La memoria dei minatori italiani in Belgio

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La memoria dei minatori italiani in Belgio
1/9/2016
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La memoria dei minatori italiani in
Belgio
di Paolo Riva, foto di Diego Ravier A-
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BRUXELLES – Farli raccontare è facile. Ricordano di quando hanno visto
quei “manifesti rosa”, che solo dopo hanno capito essere una “presa in
giro”, di quando sono partiti perché “c’era bisogno di soldi, ma la
campagna non li dava” e di quando, la prima volta che sono scesi “al
fondo”, hanno pensato: “Se risalgo in superficie, laggiù non ci torno più”.
Il difficile è trovarli. In molti, ormai, sono mancati e quelli ancora in vita
sono anziani, infermi o, in parecchi casi, vittime di quella “malattia della
mina”, la silicosi, che rende il respiro corto e il racconto troppo faticoso.
Sono gli ex minatori italiani in Belgio. Sono gli ultimi custodi di una
memoria fatta di miseria ed emigrazione, di discriminazioni e sacrifici, ma
anche di soddisfazioni e orgoglio. Sono i lavoratori che il nostro paese ha
barattato con Bruxelles in cambio di combustibile a partire dal 23 giugno
1946. A Roma, in quella data, veniva firmato un protocollo per il
trasferimento di 50.000 lavoratori italiani nelle miniere belghe, il
cosiddetto accordo “uomo-carbone”, siglato dal primo ministro De
Gasperi e dal suo omologo Van Acker. In quella fase storica, come scriveva
sul Bollettino della Società geografica italiana Ferdinando Milone pochi
anni dopo, “lo sviluppo delle industrie e dei commerci” consentiva a una
parte dei belgi di “abbandonare una fatica quanto mai ingrata ed
abbrutente, nociva, mal retribuita e pericolosa”. Nelle miniere, a prendere
il loro posto, arrivarono gli italiani, affamati di lavoro, ma ignari di quel
che li attendeva.
Baracche e pozzi
Tra il 1946 e il 1957 gli italiani espatriati verso quel presunto El Dorado
sono stati 223.972, a fronte di 51.674 rimpatri. Per la storica italo belga
Anne Morelli si tratta di “un afflusso senza precedenti”, che un paese come
il Belgio (otto milioni e mezzo di abitanti nel 1950) non era assolutamente
preparato ad accogliere. E infatti le famiglie italiane, quando arrivarono,
finirono nelle baracche, costruzioni di lamiera che durante la Seconda
Guerra Mondiale erano destinate ai prigionieri ed erano rimaste in piedi
anche dopo il conflitto.
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Il libretto di lavoro con cui Mario Bandera ha iniziato a fare il minatore nel 1949, a 14 anni
(©DiegoRavier/HansLucas).
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“Erano di ferro. D’estate non ci potevi stare per il caldo. D’inverno, invece,
nonostante la grande stufa, si crepava dal freddo”, spiega Mario Bandera
(nella foto in apertura), bresciano di Erbusco, con trent’anni di esperienza
nelle gallerie di Blegny, vicino a Liegi, tutti con la medaglia numero 153.
“Quando siamo arrivati per la prima volta al campo 17, l’ex campo dei
prigionieri tedeschi – gli fa eco Aliboni – mia madre chiese a mio padre
dove fossero le case. Sono queste. Per il momento ci dobbiamo dare pace,
rispose, rosso in volto per la vergogna”.
L’alloggio però non era l’unico aspetto dell’emigrazione inatteso e
negativo. La prima volta in mina e la discesa al fondo, anche per le
modalità in cui avvenivano, hanno rappresentato per molti uno shock, un
ricordo indelebile, un momento cruciale. “Son arrivato di giovedì e il
lunedì ero già a lavorare. La prima volta che son sceso non sapevo nulla di
quello che mi aspettava. Prima, avevamo fatto solo due o tre giorni di
formazione”, ricorda Capierri che però al fondo ci è andato per 33 anni.
