Torrismondo - Vico Acitillo 124

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Torrismondo - Vico Acitillo 124
TORQUATO TASSO
Torrismondo
a cura di Emilio Piccolo
La Biblioteca di Don Quijote
DEDALUS
TORQUATO TASSO
Torrismondo
a cura di Emilio Piccolo
DEDALUS
Dedalus Napoli, 2000
No copyright
Dedalus, Studio di progettazioni ipermediali
vico Acitillo 124, 80128 Napoli
email: [email protected]
I edizione: 2000
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Torrismondo
Torquato Tasso
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Torrismondo
Interlocutori
Nutrice
Alvida
Torrismondo, re de’ Goti
Consigliero
Coro
Messaggiero primo
Rosmonda
Regina madre
Germondo, re di Suezia
Cameriera
Indovino
Frontone
Messaggiero secondo
Cameriero
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Torquato Tasso
Atto 1, scena 1
NUTRICE
Deh qual cagione ascosa, alta regina,
sì per tempo vi sveglia? Ed or che l’alba
nel lucido oriente a pena è desta,
dove ite frettolosa? E quai vestigi
di timore in un tempo e di desio
veggio nel vostro volto e ne la fronte?
Perch’a pena la turba interno affetto,
o pur novella passion l’adombra,
ch’io me n’aveggio. A me, che per etate,
e per officio, e per fedele amore,
vi sono in vece di pietosa madre,
e serva per volere e per fortuna,
il pensier sì molesto ormai si scopra,
che nulla sì celato o sì riposto
dee rinchiuder giamai ch’a me l’asconda.
ALVIDA
Cara nudrice e madre, egli è ben dritto
ch’a voi si mostri quello ond’osa a pena
ragionar fra se stesso il mio pensiero;
perch’a la vostra fede, al vostro senno
più canuto del pelo, al buon consiglio,
meglio è commesso ogni secreto affetto,
ogni occulto desio del cor profondo,
ch’a me stessa non è. Bramo e pavento,
no ‘l nego, ma so ben quel ch’i’ desio;
quel che tema, io non so. Temo ombre e sogni,
ed antichi prodigi, e novi mostri,
promesse antiche e nove, anzi minacce
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Torrismondo
di fortuna, del ciel, del fato averso,
di stelle congiurate; e temo, ahi lassa,
un non so che d’infausto o pur d’orrendo,
ch’a me confonde un mio pensier dolente,
lo qual mi sveglia e mi perturba e m’ange,
la notte e ‘l giorno. Oimè, giamai non chiudo
queste luci già stanche in breve sonno,
ch’a me forme d’orrore e di spavento
il sogno non presenti; ed or mi sembra
che dal fianco mi sia rapito a forza
il caro sposo, e senza lui solinga
gir per via lunga e tenebrosa errando;
or le mura stillar, sudare i marmi
miro, o credo mirar, di negro sangue;
or da le tombe antiche, ove sepolte
l’alte regine fur di questo regno,
uscir gran simolacro e gran ribombo,
quasi d’un gran gigante, il qual rivolga
incontra al cielo Olimpo, e Pelia, ed Ossa,
e mi scacci dal letto, e mi dimostri,
perch’io vi fugga da sanguigna sferza,
una orrida spelunca, e dietro il varco
poscia mi chiuda; onde, s’io temo il sonno
e la quiete, anzi l’orribil guerra
de’ notturni fantasmi a l’aria fosca,
sorgendo spesso ad incontrar l’aurora,
meraviglia non è, cara nutrice.
Lassa me, simil sono a quella inferma
che d’algente rigor la notte è scossa,
poi su ‘l mattin d’ardente febre avampa;
perché non prima cessa il freddo gelo
del notturno timor, ch’in me s’accende
l’amoroso desio, che m’arde e strugge.
Ben sai tu, mia fedel, che ‘l primo giorno
che Torrismondo agli occhi miei s’offerse,
detto a me fu che dal famoso regno
de’ fieri Goti era venuto al nostro
de la Norvegia, ed al mio padre istesso,
per richiedermi in moglie; onde mi piacque
tanto quel suo magnanimo sembiante
e quella sua virtù per fama illustre,
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Torquato Tasso
ch’obliai quasi le promesse e l’onta.
Perch’io promesso aveva al vecchio padre
di non voler, di non gradir pregata
nobile amante, o cavaliero, o sposo,
che di far non giurasse aspra vendetta
del suo morto figliuolo e mio fratello;
e ‘l confermai nel dì solenne e sacro,
in cui già nacque e poi con destro fato
ei prese la corona e ‘l manto adorno,
e ne rinova ogni anno e festa e pompa,
che quasi diventò pompa funebre.
Quante promesse e giuramenti a l’aura
tu spargi, Amor, qual fumo oscuro od ombra!
Io del piacer di quella prima vista
così presa restai, ch’avria precorso
il mio pronto voler tardo consiglio,
se non mi ritenea con duro freno
rimembranza, vergogna, ira e disdegno.
Ma poiché meco egli tentò parlando
d’amore il guado, e pur vendetta io chiesi;
chiesi vendetta, ed ebbi fede in pegno
di vendetta e d’amor; mi diedi in preda
al suo volere, al mio desir tiranno,
e prima quasi fui, che sposa, amante;
e me n’avidi a pena. E come poscia
l’alto mio genitor con ricca dote
suo genero il facesse; e come in segno
di casto amor e di costante fede
la sua destra ei porgesse a la mia destra;
come pensasse di voler le nozze
celebrar in Arane, e côrre i frutti
del matrimonio nel paterno regno,
e di sua gente e di sua madre i prieghi
mi fosser porti e loro usanza esposta,
tutto è già noto a voi. Noto è pur anco
che pria ch’al porto di Talarma insieme
raccogliesse le navi, in riva al mare,
in erma riva e ‘n solitaria arena,
come sposo non già, ma come amante,
ei fece le fuitive occulte nozze,
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Torrismondo
che sotto l’ombre ricoprì la notte,
e ne l’alto silenzio; e fuor non corse
la fama e ‘l suono del notturno amore,
ch’in lui tosto s’estinse; e nullo il seppe,
se non forse sol tu, che nel mio volto
de la vergogna conoscesti i segni.
Or poi che giunti siam ne l’alta reggia
de’ magnanimi Goti, ov’è l’antica
suocera, che da me nipoti attende,
che s’aspetti non so, né che s’agogni;
ma si ritarda il desiato giorno.
Già venti volte è il sol tuffato in grembo,
da che giungemmo, a l’ocean profondo,
e pur anco s’indugia; ed io fratanto
(deggio ‘l dire o tacer?) lassa mi struggo,
come tenera neve in colle aprico.
NUTRICE
Regina, come or vano il timor vostro
e ‘l notturno spavento in voi mi sembra,
così giusta cagion mi par che v’arda
d’amoroso desio; né dee turbarvi
il vostro amor; che giovanetta donna,
che per giovane sposo in cor non senta
qualche fiamma d’amore, è più gelata
che dura neve in orrida alpe il verno.
Ma la santa onestà temprar dovrebbe,
e l’onesta vergogna, ardor soverchio,
perch’ei s’asconda a’ desiosi amanti.
Ma non sarà più lungo omai l’indugio,
che già s’aspetta qui, se ‘l vero intendo,
de la Suezia il re di giorno in giorno.
ALVIDA
Sollo, e più la tardanza ancor molesta
me per la sua cagion. Così vendetta
veggio del sangue mio? Così del padre
consolar posso l’ostinato affanno,
e placar del fratel l’ombra dolente?
Posso e voglio così? Non lece adunque
premere il letto marital, se prima
a noi d’Olma non viene il re Germondo,
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Torquato Tasso
di tutta la mia stirpe aspro nemico?
NUTRICE
Amico è del tuo re; né dee la moglie
amare e disamar co ‘l proprio affetto,
ma con le voglie sol del suo marito.
ALVIDA
Siasi come a voi pare; a voi concedo
questo assai volentier, ch’io voglio e deggio
d’ogni piacer di lui far mio diletto,
Così potessi pur qualche favilla
estinguer del mio foco e de la fiamma,
o piacer tanto a lui, ch’ad altro intende,
ch’egli pur ne sentisse eguale ardore.
Lassa, ch’in van ciò bramo, e ‘n van l’attendo,
né mi bisogna ancor pungente ferro,
che nel letto divida i nostri amori
e i soverchi diletti. Ei già mi sembra
schivo di me per disdegnoso gusto:
perché da quella notte a me dimostro
non ha segno di sposo, o pur d’amante.
Madre, io pur ve ‘l dirò, benché vergogna
affreni la mia lingua e risospinga
le mie parole indietro. A lui sovente
prendo la destra e m’avicino al fianco:
ei trema, e tinge di pallore il volto,
che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
pallidezza di morte, e non d’amore;
o ‘n altra parte il volge, o ‘l china a terra,
turbato e fosco; e se talor mi parla,
parla in voci tremanti, e co’ sospiri
le parole interrompe.
NUTRICE
O figlia, i segni
narrate voi d’ardente, intenso amore.
Tremare, impallidir, timidi sguardi,
timide voci, e sospirar parlando,
scopron talora un desioso amante.
E se non mostra ancor l’istesse voglie,
che mostrò già ne le deserte arene,
sai che la solitudine e la notte
sono sproni d’amore, ond’ei trascorra;
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Torrismondo
ma lo splendor del sole, il suon, la turba
del palagio real, sovente apporta
lieta vergogna, in aspettando un giorno
che per gioia maggior tanto ritarda.
E s’egli era in quel lido amante ardito,
accusar non si dee, perch’or si mostri
modesto sposo ne l’antica reggia.
REGINA MADRE
Piaccia a Dio che sia vero. Io pur fra tanto,
poi ch’altro non mi lece, almen conforto
dal rimirarlo prendo. Or vengo in parte
ov’egli star sovente ha per costume,
in queste adorne logge o ‘n questo campo,
ov’altri i suoi destrier sospinge e frena,
altri gli muove a salti o volge in cerchio.
NUTRICE
Altra stanza, regina, a voi conviensi,
vergine ancor, non che fanciulla e donna.
Ben ha camere ornate il vostro albergo,
ove potrete, accompagnata o sola,
spesso mirarlo dal balcon soprano.
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Torquato Tasso
Atto 1, scena 2
NUTRICE
Non so ch’in terra sia tranquillo stato
o pacifico sì, che no ‘l perturbi
o speranza, o timore, o gioia, o doglia;
né grandezza sì ferma, ó nel suo merto
fondata, o nel favor d’alta fortuna,
che l’incostante non atterri o crolli,
o non minacci. Ecco felice donna
pur dianzi, e tanto più quanto men seppe
di sua prosperità, che, nata a pena,
fu in alto seggio di fortuna assisa.
Ed or, quando parea che più benigno
le fosse il cielo e più le stelle amiche,
per l’alte nozze sue teme e paventa,
e s’adira in un tempo e si disdegna.
Ma dove amor comanda, è l’odio estinto,
e cedon l’ire antiche al novo foco.
E s’al casto e soave e dolce ardore
si dilegua lo sdegno, ancor si sgombri
il sospetto e la tema; e poi ch’elegge
d’amar quel ch’ella deve, amor le giovi.
Ami felicemente; e ‘l lieto corso
di questa vita, che trapassa e fugge,
non l’interrompa mai l’invida sorte,
che far subito suole il tempo rio.
Ma temo del contrario, e mi spaventa
del suo timor cagione antica occulta,
non sol novo timor, ch’è quasi un segno
di futura tempesta; e l’atre nubi
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Torrismondo
risolver si potranno al fin in pianto,
se legitimo amor non solve il nembo.
Ma ecco il re, cui la regina aspetta.
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Torquato Tasso
Atto 1, scena 3
TORRISMONDO
Ahi, quando mai la Tana, o ‘l Reno, o l’Istro,
o l’inospite mare, o ‘l mar vermiglio,
o l’onde caspe, o l’ocean profondo,
potrian lavar occulta e ‘ndegna colpa,
che mi tinse e macchiò le membra e l’alma?
Vivo ancor dunque, e spiro, e veggio il sole?
Ne la luce del mondo ancor dimoro?
E re son detto, e cavalier m’appello?
La spada al fianco io porto, in man lo scettro
ancor sostegno, e la corona in fronte?
E pur v’è chi m’inchina e chi m’assorge,
e forse ancor chi m’ama: ahi, quelli è certo
che del suo fido amor coglie tal frutto.
Ma che mi giova, oimè, s’al core infermo
spiace la vita, e se ben dritto estimo
ch’indegnamente a me questa aura spiri
e ‘ndegnamente il sole a me risplenda;
se ‘l titolo real, la pompa e l’ostro,
e ‘l diadema gemmato e d’or lucente,
e la sonora fama, e ‘l nome illustre
di cavalier m’offende, e tutti insieme
pregi, onori, servigio io schivo e sdegno;
e se me stesso in guisa odio ed aborro
che ne l’essere amato offesa io sento?
Lasso, io ben me n’andrei per l’erme arene
solingo, errante; e ne l’Ercinia folta
e ne la negra selva, o ‘n rupe o ‘n antro
riposto e fosco d’iperborei monti,
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Torrismondo
o di ladroni in orrida spelunca,
m’asconderei dagli altri, il dì fuggendo,
e da le stelle e dal seren notturno.
Ma che mi può giovar, s’io non m’ascondo
a me medesmo? Oimè, son io, son io,
quel che fuggito or sono e quel che fuggo:
di me stesso ho vergogna e scorno ed onta,
odioso a me fatto e grave pondo.
Che giova ch’io non oda e non paventi
i detti e ‘l mormorar del folle volgo,
o l’accuse de’ saggi, o i fieri morsi
di troppo acuto o velenoso dente,
se la mia propria conscienza immonda
altamente nel cor rimbomba e mugge,
s’ella a vespro mi sgrida ed a le squille,
se mi sveglia le notti e rompe il sonno
e mille miei confusi e tristi sogni?
Misero me, non Cerbero, non Scilla
così latrò come io ne l’alma or sento
il suo fiero latrar; non mostro od angue
ne l’Africa arenosa, od Idra in Lerna,
o di Furia in Cocito empia cerasta,
morse giamai com’ella rode e morde.
CONSIGLIERO
Se la fede, o signor, mostrata in prima
ne le fortune liete e ne l’averse
porger può tanto ardire ad umil servo,
ch’osi pregare il suo signor tal volta,
perch’i pensieri occulti a lui riveli,
io prego voi che del turbato aspetto
scopriate la cagion, gli affanni interni,
e qual commesso abbiate errore o colpa,
che tanto sdegno in voi raccolga e ‘nfiammi
contra voi stesso, e sì v’aggravi e turbi;
che di lungo silenzio è grave il peso
in sofferendo, e co’l soffrir s’inaspra,
ma si consola, in ragionando, e molce;
ed uom, ch’al fin deporre in fidi orecchi
il noioso pensier parlando ardisca,
l’alma sua alleggia d’aspra e dura salma.
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Torquato Tasso
TORRISMONDO
O mio fedele, a cui l’alto governo
di mia tenera età conceder volle
il re mio padre e signor vostro antico,
ben mi ricordo i detti e i modi e l’opre,
onde voi mi scorgeste; e quai sovente
mi proponeste ancor dinanzi agli occhi
d’onestà, di virtù mirabil forme,
e quai di regi o di guerrieri essempi,
che ne l’arti di pace o di battaglia
furon lodati; e qual acuto sprone
di generosa invidia il cor mi punse,
e qual di vero onor dolce lusinga
invaghir mi solea. Ma troppo accresce
questa dolce memoria il duolo acerbo,
che quanto io dal sentier, che voi segnaste,
mi veggio traviato esser più lunge,
tanto più contra me di sdegno avampo.
E s’ad alcun, fra quanti il sol rimira
o la terra sostiene o ‘l mar circonda,
per vergogna celar dovessi il fallo,
esser voi quel devreste: alti consigli
da voi già presi, e poi gittai e sparsi.
Ma ‘l vostro amor, la fede un tempo esperta,
l’etate e ‘l senno e quella amica speme,
che del vostro consiglio ancor m’avanza,
conforti al dir mi son; benché paventa
e ‘norridisce a ricordarsi il core,
e per dolor rifugge, onde sdegnosa
s’induce a ragionar la tarda lingua;
però in disparte io v’ho chiamato e lunge.
Devete rammentar ch’uscito a pena
di fanciullezza, e di quel fren disciolto
che già teneste voi soave e dolce,
fui vago di mercar fama ed onore;
onde lasciai la patria e ‘l nobil padre,
e gli eccelsi palagi, e vidi errando
vari estrani costumi e genti strane;
e sconosciuto e solo io fui sovente,
ove il ferro s’adopra e sparge il sangue.
In quelli errori miei, com’al Ciel piacque,
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Torrismondo
mi strinsi d’amicizia in dolce nodo
co ‘l buon Germondo, ch’a Suezia impera,
giovene anch’egli, e pur di gloria ardente,
e pien d’alto desio d’eterna fama.
Seco i Tartari erranti e seco i Moschi,
cercando i paludosi e larghi campi,
seco i Sarmati i’ vidi, e i Rossi, e gli Unni,
e de la gran Germania i lidi e i monti;
seco a l’estremo gli ultimi Biarmi
vidi tornando, e quel sì lungo giorno
a cui succede poi sì lunga notte;
ed altre parti de la terra algente,
che ghiaccia a’ sette gelidi Trioni,
tutta lontana dal camin del sole.
