e, in definitiva, una maggiore
frammentazione della società (Horowitz 2000).
Se ciò è vero, il caso dei regimi dell’Asia meridionale è di grande interesse per
lo studioso dei processi di democratizzazione. In particolare, il successo della
democrazia indiana ha costituito per anni un “dilemma” di non facile risoluzione
(Lijphart 1996). Sempre prendendo come riferimento una definizione minimale della
democrazia, è innegabile che l’India presenti le condizioni di base per la classificazione
del suo regime come democratico (Morlino 2003, Grilli di Cortona 2009, Diamond e
Morlino 2005). Tuttavia è altrettanto vero che, a più di sessant’anni dall’indipendenza,
l’India continua a essere caratterizzata da grandi mancanze dal punto di vista delle
condizioni strutturali della partecipazione politica (McMillan 2008, Kohli 2001). Le
spiegazioni proposte in letteratura per comprendere il “segreto” di una democrazia sorta
in un ambiente tanto improbabile, possono essere così riassunte: l’eredità coloniale
britannica, i fattori istituzionali (il ruolo svolto dal partito del Congresso), la
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lungimiranza e il carisma della leadership nazionalista indiana post-1947 (in specie la
figura di Nehru), le peculiarità della società indiana, in altre parole la sua cultura
politica.
È su quest’ultimo aspetto che, di recente, la teoria politica ha proposto le
interpretazioni più innovative. Per alcuni autori, il pluralismo intrinseco nella struttura
di casta (o jati) – cioè il fatto che nessuna casta abbia la maggioranza numerica in una
singola regione e dunque non possa acquisire una posizione stabile di dominanza avrebbe creato le condizioni per il pluralismo politico, facendo della contrattazione e
della negoziazione il modello dell’interazione sociale. Questa circostanza avrebbe, a sua
volta, influenzato la pratica politica, creando le basi per lo sviluppo della democrazia
(Jaffrelot, 1996). Altri autori si sono invece focalizzati sulla relazione tra il sistema
delle caste e l’apparato istituzionale, con particolare riferimento al ruolo del partito
“dominante”. Nel suo famoso modello del “Congress System”, Rajni Kothari ha
identificato la chiave della democrazia indiana nella simbiosi tra la struttura del partito e
i vote banks rappresentati da caste e gruppi d’interesse (Kothari 1957, 1970). Secondo
Kothari, nel periodo coincidente con l’apice del potere e dell’influenza del Congress,
cioè tra il 1947 e il 1967, il sistema politico indiano sarebbe stato caratterizzato da due
elementi essenziali: la presenza di un “party of consensus”, cioè il Congress, capace di
adattarsi alla realtà sociale dell’India e di attrarre il consenso dei notabili e dei leader
tradizionali nelle diverse province, a loro volta a capo di una piramide composta di vote
banks locali; una serie di “parties of pressure”, in realtà esclusi dal potere, ma capaci di
influenzare le decisioni della leadership del Congress, attraverso un’azione di lobbying
sulle sue diverse fazioni interne. La “rigidità” costituta dalle segmentazioni castali
sarebbe stata compensata dalla “flessibilità” interna del Congress, che avrebbe costituito
una sorta di arena istituzionale “naturale” di mediazione dei conflitti. Il sistema
presentava altresì degli aspetti negativi, quali lo svuotamento dell’istituzione
parlamentare, il cui ruolo era di fatto occupato dal “parlamentino” del Congress, e
un’occupazione ininterrotta del potere da parte del partito dominante, con la
conseguente esclusione stabile degli altri partiti dal potere e la creazione di una
relazione simbiotica tra partito dominante e burocrazia.
Secondo questa corrente interpretativa, benché dopo il 1967 il Congress abbia
perso la propria posizione dominante, il ruolo da esso svolto nel ventennio postindipendenza ha di fatto consentito al sistema istituzionale di consolidarsi, evitando sia
una deriva in senso autoritario – come avvenuto nel vicino Pakistan – sia compensando
ogni spinta centrifuga proveniente dalle province. Nella fase dal 1967 a oggi – con
l’eccezione del periodo autoritario di Indira Gandhi del 1975-77 – la democrazia
indiana ha mantenuto la propria caratteristica flessibilità, pur mutando profondamente.
Tre sono state le trasformazioni principali: il sistema a partito dominante si è
trasformato in un sistema grosso modo bipartitico, con l’ascesa del Bharatiya Janata
Party (BJP), accanto al Congress; quest’ultimo, nel corso degli anni Settanta, soprattutto
a causa della politica seguita da Indira Gandhi di “delocalizzazione” del partito, ha
perso la propria capacità di mediare gli interessi dei gruppi castali e di interesse locali;
infine, si è assistito ad una politicizzazione – o meglio, al completamento del processo
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di politicizzazione – delle caste basse, le quali hanno dato vita a propri partiti politici,
soprattutto dagli anni Ottanta in poi. Uno di questi, in particolare, il Bahujan Samaj
Party (BSP), è stato a lungo partito di governo nello Stato dell’Uttar Pradesh.