Non tutti però hanno avuto la forza di Luigi e di Lino. Quest’ultimo se li
ricorda bene quelli che si arrendevano: “Ne ho visti tanti che son tornati a
casa. Allora eravamo obbligati a lavorare nella mina, altrimenti si veniva
messi in prigione e poi rimandati in Italia”. Tecnicamente, anche se di fatto
lo erano, non si trattava di prigioni, ma di centri di raccolta. Tra questi, il
più tristemente famoso era quello del Petit-Château a Bruxelles, un edificio
che è rimasto in funzione fino al 1950 e che oggi è uno dei centri per
richiedenti asilo della capitale belga.
Bois du Cazier, Marcinelle (©DiegoRavier/HansLucas).
Musei e guide
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Musei e guide
Oggi che le miniere sono solo un ricordo, persone come Urbano, Mario,
Sergio e Lino sono i testimoni di un’epoca lontana, che giudicano con un
misto di rancore e nostalgia. Ma che non perdono occasione di raccontare,
custodire e tramandare.
“Il Bois
du
Cazier,
dopo la
Luigi Capierri, ex minatore con la sua divisa (©DiegoRavier/HansLucas).
chiusura del 1967, è rimasto all’abbandono per anni. Poi – si infervora
Ciacci – hanno cominciato a dire che avrebbero spianato tutto. Avevamo
ancora i morti sotto i piedi e volevano farci un supermercato: non andava
bene!”.
Bois du Cazier è il nome corretto della miniera di Marcinelle, diventata
celebre a causa dell’incidente che, l’8 agosto 1956, ha causato la morte di
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262 minatori, tra cui 136 italiani. Ciacci ci ha trascorso tutta la sua vita
professionale. “Io e altri cinque, sei minatori abbiamo iniziato a venire qui
al Bois du Cazier per tagliare l’erba e fare qualche lavoretto. Poi, abbiamo
coinvolto un sacerdote scalabriniano italiano e abbiamo raccolto le firme.
Se non ci muovevamo noi…”. L’impegno di Ciacci e i suoi compagni ha
portato a un interessamento delle istituzioni locali e, infine, all’apertura
dell’attuale museo, diventato nel 2012 uno dei tre siti minerari belgi
patrimonio dell’umanità Unesco. “Questa notizia mi ha fatto molto felice.
Vuol dire che non si può tornare indietro. Anzi, ogni anno, il museo
migliora: io ci passo tutti i giorni”.
Anche Mario Bandera per parecchio tempo ha continuato a frequentare
quotidianamente le gallerie in cui aveva lavorato: a Blegny ha fatto 30 anni
come minatore e 31 come guida. “Appena andato in pensione son stato per
tre mesi in ospedale. Ho fatto una depressione nervosa. Poi, mi hanno
chiamato dal museo per fare da guida ai visitatori. Ho fatto il primo tour,
ho buttato via tutte le medicine e ho cominciato a farlo ogni giorno. Ho
fatto anche nuovi amici, come Michel, un ex minatore belga. È importante
tenere viva la memoria”, dice tra una descrizione del lavoro interno alla
miniera e l’altra.
È un tratto comune a molti degli ex minatori: spiegano nel dettaglio il
duro lavoro sottoterra, all’interno di pozzi che potevano superare i 1000
metri di profondità e dentro vene di carbone che potevano essere alte
anche meno di 50 centimetri. Lo fanno con precisione, con dovizia di
particolari e termini tecnici, assicurandosi che chi li ascolta abbia capito
davvero. La memoria del periodo che hanno vissuto e che, non per molti
anni ancora, potrà contare sul racconto in prima persona dei protagonisti,
vive anche attraverso questi aspetti apparentemente marginali. Anzi, è
proprio tra una spiegazione e l’altra, che emergono gli aspetti più
personali e intimi di quell’emigrazione di massa cominciata nel 1946.
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Michel Claus, amico belga di Mario Bandera, ex minatore e guida a Blegny-Mine
(©DiegoRavier/HansLucas).