Seco de la milizia i gravi affanni
soffersi, e seco ebbi commune un tempo
non men gravi fatiche e gran perigli
che ricche prede e gloriose palme,
da nemici acquistate e da tiranni;
onde sovente in perigliosa guerra
egli scudo mi fe’ del proprio petto
e mi sottrasse a dispietata morte,
ed io talor, là dove amor n’aguaglia,
la vita mia per la sua vita esposi.
Ma, dapoi che moriro i padri nostri,
sendo al governo de’ lasciati regni
richiamati ambodue, gli offici e l’opre
non cessâr d’amicizia, anzi disgiunti
di loco, e più che mai di core uniti,
cogliemmo ancor di lei frutti soavi.
Misero, or vengo a quel che mi tormenta.
Questo mio caro e valoroso amico,
pria che facesse elezione e sorte
noi de l’arme compagni e degli errori,
trasse in Norvegia a la famosa giostra,
ond’ebbe ei poscia fra mille altri il pregio.
Ivi in sì forte punto agli occhi suoi
si dimostrò la fanciulletta Alvida,
ch’egli sentissi in su la prima vista
l’alma avampar d’inestinguibil fiamma.
E bench’ei far non possa, o non ardisca,
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Torquato Tasso
che fuor traluca del suo ardor favilla,
che dagli occhi di lei sia vista e piaccia,
pur nudrì nel suo cuore ardente foco.
Né lunghezza di tempo o di camino,
né rischio, né disagio, né fatica,
né veder novi regni e nove genti,
selve, monti, campagne, e fiumi, e mari,
né di nova beltà novo diletto,
né s’altro è che d’amor la face estingua,
intepediro i suoi amorosi incendi.
Ma, de’ pensieri esca facendo al foco,
tutto quel tempo agli altri il tenne occulto
ch’errò per varie parti; e del suo core
secretari sol fummo Amore ed io.
Ma poiché richiamato al nobil regno
egli s’assise ne l’antico seggio,
l’animo a le sue nozze anco rivolto,
mille strade tentando, usò mille arti,
mille mezzi adoprò, mille preghiere
or come re porgendo, or come amante,
liberal di promesse e largo d’oro,
sol per indur d’Alvida il vecchio padre,
che la sua figlia al suo pregar conceda;
ma indurato il trovò di core e d’alma
perché d’ingegno, di costumi e d’opre
altero il re canuto, anzi superbo,
di natura implacabile, e tenace
d’ogni proposto, e di vendetta ingordo,
la pace ricusò con gente aversa,
da cui tal volta depredato ed arso
vide il suo regno, e violati i tempî,
dispogliati gli altari, e tratti i figli
da le cune piangendo, e da’ sepolcri
le ceneri degli avi, e sparse al vento;
da cui, non ch’altri, un suo figliuol medesmo,
senza lagrime no, né senza lutto,
ma pur senza vendetta, anciso giacque
orribilmente; e l’uccisor Germondo
egli stimò ne la sanguigna mischia,
non l’essercito solo o solo il volgo.
E veramente ei fu ch’in aspra guerra
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Torrismondo
n’ebbe le spoglie, e pur non volle il vanto.
Poiché sprezzare ed aborrir si vide
de l’inclita Suezia il re possente,
par che dentro arda tutto, e fuori avampi
di giusto sdegno incontra il fiero veglio,
che di lui fatto avea l’aspro rifiuto.
Non però per divieto, o per repulsa,
o per ira, o per odio, o per contrasto,
del primo amore intepidì pur dramma.
E ben è ver che negli umani ingegni,
e più ne’ più magnanimi e più alteri,
per la difficoltà cresce il desio,
in guisa d’acqua che rinchiusa ingorga,
o pur di fiamma in cavernoso monte,
ch’aperto non ritrova uscendo il varco
e di ruine il ciel tonando ingombra.
Dunque ei fermato è di voler, malgrado
del crudo padre, la pudica figlia,
e di piegar, comunque il ciel si volga
e sia fermo il destin, varia la sorte,
la donna; o di morir ne l’alta impresa.
D’acquistarla per furto o per rapina
dispose; e mille modi in sé volgendo
ora d’accorgimento ed or di forza,
al fin gli altri rifiuta, e questo elegge.
Per un secreto suo fido messaggio
e per lettere sue con forti prieghi
mi strinse a dimandar la figlia al padre,
e avutala poi con sì bella arte,
la concedessi a lui, che n’era amante,
né re saria di re genero indegno.
Io, se ben conoscea che questo inganno
irritati gli sdegni e forse l’arme
incontra me de la Norvegia avrebbe,
estimai ch’ove è scritto, ove s’intenda
d’onorata amicizia il caro nome,
quel che meno per sé parrebbe onesto
acquisti d’onestà quasi sembianti;
e se ragion mai violar si debbe,
sol per l’amico violar si debbe;
ne l’altre cose poi giustizia osserva.
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Torquato Tasso
E posposi al piacer del caro amico
l’altrui pace e la mia, tanto mi piacque
divenir disleal per troppa fede.
Questo fisso tra me, non per messaggi,
né con quell’arti che sovente usarsi
soglion tra gli alti regi in pace o ‘n guerra,
del suocero tentai la stabil mente,
ma gli indugi troncai: rapido corsi
del mio voler messaggio e di me stesso.
Ei gradì la venuta e le proposte,
e congiunse a la mia la real destra,
ed a me diede e ricevé la fede,
ch’io di non osservar prefisso avea.
Ed io tolto congedo, e la mia donna
posta su l’alte navi, anzi mia preda,
spiegai le vele; e negli aperti campi
per l’ondoso ocean drizzando il corso,
lasciava di Norvegia i porti e i lidi.
Noi lieti solcavamo il mar sonante,
con cento acuti rostri il mar rompendo,
e la creduta sposa al fianco affissa
m’invitava ad amar pensosa amando.
Ben in me stesso io mi raccolsi e strinsi,
in guisa d’uomo a cui d’intorno accampa
dispietato nemico. Il tempo largo,
e l’ozio lungo e lento, e ‘l loco angusto,
e gli inviti d’amor, lusinghe e sguardi,
rossor, pallore, e parlar tronco e breve
solo inteso da noi, con mille assalti
vinsero al fin la combattuta fede.
Ahi ben è ver che risospinto Amore
più fiero e per repulsa e per incontro
ad assalir sen torna, e legge antica
è che nessuno amato amar perdoni.
Ma sedea la ragion al suo governo,
ancor frenando ogni desio rubbello,
quando il sereno cielo a noi refulse
e folgorâr da quattro parti i lampi;
e la crudel fortuna e ‘l cielo averso,
con Amor congiurati, e l’empie stelle
mosser gran vento e procelloso a cerchio,
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Torrismondo
perturbator del cielo e de la terra,
e del mar violento empio tiranno,
che quanto a caso incontra, intorno avolge,
gira, contorce, svelle, inalza e porta,
e poi sommerge; e ci turbâro il corso
tutti gli altri fremendo, e Borea ad Austro
s’oppose irato, e muggiâr quinci e quindi,
e Zefiro con Euro urtossi in giostra;
e diventò di nembi e di procelle
il mar turbato un periglioso campo;
cinta l’aria di nubi, intorno intorno
una improvisa nacque orribil notte,
che quasi parve un spaventoso inferno,
sol da’ baleni avendo il lume incerto;
e s’inalzâr al ciel bianchi e spumanti
mille gran monti di volubile onda,
ed altrettante in mezzo al mar profondo
voragini s’aprîr, valli e caverne,
e tra l’acque apparîr foreste e selve
orribilmente, e tenebrosi abissi;
ed apparver notando i fieri mostri
con varie forme, e ‘l numeroso armento
terrore accrebbe; e ‘n tempestosa pioggia
pur si disciolse al fin l’oscuro nembo;
e per l’ampio ocean portò disperse
le combattute navi il fiero turbo:
e parte ne percosse a’ duri scogli,
parte a le travi smisurate, sovra
il mar sorgenti in più terribil forma,
talché schiere parean con arme ed aste,
e ‘n minacciose rupi o ‘n ciechi sassi,
che son de’ vivi ancor fiero sepolcro;
parte a le basi di montagne alpestri
sempre canute, ove risona e mugge,
mentre combatte l’un con l’altro flutto,
e ‘l frange e ‘nbianca, e come il tuon rimbomba,
e di spavento i naviganti ingombra;
parte inghiotinne ancor l’empia Caribdi,
che l’onde e i legni intieri absorbe e mesce;
son rari i notatori in vasto gorgo.
Ma co ‘l flutto maggior nubilo spirto
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Torquato Tasso
il nostro batte, e ‘l risospinge a forza,
sì ch’a gran pena il buon nocchiero accorto
lui salvò, sé ritrasse e noi raccolse
d’uno altissimo monte a’ curvi fianchi,
dove mastra natura in guisa d’elmo
forma scolpito a meraviglia un porto,
che tutti scaccia i venti e le tempeste,
ma pur di sangue è crudelmente asperso,
fiero principio e fin d’acerba guerra.
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Torrismondo
Atto 2, scena 1
MESSAGGIERO
Me di seguire il mio signore aggrada,
o calchi il ghiaccio de’ canuti monti,
o le paludi pur ch’indura il verno.
Ed or quanto m’è caro e quanto dolce
l’esser venuto seco a l’alta pompa
ne la famosa Arana! Ei segue, e ‘ntanto
al re de’ Goti messagiero io giungo,
perch’io gli dia del suo arrivar novella.
Ma chieder voglio a que’ ch’insieme veggio
ove sia del buon re l’aurato albergo.
O cavalieri, io di Suezia or vegno,
per ritrovare il re; dov’è la reggia?
CORO
E‘ quella che t’addito, ed ei medesmo
quel che là vedi tacito e pensoso.
MESSAGGIERO
O magnanimo re de’ Goti illustri,
de l’inclita Suezia il re possente
a voi manda salute e questa carta.
TORRISMONDO
La lettra è di credenza. Espor vi piaccia
quel ch’ei v’impose.
MESSAGGIERO
Il mio signor Germondo
dentro a’ confin del vostro regno è giunto,
e già vicino; e pria che ‘l sole arrivi
del lucido oriente a mezzo il corso,
sarà ne la famosa e nobil reggia;
25
Torquato Tasso
ed ha voluto ch’io messaggio inanzi
porti insieme l’aviso e porga i prieghi,
perché raccolto ei sia come conviensi
a l’amicizia, a cui sarian soverchi
tutti i segni d’onore e tutti i modi,
che son fra gli altri usati. Ei si rammenta
del dolce tempo e de l’età più verde,
de l’error, de’ viaggi, e de le giostre,
de l’imprese, de’ pregi, e de le spoglie,
de la gloria commune, e de la guerra;
ma più del vostro amor. Né d’uopo è forse
ch’io lo ricordi a chi ‘l riserba in mente.
TORRISMONDO
Oh memoria, oh tempo, oh come allegro
de l’amico fedel novella ascolto!
Dunque sarà qui tosto. Oimè, sospiro
perch’a tanto piacer non basta il petto,
talch’una parte se ‘n riversa e spande.
CORO
La soverchia allegrezza e ‘l duol soverchio,
venti contrari a la serena vita,
soffian quasi egualmente e fan sospiri;
e molti sono ancor gl’interni affetti
da cui distilla, anzi deriva il pianto,
quasi da fonti di ben larga vena:
la pietate, il piacer, il duol, lo sdegno;
tal ch’il segno di fuor non è mai certo
di quella passion che dentro abonda.
Ed or nel signor nostro effetti adopra
l’infinita allegrezza, o così parmi,
qual suole in altri adoperar la doglia.
MESSAGGIERO
Signor, se con sì ardente e puro affetto
amate il nostro re, giurar ben posso
ch’è l’amor pari; e l’un risponde a l’altro,
e non ha, quanto il sole illustra e scalda,
di lui più fido amico.
TORRISMONDO
Esperto il credo.
Anzi certo sono io che ‘l ver si narra.
MESSAGGIERO
26
Torrismondo
Ei de le vostre nozze è lieto in modo
che ‘l piacer vostro in lui trasfuso inonda,
a guisa di gran pioggia o di torrente.
Gioisce al suon di vostre lodi eccelse
o per l’arti di pace o di battaglia;
gioisce se i costumi alcuno essalta,
e racconta i viaggi, i lunghi errori,
la beltà de la sposa, il merto e i pregi;
e del padre e di voi sovente ei chiede.
TORRISMONDO
N’udrà liete novelle. E lieto ascolto
le vostre anch’io; ma, del camin già lasso,
deh non vi stanchi il ragionar più lungo.
Sarà da me raccolto il re Germondo
com’egli vuole. E‘ suo de’ Goti il regno
non men ch’egli sia mio: però comandi.
Voi prendete riposo. E tu ‘l conduci
a le sue stanze, e sia tua cura intanto
ch’egli onorato sia; che ben conviensi,
e ‘l merta il suo valor, l’ufficio e ‘l tempo,
e l’alta degnità di chi ce ‘l manda.
27
Torquato Tasso
Atto 2, scena 2
TORRISMONDO
Pur tacque al fine, e pur al fin dinanzi
mi si tolse costui, ch’a me parlando
quasi il cor trapassò d’acuti strali.
O maculata conscienza, or come
mi trafigge ogni detto! Oimè dolente
che fia se di Germondo udrò le voci?
Non a Sisifo il rischio alto sovrasta
così terribil di pendente pietra,
come a me il suo venire. O Torrismondo,
come potrai tu udirlo? O con qual fronte
sostener sua presenza? O con quali occhi
drizzar in lui gli sguardi? O cielo, o sole,
che non t’involvi in una eterna notte?
O perché non rivolgi adietro il corso
perch’io visto non sia, perché non veggia?
Misero, allora avrei bramato a tempo
che gli occhi mi coprisse un fosco velo
d’orror caliginoso e di tenebra,
ch’io sì fissi li tenni al caro volto
de la mia donna: allor traean diletto,
onde non conveniasi. Or è ben dritto
che stian piangendo a la vergogna aperti,
e di là traggan noia, onde conviensi,
perché la man costante il ferro adopre.
Ma vien l’ora fatale e ‘l forte punto,
ch’io cerco di fuggire; e ‘l cerco indarno,
se non costringe la canuta madre
la figlia sua, col suo materno impero,
28
Torrismondo
sì come io l’ho pregata, ella promesso.
E so ch’al mio pregar fia pronta Alvida.
Ma chi m’affida, oimè, che di Germondo
l’alma piegar si possa a novo amore?
E se fia vano il più fedel consiglio,
non ha rimedio il male altro che morte.
29
Torquato Tasso
Atto 2, scena 3
ROSMONDA
O felice colei, sia donna o serva,
che la vita mortal trapassa in guisa
che tra via non si macchi, e non s’asperga
nel suo negro e terren limo palustre.
Ma chi non ne n’asperge? Ahi non sono altro
serve ricchezze al mondo e servi onori
ch’atro fango tenace intorno a l’alma,
per cui sovente in suo camin s’arresta.
Io, che d’alta fortuna aura seconda
portando alzò ne la sublime altezza,
e mi ripose nel più degno albergo,
de’ regi invitti e gloriosi in grembo,
e son detta di re figlia e sorella,
dal piacer, da l’onore e da le pompe,
e da questa real superba vita
fuggirei, come augel libero e sciolto,
a l’umil povertà di verde chiostro.
Or tra vari conviti e vari balli
pur mal mio grado io spendo i giorni integri
e de le notti a’ dì gran parte aggiungo;
onde talor vergogna ho di me stessa,
s’a vergine sacrata a Dio nascendo,
è vergogna l’amar cosa terrena;
ma chi d’amor si guarda e si difende?
o non si scalda a la vicina fiamma?
Misera io non volendo amo, ed avampo
appresso il mio signor, ch’io fuggo, e cerco
dapoi che l’ho fuggito; indi mi pento,
30
Torrismondo
del mio voler non che del suo dubbiosa.
E non so quel ch’io cerchi o quel ch’io brami,
e se più si disdica e men convenga
come sorella amarlo o come serva.
Ma s’ei pur di sorella ardente amore
prendesse a sdegno, esser mi giovi ancilla,
ed ancilla chiamarmi e serva umile.
31
Torquato Tasso
Atto 2, scena 4
REGINA MADRE
A te sol forse ancora è, figlia, occulto
ch’oggi arrivar qui deve il re Germondo.
ROSMONDA
Anzi è ben noto.
REGINA MADRE
Non ben si pare.
ROSMONDA
Che deggio far? Non so ch’a me s’aspetti
alcuna cura.
REGINA MADRE
O figlia,
con la regina sposa insieme accorlo
ancor tu dêi. S’è quel signor cortese,
quel re, quel cavalier che suona il grido,
ei tosto sen verrà per farvi onore.
ROSMONDA
Io così credo.
REGINA MADRE
Or come dunque
sì gran re ne l’altero e festo giorno
così negletta di raccôr tu pensi?
Perché non orni tue leggiadre membra
di preziosa vesta? E non accresci
con abito gentil quella bellezza,
ch’il cielo a te donò cortese e largo,
prendendo, come è pur la nostra usanza,
l’aurea corona, o figlia, o l’aureo cinto?