La trasformazione della natura del Congress si è dunque tradotta in una
mutazione generale del sistema politico indiano. Si potrebbe dire che la flessibilità
tipica del partito dominante si è trasferita al sistema politico nel suo complesso. Gli
interessi castali, dopo la fine degli anni Ottanta, non sono più rappresentati dalle varie
fazioni del Congresso, ma trovano la propria rappresentanza direttamente nelle
assemblee degli Stati e nel Parlamento federale. I due grandi partiti, Congress e BJP,
sono dunque costretti a creare “grandi coalizioni”, che ricreano a livello statale e
federale la mediazione in precedenza garantita dal partito dominante. L’arena
istituzionale per la composizione dei conflitti, in precedenza garantita dal Congress, si è
trasferita al sistema politico nel suo complesso. Nel caso dell’India, si potrebbe dire che
la chiave della democrazia risieda in un rapporto di forze centro-località che ribalta una
visione della democrazia consolidata, risalente a Huntington (1969), che vede
nell’esistenza di un ordinamento politico centrale ben radicato la precondizione della
democrazia. In India, al contrario, è nella capacità del potere centrale di “riflettere” la
località, di adattarvisi, e di mediare tra i gruppi etnici e d’interesse locali, che sembra
risedere la ragione della stabilità. In qualche modo la prevalenza della dimensione
locale su quella nazionale e della diversità sull’omogeneità sembrano costituire la
precondizione per la democrazia.
Il fatto che la casta sia l’unità base dell’agire politico sembra offrire altri
vantaggi: la casta è per sua natura un’entità localizzata, poiché si basa soprattutto su
risorse, quali la terra, che hanno una rilevanza essenzialmente locale (Brass 1995). Per
questa ragione, è difficile che l’influenza di una singola casta trascenda una provincia o
un distretto. Quando ciò avviene, spesso la casta tende a dividersi in sotto-caste. Ciò fa
sì che anche la contrattazione politica mantenga una rilevanza locale e che difficilmente
il conflitto travalichi i confini di una specifica regione (Grilli di Cortona 2009, Jaffrelot
1998, Weiner 2001, McMillan 2008). Nell’evoluzione successiva agli anni Ottanta, la
necessità sia del Congress sia del BJP di formare delle alleanze con partiti castali e
regionali – categorie che in India spesso coincidono –costringe i due partiti nazionali a
dedicare grande attenzione all’agenda politica e agli equilibri politici dei singoli Stati.
È interessante notare che, nonostante la trasformazione dell’identità di casta e
benché l’identificazione degli individui e dei gruppi in caste oggi risponda a criteri ben
diversi rispetto a quelli tradizionali della gerarchia dei varna e della sancritizzazione,
ciò non abbia fatto venir meno il ruolo della casta stessa nei rapporti politici. Può anzi
affermarsi il contrario, cioè che essa sia aumentata. Com’è stato correttamente
osservato, l’emergere di una competizione tra caste basse (Scheduled Castes nel
linguaggio ufficiale) e caste alte, che rifiuta la sottomissione tradizionale in nome del
principio della maggioranza, in realtà porta avanti un discorso di casta e, come è stato
ampiamente dimostrato, anche le formazioni politiche portatrici delle istanze delle caste
basse sono pienamente consapevoli delle proprie radici castali e dei miti religiosi ad
esse connessi (Jaffrelot 1998, 2003; Michelutti 2007). In conclusione, il caso indiano
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dimostra che la casta, e con essa la rilevanza della “località” nella politica indiana, lungi
dall’essersi ridimensionata, si è sostanzialmente rafforzata dagli anni Ottanta a oggi.
Se dunque vi è un sostanziale consenso in letteratura sul fatto che la casta in
India abbia costituito un fattore positivo e non negativo dal punto di vista della
democrazia e che la rilevanza della dimensione castale si sia rafforzata negli ultimi anni,
ciò che è meno frequentemente rilevato è l’affinità che esiste – dal punto di vista del
ruolo dei gruppi ascrittivi - tra il caso indiano e gli altri sistemi politici della regione,
compresi quei paesi che hanno dato prova, negli ultimi sessant’anni, di una tendenza
maggiore all’instabilità. In particolare, le analogie tra i sistemi politici indiano e
pachistano sono state curiosamente sottovalutate dalle analisi recenti, con poche
rilevanti eccezioni (Wagner 1999, Jalal 1995, Talbot 2000). Una possibile spiegazione è
forse la “ossessione islamica” che caratterizza molta analisi occidentale, in altre parole
la tendenza a ridurre tutta la società pachistana all’Islam. Inoltre, i lunghi periodi di
dittatura militare hanno forse determinato un certo scetticismo tra gli studiosi sull’utilità
di studiare in profondità il sistema politico pachistano (Wilder 1999). Va tuttavia
ammesso che nello stesso Pakistan l’analisi delle strutture politiche locali è stata a lungo
un argomento sensibile. Per un paese che sin dal 1947 ha lottato per mantenere la
propria integrità territoriale, le culture locali sono state considerate da molti come una
contraddizione dell’idea nazionale. Di fatto il termine “biradarismo” (da biradari o
“casta”) nel discorso pubblico pachistano continua a essere considerato come l’essenza
della corruzione e del clientelismo. Lo stesso può dirsi di larga parte delle analisi di
think tank e studiosi occidentali. In ciò sembra tuttavia emergere un approccio
normativo all’analisi dei sistemi politici (Grilli di Cortona 2009), che appare
dimenticare che un sistema è basato in ultima analisi sulla cultura politica, nel senso
definito da Almond e Powell (1988) di “una combinazione di atteggiamenti, credenze,
valori e capacità”. In questo senso, etnicità e identità ascritte sono pienamente parte
della cultura politica (Ahmed e Naseem 2011).
