Letteratura e denaro. Ideologie, rappresentazioni

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Letteratura e denaro. Ideologie, rappresentazioni
Vincenzo Baraldi – UNITRE Pinerolo 2015
Letteratura e denaro. Ideologie, rappresentazioni, metafore.
LEZIONE 3
3.1 L’ostentazione della gara ai consumi nel romanzo Al paradiso delle signore di E. Zola
Come abbiamo già accennato il testo fu pubblicato nel 1883(1).
Ci sono due modi riduttivi di sbrogliarsela con questo libro: riportarlo all’ossatura della fiaba,
cogliendone solamente la vicenda della giovane commessa onesta, lavoratrice e virtuosa, che
addirittura arriva a sposare il proprietario di un grande magazzino di successo; oppure stabilire che
si tratti di un prodotto di puro consumo, rivolto a un pubblico femminile e pubblicato a puntate sulla
stampa periodica di settore, per sfruttare abilmente un tema di attualità e consentire allo scrittore di
ottenere un risultato economicamente lusinghiero, ampliando a livello di massa la cerchia di lettrici
e lettori. Sono aspetti che vanno riconosciuti, ma che non esauriscono le questioni.
In realtà all’autore interessa soprattutto la concorrenza tra piccolo commercio e grande
distribuzione, la competizione spietata tra la bottega tradizionale e la realtà - nuova per l’epoca - dei
grandi magazzini, di cui Le bon marché è tuttora un prospero rappresentante parigino. Come
puntualizza l’introduzione di Colette Becker all’edizione italiana del libro, Zola raccolse una grande
mole di scrupolosissima documentazione prima di procedere alla stesura. In un abbozzo, pensando
al ruolo svolto dalle banche nell’ascesa del grande commercio, alle speculazioni, agli espropri e
quindi ai fallimenti dei piccoli negozianti, egli scrisse:
«Li mostrerò rovinati, spinti al fallimento. Ma non piangerò su di loro, al contrario: perché
voglio mostrare il trionfo dell’attività moderna; essi non appartengono più al loro tempo; tanto
peggio! Sono schiacciati dal colosso. » (2)
Al centro del racconto si collocano due figure: Octave Mauret, proprietario del Paradiso
delle signore e miglior vetrinista di Parigi, e Denise Baudu (ahimé, nella traduzione antiquata a mia
disposizione leggo: Dionisia!), l’orfana appena approdata dalla provincia a Parigi in cerca di una
vita migliore.
Di Octave il narratore si serve per illustrare la progressiva creazione di nuove forme di
commercio, di organizzazione delle vendite e dell’attivazione di inediti desideri di consumo. Viene
presentato come un imprenditore energico ed innovatore, con il gusto della sfida; è un
razionalizzatore che fa funzionare metodicamente un grande meccanismo, ma è anche audace, come
risulta nell’utilizzazione del capitale; nelle vendite promozionali; nel rinnovare i prodotti,
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l’amministrazione, la contabilità, i pagamenti ai fornitori; nel concedere discrezionalità ai capireparto per le assunzioni di personale e per le forniture. L’intraprendenza e l’efficienza
dell’innovatore spiccano grazie al contrasto con lo stupore, la paura, la rabbia e la disperazione dei
commercianti ancorati al passato; così come i loro negozi angusti, stipati di merci, scuri e polverosi,
non reggono al confronto con il calcolato splendore del Paradiso. Zola non arretra di fronte alla
decadenza e alla rovina economica di un intero strato sociale, descritti con cura; altrettanta
scrupolosa attenzione dedica alle durissime condizioni di lavoro degli avventizi, delle commesse e
di tutti i dipendenti del Paradiso .