Bellezza inculta e chiusa in umil gonna
32
Torrismondo
è quasi rozza e mal polita gemma,
ch’in piombo vile ancor poco riluce.
ROSMONDA
Questa nostra bellezza, onde cotanto
se’n va femineo stuol lieto e superbo,
di natura stimo io dannoso dono,
che nuoce a chi ‘l possede ed a chi ‘l mira.
Lo qual vergine saggia anzi devrebbe
celar, ch’in lieta danza od in teatro
spesso mostrarla altrui.
REGINA MADRE
Questa bellezza
proprio ben, propria dote e proprio dono
è de le donne, o figlia, e propria laude,
come è proprio de l’uom valore e forza.
Questa in vece d’ardire e d’eloquenza
ne diè natura, o pur d’accorto ingegno;
e fu più liberale in un sol dono,
ch’in mille altri ch’altrui dispensa e parte;
ed agguagliamo, anzi vinciam, con questa,
ricchi, saggi, facondi, industri e forti.
E vittorie e trionfi e spoglie e palme
le nostre sono, e son più care e belle
e maggiori di quelle onde si vanta
l’uom, che di sangue è tinto e d’ira colmo,
perch’i vinti da loro aspri nemici
odiano la vittoria e i vincitori;
ma da noi vinti sono i nostri amanti,
ch’aman le vincitrici e la vittoria,
che gli fece soggetti. Or s’uomo è folle,
s’egli ricusa di fortezza il pregio,
non dêi già tu stimare accorta donna
quella che sprezzi il titol d’esser bella.
ROSMONDA
Io più tosto credea che doti nostre
fossero la modestia e la vergogna,
la pudicizia, la pietà, la fede,
e mi credea ch’un bel silenzio in donna
di felice eloquenza il merto aguagli.
Ma pur s’è così cara altrui bellezza,
come voi dite, tanto è cara, o parmi,
33
Torquato Tasso
quanto ella è di virtù fregio e corona.
REGINA MADRE
Se fregio è, dunque esser non dee negletto.
ROSMONDA
S’è fregio altrui, è di se stessa adorna.
E bench’io bella a mio parer non sia
sì come pare a voi, ch’in me volgete
dolce sguardo di madre, ornar mi deggio,
che sarò, se non bella, almeno ornata.
Non per vaghezza nova o per diletto,
ma per piacere a voi, del voler vostro
è ragion ch’a me stessa io faccia legge.
REGINA MADRE
Ver dici, e dritto estimi, e meglio pensi.
E vo’ sperar ch’al peregrino invitto
parrai quale a me sembri; onde ei sovente
dirà fra sé medesmo sospirando:
- Già sì belle non son, né sì leggiadre,
le figliuole de’ principi sueci.
ROSMONDA
Tolga Iddio che per me sospiri o pianga,
od ami alcuno, o mostri amare.
REGINA MADRE
Adunque
a te non saria caro, o cara figlia,
che re sì degno e sì possente in guerra
sospirasse per te di casto amore,
in guisa tal ch’incoronar le chiome
a te bramasse e la serena fronte
d’altra maggior corona e d’aureo manto,
e farti (ascolti il cielo i nostri preghi)
di magnanime genti alta reina.
ROSMONDA
Madre, io no ‘l vo’ negar, ne l’alta mente
questo pensiero è già riposto e fisso,
di viver vita solitaria e sciolta,
in casta libertade; e ‘l caro pregio
di mia virginità serbarmi integro
più stimo, ch’acquistar corone e scettri.
REGINA MADRE
Ei ben si par che, giovenetta donna,
34
Torrismondo
quanto sia grave e faticoso il pondo
de la vita mortal, a pena intendi.
La nostra umanitade è quasi un giogo
gravoso, che natura e ‘l cielo impone,
a cui la donna o l’uom disgiunto e sevro
per sostegno non basta, e l’un s’appoggia
ne l’altro, ove distringa insieme amore
marito e moglie di voler concorde,
compartendo fra lor gli offici e l’opre.
E l’un vita da l’altro allor riceve
quasi egualmente, e fan leggiero il peso,
cara la salma e dilettoso il giogo.
Deh, chi mai vide scompagnato bue,
solo traendo il già comune incarco,
stanco segnar gemendo i lunghi solchi?
Cosa più strana a rimirar mi sembra
che donna scompagnata or segni indarno
de la felice vita i dolci campi:
e ben l’insegna, a chi riguarda il vero,
l’esperienza, al bene oprar maestra.
Perché l’alto signore a cui mi scelse
compagna il cielo, e ‘l suo co ‘l mio volere,
in guisa m’aiutò, mentre egli visse,
a sopportar ciò che natura o ‘l caso
suole apportar di grave e di molesto,
ch’alleggiata ne fui; né sentì poscia
cosa, onde soffra l’alma il duol soverchio.
Ma poiché morte ci disgiunse, ahi morte
per me sempre onorata e sempre acerba,
sola rimasa e sotto iniqua salma,
di cadendo mancar tra via pavento,
ed a gran pena, dagli affanni oppressa,
per l’estreme giornate di mia vita
trar posso questo vecchio e debil fianco.
Lassa, né torno a ricalcar giamai
lo sconsolato mio vedovo letto,
ch’io no ‘l bagni di lagrime notturne
rimembrando fra me ch’un tempo impressi
io solea rimirar cari vestigi
del mio signore, e ch’ei porgea ricetto
a’ piaceri, a’ riposi, al dolce sonno,
35
Torquato Tasso
a’ soavi susurri, a’ baci, a’ detti,
secretario fedel di fido amore,
di secreti pensier, d’alti consigli.
Ma dove mi trasporti a viva forza,
memoria innamorata?
Sostien ch’io torni ove il dover mi spinge.
S’a me diede allegrezza e fece onore
il bene amato mio signor diletto,
io spesso ancor gli agevolai gli affanni;
e quanto in me adoprava il buon consiglio,
tanto in lui (s’io non erro) il mio conforto,
e ‘l vestir seco d’un color conforme
tutti i pensieri, ed il portare insieme
tutto quel ch’è più grave e più noioso
nel corso de la vita. E mentre intento
era a stringere il freno, a rallentarlo
a’ Goti vincitori, a mover l’arme,
ad infiammare, ad ammorzar gl’incendi
di civil Marte o pur d’estrania guerra,
sovra me tutto riposar gli piacque
il domestico peso. E seco un tempo
questa vita mortal, se non felice,
che felice non è stato mortale,
pur lieta almeno e fortunata i’ vissi;
e sventurata sol perché quel giorno
a me non fu l’estremo, e non rinchiuse
queste mie stanche membra in quella tomba,
ov’egli i nostri amori e ‘l mio diletto
se ‘n portò seco, e se gli tien sepulti.
Oh pur simil compagno e vita eguale
a te sia destinato; e tal sarebbe,
per quel che di lui stimi, il re Germondo.
Tu, s’avvien ch’egli a te s’inchini e pieghi,
schifa non ti mostrar di tale amante.
ROSMONDA
Se ben di noi che siamo in verde etate
quella è più saggia che saper men crede,
e de la madre sua canuta il senno
molto prepone al giovenil consiglio
nel misurar le cose, io pur fra tanto
oserò dir quel ch’ascoltai parlando.
36
Torrismondo
La compagnia de l’uom più lieve alquanto
può far la noia, e può temprar l’affanno,
onde la vita femminile è grave.
Ma s’in alcune cose ella n’alleggia,
più ne preme ne l’altre, e quasi atterra,
e maggior peso a la consorte aggiunge
che non le toglie in sofferendo. Ed anco
molto stimar si può difficil soma
il voler del marito, anzi l’impero,
qualunque egli pur sia, severo o dolce.
Or non è ella assai gravosa cura
quella de’ figli? A l’infelice madre
non paion gravi a la più algente bruma
lor notturni viaggi, e i passi sparsi
ed ogni error ch’i peregrini intrica,
la povertà, l’essiglio, e gli altri rischi,
e le pallide morti, e i lunghi morbi,
fianchi, stomachi, febri? E s’odo il vero,
la gravidanza ancora è grave pondo,
e lungo pondo, e doloroso il parto,
sì ch’il figliuol, ch’è de le nozze il frutto,
è frutto al padre, ed a la madre è peso;
peso anzi il nascer grave, e poi nascendo,
né poi nato è leggiero. E pur di questo,
di cui la vita virginale è scarca,
il matrimonio più n’aggrava e ‘ngombra.
Che dirò, s’egli avien che sian discordi
il marito e la moglie, o se la donna
s’incontra in uom superbo e crudo e stolto?
Infelice servaggio ed aspro giogo
puote allor dirsi il suo. Ma sian concordi
d’animi, di volere e di consiglio,
e viva l’un ne l’altro; or che ne segue?
Forse questa non è penosa vita?
Allor quanto ama più, quanto conosce
d’essere amata più la nobil donna,
tanto a mille pensieri è più soggetta,
ed agli affetti suoi gli affetti ascosi
del suo fedel, come sian propi, aggiunge.
Teme co ‘l suo timor, duolsi co ‘l duolo,
con le lagrime sue lagrima e piange,
37
Torquato Tasso
e co ‘l suo sospirar sospira e geme.
E benché sia sicura in chiusa stanza,
o ‘n alto monte, o ‘n forte eccelsa torre,
è pur sovente esposta a’ casi aversi
ed a’ perigli di battaglia incerta.
Di ciò non cerco io già stranieri essempi,
perché de’ nostri oltra misura abondo.
E da voi gli prendo io, ch’a me tal volta
contra la ragion vostra in vece d’arme
altre varie ragioni a me porgete.
Ma se ‘l marito a la gran madre antica
dopo l’estremo passo al fin ritorna,
ella sente il dolor d’acerba morte;
e seco muore in un medesimo tempo
a’ piaceri, a le gioie, e vive al lutto.
Onde conchiuderei con certe prove
che sia noioso il matrimonio e grave,
ch’in lui sterile vita o pur feconda,
l’esser amata od odiosa, apporta
solleciti pensier, fastidi e pene
quasi egualmente. Ed io no ‘l fuggo e sprezzo
solo per ischivar gli affanni umani;
ma più nobil desio, più casto zelo
me de la vita virginale invoglia.
Ed a me gioveria lanciare i dardi
tal volta in caccia e saettar con l’arco,
e premer co’ miei gridi i passi e ‘l corso
di spumante cinghiale, e, tronco il capo,
portarlo in vece di famosa palma:
poiché non posso il crin d’elmo lucente
coprirmi in guerra, e sostener lo scudo
che luna somigliò di puro argento,
con una man frenando alto destriero,
e con l’altra vibrar la spada e l’asta,
come un tempo solean feroci donne
che da questa famosa e fredda terra
già mosser guerra a’ più lontani regni.
Ma se tanto sperare a me non lece,
almen somiglierò, sciolta vivendo,
libera cerva in solitaria chiostra,
non bue disgiunto in male arato campo.
38
Torrismondo
REGINA MADRE
Non è stato mortal così tranquillo,
quale ei si sia, del quale accorta lingua
molte miserie annoverar non possa;
però lasciando i paragoni e i tempi
de le vite diverse, io certo affermo
che tu sol non sei nata a te medesma.
A me che ti produssi, a tuo fratello
ch’uscì del ventre istesso, a questa invitta
gloriosa cittate ancor nascesti.
Or perché dunque (ah cessi il vano affetto)
in guisa vuoi di solitaria fera
viver selvaggia e rigida e solinga?
Chiede l’utilità del nostro regno
e del caro fratel che pieghi il collo
in così lieto giorno al dolce giogo.
A la patria, al germano, a vecchia madre
fia ‘l tuo voler preposto? Ahi non ti stringe
la materna pietà? Non vedi ch’io
del mio corso mortal tocco la meta?
Perché dunque s’invidia il mio diletto?
Non vuoi ch’io veggia, anzi ch’a morte aggiunga,
rinovellar questa mia stanca vita
ne l’imagine mia, ne’ mia nepoti,
nati da l’uno e l’altro amato figlio?
ROSMONDA
Già non resti per me che bella prole
te felice non faccia. Egli è ben dritto
ch’obbedisca la figlia a saggia madre.
REGINA MADRE
Degna è di te la tua risposta, e cara.
Or va, t’adorna, o figlia, e t’incorona.
39
Torquato Tasso
Atto 2, scena 5
REGINA MADRE
Infelice non è dolente donna,
se ne’ suoi figli il suo dolor consola
e ‘n lor s’appoggia, e quasi in lor s’avanza,
e de la vita allunga il dubbio corso;
e depone i fastidi e i gravi affanni,
a guisa di soverchio inutil fascio,
ch’impedisce il viaggio, anzi il perturba.
Non si vede per lor, né si conosce,
né sprezzata, né sola, né deserta,
né odiosa od aborrita vecchia.
E ‘l numero de’ figli è caro, e basta,
se l’un maschio è di lor, femina è l’altra.
In tal numero a pieno oggi s’adempie
la mia felicitade, o si rintegra
se desiosa fu già. Felice madre
di prole fortunata, e lieto giorno!
Certo del sommo Dio son dono i figli;
ed egli che donolli ancor gli serva,
gli guarda, gli difende, anzi gli accresce,
come ora io veggio i miei cresciuti al colmo
di valor, di fortuna e di bellezza.
Ma ecco il re se ‘n viene: un lume io veggio
degli occhi miei che d’ostro e d’or risplende,
mentre l’altro s’adorna in altra pompa.
40
Torrismondo
Atto 2, scena 6
REGINA MADRE
Dopo molte ragioni e molti preghi
si rende al voler nostro al fin Rosmonda,
ma non in guisa che piacer dimostri.
Anzi io la vidi tra dolente e lieta
sospirando partirsi. Oh, pur congiunte
sian nozze a nozze, ond’il piacer s’accresca,
e si doppin le feste e i giuochi e i balli.
Fia contenta (o ch’io spero) a vecchia madre
d’aver creduto, ed al fratello insieme.
TORRISMONDO
Non è saggio colui ch’insieme accoppia
vergine sì ritrosa e re possente
contra ‘l piacer di lei; ma, s’io non erro,
fora simil pazzia condurre in caccia
sforzati i cani. Or sia che può: se l’abbia,
s’ei la vorrà.
REGINA MADRE
Ma con felice sorte.
TORRISMONDO
Sia felice, se può. Ma nulla manchi
a la nostra grandezza, al nostro merto:
abito signoril, ricchezza e pompa.
S’ornin cento con lei vergini illustri
d’aurea corona ancora e d’aureo cinto,
ed altrettante ancora illustri donne,
pur con aurea corona ed aureo cinto,
seguano Alvida. Ella di gemme e d’auro,
come sparso di stelle il ciel sereno,
41
Torquato Tasso
fra le seguaci sue lieta risplenda.
Abbia scettro, monil, corona e manto,
e s’altro novo fregio, altro lavoro
d’abito antico in lei vaghezza accresce.
Ma questa è vostra cura e vostra laude,
e, in aspettando il re, l’ore notturne
tolte per sì bell’opre avete al sonno.
Ora a voi cavalieri, a voi mi volgo,
gioveni arditi. Altri sublime ed alto
drizzi un castel di fredda neve e salda,
e ‘l coroni di mura intorno intorno;
faccian le sue difese, e faccian quattro
ne’ quattro lati suoi torri superbe;
e da candida mole insegna negra,
dispiegandosi a l’aure, al ciel s’inalzi;
e vi sia chi ‘l difenda, e chi l’assalga.
Altri nel corso, altri mostrar nel salto
il valor si prepari, altri lanciando
le palle di gravoso e duro marmo,
altri di ferro, il qual sospinge e caccia
la polve e ‘l foco, il magistero e l’arte.
Altri si veggia in saettar maestro
ne la meta sublime; e ‘n alto segno,
d’una girevole asta in cima affisso
quasi volante augel, balestri e scocchi
rintuzzate quadrella, in sin ch’a terra
caggia disciolto. Altri in veloce schermo
percota o schivi, e ‘n su l’adversa fronte
faccia piaga il colpir, vergogna il cenno
de le palpebre a chi riceve il colpo.
Altri di grave piombo armi la destra
e d’aspro cuoio e dur l’intorni e cinga,
perché gema il nemico al duro pondo.
Altri sovra le funi i passi estenda,
e sospeso nel ciel si volga e libri.
Altri di rota in guisa in aria spinto
si giri a torno; altri di cerchio in cerchio
passi guizzando, e sembri in acqua il pesce;
altri fra spade acute ignudo scherzi.
Altri in forma di rota o di grande arco
conduca e riconduca un lieto ballo,
42
Torrismondo
d’antichi eroi cantando i fatti eccelsi
a la voce del re, ch’indrizza e regge
co ‘l suon la danza; e i timpani sonanti
e con lieti sonori altri metalli
sotto il destro ginocchio avinte squille
confondan l’alte voci e ‘l chiaro canto.
Ed altri salti armato al suon di tromba
o di piva canora, or presto or tardi,
facendo risonar nel vario salto
le spade insieme e sfavillar percosse.
Altri, dove in gran freddo il foco accenso
degli abeti riluce e stride e scoppia,
con lungo giro intorno a lui si volga:
sì che l’estremo caggia in viva fiamma,
rotta quella catena, e poi risorto
da’ compagni s’inalzi in alto seggio.