Com’è noto, la transizione pachistana, dopo la fine della dominazione coloniale
britannica, è stata molto più tormentata rispetto al caso indiano. Dopo un breve periodo
“democratico” tra il 1947 e il 1958 – caratterizzato tuttavia da un’assenza di elezioni
nazionali e da una costante ascesa del potere dell’asse burocratico-militare – il paese ha
vissuto un primo colpo di Stato con il Gen. Ayub Khan nel 1958, e una sospensione
della costituzione approvata appena due anni prima. Il periodo di governo militare
durerà fino al 1970 e sarà caratterizzato da elezioni indirette su base non partitica. Il
ritorno alla democrazia con le prime elezioni nazionali del 1970 sarà, però breve e già
nel 1977 vi sarà un altro colpo di Stato con la formazione di un regime militare guidato
da Zia ul Haq che durerà fino al 1988. Il successivo ritorno alla democrazia garantirà un
decennio di governi eletti fino al nuovo colpo di Stato del 1999, con la formazione del
governo del Gen. Musharraf, destinato a durare fino alla più recente apertura
democratica con le elezioni del 2008. Va sottolineato che sia il regime di Zia sia quello
di Musharraf hanno ripreso la strategia introdotta da Ayub Khan di indire elezioni su
base non partitica.
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Nel caso pachistano, diversi sono stati i tentativi di spiegazione per il fallimento
della transizione democratica; questi possono essere così riassunti: l’eredità coloniale
britannica; il contributo della classe politica post-indipendenza; la debolezza dei partiti;
l’ambiguità ideologica riguardo alla natura dello Stato (ovvero il dissidio tra Stato
islamico e Stato-nazione). È evidente come queste spiegazioni siano in qualche modo
speculari a quelle normalmente proposte per spiegare il successo della democrazia in
India. È su questo punto che l’approccio politologico e quello storico-politico sembrano
divergere maggiormente. Se, infatti, la scienza politica, soffermandosi largamente su
una definizione minima o procedurale della democrazia, ha teso a porre una netta
divisione tra i sistemi politici formalmente democratici, quali quello indiano, e quelli
che si allontanano da tale forma di governo, quale il Pakistan, gli storici hanno piuttosto
mitigato tale differenza per porre in essere ciò che i due sistemi politici hanno in
comune. Il presente contributo propende per la seconda interpretazione; sembra cioè
necessario, per quanto riguarda i sistemi politici dell’Asia meridionale, superare la netta
dicotomia tra democrazia e autoritarismo che caratterizza buona parte della letteratura,
per rilevarne la comune ibridità (Jalal 1995). In particolare si può notare un paradosso;
se per il caso indiano oggi tende a prevalere una visione secondo cui la casta non ha
ostacolato, ma ha persino favorito il consolidamento della democrazia, molto diverso è
il panorama analitico riguardo al caso pachistano; qui la “casta” è interpretata, sia dagli
autori pachistani sia occidentali, come una delle cause principali dell’arretratezza della
società e del mancato consolidamento del suo sistema politico (Rais 2009).
Gli scopi del presente contributo sono i seguenti; pur senza negare ovviamente i
diversi percorsi dei due Stati, sembra di poter parlare di un modello politico dell’Asia
meridionale, laddove l’ibridità appare più rilevante che altrove, la cui importanza supera
ogni tentativo di operare una netta distinzione tra democrazia e autoritarismo. Questo
modello politico sud-asiatico si caratterizza per alcuni elementi: la scarsa rilevanza dei
fattori “moderni” nella transizione democratica, intendendo con ciò i fattori che hanno
caratterizzato la transizione e il consolidamento democratico in Europa; la maggiore
rilevanza della cultura politica sugli aspetti propriamente istituzionali, nel senso
utilizzato da Huntington (1969), la centralità dei gruppi ascrittivi nella scena politica, la
rilevanza dei fattori socio-politici locali sulla dimensione nazionale. Questa evoluzione
appare contraddire le teorie che prevedevano una rapida marginalizzazione dei fattori
“premoderni” nei sistemi politici asiatici, dinanzi al processo di modernizzazione. Al
contrario, sembra di poter ipotizzare, dall’evoluzione politica interna dei due principali
Stati dell’area, che sia in atto un cambiamento dell’equilibrio dalla dimensione statale
verso quella locale, e che tale movimento sia soprattutto contraddistinto dall’importanza
delle dinamiche di casta e regionali per le sorti dei partiti politici nazionali.
La “casta” (biradari) in Pakistan. Le difficoltà interpretative
A dispetto del teorico egalitarismo islamico, la società pachistana presenta delle
forme di segmentazione gerarchica basata sulla discendenza, per molti aspetti affini al
sistema delle caste. La possibile osservazione che la casta in India farebbe riferimento a
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un sistema di valori socialmente “accettato” – quello proprio dell’Induismo - mentre in
Pakistan non sarebbe parte di un sistema di valori fatto proprio dalla società, proprio in
base alla teorica eguaglianza di tutti i musulmani di fronte a Dio, è in realtà fuorviante.
In India, come in Pakistan, la struttura gerarchica basata sulle caste è formalmente
rifiutata dal sistema politico nato dalla Costituzione del 1950; pur non abrogando il
sistema delle caste – cosa in realtà impensabile – il testo costituzionale, in particolare
agli articoli 15-17, afferma l’illegalità di ogni discriminazione su base di casta. Può
correttamente affermarsi che l’India indipendente si è costruita su basi morali che
escludono del tutto l’ordine di casta, per affermare il principio dell’uguaglianza dei
cittadini (Weiner 2001). In modo analogo, la Repubblica islamica del Pakistan rifiuta
ogni riferimento alla casta, in conformità a un duplice riferimento: alle libertà
individuali di stile “occidentale” garantite dalla Costituzione del 1973 e al principio
dello Stato islamico, che rifiuta distinzioni di status tra musulmani. Dunque può
affermarsi che sia in India sia in Pakistan, le segmentazioni etniche e religiose sono
parimenti rifiutate su un piano teorico, pur trovando nella società e nella cultura politica
le basi della propria sopravvivenza.