Nei confronti delle clienti Mauret punta soprattutto ad ammaliarle e stordirle presentando le
merci in tutto il loro fulgore, suscitando un grande livore nei piccoli bottegai concorrenti. Egli
concentra in un mondo autosufficiente prodotti dei più disparati settori merceologici; inoltre
ricorrendo ad un disordine pianificato costringe le compratrici ad andare su e giù, passando anche
per le sezioni dove altrimenti non metterebbero piede. Lo svariare dei colori, dei disegni, dei toni
delle stoffe e dei tappeti; il fruscìo e la vaporosità delle sete e dei merletti; il pieno di oggetti e di
inviti all’acquisto; l’accalcarsi di una folla che preme sulla singola persona; la luce degli ambienti e
dei cristalli delle vetrine: tutto contribuisce ad inebriare i presenti. Alla fine di un tripudio di stimoli,
ecco la cliente ideale: la signora Marty, “con le pupille dilatate, ubriaca per le tante cose splendide
che le ballano davanti”; è lei che continua a ripetere: “Dio mio, che cosa dirà mio marito? Ha
ragione lei non c’è ordine, in questo magazzino, ci si perde… e ci si fanno delle sciocchezze!” Ma
va aggiunto che “la più bella trovata” di Octave Mauret è quella di rivolgersi alle donne serie
conquistando le mamme per mezzo dei bambini, sfruttando i prodotti per l’infanzia, gli omaggi di
figurine e palloncini, piegando alla logica del mercato anche il sentimento materno.
Denise (3) è l’unica donna che resiste al potere seduttivo di questo mondo: potrebbe facilmente
diventare l’amante di Mauret, ma non accetta tale strada. È attratta dallo spettacolo rutilante del
Paradiso, ma non si vive mai come potenziale acquirente; non immagina mai di indossare lei stessa
i capi che prova per altre. È un esempio di virtù familiari, perché con il proprio lavoro deve
provvedere a due fratelli dopo la morte dei genitori. Dopo l’assunzione deve attraversare un periodo
di ambientamento con tutte le fatiche, le difficoltà, le invidie, le ripicche che toccano ai novellini.
Ma è piena di risorse e iniziative, tanto che le sarà affidato il nuovo reparto dell’abbigliamento per
l’infanzia. Mantenendo le distanze con il suo principale, utilizza l’ascendente che esercita nei suoi
confronti per modificare il trattamento riservato ai lavoratori del grande magazzino; Mauret
l’accusa ridendo di socialismo, ma si arrende e fa “ciò che il tempo richiede”, convinto che i
provvedimenti renderanno ancora più fiorente il grande emporio. L’amore di una donna buona,
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capace di una visione manageriale, moralmente rigorosa e al tempo stesso moderna, trasforma
l’uomo e la sua impresa economica, preparando entrambi ed affrontare positivamente il futuro.
3.2 Fantasmagorie del denaro.
Potremmo ripartire da un quadro di Edgar Degas conservato al museo d’Orsay: s’intitola “Alla
borsa” e risale al 1878-79. Come soggetto presenta alcuni distinti signori intenti a seguire le
quotazioni dei listini: i loro atteggiamenti, l’espressione intensa del volto del personaggio centrale,
conferiscono alla scena una impressione di dinamismo o di concentrato interesse.
Lo sguardo attento e l’abilità artistica del pittore sanno cogliere un aspetto significativo della vita
quotidiana della ricca borghesia, che coniuga gusto del gioco e desiderio di arricchimento,
alimentando il mercato azionario dell’epoca.
Se il denaro si è ormai imposto come una divinità moderna, nella sua forma più astratta e
smaterializzata, il capitale azionario, la Borsa è il tempio in cui si svolgono i riti della speculazione
finanziaria (con le competizioni, le speranze, i successi e i crolli economici).
Con il diciottesimo volume del suo grande ciclo dei Rugon- Macquart, Zola se ne fa realistico e
attento interprete, redigendo un romanzo intitolato “Il denaro” (1891).
Consentitemi un richiamo dotto. In un saggio del 1953 G. Macchia (4) proponeva alcune
osservazioni che, aldilà dello stile e dell’approccio teorico, vale la pena di riprendere nella sostanza.
Macchia infatti notava, in primo luogo, che Zola fu un sostenitore degli impressionisti e che
descrisse il loro stesso mondo: le passeggiate al Bois, le gare ippiche, le stazioni, i teatri, la Borsa
appunto; ma chiariva anche che lo scrittore alla pittura preferì la fotografia come strumento di
lavoro; infine ricordava come per Zola, una volta completata la documentazione, il romanzo si
sarebbe fatto da sé: lo scrittore non avrebbe dovuto far altro che montare logicamente i fatti.
