App Did 2 - Divisione Julia

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App Did 2 - Divisione Julia
LABORATORIO PROVINCIALE PERMANENTE DI SCRITTURA CREATIVA
Sezione Racconto - Incontro con l’autrice Fabiana Redivo
Aula Magna “F. Dardi”, 12/12/2016
DIPENDENDENZA DAL LAVORO, DALLE COSE, DALLA ... ROBA!
1. G. Verga, La roba. Mazzarò, padrone o schiavo?
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di
Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello,
se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della
lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua
canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: “Qui di chi è?” sentiva rispondersi: “Di Mazzarò.” E
passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolate
all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: “E qui?” “Di Mazzarò.” [...] Poi
veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di
Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le
lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col
muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre
delle mandrie di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no,
e il canto solitario perduto nella valle. “Tutta roba di Mazzarò”. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le
cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco.
[...] Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e con la sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal
batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi
stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non
aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba, Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.[...]
Dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come;
ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai
suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo tra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne padrone di tutta la roba
del barone [...] Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una
ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora,
dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, con il mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano
sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se
un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per
invidia, e borbottava: “Guardate chi ha i giorni lunghi! Costui che non ha niente!” Sicché quando gli dissero che era tempo di
lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone
le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba mia, vientene con me!”
Quale valore assume la “roba” per Mazzarò? L’ansia di possesso risponde soltanto a un’esigenza economica o agiscono
altri fattori? Mazzarò ti sembra padrone, indipendente, o piuttosto dipendente, schiavo del lavoro e della “roba”?
Immagina la replica del giovane garzone: ricorda che dovrà contenere un messaggio!
DIPENDENDENZA DAL BRANCO
2. N. Ammaniti, Io non ho paura. Il coraggio di dire di no.
Non parlava più. L'ho abbracciato, coperti di fango, tremavamo di freddo. Non c'era più niente da fare. Non ce la facevo neanche
io. Mi sentivo stanco da morire, stremato, la caviglia continuava a battere. Ho chiuso gli occhi, il cuore ha cominciato a rilassarsi
e senza volerlo mi sono addormentato. Ho riaperto gli occhi. Era buio. Per un secondo ho creduto di essere a casa, nel mio letto.
Poi ho sentito il cane di Melichetti abbaiare. E delle voci. Erano arrivati. L'ho strattonato. - Filippo! Filippo, stanno qua! Ti
vogliono ammazzare. Alzati.” Ha ansimato. “Non posso.” “Sì, invece. Ci scommetti?” Mi sono inginocchiato e con le mani l'ho
spinto in avanti, tra i rami, fregandomene del male. Mio, suo. Dovevo portarlo fuori da quel buco. Le fascine mi graffiavano ma
ho continuato a spingere, stringendo i denti, fino sotto la bocca nella roccia. Le voci erano vicine. E un bagliore balenava sulle
fronte degli alberi. L'ho acchiappato per le braccia. “Ora devi metterti in piedi. Lo devi fare. E basta.” [...] Ora sembravano lì. Il
cane abbaiava sopra la mia testa. “No.” “Tu invece te ne vai, hai capito?” Se lo mollavo crollava a terra. L'ho preso tra le
braccia e l'ho spinto verso l'alto. “Prendi la corda, forza.” E l'ho sentito più leggero. Si era attaccato! Quel bastardo alla fine si
era attaccato alla corda! Era su di me. Poggiava i piedi sulle mie spalle. “Ora io ti spingo, ma tu continua a tirarti su con le
braccia, capito? Non mollare.” [...] Ho provato ad alzarmi, ma la gamba non rispondeva più. Da terra ho cercato di acchiappare
la corda senza riuscirci. Sentivo le voci sempre più vicine. Il rumore dei passi. “Michele, vieni?” “Arrivo.” La testa mi girava, ma
mi sono messo in ginocchio. Non ce la facevo a tirarmi su. Ho detto. “Filippo, scappa!” Si è affacciato. “Sali!” “Non ce la
faccio. La gamba. Scappa, tu!” Ha fatto di no con la testa. “No, non vado.” La luce alle sue spalle era più forte. “Scappa. Stanno
qui. Scappa.” “No.” “Te ne devi andare. Ti prego! Vattene!” “No.” Ho urlato e implorato. “Vattene! Vattene! Se non te ne vai, ti
ammazzano, lo vuoi capire?” Si è messo a piangere. “Vattene. Vattene via. Ti prego, ti scongiuro, vattene via... E non ti fermare.
Non ti fermare mai. Mai più... Nasconditi!” Sono caduto a terra. “Non ce la faccio”, ha detto. “Ho paura.” “No, tu non hai
paura. Non hai paura. Non c'è niente da avere paura. Nasconditi.” Ha fatto di sì con la testa ed è scomparso. Da terra ho
cominciato a cercare la corda nel buio, l'ho sfiorata, ma l'ho perduta. Ci ho riprovato, ma era troppo in alto. Attraverso il buco ho
visto papà. In una mano teneva una pistola, nell'altra una pila elettrica. Aveva perso come al solito. La luce mi ha accecato. Ho
chiuso gli occhi. “Papà, sono io, Miche...” Poi c'è stato il bianco.
a) Il ritmo di questo brano è piuttosto serrato: sembra di vedere i rapitori in avvicinamento, eppure non sono nemmeno
descritti. Su cosa punta l'autore? Sapresti descrivere cosa sta accadendo all'esterno del buco? Scrivi una sequenza usando
uno stile paratattico. b) La drammaticità della vicenda sta principalmente nella scoperta da parte di Michele del
coinvolgimento del padre nel rapimento. Il finale è aperto. Trova tu una conclusione.