Nel suo classico lavoro “Homo Hierarchicus” Louis Dumont basava la sua
visione sull’irriducibilità della casta - jati - indiana ad altre forme di gerarchia sociale
(Dumont 1991). Coerentemente, egli riteneva che fosse da escludere che tra i
Musulmani si potesse parlare di casta, in ragione dell’assenza di un concetto di purezza
rituale, di specializzazione professionale, di restrizioni alla commensalità o
all’interazione sociale. Ciò nonostante, egli riconosceva l’esistenza di gerarchie basate
su una comune discendenza e che tali gerarchie avessero una legittimazione religiosa.
Tale legittimazione si riferisce alla maggiore o minore vicinanza spaziale o cronologica
ai luoghi del Profeta Muhammad, e pone dunque a livello più elevato in termini di
status i gruppi che possono vantare una discendenza, vera o presunta, “esterna” rispetto
al subcontinente indiano, dunque araba, persiana o centroasiatica. Da qui la tendenza da
parte dei Musulmani del subcontinente a rivendicare una propria origine “nobile”,
ovvero straniera, anche laddove discendenti da convertiti. Ovviamente lo status teorico
avrebbe interagito con la posizione socio-economica nel determinare la posizione del
gruppo nella società. Questo principio teorico costituisce la cornice generale del sistema
dei biradari. Questi sono gerarchizzati secondo un ordine che teoricamente pone a
livello sovraordinato i gruppi che vantano un’origine straniera (Sayyid, Shaykh,
Mughal, Pathan, collettivamente noti come ashraf), mentre i gruppi di sangue di origine
indiana sono sotto ordinati (ajlaf). Molte caste agrarie, che probabilmente si sono
convertite all’Islam, hanno ricostruito la propria discendenza islamica dall’Arabia o
dall’Asia centrale allo scopo di incrementare il proprio status. Il matrimonio è un altro
classico elemento che incide sullo status di un biradari: pur essendo in generale gruppi
endogamici, i biradari meno importanti cercheranno di stabilire alleanze matrimoniali
con gruppi più altolocati. In generale, maggiore sarà l’endogamia tra i biradari più
elevati. Ad esempio questa è massima tra le famiglie di Sayyid e Shaykh del Punjab
meridionale. L’onore e il prestigio sono fattori molto importanti per le relazioni
reciproche tra biradari e questi fattori sono connessi a elementi etnici e religiosi.
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Tuttavia anche l’aspetto etnico e quello religioso interagiscono con altri elementi per
determinare la specifica posizione di una famiglia. Nella società rurale pachistana, in
particolare nel Punjab, la gerarchia è multidimensionale, poiché basata su diversi criteri,
che possono essere di carattere etnico, ma anche economico o occupazionale, cioè
correlato alla divisione del lavoro. A livello di villaggio il possesso di terra è molto
importante nel garantire la posizione di preminenza di un biradari. In un villaggio
possiamo osservare una distinzione tra i gruppi che possiedono la terra (zamindar) e
quelli che ne sono privi (spesso definiti kammi), che lavorano come coltivatori o si
specializzano in attività artigianali. Questa distinzione è così importante che a un certo
livello è possibile parlare di un zamindar biradari. L’importanza della terra nel
determinare lo status di un gruppo può dunque fare sì che biradari non elevati in
termini “rituali” acquisiscano tuttavia un maggiore prestigio grazie alla posizione socioeconomica. Come si è già detto la gerarchia non è rigida. Vi è una costante pressione
verso la mobilità sociale ed è molto probabile che un cambiamento nella scala sociale
dovuto a un miglioramento della posizione economica produca, presto o tardi, un
tentativo di tradurre questo cambiamento in un miglioramento del proprio status
simbolico; ad esempio mediante l’assunzione di un nome arabo o afgano accanto, o al
posto, di quello di casta, un processo che appare affine al meccanismo della
“sanscritizzazione”, teorizzato per il caso indiano.
È necessario a questo punto tentare una definizione del concetto di biradari che,
come già accennato, è il termine più utilizzato in Pakistan per indicare la casta. Non vi è
una singola, universalmente accettata, definizione di biradari. Il termine deriva dalla
lingua persiana, dove sta per “fratellanza” e indica il gruppo formato da individui e
famiglie che si riconoscono reciprocamente come discendenti da un comune antenato di
sesso maschile; dunque la base del sistema è la patrilinearità. Naturalmente, come
avviene nel caso delle jati in India, anche per i biradari l’origine comune è più mitica
che storica. Il termine è soprattutto usato in Punjab, tuttavia la centralità di questa
provincia nella vita pubblica pachistana ha fatto sì che gradualmente la terminologia
punjabi abbia finito per estendersi alla politica di tutto il paese. I termini biradari e
“biradarismo” sono dunque diventati espressioni molto diffuse, che indicano la
dipendenza del sistema politico dagli equilibri, alleanze e conflitti tra i gruppi etnici e
d’interesse. Altri termini spesso utilizzati sono qaum e zat. Il primo è un termine
tradotto variamente come comunità o persino nazione, e sembra indicare un più ampio
gruppo etnico, comprendente differenti biradari. Il secondo indica invece le
suddivisioni esistenti all’interno di un biradari. In questo senso zat può essere utilizzato
come sinonimo di dhara (“fazione”; quest’ultimo ha però un significato più
derogatorio). Vi è tuttavia una grande incoerenza nell’uso di questi termini, poiché essi
sono utilizzati nella società pachistana per indicare gruppi e identità diverse secondo le
circostanze. In alcuni casi i termini possono persino essere utilizzati come sinonimi. La
ragione principale è che nella società pachistana, come nel subcontinente nel suo
complesso, questi termini fanno riferimento a livelli flessibili d’identità.