Così operando, il romanzo presentava al lettore le cose, gli oggetti, i costumi, la società dell’epoca;
ma Zola, alla scrupolosa osservazione dei dati spazio-temporali univa una terza dimensione:
l’impegno morale, realizzando per questa via la capacità di <<universalizzare la storia nella
fantasia>>.
Da queste premesse Macchia ricavava la seguente conclusione: che l’opera di Zola è capace di
risorgere come attuale, per le stesse ragioni storiche per cui a un certo punto decadde nei gusti dei
lettori, cioè “Perché risorgono alcuni dei più cocenti aspetti e problemi del suo mondo”.
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Oggi, in tempi di crisi finanziarie acute, i suoi testi possono dirci forse qualcosa.
Al centro del romanzo “Il denaro” (5) si colloca una colossale speculazione finanziaria nella
Francia del Secondo Impero; Zola, per descriverne lo sviluppo e la fallimentare conclusione, ha
tratto ispirazione dall’operato di Paul Eugene Bontoux, titolare di una importante banca d’affari
parigina.
I personaggi della vicenda sono appunto banchieri, agenti di cambio, azionisti, speculatori senza
scrupoli, poveri risparmiatori raggirati, politici fin troppo scaltriti e giornalisti compiacenti.
Gli avvenimenti principali risultano : l’altalena di rialzi e ribassi della Borsa di Parigi; gli aumenti
di capitale fasulli, i fondi neri; la possibilità di lucrosi investimenti in Medio-Oriente, stimolata dai
lavori per la costruzione del canale di Suez in Egitto.
Il protagonista-eroe della storia è Aristide Saccard; intraprendente e temerario, non vuole
<<ammucchiare>> il denaro, ma farlo scaturire, come da una sorgente, in ogni luogo possibile. Nei
suoi grandiosi progetti è assistito da Madame Caroline e dal fratello di lei Hamelin (un vulcanico
ingegnere pieno di idee). Raccoglie i soldi di molti risparmiatori, più e meno importanti, attraverso
la creazione della Banca Universale. La sua più grande impresa borsistica ha come scopo dichiarato
<<quello di sfruttare le miniere d’argento del Carmelo, restituendo fertilità a un Medio Oriente
ormai desertificato, ma sempre fecondo di suggestioni storico-religiose: tanto che a coronamento
dell’opera Saccard immagina l’insediamento del trono pontificio in Terra Santa>>.(6)
Il trionfo di Saccard, che si manifesta clamorosamente con l’inaugurazione della nuova
principesca sede della Banca Universale, coincide con l’apertura dell’Esposizione Universale del
1867: una stagione, secondo Zola, di “supremo sfarzo”, in cui Parigi si trasforma nell’ “albergo del
mondo intero”, dove le nazioni convergono per partecipare ad una “gozzoviglia colossale”.
La sede della Banca Universale è composta di “uffici arredati con lusso straordinario”; il suo
scalone d’onore conduce alla sala del Consiglio “tutta in rosso e oro, splendida come un teatro
dell’opera”. Saccard, all’apice del successo dirige, da uno studio arredato con mobili d’antiquariato,
un esercito di commessi, impiegati, direttori di giornale, spie, intermediari d’affari e mezzani. Il
personaggio è tutt’altro che un asceta dell’accumulazione: gli piacciono moltissimo i soldi, il lusso,
i piaceri materiali, il potere; la sua è una sete insaziabile. Tutto ciò fa di lui non solo un vero “poeta
del milione” ma anche- come riconosce il figlio- “Una canaglia di primo grado!”
Ai confini del suo ambiente compare una figura ancora più degradata: la Méchain, proprietaria di
una distesa di baracche situate oltre la collina di Montmartre, che affitta a “morti di fame
ammucchiati in mezzo alla sporcizia”, pronta a cacciarli via senza pietà appena non pagano più.