Altri là dove il giel s’indura e stringe,
condurrà i suoi destrier quasi volanti.
Ed altri a prova su ‘l nevoso ghiaccio
spinga or domite fere, e già selvagge,
c’hanno sì lunghe e sì ramose corna
e vincer ponno al corso i venti e l’aura.
Ed altri armato di lorica e d’elmo
percoteransi urtando il petto e ‘l dorso,
di trapassar cercando il duro usbergo
e penetrare il ferro e romper l’aste.
Ed io (ch’è già vicino il re Germondo
a la sede real) li movo incontra
con mille e mille cavalieri adorni,
vestiti al mio color purpureo e bianco,
che già fra tutti gli altri a prova ho scelti.
L’altre diverse mie lucenti squadre
a cavallo ed a piè fratanto accolga
il mio buon duce intorno a l’alta reggia,
e i destrier di metallo, onde rimbomba
la fiamma ne l’uscir d’ardente bocca
con negro fumo, e i miei veloci carri;
e lungo spazio di campagna ingombri,
sotto vittoriosa e grande insegna.
CORO
Non sono estinte ancor l’eccelse leggi,
43
Torquato Tasso
generate là su ne l’alto cielo,
de l’opre saggie e caste
e del parlar che l’onestà conservi:
perch’ella qui ritrova alberghi e seggi
tra l’altissime nevi e ‘l duro gelo,
e tra gli scudi e l’aste
vive secura, e tra ministri e servi.
Pensier vani e protervi
sempre nido non fanno in nobil core;
né, perché la ragion il fren si toglia
ch’in altri regge amore,
del suo gentile ardir l’alma dispoglia,
ma degli antichi essempi ancor l’invoglia.
E potrebbe costei gravar la fronte
di lucido elmo, e seguitar nel corso
cervo non solo, o damma,
ma de l’estranie genti ostile schiera:
come Ippolita in riva al Termodonte,
d’un gran destrier premendo armato il dorso
con la sinistra mamma,
alta regina, e di sua gloria altera.
Ma se questa è guerrera,
chi farà di sue spoglie unqua trofeo?
O chi potrà condurla avinta o presa?
Quale Ercole o Teseo
avrà l’eterno onor di bella impresa,
s’in lei non è d’amor favilla accesa?
O de l’aurea speranza antica figlia,
fama immortal, che gli anni avanzi e i lustri,
e dal sepolcro oscuro
l’uom talvolta fuor traggi e ‘l togli a morte,
narra a costei, che tanto a lor somiglia,
l’antiche donne e le moderne illustri,
che sotto il pigro Arturo
ebbero insieme il cor pudico e forte.
Se per le vie distorte
da questa reggia invitta il sol disgiunge
correndo intorno i suoi destrieri aversi,
non è turbato o lunge
tanto giamai, ch’i raggi in noi conversi
non miri di valor pregi diversi.
44
Torrismondo
Vincan di casta madre
la sua vergine figlia i casti preghi,
e l’arco rea fortuna altrove or tenda.
E più si stringa e leghi
l’una coppia con l’altra, e più s’accenda,
e più nel dubbio alta virtù risplenda.
45
Torquato Tasso
Atto 3, scena 1
CONSIGLIERO
A molti egri mortali (or mi sovviene
di quel che spesso ho già pensato e letto)
fedel non fu de l’amicizia il porto,
che sovente il turbò, qual nembo oscuro,
il desio d’usurpar cittati e regni,
o gran brama d’onore, o d’alto orgoglio
rapido vento, o pur disdegno ed ira,
che mormorando mova altra tempesta.
Ma questo, ove il mio re nel mar solcando
de la vita mortal legò la nave
tutta d’arme e d’onore adorna e carca,
e l’ancore il fermâr co ‘l duro morso,
s’àncora fu la fede e quinci e quindi;
questo, dico, sì lieto e sì tranquillo
seno de l’amicizia, ardente spirto
d’amor sossopra volse, e non turbolla
né turbar la poteva altra procella
prima né dopo. E ‘l risospinse in alto
pur il medesmo amor tra duri scogli,
talch’è vicino ad affondar tra l’onde.
Io canuto nocchier siedo al governo,
presto di navigare a ciascun vento,
sì come piace al re. Parlare io debbo
con duci di Suezia e con Germondo,
perch’ei rivolga il cor dal primo oggetto;
e parlerò. Ma sinché il re s’attende,
lascerò gli altri riposar. Fra tanto
molte cose fra me volgo e rivolgo.
46
Torrismondo
Dura condizione e dura legge
di tutti noi che siam ministri e servi!
A noi quanto è di grave qua giù e d’aspro
tutto far si conviene, e diam sovente
noi severe sentenze e pene acerbe.
Il diletto e ‘l piacer serbano i regi
a se medesmi, e ‘l far le grazie e i doni.
Né già tentar m’incresce il dubbio guado,
che men torbido sembra e men sonante
a chi men vi rimira e men v’attende:
che leve ogni fatica ed ogni rischio
mi farà del mio re l’amore e ‘l merto.
Ma spesso temo di tentarlo indarno,
s’egli medesmo o prima o poi no ‘l varca.
Favorisca fortuna il mio consiglio;
ceda il re di Suezia al re de’ Goti
questo amor, questo giorno e queste nozze:
che degli antichi Goti è ‘l primo onore;
e pur cede a l’onore il grave e ‘l forte
e ‘l fortissimo ancora. E bench’agguagli
l’uno de l’altro re la gloria e l’opre,
questo è maggior per dignitate eccelsa
di tanti regi e cavalieri invitti,
che già l’imperio soggiogâr del mondo.
Cedagli dunque l’altro. Ed è ben dritto.
Com’a l’alma stagion, ch’i frutti apporta,
partendo cede il pigro e ‘l freddo verno;
o come de la notte il nero cerchio
concede al sole, ove un bel giorno accenda
sovra i lucenti e candidi cavalli;
o come la fatica al dolce sonno;
o come spesso cede, in mar che frange,
quel che perturba a chi racqueta il flutto;
dal sole impari e da le stelle erranti,
da le sublimi cose e da l’eterne,
a ceder l’uomo a l’uom terreno e frale.
Forse altre volte, e già preveggio il tempo,
al mio signor non cederà Germondo;
ma ceduto gli fia. Così mantiensi
ogni amicizia de’ mortali in terra.
47
Torquato Tasso
Atto 3, scena 2
ROSMONDA
O possente Fortuna, a me pur anco,
che fui dal tuo favor portata in alto,
con sembiante fallace or tu lusinghi,
e di altezza in altezza, ov’io paventi
la caduta maggior, portarmi accenni,
quasi di monte in monte. E veggio omai,
o di veder pens’io, sembianze e torme
d’inganni, di timori e di perigli.
Oh quanti precipizî! Appressa il tempo
da rifiutar le tue fallaci pompe
e i tuoi doni bugiardi. A che più tardo?
A che non lascio le mentite spoglie
e la falsa persona e ‘l vero nome,
se ‘l mio valor non m’assicura ed arma?
Bastava che di re sorella e figlia
fossi creduta. Usurparò le nozze
ancor d’alta regina, audace sposa
e finta moglie e non verace amante?
Potrò l’alma piegar d’un re feroce,
ch’altrove forse è volta, e vòti i voti
de la mia vera madre al fin saranno,
a la cui tomba lagrimai sovente,
cercando di pietà lodi non false?
Ahi, non sia vero. Io rendo al fine, io rendo
quel ch’al fin mi prestò la sorte e ‘l fato.
L’ho goduto gran tempo. Altera vissi
vergine e fortunata, ed or vivrommi
48
Torrismondo
di mia sorte contenta in verde chiostro.
Altri, se più convienle, altri si prenda
questo tuo don, Fortuna, e tu ‘l dispensa
altrui, come ti piace, o com’è giusto.
49
Torquato Tasso
Atto 3, scena 3
TORRISMONDO
Le nemicizie de’ mortali in terra
esser devrian mortali ed aver fine;
ma l’amicizie, eterne. Or siano estinte,
co’ valorosi che, morendo in guerra,
tinsero già la terra e tinser l’onda
tre volte e quattro di sanguigno smalto,
l’ire e gli sdegni tutti. E qui cominci,
o pur si stabilisca e si rintegri,
la pace e l’union di questi regni.
GERMONDO
Già voi foste di me la miglior parte,
or nulla parte è mia, ma tutto è vostro,
o tutto fia, se pur non prende a scherno
vera amicizia quanto amore agogna,
ch’è d’altrui vincitor, da lei sol vinto.
Voi mi date ad Alvida. E ‘nsieme Alvida
a me date voi solo. E‘ vostro dono
il mio sì lieto amore e la mia vita.
Ch’io per voi sono or vivo, e sono amante,
e sarò sposo. E s’ella ancor diviene
per voi mia donna, e sposa a’ vostri preghi,
raccolto amore ov’accogliea disdegno,
qual fia dono maggior? Corone e scettri
assai men pregio, o pur trionfi e palme.
TORRISMONDO
Anzi io pur vostro sono. E me donando,
e lei, che mia si crede, in parte adempio
il mio dever; ma non fornisco il dono,
50
Torrismondo
che me d’obligo tragga e voi d’impaccio.
Sì darvi potessi io di nobil donna
il disdegnoso cor, ch’a me riserba,
come farò ch’il mio veggiate aperto.
Perché vane non sian tante promesse,
per me la bella Alvida ami Germondo,
ami Germondo me. S’aspetta indarno
da me vendetta pur d’oltraggio e d’onta.
Vendicatela voi, ch’ardire e forza
ben avete per farlo.
GERMONDO
I vostri oltraggi
son pronto a vendicar. Dal freddo carro
mover prima vedrem Vulturno ed Austro,
e spirar Borea da l’ardenti arene,
e ‘l sol farà l’occaso in oriente,
e sorgerà da la famosa Calpe
e da l’altra sublime alta colonna,
ed illustrar d’Atlante il primo raggio
vedrassi il crine e la superba fronte,
e l’ocean nel salso ed ampio grembo
darà l’albergo oltre il costume a l’Orse,
e torneranno i fiumi a’ larghi fonti,
e i gran mostri del mare in cima a’ faggi
si vedran gir volando o sopra agli olmi,
e co’ pesci albergar ne l’acqua i cervi,
prima che tanta amicizia io tuffi in Lete
per novo amore. A’ merti, al nome, a l’opra,
debita è quasi la memoria eterna,
ed io questa rimembro e l’altre insieme;
però che grazia ognor grazia produce.
51
Torquato Tasso
Atto 3, scena 4
TORRISMONDO
Regina, ad onorar le vostre nozze
venuto è di Suezia il re Germondo,
invitto cavaliero e d’alta fama,
e, quel che tutto avanza, è nostro amico,
né men vostro che mio; né tante offese
fece a’ Norvegi mai la nobil destra,
quanti farvi servigi ei brama e spera.
Porger dunque la vostra a lui vi piaccia,
pegno di fede e di perpetua pace.
Fatelo perch’è mio, e perch’è vostro,
e perché tanto ei v’ama, e perch’il merta.
ALVIDA
Basti ch’è vostro amico; altro non chiedo.
Perché sol dee stimar la donna amici
quei che ‘l marito estima. E ‘l merto e ‘l pregio
e ‘l valor e l’amor, per me soverchio,
m’è sol caro per voi: che vostra io sono,
e sol quanto a voi piace a me conviensi.
TORRISMONDO
Questa del vostro amor, del vostro senno,
ho fede e speme. Oggi memoria acerba
non perturbi l’altero e lieto giorno,
e la sembianza vostra, e ‘l vostro petto.
ALVIDA
Nel mio petto giammai piacere o noia
non entrerà, che non sia vostro insieme.
Che vostro è ‘l mio volere, ed io ve ‘l diedi,
quando vi die’ me stessa; e vostra è l’alma.
52
Torrismondo
Posso io, s’a voi dispiaccio, odiar me stessa;
posso, se voi l’amate, amar Germondo.
TORRISMONDO
Estingua tutti gli odii il nostro amore,
e nessuno odio il nostro amore estingua.
53
Torquato Tasso
Atto 3, scena 5
CAMERIERA
Questi doni a voi manda, alta regina,
il buon re mio signore e vostro servo;
ch’al servir non estima eguale il regno,
né stimeria bench’il superbo scettro
i Garamanti e gli Etiopi e gli Indi
tremar facesse, e ‘nsieme Eufrate e Tigre,
Acheloo, Nilo, Oronte, Idaspe e Gange,
Ato, Parnaso, Tauro, Atlante, Olimpo,
e s’altro sorge tanto o tanto inaspra
lunge da noi famoso orribil monte.
REGINA MADRE
Di valoroso re leggiadri e ricchi
doni son questi, e portator cortese.
CAMERIERA
Non aguagli alcun dono il vostro merto;
ma non aggiate il donatore a sdegno,
ch’or vi presenta e la corona e ‘l manto
e questa imago in preziosa gemma
scolpita.
ALVIDA
A prova la ricchezza e l’arte
contende, o l’opra la materia avanza;
e la sua cortesia sì tosto aguaglia
del suo chiaro valor la fama illustre;
né mi stimò di tanto onore indegna.
Ma quai lodi o quai grazie al signor vostro
rendere io posso? O chi per me le rende?
54
Torrismondo
CAMERIERA
E‘ grazia l’accettarli; e ‘l don gradito
il donator d’obligo eterno astringe.
55
Torquato Tasso
Atto 3, scena 6
ALVIDA
Quai doni io veggio? E quai parole ascolto?
Quale imagine è questa? A chi somiglia?
A me. Son io, mi raffiguro al viso,
a l’abito non già. Norvegio o goto
a me non sembra. E perch’a’ piedi impresse
calcata la corona e ‘l lucido elmo,
e di strale pungente armò la destra?
E ‘l leon coronato al ricco giogo,
qual segno è d’altra parte, e ‘l fregio intorno,
ch’è di mirto e di palma insieme avvinto?
Questi nel manto seminati e sparsi
sono strali e facelle e nodi involti,
mirabile opra; e di mirabil mastro
maraviglioso onor d’alta corona
come riluce di vermiglio smalto!
Sono stille di sangue. Il don conosco.
De la dolce vendetta il caro pregio
e del mio lacrimare insieme i segni
rimiro, e mi rammento il tempo e ‘l loco.
E tu conosci di famosa giostra,
nutrice, il dono? E‘ questo il prezzo, è questo,
e questa è la corona in premio offerta
al vincitor del periglioso gioco,
ch’era poscia invitato ad altra pugna.
Ed io la diedi, e così volle il padre
mio sfortunato e del fratello anciso.
NUTRICE
La corona io conosco, e ‘l dì rimembro
56
Torrismondo
de le famose prove, e ‘l dubbio arringo
ch’al suon già rimbombò di trombe e d’armi;
ma l’altre cose, che ‘l parlare accenna,
parte mi son palesi, e parte occulte.
Perch’ancor non passava il primo lustro
vostra tenera età, che ‘l vecchio padre,
accioch’io vi nutrissi, a me vi diede,
dicendo: - Nudrirai nel casto seno
la mia vendetta e del mio regno antico,
de’ tributi e de l’onte e degl’inganni
e de l’insidie. E‘ destinata in sorte.
Egli più non mi disse, io più non chiesi.
Seppi dapoi ch’i più famosi magi
predicevano al re l’alta vendetta.
ALVIDA
Ma prima nuova ingiuria il duolo accrebbe,
e fe’ maggior ne l’orbo padre il danno.
Perché a’ Dani mandando aiuto in guerra
co ‘l suo figliuol, che di lucenti squadre
troppo inesperto duce allor divenne,
contra i forti Sueci, a cui Germondo,
già ne l’arme famoso, ardire accrebbe,
vi cadde il mio fratello al primo assalto,
dal feroce nemico oppresso e stanco.
Ei di seriche adorno e d’auree spoglie,
ch’io di mia propria mano avea conteste,
tutto splendea, sovra un destrier correndo,
lo qual nato parea di fiamma e d’aura;
e la corona ancor portava in fronte,
che ‘l possente guerrier gli ruppe e trasse;
e gli uccise il cavallo e sparse l’armi,
e fe’ caderlo in un sanguigno monte,
dove, ahi lassa, morì nel fior degli anni.
E de le spoglie il vincitor superbo
indi partissi; e ‘l suon dolente e mesto
si sparse intorno, e ‘l lagrimoso grido.
Altri danni, altre guerre, altre battaglie,
altre morti seguiro in picciol tempo;
né poi successe certa e fida pace,
né fur mai queti i cori, o l’ira estinta.
Ecco a la giostra i cavalieri accoglie
57
Torquato Tasso
il re mio padre, e com’altrui divolga
publico bando in questa parte e ‘n quella,
al vincitor promesso è ‘l ricco pregio.
Vengon da’ regni estrani al nostro regno
e da lontane rive a’ lidi nostri
famosi cavalieri, a prova adorni
di fino argento e d’or, di gemme e d’ostro,
d’altri colori e di leggiadre imprese.
Tutto d’arme e d’armati il suol risplende
de l’ampia Nicosia. Risuona intorno
di varii gridi e varii suoni il campo.
Fuor de l’alta cittade il re n’alberga,
co’ suoi giudici assiso in alto seggio;
io fra nobili donne, in parte opposta.