Esattamente come per la jati, il biradari in Pakistan è un elemento di “un
sistema sociale complesso, stratificato e pluralistico” (Weiner 2001), nel quale
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l’appartenenza al gruppo di nascita, alla regione, alla categoria professionale o al
gruppo d’interesse può intersecarsi, e la rilevanza politica di ogni singolo livello può
variare secondo le circostanze. Dunque talvolta il termine biradari può essere utilizzato
per indicare un gruppo etnico molto ampio - le cui origini e i confini sono molto
sfumati, come Jat, Arain, Baluch, Shaykh – che sono presenti in tutto il paese. In altri
casi il riferimento può essere a un gruppo etnico più limitato geograficamente (i Sayyid
di Multan, o gli Arain di Gujranwala). A diversi livelli, ovviamente, il biradari avrà
differente rilevanza politica. Nella dimensione più ampia, probabilmente il biradari non
sarà molto influente politicamente. Al tempo stesso, la popolazione potrà riconoscersi in
questa categoria, e tale riconoscimento avrà un significato per lo status e l’appartenenza.
Anche a questo livello più ampio, il biradari può talvolta svolgere un ruolo nella
politica nazionale, anche se questo va considerato più l’eccezione che la regola.
In alcuni casi un leader nazionale può utilizzare la sua appartenenza di biradari
come parte del proprio carisma personale. Esempi nella storia recente del Pakistan sono
dati dal già citato Ayub Khan, un Pathan, o l’ex-Primo Ministro Mian Nawaz Sharif,
leader della Pakistan Muslim League-N (PML-N), la cui immagine pubblica è legata al
fatto di appartenere a una famiglia punjabi immigrata dall’India; oppure, ovviamente,
quando un leader nazionale utilizza il suo potere per allocare risorse al suo biradari più
che ad altri. È tuttavia soprattutto a livello locale, di villaggio, distretto o città, che il
biradari gioca il ruolo più importante nella politica. In una singola “constituency” può
esserci un solo biradari dominante, ma più spesso vi saranno molti biradari, e ciò
renderà più incerto il risultato elettorale, che sarà il frutto di alleanze e negoziati. In
questi casi vi sarà normalmente un bilanciamento tra identità di gruppo e interessi
materiali. Ovvero, in termini generali, tra l’identità etnica e il fattore del “delivering”:
cioè la probabilità che il vincitore della competizione politica sia in grado di distribuire
risorse. Quest’ultimo fattore è rilevante in Pakistan come in India, ed entrambi i sistemi
possono essere definiti ”patronage democracies”, nel significato definito da Chandra
(2004), ovvero come Stati nei quali la sfera pubblica monopolizza l’accesso alle risorse
e dove i politici eletti hanno la possibilità di condizionare discrezionalmente la
distribuzione di queste da parte dello Stato.
Se dunque il biradari è particolarmente influente a livello locale, sia per quanto
riguarda l’allocazione delle risorse, sia la possibilità di influenzare gli equilibri politici,
non è un caso che la gran parte delle ricerche esistenti abbia riguardato il livello del
villaggio. Da questo punto di vista, la ricerca antropologica è concorde nel sostenere
che il biradari possa essere letto a due distinti livelli: riconoscimento e interazione
(Alavi 1976, Eglar 1960, Wilder 1999, Lyon 2004). I due livelli corrispondono alle due
dimensioni dell’interesse politico accennate poc’anzi: il biradari d’interazione
corrisponde ovviamente alla scala più ridotta, vale a dire, idealmente, quella del
villaggio; i membri del biradari si conoscono personalmente e interagiscono tra loro.
Mentre la dimensione del riconoscimento si manifesta in relazione agli individui e alle
famiglie che sono “idealmente” riconosciute quali appartenenti allo stesso gruppo di
discendenza, pur essendo al di fuori della sfera dell’interazione effettiva e dei rapporti
socio-economici. Va anche menzionato che il biradari svolge spesso un ruolo quale
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gruppo di assistenza e mutuo aiuto; ciò tende a rafforzare l’identità di gruppo e la lealtà
reciproca, fattori che possono essere utilizzati in occasione delle tornate elettorali.
“Casta” e politica elettorale
Contrariamente a un assunto molto diffuso, che vede le origini della correlazione
tra casta e potere legate alla dominazione coloniale, le radici di tale rapporto sono
inscindibili dalle caratteristiche antropologiche della società sud-asiatica; in Pakistan,
come nel resto dell’Asia meridionale, si può parlare di una debolezza dell’individuo e
della sua rilevanza quale soggetto politico, a favore del gruppo d’appartenenza. Da ciò
deriva l’idea che l’individuo non possa interagire con il potere se non attraverso la
mediazione offerta dal gruppo ascrittivo e dalle sue leadership. L’idea della mediazione
o intercessione, ovvero che l’individuo abbia necessità di un mediatore per approcciare
l’autorità, è molto radicata nella mentalità popolare sud-asiatica, tanto che le sue tracce
possono essere riscontrate già nelle descrizioni degli osservatori britannici agli inizi del
Novecento (Darling 1925, Gilmartin 1988).
Nella descrizione generale fatta in precedenza, si è introdotta una distinzione tra
due meccanismi di base per l’esercizio dell’influenza politica da parte dei biradari,
ovvero il meccanismo “etnico” e quello del “delivering”: voto per un candidato del mio
biradari oppure voto per un candidato che non appartiene al mio biradari ma che mi
offre la garanzia di poter attrarre risorse per il mio villaggio o la mia attività. Questa
distinzione, pur nella sua semplicità, è attendibile; essa tuttavia non tiene conto dei
rapporti di gerarchia, di clientela o di alleanza che possono stabilirsi tra diversi biradari.