Attratta dalla speculazione, sembra provare piacere soprattutto nel rovinare i deboli e gli indifesi. Di
circa cinquant’anni, grassa, con una vocetta da bambina, trascina sempre con sé una vecchia borsa,
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gonfia fino a scoppiare, piena di titoli svalutati e di azioni di società fallite, da piazzare ai creduloni
per 10 o 20 soldi preconizzando impossibili rialzi futuri o da cedere con un certo guadagno a
bancarottieri disinvolti, desiderosi di “gonfiare il loro passivo”.
Compare anche un fanatico marxista, confinato in una soffitta e minato dalla tisi: è il fratello di un
tremendo usuraio, Bush, che ha studiato nelle università tedesche e ha lavorato alla Nuova Gazzetta
Renana, dov’è diventato rivoluzionario. Studia “Il capitale” in tedesco, nella prima edizione del
1867 ed è in corrispondenza con lo stesso Marx. Tutto preso dai progetti per una prossima e
inevitabile rivoluzione sociale “consumava i giorni e le notti… modificando, migliorando senza
posa, sulla carta, la società del domani”.
Con la stessa allucinante determinazione agisce la principessa d’Oviedo, che appare e scompare
nei saloni deserti del suo palazzo e la cui principale occupazione consiste nel distribuire in
elemosine un patrimonio di 300 milioni di franchi, ereditato dal defunto marito che lo aveva
accumulato tramite indicibili furfanterie.
A fronte di Saccard- che rappresenta la natura volatile, liquida del denaro- si colloca la figura del
banchiere Gundermann, ispirato forse a James de Rotschild. Davanti a lui il protagonista si sente
preda di un timore reverenziale, poiché egli non conserva alcun tratto dell’avaro classico, mentre è
piuttosto “l’operaio impeccabile” (ma, in aggiunta, anche onesto) della finanza moderna, ligio al
proprio dovere di ingrandire i capitali di partenza. Incline a seguire strategie prudenti, lente e
ribassiste, Gundermann si contrappone alla propensione di Saccard per il gioco al rialzo; è tanto
cauto da apparire abulico se paragonato al temerario e vulcanico Saccard; è onesto e solido ma
orientato a conservare lo status quo, mentre l’altro è assai disonesto, ma anche intraprendente e
pieno d’immaginazione. In una frase i due potrebbero rappresentare la tradizione contro il gioco
d’azzardo; o anche, volendo, l’oro e i lingotti contro gli assegni e le cedole.
Osserviamo inoltre che Zola, andando ben oltre l’impersonalità e l’oggettività dichiarate come propri fini,
manifesta qualche segno di sbilanciamento in favore di Saccard; infatti concede allo speculatore fallito una
seconda occasione: nelle pagine finali lo rappresenta all’estero, impegnato nel lancio di un nuovoovviamente colossale- affare nei Pesi Bassi. Dall’insieme del resoconto la speculazione finanziaria risulta
censurabile e condannata, ma l’energia indomabile e gli “spiriti animali” dello speculatore lasciano a tratti
emergere un’apologia indiretta del truffatore e quasi sollecitano un’identificazione da parte del lettore, a sua
volta possibile portatore di aspirazioni inconfessabili.
In conclusione, potremmo suggerire che Madame Caroline fosse, forse, la vera portavoce di Zola, quando
sosteneva che i soldi fossero: “Il concime in cui cresce l’umanità di domani; i soldi, che avvelenano e
distruggono” ma che sono anche “ il fermento di ogni vegetazione sociale” (7).
3.3 Un tema verghiano: la roba
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Nell’Italia degli ultimi decenni dell’Ottocento la classe borghese e capitalista non vive una fase eroica:
dopo la proclamazione di Roma capitale nel 1870, i governi liberali della Destra e poi della Sinistra Storica
sono impegnati nell’assicurare l’estensione della rete ferroviaria nazionale, che sarà completata nel 1879,
raggiungendo gli 8713 Km. L’economia deve superare un ritardo nell’industrializzazione che si fa, con il
passare del tempo, sempre più grave. L’aumento della spesa pubblica e delle commesse militari statali si
rivelano in particolare decisivi per lo sviluppo dell’industria pesante; intorno agli ani Ottanta vengono
fondate le prime importanti imprese meccaniche, elettriche e chimiche. Tuttavia solo con il periodo 18961913 si realizzerà una fase di decollo, capace di porre le basi di una moderna economia industriale.