Si rompon mille lance in mille incontri,
e mille spade fanno uscir faville
dagli elmi e dagli usberghi; il pian s’ingombra
di caduti guerrieri e di cadenti;
è dubbia la vittoria, e ‘l pregio incerto.
E mentre era sospesa ancor la palma,
apparve un cavalier con arme negre,
ch’estranio mi parea, con bigie penne
diffuse a l’aura ventillando e sparse,
che parve al primo corso orribil lampo,
a cui repente segua atra tempesta.
Rotte già nove lance, il re m’accenna
che mandi in dono al cavaliero un’asta.
Con questa di feroce e duro colpo
quel che gli altri vincea gittò per terra.
Né men possente poi vibrando apparse
la fera spada in varii assalti. Ei vinse,
e poi fu coronato al suon di trombe.
Io volea porli in testa aurea corona,
ma non la volle a noi mostrare inerme;
ond’io la posi, ei la pigliò su l’elmo.
Cortesia ritrovò, che ‘l volto e ‘l nome
poté celarne, e si partì repente.
Né fu veduto più. Ma fur discordi,
ragionando di lui guerrieri e donne.
Io seppi sol, ben mi rimembra il modo,
che si partiva il cavalier dolente
58
Torrismondo
mio servo, e di fortuna aspro nemico.
Or riconosco la corona e ‘l pregio.
Era dunque Germondo? Osò Germondo
contra i Norvegi in perigliosa giostra
dentro Norveggia istessa esporsi a morte?
Tanto ardir, tanto core in vana impresa?
Poi tanta secretezza e tanto amore?
E‘ sì picciola fede in vero amante?
E s’ei non era, onde, in qual tempo, e quando
ebbe poi la corona? A chi la tolse?
Chi gliela diede? Ed or perché la manda?
Che segna il manto e la scolpita gemma?
O quai pensier son questi, e quai parole?
NUTRICE
Non so, ma varie cose asconde il tempo,
altre rivela, e muta in parte e cangia;
muta il cor, il pensier, l’usanze e l’opre.
ALVIDA
Di mutato voler conosci i segni?
Son d’amante o d’amico i cari doni?
Chi mi tenta, Germondo o ‘l suo fedele?
Tenta moglie od amica, amante o sposa?
Tenerli io deggio, o rimandarli indietro?
E s’io gli tengo pur, terrògli ascosi?
O gli paleserò? Scoperti o chiusi
al mio caro signor faranno offesa?
Il parlar gli fia grave o ‘l mio silenzio?
Il timore o l’ardir gli fia molesto?
Gli piacerà la stima o ‘l mio disprezzo?
Forse deggio io fallir perch’ei non erri?
O deggio forse amar perch’ei non ami?
O più tosto odiar perch’ei non odi?
NUTRICE
Quai disprezzi, quali odii e quali amori
ragioni, o figlia, e qual timor t’ingombra?
ALVIDA
Temo l’altrui timor, non solo il mio;
e d’altrui gelosia mi fa gelosa
solo il sospetto; anzi il presagio, ahi lassa!
Se troppa fede il mio signore inganna,
in lui manchi la fede, o in me s’accresca,
59
Torquato Tasso
o pur creda a me sola; a me la serbi,
perch’è mia la sua fede, a me fu data.
A me chi la ritoglie o chi l’usurpa?
O chi la fa commune o la comparte?
O come la sua fede alcun m’aguaglia?
Ma forse ella non è soverchia fede.
E‘ forse gelosia, che si riscopre
sotto false sembianze. Oimè dolente,
deh, qual altra cagione ha ‘l mio dolore,
se non è il suo timor? S’egli non teme,
perché mi fugge?
NUTRICE
Il timor vostro il suo timor v’adombra,
anzi ve ‘l finge; e se ‘l timor lasciate,
non temerà, non crederò che tema.
ALVIDA
Quale amante non teme un altro amante?
Quale amor non molesta un altro amore?
NUTRICE
L’amor fedele, io credo, e ‘l fido amante.
ALVIDA
Ma fede si turbò talor per fede,
non ch’amor per amor. S’amò primiero
Germondo re possente e re famoso,
cavalier di gran pregio e di gran fama,
e, come pare altrui, bello e leggiadro;
s’amò nemico, o pur nemica amando
tenne occulto l’amor al proprio amico,
non è lieve cagion d’alto sospetto.
NUTRICE
Rara beltà, valore e chiara fama
del cavalier, che fece i ricchi doni;
se far non ponno or voi, regina, amante,
già far non denno il vostro re geloso.
Deh, sgombrate del cor l’affanno e l’ombra,
ch’ogni vostro diletto or quasi adugge.
Dianzi vi perturbava il sonno il sogno
fallace, che giamai non serva intere
le sue vane promesse o le minacce,
e spavento vi diè notturno orrore
di simolacri erranti o di fantasmi;
60
Torrismondo
or desta, nove larve a voi fingete,
e gli amici temete e ‘l signor vostro;
e paventate i doni, e chi gli porta,
e chi gli manda, e le figure e i segni,
voi sola a voi cagion di tema indarno.
ALVIDA
A qual vendetta adunque ancor mi serba
il temuto destino? E quale inganno
o quali insidie vendicare io deggio?
Ov’è l’ingannatore? Ov’è la fraude?
Chi la ricopre, ahi lassa, o chi l’asconde?
O tosto si discopra, o stia nascosta
eternamente. Io temo, io temo, ahi lassa!
E se del mio timor io son cagione,
par che me stessa io tema. E sol m’affida
del mio caro signore il dolce sguardo,
e la sembianza lieta, e ‘l vago aspetto.
Egli mi raconsoli e m’assicuri.
Egli sgombri il timor, disperda il ghiaccio.
Egli cari mi faccia i doni, e i modi,
e i donatori, e i messi, e i detti, e l’opre;
e se vuole, odiosi. A lui m’adorno.
61
Torquato Tasso
Atto 3, scena 7
Son doni di Suezia. Il re Germondo
me gli ha mandati, al figliuol vostro amico,
ed a me, quanto ei vuole. Ed io gradisco
ciò ch’al re mio signor diletta e piace.
REGINA MADRE
Ne ‘l donare un gentile alto costume
serba l’amico re; ma i ricchi doni
son belli oltre il costume, oltre l’usanza,
e convengon, regina, al vostro merto.
E noi corone avremo e care gemme
per donare a l’incontra. Onore è il dono;
onorato esser dee com’egli onora,
perch’è ferma amicizia e stabil fede,
se da l’onor comincia; ogni altra, incerta.
ALVIDA
Certo è l’amor, certo è l’onor ch’io deggio
a l’alto mio signor, certa è la fede,
ch’i suoi più cari ad onorar m’astringe.
REGINA MADRE
S’onora negli amici il re sovente,
e ne’ più fidi. Oggi è solenne giorno,
giorno festo ed altero, e l’alta reggia
adorna già risplende, e ‘l sacro tempio.
Venuto è ‘l re Germondo e i duci illustri
del nostro regno e i cavalieri egregi,
d’Eruli un messo, un messaggier degli Unni;
mandati ha ‘l re di Dacia i messi e i doni.
CORO
Amore, hai l’odio incontra e seco giostri,
62
Torrismondo
seco guerreggi, Amore,
e con un giro alterno
questo distruggi, e nasce il mondo eterno.
Altro è, che non riluce agli occhi nostri,
più sereno splendore,
altre forme più belle
di sol lucente e di serene stelle.
Altre vittorie in regno alto e superno,
altre palme tu pregi,
che spoglie sanguinose o vinti regi,
altra gloria, senza ira e senza scherno.
Amore invitto in guerra,
perché non vinci e non trionfi in terra?
Perché non orni, o vincitor possente,
de’ felici trofei
questa chiostra terrena,
con lieta pompa, ov’è tormento e pena?
Perch’il superbo sdegno e l’ira ardente
qua giuso e fra gli dei
non si dilegua e strugge,
se divo od uom non ti precorre e fugge?
Ciò che l’ira ne turba, or tu serena:
spengi le sue faville,
accendi le tue fiamme e fa tranquille.
Stringi d’antica i nodi, Amor, catena,
ond’anco è ‘l mondo avinto,
catenato il furore e quasi estinto.
Deh, non s’aguagli a te nemico indegno,
perché volga e rivolga
queste cose la sorte,
co ‘l tornar dolce vita od atra morte.
Diagli pur l’incostante instabil regno,
annodi i lacci o sciolga,
in alte parti o ‘n ime
già non adegua il tuo valor sublime.
Tu, nel diletto e nel dolor più forte,
miglior fortuna adduci,
e queste sfere o quelle orni e produci.
Tale, apra o serri in ciel lucenti porte,
o vada il sole o torni,
han possanza inegual le notti e i giorni.
63
Torquato Tasso
Contra fera discordia, Amor, contendi,
come luce con l’ombra.
Ma come l’arme hai prese
contra amicizia? Ahi, chi primier l’intese?
S’offendi lei, pur te medesmo offendi;
s’il tuo valor la sgombra,
te scacci, e sechi in parti,
s’amicizia da te dividi e parti.
Stendi l’arco per lei, signor cortese:
ella per te s’accinga,
e la spada per te raggiri e stringa.
Non cominci nova ira e nove offese,
né l’uno e l’altro affetto
turbi a duo regi il valoroso petto.
Deh, rendi, Amore, ogni pensiero amico.
Amor, fa teco pace,
perch’è vera amicizia amor verace.
64
Torrismondo
Atto 4, scena 1
CONSIGLIERO
Il venir vostro al re de’ Goti, al regno,
a la reggia, signor, la festa accresce,
aggiunge l’allegrezza, i giochi addoppia,
pace conferma in lei; spietata guerra,
il furore, il terror rispinge e caccia
oltre gli estremi e più gelati monti,
e ‘l più compresso e più stagnante ghiaccio,
e i più deserti e più solinghi campi.
Oggi Goti e Sueci, amiche genti,
non sol Norvegi e Goti, aggiunte insieme
ponno pur stabilir la pace eterna.
Oggi la fama vostra al ciel s’inalza,
e quasi da l’un polo a l’altro aggiunge.
Oggi par che paventi al suon de l’arco
l’Europa tutta, e l’Occidente estremo,
e contra Tile ancor l’ultima Battro.
Perché non fan sì forti i nostri regni
stagni, paludi, monti e rupi alpestri
e città d’alte mura intorno cinte
e moli e porti e l’ocean profondo,
come il vostro valor, ch’in voi s’aguaglia
a la vostra grandezza, e ‘l nome vostro,
e i cavalieri egregi, e i duci illustri.
Lascio tanti ministri e tanti servi,
tante vostre ricchezze antiche e nove.
Ben senza voi, sì grandi e sì possenti,
l’umil plebe saria difesa inferma
di fragil torre, e voi le torri eccelse
65
Torquato Tasso
sete di guerra e i torreggianti scogli.
Chi voi dunque congiunge, a queste sponde
nova difesa fa e novo sostegno
del vostro onore, e l’assicura ed arma
contra l’insidie e i più feroci assalti.
Non temerem che da remota parte
venga solcando il mar rapace turba
per depredarne, o ch’alto incendio infiammi
le già mature spiche, o i tetti accenda.
Perché vostra virtù represse e lunge
poté scacciar da noi gli oltraggi e l’onte.
Voi minacciando usciste, o regi invitti,
e l’un corse a l’Occaso e l’altro a l’Orto,
prima diviso e poi congiunto in guerra,
come duo gran torrenti a mezzo il verno,
o duo fulmini alati appresso a’ lampi,
quando fiammeggia il cielo e poi rimbomba.
Ma del raro valor vestigia sparse
altamente lasciaste, offesi, estinti,
domi, vinti, feriti, oppressi e stanchi,
duci, guerrieri, regi, eroi famosi.
Ed in mille alme ancor lo sdegno avampa,
e ‘l desio d’alto imperio e di vendetta,
lo qual tosto s’accende e tardi estingue,
e si nasconde a’ più sereni tempi,
ne’ turbati si scopre, e fuor si mostra
tanto maggior quanto più giacque occulto.
Or che pensa il Germano, o pensa il Greco?
O qual nutre sdegnando orribil parto
gravida d’ira la Panonia e d’arme?
Queste cose tra me sovente io volgo.
E già non veggio più sicuro scampo,
o più saggio consiglio, inanzi al rischio,
ch’unire insieme i tre famosi regni,
che ‘l gran padre Ocean quasi circonda
e dagli altri scompagna e ‘n un congiunge.
Perch’ogni stato per concordia avanza,
e per discordia al fin vacilla e cade.
Duo già ne sono uniti; e questo giorno,
ch’Alvida e Torrismondo annoda e stringe,
stringer potriasi ancor a voi Rosmonda,
66
Torrismondo
ch’aguaglia a mio parer. Ma fia gran merto
non lasciar parte in tanta gloria al senso.
Molti sono tra voi legami e nodi
d’amicizia, d’amor, di stabil fede;
e nessun dee mancarne. Aggiunto a’ primi
sia questo novo e caro. E nulla or manchi
a lieta pace, or che dal ciel discende
a tre popoli arcieri e ‘n guerra esperti.
Fra’ quai nessuno in amar voi precorse
me d’anni grave. E questo ancor m’affida,
e la vostra bontà, la grazia, e ‘l senno:
talché primiero a ragionarne ardisco.
Ma non prego solo io. Congiunta or prega
questa, canuta e venerabil madre,
antica terra, e di trionfi adorna.
E son queste sue voci e sue preghiere:
- O miei figli, o mia gloria, o mia possanza,
per le mie spoglie e per l’antiche palme,
per le vittorie mie famose al mondo,
per l’alte imprese ond’è la gloria eterna,
per le corone degli antichi vostri,
che fur miei figli e non venuti altronde,
questa grazia vi chiedo io vecchia e stanca;
e grazia, a giusta età concessa, è giusta.
GERMONDO
Pensier canuto e di canuta etade
è quel ch’in voi si volge, e i detti lodo,
e gradisco il voler, gli affetti e l’opre.
Ma sì vera, sì ferma e sì costante
è la nostra amicizia, e strinse in guisa
amor, fede, valor duo regi errando,
che non si stringeria per nove nozze
con più tenace nodo o con più saldo.
CONSIGLIERO
Se nodo mai non s’allentò per nodo,
ma s’un simil per l’altro abonda e cresce,
per legitimo amor non fia disciolta
vera amicizia, anzi sarà più salda.
GERMONDO
Amor, che fare il pò, confermi e stringa
amicizia fedel.
67
Torquato Tasso
CONSIGLIERO
Migliori estimo
le nozze assai che l’amicizia ha fatte:
l’altre pericolose.
GERMONDO
Ivi sovente
si ritrova gran lode ov’è gran rischio.
CONSIGLIERO
Lodato spesso è lo schifar periglio,
quando si schifa altrui.
GERMONDO
L’ardir più stimo,
se pò far gli altri arditi un solo ardito.
CONSIGLIERO
Or de l’ardire è tempo, or del consiglio,
e s’ardire e consiglio in un s’accoppia,
fortuna ingiuriosa in van contrasta
a magnanima impresa, o lei seconda.
Ma questo ancor sereno e chiaro tempo
providenza veloce in voi richiede.
Congiunta ha ‘l re norvegio al re de’ Goti
la figlia. Ed oggi è lieto e sacro giorno,
ch’apre di stabil pace agli altri il varco,
già aperto a voi. Nozze giungete a nozze,
né siate voi tra tanto amor l’estremo.
GERMONDO
Primo sono in amare. Amai l’amico,
di valor primo e ‘n riamar secondo
ed amerò finché ‘l guerrero spirto
reggerà queste pronte o tarde membra.
E mi rammento ancor ch’a lui giurando
la fede i’ diedi, ed egli a me la strinse,
che l’un de l’altro a vendicar gli oltraggi
pronto sarebbe. Or non perturbi o rompa
nuovo patto per me gli antichi patti.
E s’ei per liete nozze è pur contento
di pacifico stato e di tranquillo,
io ne godo per lui. Per lui ricovro
ne la pace e nel porto, e lascio il campo
e l’orrida tempesta e i venti aversi.
Vera amicizia dunque il mar sonante
68
Torrismondo
mi faccia, o queto, il ciel sereno, o fosco;
e di ferro m’avolga e mi circondi,
e mi tinga in sanguigno i monti e l’onde,
se così vuole, o ‘l sangue asciughi e terga,
e mi scinga la spada al fianco inerme.
Vera amicizia ancor mi faccia amante,
e se le par, marito; e tutte estingua
d’Amore e d’Imeneo le faci ardenti,
o di Marte le fiamme e ‘l foco accresca.
Così direte al re: - Lodo e confermo
che ‘l vero amico mi discioglia o leghi. -
69
Torquato Tasso
Atto 4, scena 2
GERMONDO
Giusto non è che sia stimato indarno
malvagio il buono, o pur buon il malvagio,
perché perdita far di buono amico
e de la cara vita è danno eguale;
ma tai cose co ‘l tempo altri conosce,
che sol pò il tempo dimostrar l’uom giusto.
Però se i giorni e l’ore e gli anni e i lustri
Torrismondo mostrâr verace amico,
parer non muto e di mutar non bramo,
anzi le vie del core io chiudo e serro
quanto m’è dato; e le ragioni incontra
al sospettar, ch’è sì leggiero e pronto
per sì varia cagion, raccolgo a’ passi.