Un esempio classico – spesso citato dagli studi sul campo – è dato dai cosiddetti
“feudalists”, ovvero dalle famiglie influenti dei distretti meridionali del Punjab, le quali
traggono spesso la loro autorità dalla custodia di luoghi di pellegrinaggio e tombe di
santi musulmani. Molto spesso queste famiglie hanno acquisito nel corso del tempo
delle estese proprietà fondiarie, unendo dunque diverse sfere di autorità: quella
spirituale, quella di patronato nei confronti di un certo numero di famiglie, quella
derivante dal ruolo di proprietario terriero verso i contadini.
In questo modo, un biradari può controllare un vote bank consistente, costituito
sia da caste e famiglie legate da rapporti spirituali, sia socio-economici, sia, ovviamente,
da coloro che sono motivati dal fattore “delivering”. Un esempio particolarmente noto
di questo tipo di autorità è costituito dall’ex Primo Ministro del Pakistan, Yussuf Raza
Gilani, proveniente da una famiglia religiosa molto influente di Multan. Un secondo
esempio può essere l’ex-Ministro degli Esteri Shah Mahmud Qureshi, anche lui
proveniente da Multan. In questi casi è evidente che l’influenza socio-economica ha
preceduto quella politica, ma è stata da questa rafforzata, grazie alla possibilità delle
leadership di mediare con le autorità statali, siano esse elettive o amministrative e di
svolgere un ruolo di patronage nei confronti delle caste subordinate. Dunque, in questo
caso, un biradari dispone di un’autorità multipla. La capacità delle famiglie influenti, o
dei leader di casta, di controllare i vote banks, e al tempo stesso il fatto che l’autorità di
queste famiglie sia prettamente basata nelle località ha teso a rendere più efficace il loro
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controllo del voto nelle elezioni locali - municipali e provinciali - che in quelle
nazionali, e laddove i collegi elettorali sono meno estesi e rispecchiano più fedelmente i
confini etno-religiosi. Tuttavia la debolezza dei partiti politici, sia della PML che del
PPP, e la loro tendenza a “rispecchiare” le strutture locali piuttosto che a modificarle, ha
fatto sì che la geografia politica delle località venga trasferita in modo analogo
all’interno dei partiti. La stretta relazione esistente tra le strutture di biradari e le
dinamiche elettorali è un fenomeno noto agli studiosi della storia della regione. Già in
occasione delle elezioni tenutesi durante l’epoca coloniale, in particolare quelle del
1937 e del 1946, l’influenza dei biradari è stata profonda (Talbot 2000).
Dopo l’indipendenza, diversamente dal caso indiano, l’influenza delle caste in
Pakistan non ha trovato una propria cornice istituzionale nel partito dominante. Il partito
artefice dell’indipendenza, infatti – la PML – piuttosto che rispondere al profilo del
“consensus party”, secondo la terminologia di Kothari, era un partito rappresentativo di
un gruppo d’interesse socialmente e geograficamente delimitato, essenzialmente il ceto
medio-alto delle United Provinces, nell’India settentrionale. La leadership del partito,
dunque, non era quasi per nulla radicata nelle province costituenti il nuovo Stato del
Pakistan. Questa peculiare circostanza ha fatto sì che il partito fosse percepito come
un’entità estranea alle province pachistane, specialmente nel Punjab. Il partito
“dominante”, dunque, essendo in realtà molto debole, non ha garantito un’arena per la
ricomposizione dei conflitti locali, come il Congress, ma si è ben presto frammentato in
fazioni. Le sezioni provinciali del partito, controllate dai biradari locali, hanno
ingaggiato una competizione con i dirigenti nazionali che ha condotto in definitiva alla
sua frammentazione lungo linee regionali e clientelari; a soli due anni
dall’indipendenza, nel 1949, ex-membri della PML avevano già formato non meno di
nove partiti concorrenti (Syed 1989). Quando il regime di Ayub Khan riammetterà i
partiti politici, nel 1962, la PML si ritroverà nuovamente divisa in fazioni concorrenti
che se ne contenderanno l’eredità storica (Talbot 2000). Senza dunque voler negare la
concomitanza di altri fattori, la debolezza del partito è stata dunque l’elemento
fondamentale che ha determinato il fallimento della transizione democratica pachistana
(Talbot 2000, Jalal 1995). La tendenza a posticipare sistematicamente l’indizione di
elezioni nazionali e lo scivolamento del Pakistan verso la dittatura militare ha
ulteriormente rafforzato il ruolo dei gruppi di sangue a spese dei partiti politici nazionali
(Ahmed e Naseem 2011). I regimi militari hanno, infatti, organizzato elezioni su base
non partitica negli anni sessanta del novecento sotto il regime del Generale Ayub Khan,
nel 1985 durante quello di Zia-ul-Haq e nel 2001-5 durante il governo di Musharraf. In
queste circostanze, la frapposizione di ostacoli all’attività dei partiti politici da parte
dello Stato ha fatto sì che le elezioni siano state vinte soprattutto a livello di biradari
(Ahmed 2009; Ahmed e Naseem 2011).