In questo quadro la borghesia capitalistica (agraria e industriale) stenta ad assumere un ruolo preminente,
agendo tra contraddizioni ed ambiguità, accettando a lungo i vantaggi di un ambiente tradizionale, senza
procedere alla sua profonda trasformazione né riuscendo a proporre una propria visione del mondo originale
ed autonoma.
Non dobbiamo stupirci se, nell’elaborazione dei letterati, quando si affaccia come fondamentale il
tema della ricchezza, manchi una vera e propria “epopea” del denaro: infatti non vengono
rappresentati imprenditori industriali in ascesa né banchieri. Nell’Italia meridionale poi
l’affermazione dei valori del mercato, dell’interesse economico e del vantaggio individuale, viene
misurata non attraverso l’inaffidabile carta-moneta, ma attraverso l’estensione dei terreni,
l’accumulo delle derrate nei magazzini, la quantità della “roba”, come indica una novella dallo
stesso titolo, scritta da G. Verga nel 1880 e che trovate in fotocopia (8).
Al centro del racconto si colloca la figura di Mazzarò, che da umile contadino al servizio di un
barone riesce a diventare un ricchissimo proprietario, attraverso le lotte e le fatiche di un’esistenza
consacrata al culto del possesso. Ma l’incombere della vecchiaia e della morte inducono il
personaggio alla presa di coscienza, cosicché Mazzarò, ormai prossimo alla fine, si trova ad
invidiare il più povero dei suoi garzoni- povero sì, ma ancora giovane- e consuma gli estremi attimi
della sua vita in un estremo tentativo di distruggere tutto ciò che ha accumulato, portando con sé la
roba nel nulla della morte.
Il racconto è scandito in tre precise sequenze.
Nella prima l’andamento è favolistico e ricorda “Il gatto con gli stivali” di Perrault. A un ipotetico
viandante che chiede chi sia il proprietario delle terre che attraversa, invariabilmente viene risposto
“Di Mazzarò”. Paludi e agrumeti, zone vulcaniche e altre feconde, vigne e uliveti si susseguono:
non basta una giornata a percorrerli tutti. Mazzarò viene identificato con la campagna stessa:
“Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra.”
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La seconda sequenza sviluppa il motivo dell’ascesa economica del povero, che diventa padrone
delle terre che una volta lavorava come contadino. Anche qui sono presenti toni favolistici: i
possedimenti acquisiti giungevano “fin dove arrivava la vista”, la quantità di persone che
lavoravano per Mazzarò
assommava a “più di cinquemila bocche”, i mietitori di Mazzarò
“sembravano un esercito di soldati.”
Ma ce una nota epica: tutta l’esistenza di Mazzarò si concentra in un solo valore, “la roba”, per la
quale “va in giro sotto il sole sotto la pioggia, logorando i suoi stivali e le sue mule”. L’adesione è
esclusiva e totale; non contano emozioni, rischi, menzogne e fatiche “per assicurarsi quella
fortuna.” Addirittura, nella sua avarizia, Mazzarò diventa un’asceta della roba: non fuma, non beve,
non ha donne né si sposa; ormai ricchissimo, continua a mangiare pane e cipolle e lesina persino le
fave ai poveri fittavoli. “Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba” osserva il
narratore.
Con la terza sequenza si evidenzia come il predominio assoluto della logica economica provochi la
perdita di significato dell’esistenza. Mazzarò seduto “col mento nelle mani” guarda le sue proprietà
e deve fare i conti con l’illusorietà del mito della “roba”, la conclusione è tragica e grottesca:
Mazzarò compie un vano tentativo di far morire la roba insieme con lui.
Il mito e l’incubo del possesso, che tormenta Mazzarò, si articola e sviluppa poi nell’esistenza tutta
votata alla dimensione economica di Gesualdo Motta, il protagonista del successivo romanzo, cui
Verga lavorò per vari anni, dal 1881 al 1889. Su questo testo ritorneremo nel secondo ciclo di
lezioni e forse coglieremo l’occasione per affrontare anche “I Vicerè” di Federico De Roberto,
uscito nel 1891, che presenta affinità nell’impostazione teorica con le opere di verga.