Oh pur questa mia vera e stabil fede
non solo questo dì, ma un lungo corso
più mi confermi ancor d’anni volanti,
perché sian d’amicizia eterno essempio
l’invitto re de’ Goti e ‘l suo Germondo.
Pur l’accoglienza e ‘l modo ancor mi turba,
assai diverso, e men sereno aspetto
che non soleva, e de la fé promessa
e di nostra amicizia e degli errori
e de l’amata donna e del suo sdegno,
dopo breve parlar, lungo silenzio,
e breve vista dopo lunghi affanni.
Così peso di scettro e di corona
fa l’uom più grave, e con turbata fronte
spesso l’inchina, e di pensier l’ingombra.
70
Torrismondo
Solo amor non invecchia, o tardi invecchia.
A me sperato o posseduto regno,
o fatto danno, o minacciata guerra,
tanto da sospirar giamai non porge,
ch’amor non tragga al tormentoso fianco
altri mille sospiri. O liete giostre,
o cari pregi miei, corone ed arme,
o vittorie, o fatiche, o passi sparsi,
al pensier non portate ora tranquilla
senza la donna mia. Saggi consigli,
altre paci, altre nozze, ed altri modi
di vero amore, e d’amicizia aggiunte
lodo ben io. Ma per unirci insieme,
sorella a me non manca, o stato, od auro.
Ma faccia Torrismondo. A lui commesso
ho ‘l governo de l’alma, ed egli il regga.
71
Torquato Tasso
Atto 4, scena 3
ROSMONDA
E‘ semplice parlar quel che discopre
la verità. Però, narrando il vero,
con lungo giro di parole adorne
or non m’avolgo. O re, son vostra serva;
e vostra serva nacqui e vissi in fasce.
TORRISMONDO
Non sei dunque Rosmonda?
ROSMONDA
Io son Rosmonda.
TORRISMONDO
Non sei sorella mia?
ROSMONDA
Né d’esser niego,
alto signor.
TORRISMONDO
Troppo vaneggi, ah folle!
Qual timor, quale error così t’ingombra,
che di stato servil tanto paventi?
Da tal principio a ricusar cominci?
ROSMONDA
Se femina ci nasce, or serva nasce
per natura, per legge e per usanza,
del voler di suo padre e del fratello.
Ma fra tutte altre in terra o prima o sola
è dolce servitù servire al padre
ed a la madre, a cui partir l’impero
de’ figli si devria. Né gli anni o ‘l senno
fanno ogni imperio del fratel superbo.
72
Torrismondo
TORRISMONDO
Obbedisci a tua madre, ove ti piaccia.
ROSMONDA
Io non ho madre, ma regina e donna.
TORRISMONDO
Non sei tu di Rusilla unica figlia?
ROSMONDA
Né unica, né figlia esser mi vanto
de la regina de’ feroci Goti.
TORRISMONDO
E pur sei tu Rosmonda, e mia sorella?
ROSMONDA
Io sono altra Rosmonda, altra sorella.
TORRISMONDO
Distingui omai questo parlar, distingui
questi confusi affanni.
ROSMONDA
A me fu madre
la tua nutrice, e poi nutrì Rosmonda.
TORRISMONDO
Nova cosa mi narri e cosa occulta,
e cosa che mi spiace e mi molesta.
Ma pur vizio è ‘l mentir d’alma servile,
talché serva non sei, se tu non menti.
ROSMONDA
Serva far mi poté fortuna aversa
de l’uno e l’altro mio parente antico.
TORRISMONDO
La tua propria fortuna il fallo emenda
de la sorte del padre, anzi il tuo merto.
ROSMONDA
Il merto è nel dir vero, il premio attendo
di libertà, se libertà conviensi.
TORRISMONDO
S’è ciò pur vero, è con modestia il vero,
e men si crederia superbo vanto,
se dee credere il mal l’accorto e ‘l saggio,
ove il non creder giovi.
ROSMONDA
E‘ picciol danno
perder l’opinion, ch’è quasi un’ombra,
73
Torquato Tasso
e di finta sorella un falso inganno;
anzi gran pro’ mi pare ed util certo.
TORRISMONDO
Quasi povero sia de’ Goti il regno,
cui può sì ricco far guerrera stirpe,
le magnanime donne e i duci illustri.
Ma deh, come sei tu vera Rosmonda,
e finta mia sorella, e falsa figlia
de la regina degli antichi Goti?
Chi fece il grande inganno, o ‘l tenne ascosto
tanti e tanti anni? E qual destino o forza
la fraude e l’arte a palesar t’astringe?
ROSMONDA
Per mia madre e per me breve io rispondo.
Fe’ l’inganno gentil pietà, non fraude,
e ‘l discopre pietà.
TORRISMONDO
Tu parli oscuro,
perché stringi gran cose in picciol fascio.
ROSMONDA
Da qual parte io comincio a fare illustre
quel ch’oscura il silenzio e ‘l tempo involve?
TORRISMONDO
Quel che ricopre, al fin discopre il tempo.
Ma de le prime tu primier comincia.
ROSMONDA
Sappi che grave già per gli anni, e stanca
dopo la morte d’uno e d’altro figlio,
dopo la servitù che d’ostro e d’oro
ne l’alta reggia altrui sovente adorna,
la madre mia di me portava il pondo,
con suo non leggier duolo e gran periglio.
Onde quel che nascesse a Dio fu sacro
da lei nel voto; ed egli accolse i preghi,
talch’il descender mio nel basso mondo
non fu cagione a lei d’aspra partenza,
né ‘l chiaro dì ch’io nacqui a lei funebre.
TORRISMONDO
Dunque i materni e non i propi voti
tu cerchi d’adempir, vergine bella?
ROSMONDA
74
Torrismondo
Son miei voti i suoi voti; e poi s’aggiunse
al suo volere il mio volere istesso
quel sempre acerbo ed onorato giorno
che giacque esangue e rendé l’alma al cielo,
mentre io sedea dogliosa in su la sponda
del suo vedovo letto, e lagrimando
prendea la sua gelata e cara destra
con la mia destra. E le sue voci estreme,
ben mi rammento, e rammentar me ‘n deggio,
tra freddi baci e lagrime dolenti
fur proprio queste: - E‘ pietà vera, o figlia,
non ricusar la tua verace madre,
che madre ti sarà per picciol tempo.
Io ti portai nel ventre e caro parto
ti diedi al mondo, anzi a quel Dio t’offersi
che regge il mondo e mi salvò nel rischio.
Tu, se puoi, de la madre i voti adempi,
e disciogliendo lei, sciogli te stessa.
TORRISMONDO
La tua vera pietà conosco e lodo.
Ma qual pietoso o qual lodato inganno
te mi diè per sorella, e l’altra ascose
che fu vera sorella e vera figlia,
di magnanimo re, d’alta regina?
ROSMONDA
Fe’ mia madre l’inganno, anzi tuo padre:
e pietà fu de l’una, e fu de l’altro
o consiglio, o fortuna, o fato, o forza.
TORRISMONDO
A chi si fece la mirabil fraude?
ROSMONDA
A la regina tua pudica madre,
la qual mi stima ancor diletta figlia.
TORRISMONDO
In tanti anni del ver delusa vecchia
non s’accorge, non l’ode, e non conosce
la sua madre la figlia, o pur s’infinge?
ROSMONDA
Non s’infinse d’amar, né d’esser madre,
se fa madre l’amor, che spesso adegua
le forze di natura, e quasi avanza.
75
Torquato Tasso
Né di scoprire osai l’arte pietosa
che le schifò già noia e diè diletto,
ed or porge diletto e schiva affanno.
TORRISMONDO
Ma come ella primiera al novo inganno
diè così stabil fede, e non s’accorse
de la perduta figlia, e poi del cambio?
ROSMONDA
La natura e l’età, che non distinse
me da la tua sorella, e ‘l tempo, e ‘l luogo,
dove in disparte ambe nutriva e lunge
la vera madre mia da l’alta reggia,
tanto ingannâr la tua; ma più la fede,
ch’ebbe ne la nutrice e nel marito.
TORRISMONDO
Se la fede ingannò, l’inganno è giusto.
Ma dove ella nutrivvi?
ROSMONDA
Appresso un antro,
che molte sedi ha di polito sasso
e di pumice rara oscure celle
dentro non sol, ma bel teatro e tempio,
e tra pendenti rupi alte colonne,
ombroso, venerabile, secreto.
Ma lieto il fanno l’erbe e lieto i fonti,
e l’edere seguaci e i pini e i faggi,
tessendo i rami e le perpetue fronde,
sì ch’entrar non vi possa il caldo raggio.
Ne le parti medesme entro la selva
sorge un palagio al re tra i verdi chiostri.
Ivi tua suora ed io giacemmo in culla.
TORRISMONDO
La cagion di quel cambio ancor m’ascondi.
ROSMONDA
La cagion fu del padre alto consiglio,
o profondo timor che l’alma ingombra.
TORRISMONDO
Qual timore, e di che?
ROSMONDA
D’aspra ventura,
che ‘l suo regno passasse ad altri regi.
76
Torrismondo
TORRISMONDO
E come nacque in lui questa temenza
di sì lontano male? O chi destolla?
ROSMONDA
Il parlar la destò d’accorte ninfe,
ch’altrui soglion predir gli eterni fati.
TORRISMONDO
Dunque ei diede credenza al vano incanto,
ch’effetto poi non ebbe in quattro lustri?
ROSMONDA
Diede, e diede la figlia ancora in fasce
a l’alpestre donzelle, o pur selvagge,
e tra quell’ombre in quell’orror nutrita
la fanciulletta fu d’atra spelunca.
TORRISMONDO
Perché si tacque a la regina eccelsa?
ROSMONDA
Quel palagio, quell’ antro, e quelle ninfe,
e quelle antiche usanze, e l’arti maghe
eran sospette a la pietosa madre;
a cui mostrata fui, volgendo il sole
già de la vita mia il secondo corso,
pur come figlia sua, né mi conobbe;
e ‘l re fece l’inganno, e ‘l tenne occulto.
E per voler di lui s’infinse e tacque
la vera madre mia, che presa in guerra
fu già da lui ne la sua patria Irlanda,
ov’ella nata fu di nobil sangue.
TORRISMONDO
Vive l’altra sorella ancor ne l’antro?
ROSMONDA
Vi stette a pena infino a l’anno istesso,
e poi d’altri indovini altri consigli
crebbero quel timore e quel sospetto,
talché mandolla in più lontane parti
per un secreto suo fedel messaggio;
né seppi come, o dove.
TORRISMONDO
Il servo almeno
conoscer tu devresti.
ROSMONDA
77
Torquato Tasso
Io no ‘l conosco,
né so ben anco, s’io n’intesi il nome;
ma spesso udia già ricordar Frontone,
e ‘l nome in mente or serbo.
TORRISMONDO
Il re celato
tenne sempre a la moglie il cambio e l’arte?
ROSMONDA
Tenne sinché ‘l prevenne acerba morte,
facendo lui co’ Dani aspra battaglia.
Così narrò la mia canuta ed egra
madre languente, e lui seguì morendo.
TORRISMONDO
Cose mi narri tu d’alto silenzio
veracemente degne, e ‘n cor profondo
serbar le devi e ritenerle ascoste;
ch’i secreti de’ regi al folle volgo
ben commessi non sono, e fuor gli sparge
spesso loquace fama, anzi buggiarda.
A me chiamisi il Saggio, e poi Frontone.
78
Torrismondo
Atto 4, scena 4
TORRISMONDO
Lasso, quinci fortuna e quindi amore
mille pungenti strali ognor m’aventa,
né scocca a voto mai, né tira indarno.
I pensier son saette, e ‘l core un segno,
de la vittoria è la mia vita il pregio,
giudici il mio volere e ‘l mio destino,
né l’un né l’altro arciero ancora è stanco.
Che fia, misero me? Per caso od arte
quasi mi si rapisce e mi s’invola
una sorella, e d’esser mia ricusa,
e l’altra, oimè, non trovo e non racquisto,
e non ristoro o ricompenso il danno,
e ‘l cambio manca ove mancò la fede,
acciocch’offrir non possa al re Germondo
cosa degna di lui, ma vano in tutto
sia come l’impromessa altro consiglio.
Sorella per sorella, o sorte iniqua,
già supponesti ne la culla e ‘n fasce,
ed or me la ritogli anzi la tomba,
e l’altra non mi rendi. O speco, o selve,
in cui già la nutrîr leggiadre ninfe,
o de la terra algente orridi monti,
o gioghi alpestri, o tenebrose valli,
ove s’asconde? O ‘n qual deserta piaggia,
in qual isola tua solinga ed erma,
o gran padre Ocean, nel vasto grembo
tu la circondi? Andrò pur anco errando,
andrò solcando il mare, andrò cercando
79
Torquato Tasso
non la perduta fede e chi l’insegna,
ma come possa almen coprire il fallo?
CORO
Ecco, signore, a voi già viene il Saggio,
a cui sol fra’ mortali è noto il vero
da caligini occulto e da tenebre.
TORRISMONDO
O Saggio, tu che sai (pensando a tutto
quel che s’insegna al mondo o si dimostra)
i secreti del cielo e de la terra,
dimmi se mia sorella è in questo regno.
INDOVINO
Ahi, ahi, quanto è ‘l saper dannoso e grave,
ove al saggio non giovi. E ben previdi
ch’io veniva a trovar periglio e biasmo.
TORRISMONDO
Per qual cagion tu sei turbato in vista?
INDOVINO
Lasciami, no ‘l cercar, nulla rileva
che ‘l mio pensier si scopra o si nasconda.
TORRISMONDO
Dimmi se mia sorella è in questo regno.
INDOVINO
E‘ dove nacque, e dove nacque or posa,
se pur ha posa, e non ha posa in terra.
TORRISMONDO
Dunque in terra non è?
INDOVINO
Non posa in terra,
ma poserà dove tu avrai riposo.
TORRISMONDO
Quale agli oscuri detti oscuro velo
intorno avolgi, o quale inganno od arte?
Dimmi se mia sorella è in questo regno.
INDOVINO
Tu medesmo t’inganni. E‘ tua la frode,
perché tu la facesti e teco alberga.
TORRISMONDO
Se non è il tuo saper vano com’ombra
discopri tu l’inganno, e tu rivela
se la sorella mia tra Goti or vive.
80
Torrismondo
INDOVINO
Vive tra Goti.
TORRISMONDO
Ed in qual parte, e come?
E‘ quella forse che stimava, od altra?
S’altra, dove s’asconde o si ritrova?
INDOVINO
E‘ l’altra, ed u’ si trova ancor s’asconde,
e la ritroverai da te partendo
e servando la fede.
TORRISMONDO
Intrichi ancora
gli oscuri sensi di parole incerte,
per accrescer l’inganno e ‘nsieme il prezzo
de le menzogne tue. Parlar conviensi
talché si scopra in ragionando il falso.
INDOVINO
E‘ certo il tuo destin, la fede incerta.
Ma se quanto oro entro le vene asconde
l’avara terra a me nel prezzo offrissi,
altro non puoi saper, ch’il fato involve
l’altre cose, che chiedi, al nostro senso,
e lor nasconde entro profonda notte.
Ma pur veggio nascendo il gran Centauro
saettar fin dal cielo e tender l’arco,
e la belva crudel, ch’irata mugge,
con terribil sembianza uscir de l’antro,
e paventare il Vecchio, e ‘l fiero Marte
oppor lo scudo e fiammeggiar ne l’elmo,
e con la spada e fulminar con l’asta.
Veggio, o parmi veder, del vecchio Atlante
appresso il cerchio, e ‘l gran Delfino ascoso,
e stella minacciar più tarda e pigra.
E la Vergine io veggio amica a l’arti
turbata in vista, e la celeste Libra
con men felici e men sereni raggi.
E cader la Corona in mezzo a l’onde.
Né dimostrar benigno e lieto aspetto
chi scote da le nubi il ciel tonando,
o pur la mansueta e gentil figlia,
Ma ‘l superbo guerrier la mira e turba.
81
Torquato Tasso
E i lascivi animali ancora io sguardo,
a cui vicino è Marte, e vibra il ferro;
e i duo pesci, lucenti il dorso e il tergo,
l’uno a Borea inalzarsi, e l’altro scendere
a l’Austro, e di tre giri e di tre fiamme
acceso il cielo, e da quel nodo avinto
tre volte intorno e minacciando, appresso,
il fero dio che regge il quinto cerchio;
e, pien d’orrore ogni altro e di spavento,
de’ segni o degli alberghi empio tiranno
girando intorno ir con veloce carro,
o signoreggi a sommo il cielo, o caggia.
CORO
Vero o falso che parli, ei solo intende
le sue parole, e ‘l suo giudicio è incerto
non men del nostro. E se l’uom dar potesse
per sapienza sapienza in cambio,
aver potrebbe accorgimento e senno
quanto bastasse a ragionar co’ regi.
TORRISMONDO
Lasciamlo. Or trovi le spelunche e i monti,
ove nulla impedir del ciel notturno
gli pò l’aspetto. Ivi a sua voglia intenda
a misurarlo, a numerar le stelle,
e con danno minor se stesso inganni,
se così vuole.