E’ evidente che non dappertutto i biradari hanno la stessa capacità di influenzare
il voto. Con riferimento alla provincia del Punjab, è invalsa la consuetudine di dividere
la geografia politica della regione sulla base del grado di sviluppo socioeconomico. Ad
esempio, un tentativo di analisi di Burki e Baxter di alcuni anni fa aveva distinto le aree
della provincia secondo un indice di modernizzazione basato su tre indicatori:
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urbanizzazione, industrializzazione e istruzione (Burki e Baxter, 1975). Un’analisi
simile è stata condotta di recente da Wilder (1999), il quale, prendendo in
considerazione un più ampio range di criteri, ha distinto quattro aree politiche
(settentrionale, centrale, meridionale e sud-occidentale). L’analisi di questi autori era
finalizzata a definire il rapporto tra modernizzazione e risultato del voto nelle elezioni
nazionali, e grosso modo giungeva alla medesima conclusione, in qualche modo
prevedibile: il voto era maggiormente influenzato dalle dinamiche legate ai biradari
nelle aree rurali e nei distretti meno influenzati dal processo di modernizzazione, dove
permanevano rapporti socio-economici di tipo tradizionale; nelle aree sottoposte a
maggiore cambiamento socio-economico, e nelle zone urbane, invece, tendevano a
prevalere la lealtà al partito, fattori di natura ideologica o l’effetto “delivery”. Tutti gli
autori considerati concludevano che, con l’estensione del processo di modernizzazione,
l’influenza dei biradari sarebbe diminuita, lasciando spazio ad una maggiore
importanza dell’ideologia e dell’affiliazione partitica nelle decisioni politiche. Wilder,
ad esempio, cita due elementi a riprova della sua analisi: il costante calo del numero di
candidati indipendenti risultati vincenti nelle elezioni dal 1990 al 1993 (Wilder 1999,
191) e la tendenza del sistema politico pachistano, tra il 1988 e la fine degli anni
novanta, a strutturarsi secondo un modello sostanzialmente bipartitico (basato cioè sulla
competizione PML-PPP).
Il difetto di queste previsioni è duplice: esse considerano, da un lato, l’influenza
dei kinship groups come un problema prettamente socio-economico, piuttosto che
culturale. La conseguenza di questa lettura è, dunque, che lo sviluppo economico
dovrebbe necessariamente portare alla scomparsa di tali strutture, il che non sembra
essersi verificato. Inoltre, esse tendono a considerare la lealtà di biradari come un
elemento che possa presentarsi solo “allo stato puro”; esse cioè individuano una netta
distinzione tra logica di kinship, fattore ideologico o di affiliazione partitica, o
motivazioni di interesse. In realtà, come si è accennato poc’anzi, l’affiliazione di sangue
o clanica in Pakistan sembra possedere delle caratteristiche di flessibilità che gli autori
hanno spesso sottovalutato. Anche da questo punto di vista la realtà castale in India può
servire da utile termine di paragone: esattamente come la jati in India ha dato prova di
potere efficacemente trasferire il proprio legame di nascita in lealtà politica o gruppo di
interesse, così il biradari pachistano non appare essere incompatibile con la lealtà di
partito, almeno a giudicare dai risultati delle più recenti elezioni.
Dopo il ritorno alla democrazia nel 1988, infatti, tutti i partiti nazionali, senza
eccezione, hanno cercato l’appoggio delle strutture locali di autorità per imporsi alle
elezioni. Persino il PPP, sorto nel 1970 come partito “progressista” e tendenzialmente
ostile ai leader rurali del Punjab, tanto da includere nel proprio “manifesto” del 1970 un
progetto di riforma fondiaria (Baxter 1973), nel corso degli anni Settanta e Ottanta ha
rapidamente modificato la propria propaganda, e ha adottato la stessa strategia della
PML di alleanze con i leader di biradari nelle regioni più tradizionali del paese. Ciò ha
portato il PPP a diventare il partito più forte in tali regioni nel corso degli anni Novanta.
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Ciò che deve essere rilevato è che laddove i biradari hanno maggiore influenza,
in pratica la selezione del personale politico non avviene all’interno delle strutture dei
partiti, ma è in qualche modo predeterminata in base all’appartenenza familiare. Si può
in qualche modo affermare che in questi casi il partito deleghi ad altre strutture
sociopolitiche il compito di selezionare la classe politica. Il partito si limita a “prendere
atto” dell’influenza sociale e politica che determinati attori rivestono in certe aree,
allocando i ticket elettorali in modo conseguente. Si può dunque parlare di partiti che
almeno in parte abdicano al loro compito istituzionale di selezione della classe politica.
In questo contesto può dunque avvenire che siano i gruppi ascrittivi a prevalere sul
partito, al punto che un gruppo familiare o castale può rivendicare il proprio diritto
“naturale” ad esercitare la leadership, prima e a prescindere dalla sua affiliazione ad un
partito.
Se è il gruppo ascrittivo che avoca a sé il compito di selezionare al proprio
interno i migliori leader per la politica provinciale e nazionale, ci troviamo in un ambito
molto affine al fenomeno della vernacolarizzazione della democrazia analizzato da
Michelutti nella sua ricerca sugli Yadav dell’Uttar Pradesh (2007). Nel paradigma
proposto da Michelutti, certe caste creano un collegamento tra i miti tradizionali relativi
alle origini della casta di appartenenza, e le esigenze e gli interessi moderni di ordine
politico ed economico. La mobilitazione politica dei gruppi di casta, dunque, è riletta
coma parte del DNA della casta stessa, iscritta nelle sue origini divine (Michelutti 2007,
646), e le supposte caratteristiche di attivismo, coraggio, tendenza a lottare contro le
ingiustizie e proteggere i più deboli, sono rivendicate dai leader Yadav e sono fatte
risalire alla loro mitica discendenza dal dio Krishna (Michelutti 2007, 649, 652). In un
certo senso, l’aspetto istituzionale diventa irrilevante. È la casta, con le sue qualità, che
conta.