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3.4 Il paese delle occasioni e il crollo delle promesse negli USA
Due possibili riferimenti cronologici: il 1920, anno di promulgazione della legge sul
proibizionismo, e il 1929, con il crollo del mercato azionario e i suoi devastanti effetti a catena.
Per quanto riguarda il primo momento abbiamo un testo di riferimento notissimo: il Grande Gatsby
(9) di F.S Fitzgerald (1925). Mentre l’America appare tutta proiettata verso la modernità,
l’affermazione, il denaro, il personaggio di Gatsby è soprattutto impegnato a far rivivere il passato:
il suo sogno è quello di riconquistare Daisy, ricca ragazza del Sud (“la figlia del re… la ragazza
d’oro”), indimenticabile amore di anni lontani, ora sposata con l’arrogante Tom Buchanan.
L’uomo venuto dal nulla, che si è arricchito col contrabbando di alcoolici, diventa famoso per i
parties leggendari ospitati nella sua grandiosa dimora di Long Island; mantiene intatta la sua
illusione (“c’era in lui qualcosa che sbalordiva, qualche affinata sensibilità alle promesse della
vita”). Accumulazione, lusso, ostentazione non sono altro per lui che mezzi per giungere a Daisy,
nonostante gli avvertimenti che il narratore, in veste di amico, gli rivolge, perché “non si può
ripetere il passato”.
Il grande fantastico palazzo dove si svolgono caotici ricevimenti, il prato su cui si muove una folla
carnevalesca di individui di ogni condizione e di ogni nome, l’agitazione che si consuma nelle notti
estive, non fanno altro che ribadire l’“enorme incoerente fallimento” della rincorsa del personaggio.
Già moralmente ridotto in pezzi per il crollo del suo sogno, l’eroe viene ucciso da uno sparo, e la
grande casa, che sembrava simboleggiare le sconfinate promesse del sogno americano, resta vuota.
Di più impegnativa lettura, perché ricorre ad una tecnica di montaggio di trame multiple è
“Manhattan transfer” di J. Dos Passos (1925), in cui il narratore segue la vita di un gruppo di
personaggi di New York nel momento in cui la città diventa una metropoli globale. Più che il
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denaro in sé, al centro sono le nuove caratteristiche della vita urbana, con i ritmi accelerati e
frenetici dettati da un’economia scatenata: vocazioni, valori, tradizioni, amicizie e matrimoni
risultano irrimediabilmente travolti dalla corsa all’arricchimento e al successo (10).
Con il romanzo Furore (1939) J. Steinbeck si aggiudicò il Premio Pulitzer; l’opera rappresenta
puntualmente i rapporti tra i contadini e le banche durante la grande Crisi. Nel testo (11)
confluiscono molteplici motivi: le conseguenze della Grande Crisi e i contrasti sociali, l’ingiustizia
e lo sfruttamento, la drammatica condizione dei contadini statunitensi, le speranze deluse; al centro
si colloca l’America con i suoi sterminati paesaggi e le grandi strade che la solcano.
Il narratore ricorre a un duplice registro: alterna capitoli che delineano la trama con altri, in cui
l’analisi e le pause descrittive formano una cornice documentaria e una sorta di controcanto
allegorico. Sincera indignazione, pietà umana e percezione lirica del paesaggio completano
l’insieme.
La vicenda si basa sull’odissea della famiglia Joad, che partecipa alla drammatica migrazione dei
contadini dell’Oklahoma, costretti ad abbandonare le loro terre per il sovrapporsi della crisi
economica, della speculazione e della siccità.
Sullo sfondo è possibile individuare due immagini potenti: l’esodo biblico verso la Terra promessa
e le migrazioni dei pionieri americani verso la Frontiera. Anche per questo il racconto di un viaggio
reale verso la California, in un’America reale, si arricchisce di valenze epiche e simboliche.