INDOVINO
Anzi ch’al fine aggiunga
una di quelle omai fornite parti,
de le cui note ho questo legno impresso;
a cui la stanca mia vita s’appoggia,
I miei veri giudìci or presi a scherno,
o superba Aarana, o reggia antica
ch’or da te mi discacci, a te fian conti.
82
Torrismondo
Atto 4, scena 5
FRONTONE
Qual fortuna o qual caso or mi richiama
dopo tanti anni di quiete amica
a la tempesta del reale albergo?
La qual sovente ella perturba e mesce.
O felice colui che vive in guisa
ch’altrui celar si possa, o ‘n alto monte,
o ‘n colle, o ‘n poggio, o ‘n valle ima e palustre.
Ma dove ella non mira? Ove non giunge?
Qual non ritrova ancor solinga parte?
Ecco mi tragge pur da casa angusta
e mi conduce al re. Sia destra almeno
questa che spira a la mia stanca etade
aura de la fortuna, e sia tranquilla.
Al vostro comandare or pronto io vegno,
invitto re de’ Goti.
TORRISMONDO
Arrivi a tempo,
per trarmi fuor d’inganno. Or narra il vero.
Questa, che fu creduta, è mia sorella?
FRONTONE
Non nacque di tua madre.
TORRISMONDO
E in questo errore
ella tanti anni si rimase involta?
FRONTONE
Così piacque a tuo padre, e piacque al fato.
TORRISMONDO
Ma, dapoi ch’ebbe me prodotto al mondo,
83
Torquato Tasso
altri produsse? O stanca al primo parto
steril divenne ed infeconda madre?
FRONTONE
Steril non già, ch’al partorir secondo
fece d’una fanciulla il re più lieto.
TORRISMONDO
Che avenne di lei?
FRONTONE
Temuta in fasce
fu per fiero destin dal padre istesso.
TORRISMONDO
E qual d’una fanciulla aver temenza
re forte e saggio debbe?
FRONTONE
Avea spavento
del minacciar de le nemiche stelle.
Che, lei crescendo di bellezza e d’anni,
a te morte predisse, a noi servaggio
il fatal canto de l’accorte ninfe
che pargoletta la nutrîr ne l’antro.
TORRISMONDO
Chi lunge la portò dal verde speco?
FRONTONE
Io: così volle il padre e volle il cielo.
TORRISMONDO
In qual parte del mondo?
FRONTONE
Ove non volli,
né ‘l re commise. Anzi portati a forza
fummo ella ed io, ch’altro voler possente
è più di quel de’ regi, ed altra forza.
TORRISMONDO
Ma dove la mandava il re mio padre?
FRONTONE
Sin nel regno di Dacia. Ed ivi occulta
si pensò di tenerla al suo destino.
Ma fu presa la nave il terzo giorno,
ch’ambo ci conducea per l’onde salse,
da quattro armati legni, in cui, turbando
del profondo oceano i salsi regni,
gìan con rapido corso e con rapace
84
Torrismondo
i ladroni del mar fieri Norvegi.
E fu divisa poi la fatta preda,
ed io ne l’uno, ella ne l’altro abete
fu messa; io tra prigioni, ella tra donne;
io di catene carco, ella disciolta.
E rivolgendo in ver’ Norvegia il corso,
in un seno di mar trovammo ascosi
molti legni de’ Goti, anch’essi avezzi
di corseggiare i larghi ondosi campi,
da’ quali a pena si fuggì volando,
come alata saetta, il leggier legno
ov’era la fanciulla, e fu repente
preso quell’altro ove legato io giacqui.
E ‘l duce allor di quelle genti infide
pur in mia vece ivi rimase avinto.
TORRISMONDO
Ma sai tu qual rifugio o quale scampo
avesse il legno, il qual portò per l’onde
troppo infelice e troppo nobil preda?
FRONTONE
In Norvegia fuggì, se ‘l ver n’intesi
da quel prigione.
TORRISMONDO
E che di lei divenne?
FRONTONE
Questo non so. Perch’in quel tempo stesso
il re prevento fu d’acerba morte,
e nove morti appresso e novi affanni
turbâr de’ Goti e de’ Norvegi il regno.
TORRISMONDO
Ma del ladro marin contezza avesti?
FRONTONE
L’ebbi di lor. Perché fratelli entrambi
furo e di nobil sangue, e ‘n aspro essiglio
cacciati a forza. E prigionier rimase
Aldano, e lunge si ritrasse Araldo.
Ma quel che vi restò, fra noi dimora.
85
Torquato Tasso
Atto 4, scena 6
MESSAGGIERO
Questa del nostro re matura morte
affrettar dee, non ritardar le nozze.
Perch’egli, il giorno avanti, a sé raccolse
i duci di Norvegia, e i saggi e i forti,
e lor pregò ch’a la sua figlia Alvida
serbassero la fede e ‘nsieme il regno,
di cui fatta l’avea vivendo erede.
Talché lo mio venir non fia dolente,
ma lieto, o di piacer temprato almeno.
Perocch’il bene al male ognor si mesce,
e ‘l male al bene. E con sì varie tempre
il dolore e la gioia ancora è mista.
Ma dove fia la bella alta regina,
figlia de la fortuna e figlia ancora
del re già morto? A cui l’amiche stelle
or fan soggetti i duo possenti regni,
che ‘l spumante ocean circonda e bagna,
e ‘l terzo, se vorrà, d’infesto, amico.
Imparerò da voi la nobil reggia
del re de’ Goti invitto, e dove alberghi
la sua regina?
CORO
Ecco il sublime tetto:
ella dentro dimora, e fuor si spazia
il re nostro signore.
MESSAGGIERO
Siate sempre felice e co’ felici,
o degnissimo re d’alta regina.
86
Torrismondo
TORRISMONDO
E tu, che bene auguri, e ne sei degno
per buono augurio ancor. Ma sponi e narra
qual cagion ti conduca, o che n’apporti.
MESSAGGIERO
Non rea novella a questo antico regno,
a questa alta regina, a queste nozze,
e buona a voi, cui tanto il cielo arrise.
TORRISMONDO
Narrala.
MESSAGGIERO
A la regina io sono il messo.
TORRISMONDO
Quello ch’a me si spone, a lei si narra,
perché nulla è fra noi distinto e sevro.
MESSAGGIERO
La Norvegia lo scettro a lei riserba.
TORRISMONDO
Perché? Non regna ancora il vecchio Araldo?
MESSAGGIERO
Non certo; ma ‘l sepolcro in sé l’asconde.
TORRISMONDO
E‘ dunque Araldo morto?
MESSAGGIERO
Il vero udisti.
TORRISMONDO
L’uccise lungo od improviso assalto
de la morte crudel, che tutti ancide?
MESSAGGIERO
Tosto gli antichi corpi il male atterra.
TORRISMONDO
Ha ceduto a natura iniqua e parca,
che la vita mortal restringe e serra
dentro brevi confini e troppo angusti,
quando è la vita assai minor del merto.
MESSAGGIERO
A lei suo corpo, a voi concede il regno.
FRONTONE
Signor, quest’è pur quello ond’or si parla,
che l’antica memoria ancor non perdo
de’ sembianti e del nome.
87
Torquato Tasso
TORRISMONDO
Ei giunge a tempo.
Ma riconosce ei te, se lui conosci?
FRONTONE
D’avermi visto ti rimembra unquanco?
MESSAGGIERO
Non mi ricordo.
FRONTONE
Io ridurollo a mente,
e di quel che non sa farollo accorto;
e ben so ch’ora il sa. Sovienti, amico,
d’aver con quattro legni un legno preso?
Che del mar trapassava il dubbio varco,
ed a’ liti di Gozia, in occidente
conversi, rivolgea l’eccelsa poppa,
avendo i Dani e i lor paesi a fronte.
Io fui preso in quel legno: or mi conosci?
MESSAGGIERO
Si cangia spesso la fortuna e ‘l tempo,
e spesso altra cagion di nostre colpe
stata è l’avara e la maligna sorte.
FRONTONE
Ma che facesti de la nobil preda,
de la vergine dico? E‘ muto, o morto.
Non sai ch’abbiamo il tuo fratel non lunge?
Egli parli in tua vece, o tu ragiona.
MESSAGGIERO
De le cose passate il fato accusa.
Fu quella colpa sua, ma nostro il merto
ch’a la vergine diè sì nobil padre.
TORRISMONDO
Oimè, ch’io tardi intendo, e troppo intendo,
e di conoscer troppo ancor pavento.
Ma ‘l conoscer inanzi empio destino
è solazzo nel male. Or tu racconta
il ver, qualunque sia: ch’alta mercede
suol ritrovare il ver, non che perdono.
MESSAGGIERO
Diedi la verginella al re dolente
per la sua morta figlia, e die’ conforto
che temprasse il suo lutto e ‘l suo dolore,
88
Torrismondo
sì che figlia si fe’ la cara ancilla;
che di Rosmonda poi chiamata Alvida
fu co ‘l nome de l’altra, ed or s’appella.
L’istoria a pochi è nota, a molti ascosa.
TORRISMONDO
Oimè, che troppo al fin si scopre, ahi lasso!
Qual ritrovo o ricerco altro consiglio?
89
Torquato Tasso
Atto 4, scena 7
GERMONDO
Altro dunque è fra noi più caro mezzo,
che s’interpone e ne ristringe insieme,
o ne disgiunge? E non potrà Germondo
saper quel ch’in sé volge il re de’ Goti
da lui medesmo?
TORRISMONDO
Il re de’ Goti è vostro
signor, come fu sempre, e vostro il regno.
Ma l’altrui stabil voglia, e ‘l vostro amore,
e la sua dura sorte, il fa dolente.
GERMONDO
Perturbator a voi di liete nozze
non venni in Gozia; e se ‘l venir v’infesta,
altrui colpa è ‘l venire e nostro errore;
e torno indietro, e non ritorno a tempo,
né duo gran falli una partenza emenda.
TORRISMONDO
Fortuna errò, che volse i lieti giochi
in tristi lutti e inaspettata morte,
per cui, se di tal fede il messo è degno,
Norvegia ha ‘l re perduto, Alvida il padre.
Voi se cedete i mesti giorni al pianto
e fuggite il dolor nel primo incontro,
io non v’arresto; e non vi chiudo il passo,
s’al piacer vostro di tornar v’aggrada.
GERMONDO
Così noto io vi sono? Al vostro lutto
io potrei dimostrare asciutto il viso?
90
Torrismondo
Io mai sottrar le spalle al vostro incarco?
Se ‘l mio pianto contempra il vostro duolo,
verserò ‘l pianto; e se vendetta, il sangue.
TORRISMONDO
Io conobbi, Germondo, il valor vostro,
che splendea com’un sole; or più risplende,
né sono orbo al suo lume. Empia fortuna
farmi l’alba potrà turbata e negra,
e l’ocean coprir d’oscuro nembo,
o pur celarmi a mezzo giorno il cielo;
ma non far ch’io non veggia il vostro merto
e ‘l dever mio. Volli una volta, e dissi;
or non muto il voler, né cangio i detti.
E‘ vostra Alvida e di Norvegia il regno;
e sarà, s’io potrò. Ma più vi deggio.
Perché non perdo il mio, né spargo e spando,
come far io devrei, la vita e l’alma.
CORO
Quale arte occulta, o qual saper adempie
da le celesti sfere
d’orror gli egri mortali e di spavento?
Vi sono amori ed odii, e mostri e fere
là su spietate ed empie,
cagion di morte iniqua o di tormento?
Vi son là su tiranni? E l’aria e ‘l vento
non ci perturban solo, e i salsi regni,
co’ feri aspetti, e la feconda terra,
ma più gli umani ingegni?
Tante ire e tanti sdegni
movono e dentro a noi sì orribil guerra?
O son voci onde il volgo agogna ed erra,
e ciò che gira intorno
è per far bello il mondo e ‘l cielo adorno?
Ma, se pur d’alta parte a noi minaccia,
e da’ suoi regni in questi
di rea fortuna or guerra indìce il fato,
Leon, Tauro, Serpente, Orse celesti,
qui dove il mondo agghiaccia,
e gran Centauro ed Orione armato,
non si renda per segno in ciel turbato
l’animo invitto, e non si mostri infermo,
91
Torquato Tasso
ma co ‘l valor respinga i duri colpi;
che ‘l destin non è fermo
a l’intrepido schermo.
Perch’umana virtù nulla s’incolpi,
ma de l’ingiuste accuse il ciel discolpi,
sovra le stelle eccelse
nata, e scesa nel core, albergo felse.
Che non lece a virtù? Nel gran periglio
chi di lei più sicura
e presta aspira al cielo e ‘n alto intende?
Chi più, là dove Borea i fiumi indura,
l’arme ha pronte e ‘l consiglio,
o dove ardente sol l’arene accende?
Non la bruma o l’ardor virtute offende,
non ferro, o fiamma, o venti, o rupi averse,
o duri scogli a lei far ponno oltraggio:
perché navi sommerse
siano ed altre disperse,
mandi procella infesta al gran viaggio,
e ‘n ciel s’estingua ogni lucente raggio.
E co’ più fieri spirti
sprezza fortuna ancor tra scogli e sirti.
Virtù non lascia in terra o pur ne l’onde
guado intentato o passo,
od occulta latebra, o calle incerto.
A lei s’apre la selva e ‘l duro sasso,
e ne l’acque profonde
s’aperse a legni il monte al mare aperto.
Al fin d’Argo la fama oscura e ‘l merto
fia di Giason, ch’a più lodate imprese
porteranno altre navi i duci illustri.
Avrà sue leggi prese
l’ocean, che distese
le braccia intorno. E già volgendo i lustri
averrà che lor gloria il mondo illustri,
come sol, che rotando
caccia le nubi e le tempeste in bando.
Virtù scende a l’Inferno,
passa Stige secura ed Acheronte,
non che l’orrido bosco o l’erto monte.
Virtude al ciel ritorna,
e, dove prima nacque, al fin soggiorna.
92
Torrismondo
Atto 5, scena 1
ALVIDA
In qual parte del mondo or m’ha condotta
la mia fortuna, e fra qual gente avversa,
o dei sommi del cielo?
NUTRICE
Ancor temete,
e vi dolete ancor.
ALVIDA
Io più non temo,
né posso più temer, che ‘l male è certo,
e certo il danno e la vergogna e l’onta.
Già son tradita, esclusa, anzi scacciata,
perch’è morto in un tempo il re mio padre
e del marito mio la fede estinta.
Egli da l’una parte a tutti impone
ch’a me si asconda l’improvisa morte,
da l’altra ei mi conforta e mi comanda
ch’io pensi a novo sposo o a novo amante,
e mi chiama sorella, e mi discaccia
con questo nome.
O mar di Gozia, o lidi, o porti, o reggia,
che raccogliesti le regine antiche,
dove ricovro, ahi lassa, o dove fuggo?
Dove m’ascondo più? Nel proprio regno,
u’ l’alta sede il mio nemico ingombri,
perch’io vi serva? O ‘n più odiosa parte
spero trovar pietà, tradita amante,
anzi tradita sposa?
93
Torquato Tasso
NUTRICE
E‘ possibil giammai che tanto inganno
alberghi in Torrismondo e tanta fraude?
ALVIDA
E‘ possibile, è vero, è certo, è certa
la sua fraude e ‘l mio scorno e l’altrui morte;
anzi la violenza è certa, e ‘nsieme
la mia morte medesma, oh me dolente!
NUTRICE
Certa la fate voi d’incerta e dubbia,
or facendovi incontra al male estremo;
ma pur non fu tanto importuna unquanco
l’iniqua, inesorabile, superba,
né con tanto disprezzo e tanto orgoglio
perturbò a’ lieti amanti un dì felice.
Ma son tutti, morendo il padre vostro,
seco estinti gli amici e i fidi servi
e i suoi cari parenti? E spente insieme
l’onestà, la vergogna e la giustizia?
Né secura è la fede in parte alcuna?
Già tutte siam tradite e quasi morte,
se non è vano il timor vostro e ‘l dubbio.
ALVIDA
O morì la giustizia il giorno istesso
co ‘l giustissimo vecchio, o seco sparve,
e fe’ seco volando al ciel ritorno.
E la forza e la fraude e ‘l tradimento
presero ogni alma ed ingombrâr la terra.
Non ardisce la fede erger la destra,
e l’onor più non osa alzar la fronte.
E la ragione è muta, anzi lusinga
la possente fortuna. Al fato averso
cede il senno e ‘l consiglio, e cede al ferro
maestà di temute antiche leggi,
mentre a guisa di tuono altrui spaventa
e d’arme e di minacce alto ribombo.
E‘ re chiamato il forte. Al forte il regno,
altrui malgrado, è supplicando offerto,
e ciò che piace al più possente è giusto.
Io non gli piaccio, e ‘l suo piacer conturbo
io sola; e de’ Norvegi or preso il regno,
94
Torrismondo
la regina rifiuta il re sublime
de’ magnanimi Goti.
NUTRICE
A detti falsi
forse troppo credete; e ‘l dritto e ‘l torto
alma turbata e mesta, egra d’amore,
non conosce sovente, e non distingue
dal vero il falso, e l’un per l’altro afferma.