Il caso analizzato da Michelutti è forse un caso difficilmente estendibile alle
“caste” pachistane, molto meno solide e strutturate. Tuttavia ci sembra che possa
fungere da utile termine di paragone per analizzare delle dinamiche della politica rurale
nel caso pachistano, soprattutto nel caso delle regioni dove il “biradarismo” si ritrova
allo stato più “puro”, cioè gerarchizzato, ordinato secondo un criterio di tipo “naturale”,
e meno condizionato dalla trasformazione in gruppo d’interesse, ovvero le aree più
tradizionali del paese. Per esempio, nel caso delle famiglie di Sayyid e Shaykh del sud
Punjab la leadership della comunità è rivendicata con orgoglio come parte del destino
dei propri biradari. Anche in questo caso, le due famiglie più influenti della regione, i
Qureshi e i Gilani, fanno risalire alle proprie discendenze familiari il possesso delle
qualità che li rende dei leader naturali. Trattandosi di famiglie discendenti dal Profeta
dell’Islam, le qualità che i membri delle famiglie possiedono sono collegate, nella
visione popolare, alle qualità del Profeta stesso. Questa percezione è nitidamente
rappresentata in occasione delle celebrazioni per una delle varie festività legate al
calendario religioso dei santuari del Punjab. Queste circostanze rappresentano i più
chiari esempi della mescolanza di religioso e politico nella politica locale; al tempo
stesso, esse pongono in evidenza i meccanismi per la costruzione e per il mantenimento
del sostegno politico in queste regioni. L’autore ha avuto la possibilità di assistere
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personalmente ad alcune manifestazioni dell’unità di religioso e politico in questi casi
nel corso del 1997-1998 e ancora nel 2001 a Multan. Normalmente le cerimonie
religiose dedicate alla celebrazione di un “santo” antenato dell’uomo politico
costituiscono altrettante circostanze politicamente rilevanti. Le cerimonie comprendono
discorsi pubblici da parte di ulama e altri esponenti religiosi musulmani che esaltano
non solo le figure dei santi antenati dell’uomo politico, ma anche e soprattutto le virtù
umane e politiche dei suoi discendenti viventi. Una volta esaurita la parte religiosa della
cerimonia, il leader politico si allontana per ricevere le richieste di favori da parte dei
suoi elettori. Come gli Yadav delle UP attribuiscono alla discendenza divina le proprie
qualità politiche, così, nella percezione popolare, le famiglie “sante” di Multan sono
percepite quali rappresentanti naturali della comunità non per le proprie qualità
personali, ma per la propria discendenza dal Profeta e dal “santo” antenato. Ne deriva
una sorta di deresponsabilizzazione dell’elettore, che spesso rinuncia a esercitare una
scelta ragionata sul candidato sulla base delle sue idee o delle sue qualità personali.
Conclusione
Fino a epoca recente si era soliti considerare il ruolo dei fattori “ascrittivi” nel
sistemi politici asiatici come destinati a declinare, se non a scomparire inevitabilmente,
sulla base della tendenza alla modernizzazione delle economie e delle organizzazioni
sociali di queste regioni (Burki e Baxter, 1975). Questa interpretazione si basava
sull’idea che la modernizzazione fosse un processo irreversibile e che essa fosse
incompatibile con il mantenimento di lealtà etnoreligiose. Possiamo oggi affermare che
queste previsioni si sono rivelate inesatte, sia con riferimento ai biraderi in Pakistan sia
alle jati in India. Al contrario, possiamo affermare che la tendenza alla politicizzazione
delle identità etnoreligiose e la capacità di queste di influenzare il voto si sono
rafforzate dagli anni novanta a oggi. In India ciò è dimostrato dall’incapacità dei due
grandi partiti, del BJP e del Congress, di creare governi monopartitici, e alla loro
dipendenza da grandi alleanze di partiti regionali e castali, che è divenuta la
caratteristica principale della politica indiana dal 1989 a oggi. In Pakistan sembra di
poter affermare che le lealtà di biradari abbiano esercitato, dagli anni Settanta in poi,
una forte capacità di attrazione sulle forze politiche. Il fatto che questa capacità di
attrazione non si sia indebolita è dimostrato da due circostanze: l’esempio più recente è
dato dalla politica del Tehrik-e-Insaaf di Imran Khan, la “terza forza” della politica
pachistana. Questa, nata nel 1996, ha ottenuto scarsi risultati elettorali sia nelle elezioni
del 1997 (1,7%, 0 seggi nell’assemblea nazionale) sia nel 2002 (0,8%, 1 seggio nella
Assemblea nazionale). Dal 2011 il partito ha iniziato una politica di alleanze strategiche
e ha sistematicamente accolto nelle sue file transfughi provenienti dalla PML-N e dal
PPP, appartenenti ai biradari principali del sud Punjab, aumentando di molto la forza
del partito in aree laddove la propaganda “progressista” o l’immagine modernista del
suo leader non erano stati fino ad oggi sufficienti. Infine, si può osservare che le
dinamiche claniche mostrino negli anni più recenti, la tendenza a travalicare le aree più
“tradizionali” del paese, per estendersi altresì a zone urbane e aree maggiormente
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industrializzate. Ciò sembra in qualche modo contraddire recenti analisi che indicavano
nella penetrazione del fattore ideologico o delle lealtà di partito, fattori di
marginalizzazione delle lealtà claniche (Wilder 1999). Ciò detto, è pur vero che la
rilevanza dei biradari nelle dinamiche elettorali si presenta come più incerta che in
passato per almeno due ragioni: la tendenza alla frammentazione di alcune dei grandi
biradari, e dunque il fenomeno che vede esponenti dei clan affiliarsi a partiti
concorrenti; in secondo luogo, la tendenza di tutti i partiti maggiori a cercare di
candidare esponenti delle famiglie più influenti nelle diverse località. Tali elementi
contribuiscono a aumentare il grado di incertezza del risultato elettorale. Infine, la
rilevanza del fattore islamico, almeno in alcune aree del paese, soprattutto nel
Baluchistan e nella Khyber Pakhtunkwa – ma anche in alcune aree del Punjab – può
costituire un fattore almeno parziale di compensazione delle lealtà etniche.
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