Osserviamo alcuni elementi del contesto storico in cui la vicenda è collocata. Durante la prima
metà degli anni Trenta, un grave disastro ambientale colpì le grandi pianure del Midwest: in seguito
a forti siccità ed allo sfruttamento intensivo del suolo praticato nei decenni precedenti, immense
tempeste di sabbia si sollevarono dal terreno, coprendo interi villaggi e fattorie. Ne derivò una crisi
agricola che gettò in miseria migliaia di piccoli coltivatori e allevatori, costretti a cedere i loro
terreni alle banche che li avevano finanziati o a venderli per cifre irrisorie, per poi migrare verso
Ovest. Tutto ciò si cumulò con altri effetti della terribile crisi economica del 1929. L’indice delle
quotazioni in borsa dei titoli industriali precipitò da 452 (nel 1929) a 58 (nel 1932). Oltre che
borsistica, la crisi fu anche finanziaria ed industriale. La produzione crollò nei principali paesi
occidentali: disoccupazione, povertà, fame parvero cancellare ogni fiducia nel domani.
La reazione del governo americano si concentrò nel più grande piano programmatico di
investimenti dello stato federale fino ad allora varato, (la “Tenessee Valley authority”); il presidente
Roosevelt inaugurò il New Deal, concepito come una politica economica in grado di ridare fiducia
sia alla gente comune che alle imprese e ai mercati azionari.
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In linea con tali orientamenti economici appare anche lo scrittore Steinbeck. Egli infatti <<Non
vuole che i poveri distruggano e si sostituiscano ai ricchi, ma vuole che i ricchi sviluppino il loro
sistema per offrirne i benefici anche ai poveri. Egli condanna l’egoismo acquisito, non il sistema, e
riconosce che, non possedendo nessuna delle due parti il monopolio del bene o del male, anche gli
emigranti devono cambiare.>> (12). Le peripezie seguite provocano infatti nei Joad un mutamento
profondo: dal ritenersi gelosamente come una unità familiare isolata, e non privi di presunzione
altezzosa, imparano a considerarsi parte di una vasta famiglia umana; cessano di ragionare
esclusivamente in termini di gruppo familiare, imparando che si deve aiutare chiunque abbia
bisogno degli altri. La loro chiusura mentale lascia il posto ad uno spirito di cooperazione volontaria
e di fratellanza universale, poiché <<peggiori sono le condizioni in cui ci muoviamo, più dobbiamo
darci da fare>>.
Il libro
fu attaccato per diversi motivi: parte dello shock dei lettori, inizialmente, fu nella
resistenza a credere che ci fosse quel tipo di estrema povertà in America.; altri pensarono che
Steinbeck fosse un comunista e quindi a priori non apprezzarono il romanzo; anche il cambio di
ottica dall’ “io” al “noi” dispiacque ad alcuni, soprattutto a coloro che vi lessero un attacco
all’individualismo americano.
Nella fotocopia allegata alcune pagine del capitolo V evidenziano l’incubo sociale e morale in cui
cadde la società contadina del Midwest, con i suoi agricoltori e mezzadri, drammaticamente sospinti
sul lastrico dall’implacabile avanzare dello sfruttamento economico.
3.5 Denaro e poesia: un caso italiano
A questo punto proporrei di fare un grosso salto cronologico in avanti, per giungere al 1962: come
già accennato nell’incontro precedente, sono gli anni del boom italiano , in cui la società tenta,
tumultuosamente, di svilupparsi. Abbiamo già accennato a due autori, Bianciardi e Mastronardi,
che nei loro testi narrativi denunciarono il malessere profondo che serpeggiava sotto la facciata del
benessere appena raggiunto. Se Bianciardi irride crudelmente al mondo letterario, Mastronardi,
soprattutto con Il maestro di Vigevano rende, con notevole espressività e un linguaggio fortemente
inclinato verso il dialetto, il degrado sociale e umano che accompagna il raptus dell’arricchimento.
Ma, abbandonando per una volta il terreno della narrativa, vorrei proporvi una poesia (13) di
Edoardo Sanguineti, intitolata “Questo è il gatto con gli stivali” (Cfr. fotocopia).