Qualche volta ci vuole molto coraggio per liberarsi da reti, piovre, catene ... Quando hai detto a te stesso e agli altri “Io non
ho paura”?
DIPENDENDENZA DA SOSTANZE
3. I. Svevo, La coscienza di Zeno . L’ultima sigaretta.
(Zeno, scavando nel passato, racconta di essersi trovato a letto ammalato con un fortissimo mal di gola)
[...] Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: un
vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce intorno ad un vuoto. Quando il dottore mi lasciò,
mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia.
Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse: – Non fumare, veh! Mi colse
un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una
sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle
tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si
compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo
sigaro in bocca dicendomi: – Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito! Bastava questa frase per farmi
desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per
indurlo ad allontanarsi prima. Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie
giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono
ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia
debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi
dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime. Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia
registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica.
Ultima sigaretta!!». [...] Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto
speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo
futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza
e di salute permane, ma va un po’ più lontano.
Le dipendenze sono tali quando hanno carattere COMPULSIVO: sai cosa significa?
Zeno riesce finalmente a non fumare più e dopo alcuni anni racconta in una lettera a un giovane l'esperienza della prima
sigaretta. Cosa scriverà e cosa gli consiglierà, considerata l’evoluzione della dipendenza?
4. Amy Winehouse, l'alcol, la morte e il "Club27": il 23 luglio l'anniversario della scomparsa di Michele Galvani
Quelle maledette bottiglie di vodka, nelle quali annegava la sua depressione. E quel maledetto talento, che l’ha trascinata nel
vortice dello showbiz, il «mondo buio» dove sopravvive solo chi non era fragile come lei. Il 23 luglio del 2011 il mondo della
musica piange Amy Winehouse, voce nera e cavernosa dentro un corpicino bianco e potente, uccisa in casa da un’overdose di
alcol ma soprattutto dalla solitudine e dalla paura di vivere. Una ragazza sempre in bilico tra l’oscurità del suo male e la luce
delle sue canzoni. Una morte però, non improvvisa. Da anni la star di Londra, cresciuta scrivendo poesie e sognando il jazz,
lottava contro bulimia, alcol e droga. Una rockstar in piena regola, finita quasi come fosse scritto nella sceneggiatura del
peggiore dei film horror nel «club dei 27», le rockstar morte drammaticamente a 27 anni di cui fanno parte Jim Morrison, Jimi
Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Robert Johnson e Kurt Cobain. Rockstar maledette, entrate nell’immaginario collettivo non
solo per i loro brani, ma anche per le loro ascese e cadute. Trasgressive, genialoidi, provocatorie. REHAB. Era il suo terrore. Ma
anche il suo rifugio, il centro di recupero dove andava a disintossicarsi. Talmente centrale da farlo diventare una hit, “Rehab”,
singolo apripista di “Back to Black”, il disco (2006) che l’ha consacrata facendola uscire da quella nicchia inglese nella quale
era cresciuta a colpi di soul e jazz. Perché la forza di Amy è stata quella di dare un taglio pop all’universo jazz. Ballate come
“Love is a losing game” o “You Know I’m no good” sono pezzi senza tempo: note dolci e voce black, mix perfetto per un viaggio
nell’amore o all’inferno a seconda delle sue ispirazioni. Ma Winehouse non ha significato solo musica. Spesso è stata al centro
delle polemiche per le sue sbandate: il controverso matrimonio con Black Fielder-Civil, reo di averla trascinata nella droga, le
nottate da sballo immortalata dai paparazzi ubriaca fuori da qualche locale, le esibizioni confusionarie ai festival dove non stava
in piedi neanche appoggiata all’asta del microfono. «Sono fortunata, non tutte le persone che soffrono di depressione possono
farlo», raccontava parlando delle sue fonti d’ispirazione quando scriveva musica. «Racconto solo storie vere, cerco
l’originalità». Di certo, ci riusciva. E bene. Il 14 settembre prossimo, il giorno della sua nascita (anno 1983) uscirà nei cinema
“Amy Winehouse. The girl behind the name” di Asif Kapadia; un mini-film che ha suscitato l’ira del papà della rockstar
scomparsa, Mitch Winehouse: «Amy si sarebbe infuriata vedendolo, questo film non è ciò che lei avrebbe voluto», ha tuonato
accusando pesantemente l’ex marito della figlia. «Blake ha detto che Amy ha fatto quella fine a causa mia e non perché lui l’ha
iniziata al crack e all’eroina e l’ha manipolata del tutto facendola diventare dipendente dalle droghe pesanti». Al di là delle
polemiche - essenziali per la buona promozione di un prodotto comunque commerciale - il documentario mette in luce le doti e
l’energia di Amy ma anche i punti oscuri della sua esistenza: dall’assenza del padre nei momenti fondamentali dell’adolescenza e
della crescita, alla ricerca di un partner che le desse tranquillità e sicurezza, fino all’esplosione internazionale del personaggio.
Non sopportava il peso della vita e neanche il ruolo di una superstar. Soffocata dalla voglia di diventare grande e dal desiderio di
restare nella sua stanza, sola, a scrivere musica con una birretta in mano. Senza dover per forza morire “affogata” nella vodka.
(da Il messaggero.it – cultura e spettacoli)
Un fiore e un pensiero per Amy. Da fan lascia un ricordo, un oggetto e un messaggio a Amy, che manifesti un impegno
nella battaglia contro alcol e sostanze.
PROSSIMO APPUNTAMENTO CON L’AUTRICE: LUNEDÌ 19/12 in Aula Magna “F. Dardi”