(Carte di) Identità
Esattamente settant’anni dopo, i protagonisti di questa grande vicenda
sociale e personale possono, a seconda dei punti di vista, essere
considerati gli sconfitti o i vincitori della cosiddetta “battaglia del
carbone”. Le valutazioni che gli ex minatori danno dell’accordo italo-belga
e della loro esperienza migratoria, infatti, si intrecciano e bilanciano, con
lucidità e, a volte, rabbia.
Bandera, per esempio, nonostante la silicosi, quando gli si chiede cosa ne
pensi del protocollo firmato da De Gasperi e Van Acker, si scalda: “Penso
che l’Italia ha venduto gli italiani per cento chili di carbone al mese. Questo
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penso. Ed è così, caro mio: è la storia, la verità”. Anche Rota, molto più
pacato e conciliante, ammette di “essere stato venduto per un sacco di
carbone”. Lo ribadisce anche un cartello affisso all’ingresso del “suo”
museo, affisso accanto alla valigia con cui è arrivato in Vallonia. “L’accordo
si poteva fare un po’ meglio, in modo diverso. Era tutto molto differente da
quel che ci avevano promesso”. Aliboni, anche lui impegnato con
l’associazione Amicale des Mineurs des Charbonnages de Wallonie, è
ancora più duro. “L’Italia ha tradito i miei genitori: si son fatti tradire da
quel manifesto pieno di promesse. Quelli della mia generazione, invece,
hanno faticato e sofferto, ma hanno la soddisfazione di aver vinto la
battaglia più bella, quella per dare ai figli la possibilità di studiare”.
I figli. È pensando a loro che il giudizio severo sulla situazione politicosociale passa quasi sempre in secondo piano rispetto alle gioie familiari e
alle conquiste economiche. È soprattutto per loro che si è continuato a
scendere sottoterra per lavorare e guadagnare. Ed è per loro che si è
accantonata l’idea di tornare in Italia. Senza però diventare del tutto belgi.
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Urbano Ciacci, ex minatore al Bois du Cazier di Marcinelle (©DiegoRavier/HansLucas).
“A 41 anni avevo smesso con la miniera, ma ho avuto il coraggio di passare
ancora la visita e di tornare a lavorare: avevo la casa da pagare e son stato
altri sei anni a Pieton – Bois de la Vallée. Tutto quel che ho oggi, lo devo a
quella scelta”, racconta Capierri con orgoglio. “Però – aggiunge la moglie
accanto a lui – non abbiamo mai preso la cittadinanza belga: abbiamo
ancora la carta d’identità italiana”. È una situazione abbastanza comune.
“Ci ho pensato eccome a tornare in Italia – riflette Ciacci -, ma avevo già
sofferto molto lasciando la mia famiglia una volta. Non volevo farlo di
nuovo con quella che mi ero creato qui”. Anche lui, la moglie e i figli non
hanno mai chiesto la cittadinanza belga.
Per quanto formale, la scelta di restare italiani contrasta con un’identità
che, per ammissione degli stessi emigranti, è ormai cambiata. E non ben
definita. “Quando andavo a trovare i miei genitori – riprende la moglie di
Capierri con grande trasporto – mi accoglievano tutti dicendo: È arrivata la
Belgia! Ormai avevamo una mentalità diversa. E poi mi prendevano in
giro, chiedendomi di tirar fuori i soldi belgi che volevano sentirne l’odore.
Ma io, che son diretta, rispondevo: Ma lo sapete che mio marito scende
fino a mille metri per guadagnare questi soldi qui?!?”. La sintesi più
efficace però spetta a Buscemi, che riflette sulla sua esperienza insieme alla
moglie e al figlio, seduto nella sua casa a Bois du Luc, in una via dominata
dalla torre della miniera sullo sfondo. Sul tavolo della cucina diverse latte
di polpa di pomodoro, nella vetrinetta del soggiorno una bottiglia di
limoncello e una di Martini bianco, in tv le immagini del gran premio, che
l’ex minatore segue con grande attenzione tifando Ferrari, ovviamente.
“Mi sento straniero qui e straniero in Italia” dice. “Però non mi pento di
essere partito. Ormai, siamo Belgitani”.
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Diego Ravier – @droitsreserves
Paolo Riva – @paolorivaz
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