In quegli anni era molto forte in tutti poeti la ricerca di un modello espressivo e formale nuovo e
adeguato alla rapidità del cambiamento storico-culturale; non pochi ritenevano compito dell’arte
nella società di massa il caos nell’ordine, l’antipoesia o l’antiromanzo nella letteratura, ricorrendo
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alla parodia, sabotando ogni cadenza sublime, aprendosi alle più diverse combinazioni e ai più
diversi esperimenti di laboratorio, soprattutto attraverso un lavoro consapevole sul linguaggio.
Nel caso del nostro testo si evita qualsiasi inclinazione lirica o letteraria; la struttura dei versi è
completamente libera e predilige versi lunghi non collegati da uno schema di rime; la forma del
discorso è quella di un semplice elenco, in cui, in modo abbastanza caotico, si indicano oggetti
disparati, in parte mostrati su libri o riviste. Si coglie un momento di vita quotidiana, in cui, non un
sacerdote dell’arte, ma un lavoratore intellettuale qualsiasi si intrattiene con il proprio figlioletto.
L’elemento che colpisce rispetto alla grammatica tradizionale sono i due punti posti alla fine di ogni
strofa, anche di quella conclusiva: come per indicare che il discorso non si chiude e che il lettore
liberamente potrebbe proseguirlo. Altrettanto si potrebbe dire dell’assenza della maiuscola per la
parola iniziale del testo: si intende suggerire l’idea di un discorso casuale e infinito, che può in ogni
momento interrompersi o essere nuovamente iniziato. La ripresa di alcune formule (in apertura
“questo è…” e in chiusura “ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi/il denaro”) dà all’insieme un
tono di cantilena, amabilmente rivolta ad un bambino.
L’inventario coinvolge tutto ciò che si trova nella stanza di lavoro: fiabe illustrate, libri, giocattoli
del figlio, testi di storia, tavole di anatomia e di botanica e riproduzioni d’arte. Non mancano le
briciole di una merenda al burro né le “bugie”, che nell’immaginario infantile rivestono un ruolo
notevole.
Tuttavia, oltre ogni apparente dispersione, dietro le cose, cioè “quando si volta il foglio”, si trova il
vero padrone e dio della nostra società: il denaro. Dalla logica dell’accumulazione economica, che a
tutto presiede e in cui cinicamente ogni cosa acquista valore, derivano guerre, lutti e ingiustizie; le
banche si inseriscono nel sistema come strumenti dello sfruttamento e dell’oppressione. L’imporsi
del denaro ha cancellato tutti i valori: ciò che resta è il “niente”.
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NOTE ALLA LEZIONE 3
1. Emile Zola, “Al Paradiso delle signore”, Rizzoli, Milano 2000;
2. Cfr. l’ “Introduzione” di Colette Becker al testo, p.13;
3. E. Zola, “Al Paradiso” cit. Tutta la presentazione del romanzo di Zola che riportiamo attinge
a piene mani al saggio fondamentale di R. Bowlby, contenuto nel Vol. I dell’opera “Il
romanzo”, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino, 2001, pp. 451 e ss.;
4. Giovanni Macchia, Zola 1953, saggio ricompreso nel volume “Il mito di Parigi. Saggi e
motivi francesi”, Einaudi, Torino 1965;
5. E. Zola, Il denaro, Newton Compton, Roma 1966;
6. P. Pellini, Il denaro. Appunti per la storia di un tema nella letteratura europea, contenuto in
“Nuova antologia” N° 2262, 2012;
7. E. Zola, Il denaro, cit.;
8. Giovanni Verga, La roba, contenuto in “Tutte le novelle”, vol. I Mondadori, Milano 1983;
9. F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby, Mondadori, Milano 1950;
10. J. Dos Passos, Manhattan Transfer, Baldini e Castoldi, Milano 2002;
11. J. Steinbeck, Furore, Rizzoli, Milano 2002;
12. Warren French, Steinbeck, La nuova Italia, Firenze 1965, p. 78;
13. E. Sanguineti, Questo è il gatto con gli stivali, contenuto in “Triperuno”, Feltrinelli, Milano
1964.
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