REGINA MADRE
Siasi de la novella, e del messaggio,
e de la fé norvegia, e del mio regno
e degli ordini suoi turbati e rotti
ciò che vuol la mia sorte, o ‘l mio nemico:
basta ch’ei mi rifiuta; e ‘l vero io ascolto
del rifiuto crudele. Io stessa, io stessa
con questi propi orecchi udii pur dianzi:
- Alvida, il vostro sposo è ‘l re Germondo,
non vi spiaccia cangiar l’un re ne l’altro,
e l’un ne l’altro valoroso amico,
ed al nostro voler concorde e fermo
il vostro non discordi. - In questo modo
mi concede al suo amico, anzi al nemico
del sangue mio. Così vuol ch’io m’acqueti
nel voler d’uno amante e d’un tiranno.
Così l’un re mi compra e l’altro vende
ed io son pur la serva, anzi la merce
fra tanta cupidigia e tal disprezzo.
Udisti mai tal fede? Udisti cambio
tanto insolito al mondo e tanto ingiusto?
NUTRICE
Senza disprezzo, forse, e senza sdegno
è questo cambio. Alta ragione occulta
dee movere il buon re: che d’opra incerta
sovente il buon consiglio altrui s’asconde.
ALVIDA
La ragion, ch’egli adduce, è finta e vana
e in me lo sdegno accresce, in me lo scorno,
mentre il crudel così mi scaccia e parte
prende gioco di me. - Marito vostro,
mi disse, è ‘l buon Germondo, ed io fratello. Ed adornando va menzogne e fole
95
Torquato Tasso
d’un rapto antico e d’un’antica fraude.
E mi figura e finge un bosco, un antro
di ninfe incantatrici. E ‘l falso inganno
vera cagione è del rifiuto ingiusto,
e fia di peggio. E Torrismondo è questi,
questi, che mi discaccia, anzi m’ancide,
questi, ch’ebbe di me le prime spoglie,
or l’ultime n’attende, e già se ‘n gode;
e questi è ‘l mio diletto e la mia vita.
Oggi d’estinto re sprezzata figlia
son rifiutata. O patria, o terra, o cielo,
rifiutata vivrò? Vivrò schernita?
Vivrò con tanto scorno? Ancora indugio?
Ancor pavento? E che? La morte, o ‘l tardi
morire? Ed amo ancora? Ancor sospiro?
Lacrimo ancor? Non è vergogna il pianto?
Che fan questi sospir? Timida mano,
timidissimo cor, che pur agogni?
Mancano l’arme a l’ira, o l’ira a l’alma?
Se vendetta non vuoi, né vuole amore,
basta un punto a la morte. Or mori, ed ama
morendo; e se la morte estingue amore,
l’anima estingua ancor, che vera morte
non saria, se vivesse amore e l’alma.
NUTRICE
Deh, lasciate pensier crudele ed empio.
Niun vi sforza ancora o vi discaccia:
ma v’onora ciascuno, ed ancor donna
sete di voi medesma, e di noi tutte
sete e sarete sempre alta regina.
96
Torrismondo
Atto 5, scena 2
REGINA MADRE
Dopo tanti anni e lustri un dì sereno,
un chiaro e lieto dì fortuna apporta.
Ogni cosa là dentro è fatta adorna
e ridente, e di gemme e d’or riluce.
Duo lieti matrimoni in un sol giorno,
due regi e due regine aggiunte insieme,
duo figli, anzi pur quattro; e quinci e quindi
pur con sangue real misto il mio sangue,
e bellezza e valore e gloria e pompa,
e molte in una reggia amiche genti,
e doni e giostre e cari e lieti balli,
oggi vedrò contenta. Ahi nostra mente,
che ti contenta o chi t’appaga in terra,
se non si può d’empio destin superbo
mutar piangendo la severa legge,
né sua ragion ritorre a fera morte?
Lassa, non questa fronte essangue e crespa,
o questa coma che più rara imbianca,
o gli umeri già curvi e ‘l piè tremante
scemano il mio piacer. Ma tu sol manchi,
o mio già re, già sposo, a queste nozze,
o de’ figliuoli miei signore e padre.
Deh, se rimiri mai del ciel sereno
de’ tuoi diletti e miei l’amato albergo,
e se ritorni a consolarmi in sonno,
sii presente, se puoi. Risguarda i figli,
o padre, e di famosa e chiara stirpe
lieto l’onor ti faccia, amico spirto.
97
Torquato Tasso
Atto 5, scena 3
ROSMONDA
Ancor mi vivo di mio stato incerta,
ancor pavento e spero e bramo e taccio,
e del parlar mi pento e de l’ardire,
e poi del mio pentire io mi ripento.
Quel che sarà non so, che non governa
queste cose mortali il voler nostro,
ma ‘l voler di colui che tutto regge.
Però questo solenne e lieto giorno
visiterò devota i sacri altari,
ed offrirò queste ghirlande al tempio
di vergini viole e d’altri fiori,
persi, gialli, purpurei, azurri e bianchi,
ch’in su l’aurora io colsi, e poi contesti
gli ho di mia mano. Or degni il re del cielo
gradir la mia devota e pura mente,
ed al settentrion gli occhi rivolga
pietosamente e con benigno sguardo.
98
Torrismondo
Atto 5, scena 4
CAMERIERO
O Gozia, o d’Aquilone invitto regno,
o patria antica, oggi è tua gloria al fondo,
oggi è ‘l sostegno tuo caduto e sparso,
oggi fera cagion d’eterno pianto
a te si porge.
CORO
Ahi, che dolente voce
mi percote gli orecchi e giunge al core.
Che fia?
CAMERIERO
Misera madre e mesto giorno,
reggia infelice, e chi vi more e vive
infelice egualmente. Orribil caso!
CORO
Narralo, e dà principio al mio dolore.
CAMERIERO
Il re doglioso a la dolente Alvida
già detto avea ch’al suo fedel Germondo
esser moglie devea, con brevi preghi
stringendo lei ch’in questo amor contenta,
come ben convenia, quetasse il core,
che l’altre cose poi saprebbe a tempo.
Ma del suo padre l’improvisa morte,
per occulta cagion tenuta ascosa,
accrebbe in lei sospetto e duolo e sdegno,
ch’in furor si converse e ‘n nova rabbia,
pur come fosse già schernita amante,
data in preda al nemico; onde s’ancise,
99
Torquato Tasso
passando di sua man co ‘l ferro acuto
il suo tenero petto.
CORO
Ahi troppo frettolosa! Ahi cruda morte,
estremo d’ogni male!
CAMERIERO
Il male integro
non sapete anco. Il re stesso offese
nel modo istesso, e giace appresso estinto.
CORO
Ahi, ahi, ahi, crudel morte e crudel fato!
Quale altro più gravoso oltraggio o danno
può farci la fortuna o ‘l cielo averso?
CAMERIERO
Non so. Ma l’un dolore aggiunge a l’altro,
l’una a l’altra ruina. E ‘n forte punto
oggi è la stirpe sua recisa e tronca.
CORO
Misera ed orba madre, ove s’appoggia
la cadente vecchiezza, e chi sostienla?
CAMERIERO
L’infelice non sa d’aver trovato
Oggi una figlia e duo perduti insieme,
e forse lieta ogni passato affanno
in tutto oblia, non sol consola e molce,
e di gioia e piacere ha colmo il petto.
CORO
Or chi le narrerà l’aspro destino
de’ suoi morti figliuoli?
CAMERIERO
Io non ardisco
con questo aviso di passarle il core.
Ma già tutto d’orrore e di spavento
là dentro è pieno il suo reale albergo,
e risonare i tetti e l’ampie logge
odono intorno di femineo pianto,
e di battersi il petto e palma a palma,
e di meste querele e di lamenti:
tanto timor, tanto dolore ingombra
le femine norvegie. E men dolenti
sarian, se, fatte serve in cruda guerra,
100
Torrismondo
fossero da nemici infesti ed empi,
e temessero omai di morte e d’onta.
E l’altre sconsolate e meste donne
consolarne non ponno, anzi, piangendo
parte, pianger fariano un cor selvaggio
del suo dolore, e lacrimar le pietre.
CORO
E noi, che parte abbiamo in tanto danno,
non sapremo anco più distinti i modi
d’una morte e de l’altra?
CAMERIERO
Il re trovolla
pallida, essangue, onde le disse: - Alvida,
Alvida, anima mia, che odo, ahi lasso,
che veggio? Ahi qual pensiero, ahi qual inganno,
qual dolor, qual furor così ti spinse
a ferir te medesma? Oimè, son queste
piaghe de la tua mano? - Allor gravosa
ella rispose con languida voce:
- Dunque viver devea d’altrui che vostra,
e da voi rifiutata?
E potea co ‘l vostro odio e co ‘l disprezzo,
se de l’amor vivea?
Assai men grave è il rifiutar la vita,
e men grave il morire.
Già fuggir non poteva in altra guisa
tanto dolore.
Ei ripigliò que’ suoi dogliosi accenti:
- Tanto dolore io sosterrò vivendo?
O ‘n altra guisa io morrei dunque, Alvida,
se voi moriste? Ah, no ‘l consenta il cielo!
Io vi potrei lasciare, Alvida, in morte?
Con le ferite vostre il cor nel petto
voi mi passaste, Alvida.
E questo vostro sangue è sangue mio,
o Alvida sorella,
così voglio chiamarvi. - E ‘l ver le disse,
e confermò giurando e lagrimando
l’inganno e ‘l fallo de l’ardita destra.
Ella parte credeva, e già pentita
parea d’abbandonar la chiara luce
101
Torquato Tasso
nel fior degli anni, e rispondea gemendo:
- In quel modo che lece io sarò vostra,
quanto meco potrà durar questa alma,
e poi vostra morrommi.
Spiacemi sol che ‘l morir mio vi turbi,
e v’apporti cagion d’amara vita. Egli, pur lagrimando, a lei soggiunse:
- Come fratello omai, non come amante,
prendo gli ultimi baci. Al vostro sposo
gli altri pregata di serbar vi piaccia,
che non sarà mortal sì duro colpo. Ma in van sperò, perché l’estremo spirto
ne la bocca di lui spirava; e disse:
- O mio più che fratello e più ch’amato,
esser questo non pò, che morte adombra
già le mie luci. Dapoi ch’ella fu morta, il re sospeso
stette per breve spazio; e muto e mesto,
da la pietate e da l’orror confuso,
il suo dolor premea nel cor profondo.
Poi disse: - Alvida, tu sei morta, io vivo
senza l’anima? - E tacque.
E scrisse questa lettra, e la mi porse
dicendo: - Porteraila al re Germondo,
e quanto avrai di me sentito e visto,
tutto gli narra, e scusa il nostro fallo. Così disse. E mentre io pensoso attendo,
dal suo fianco sinistro ei prese il ferro,
e si trafisse con la destra il petto,
senza parlar, senza mutar sembianza,
pur come fosse lieto in far vendetta.
Io gridai, corsi, presi il braccio indarno,
non anco debil fatto. Ei mi respinse
con quel valor che non ha pari al mondo,
dicendo: - Amico, al mio voler t’acqueta,
e ne la tua fortuna. A te morendo
lascio il più caro officio e ‘l più lodato,
un signor più felice, un re più degno,
e la memoria mia.
Ch’ognun la cara vita altrui pò tôrre,
ma la morte, nessuno. 102
Torrismondo
Atto 5, scena 5
GERMONDO
Qual suon dolente il lieto dì perturba?
E di confuse voci e d’alte strida
qual tumulto s’aggira? E di temenza
son questi, o di gran doglia incerti segni?
Forse è dentro il nemico, o pur s’aspetta?
Ma sia che può, non sarò giunto indarno;
e dar non si potrà Norvegio o Dano
del suo fallace ardir superbo vanto.
Qual pazzia sì gli affida, o quale inganno,
se Torrismondo ha ‘l fido amico appresso?
CAMERIERO
Oimè, che Torrismondo altro nemico
non ebbe che se stesso e la sua fede.
GERMONDO
Qual nemicizia intendi, o che ragioni?
CAMERIERO
Ei, signor, la vi spone, e qui la narra.
Perché questa è sua carta, io fido servo.
GERMONDO
Oimè, quel ch’io leggo e quel ch’intendo!
Odi le sue parole e ‘l mio dolore.
- Scrivo inanzi al morire, e tardi io scrivo,
e tardi io muoio. Altri m’è corso inanzi,
e la sua morte di morir m’insegna,
perch’io muoia più mesto e più dolente,
una donna seguendo, e sia l’estremo
chi ‘l primo esser devea spargendo il sangue,
non per lavar, ma per fuggir la colpa,
103
Torquato Tasso
ch’or porterò come gravoso pondo
per questa ultima via. Morrò lasciando
di moglie in vece a voi canuta madre;
perché la mia sorella a me la fede
o ‘l poterla osservare, a sé la vita,
a voi se stessa ha tolto. O vero amico,
se vero amico mi può far la morte,
vero amico sono io. Prendete il regno,
non ricusate or la corona e ‘l manto,
e d’amico fedele il nome e l’opre.
Siate a cadente vecchia alto sostegno
in vece mia. Non disprezzate i preghi,
non disdegnate in su l’orribil passo
che tal mi chiami e di tal nome onori
l’acerba morte mia, che tutto solve,
fuorché l’obbligo mio ch’a voi mi strinse.
Vivete voi, che ‘l valor vostro è degno
d’eterna vita, e l’amicizia e ‘l merto.
Io chiedo questa grazia a voi morendo. O dolente principio, o fin dolente!
Ma che pensa? Dov’è? Non vive ancora?
CAMERIERO
Visse, lasciò la moglie, or lascia il regno;
e l’uno è tuo, l’altro pur volle il fato.
GERMONDO
Oscuro è quel che narri, e quel ch’accenna
il tuo signor.
CAMERIERO
Ei riconobbe Alvida
la sua vera sorella, e poi s’uccise,
come credo io, per emendare il fallo
In voi commesso.
GERMONDO
Era sorella adunque?
CAMERIERO
Era, e saprete come.
GERMONDO
Ahi, troppo a torto
tanto si diffidò nel fido amico,
che la mia fede, e non la sua, condanna
con la sua morte. Oimè, qual grave colpa
104
Torrismondo
non perdona amicizia o non difende?
Meno offeso m’avria volgendo il ferro
contra il mio petto. Anzi io morir devea,
ch’a lui diedi cagion d’acerba morte.
Ahi fortuna, ahi promesse, ahi fede, ahi fede,
così t’osserva, e così dona il regno?
Così me prega?
CAMERIERO
Il ciel fe’ scarso il dono,
e la sua Parca e la fortuna aversa,
non l’ultimo voler; che tutto ei diede
quanto darvi potea.
GERMONDO
Tutto ei mi tolse,
togliendomi se stesso. Amor crudele,
tu sei cagion del mio spietato affanno,
tu mi togli l’amico e tu l’amata,
e tu gli uccidi, e mi trafiggi il petto
con duo colpi mortali. Io tutto perdo
poiché lui perdo. Oimè dolente acquisto,
dannoso acquisto, in cui perde se stessa
la nova sposa, e ‘l re se stesso e gli altri,
e ‘l suo figliuol la madre, e ‘l vero amico
l’amico suo, né ritrovò l’amante;
la milizia l’onor, ch’orba divenne;
questo regno, il signore; io, la speranza
d’ogni mia gloria e d’ogni mio diletto.
Perdere ancora il cielo il sol devrebbe,
e ‘l sole i raggi, e la sua luce il giorno,
e per pietà celar l’oscura notte
il fallo altrui co ‘l tenebroso manto;
perdere il mare i lidi, e l’alte sponde
gli ondosi fiumi, e ricoprir la terra
ingrata, or che non sente e non conosce
il danno proprio, e non s’adira e sterpe
faggi, orni, pini, cerri, antiche querce,
alti sepolcri, e d’infelice morte
dolente e mesto albergo, o pur non crolla
questa gran reggia e le superbe torri,
e non percote i monti a’ duri monti,
e non rompe i lor gioghi, e i gravi sassi
105
Torquato Tasso
da l’aspre rupi non trabocca al fondo,
e nel suo grembo alta ruina involve
di mete, di colossi e di colonne,
perché sia non angusta e ‘ndegna tomba;
e da valli e da selve e da spelunche
con spaventose voci alto non mugge,
per far l’essequie con l’estremo pianto,
che darà al mondo ancor perpetuo affanno.
106
Torrismondo
Atto 5, scena 6
REGINA MADRE
Deh, che si tace a me, che si nasconde?
Sola non saprò io, schernita vecchia,
di chi son madre, o pur se madre io sono?
CAMERIERO
Regina, oggi la sorte il vero scopre,
ch’a tutti noi molti anni occulto giacque.
Però non accusar nostro consiglio,
ch’a te non fu cagion d’alcuno inganno;
ma qui si mostri il tuo canuto senno.
REGINA MADRE
Se pur questa non è mia vera figlia,
qual altra è dunque?
CAMERIERO
Partoristi un’altra,
prima Rosmonda e poi chiamata Alvida,
del buon re tuo marito e signor nostro;
ma per sua poi nudrilla il re norvegio.
REGINA MADRE
Tanto dolor per ritrovata figlia
e trovata sorella? Altro pavento
che disturbate nozze. Altro si perde.
CAMERIERO
Oimè lasso!
REGINA MADRE
Qual silenzio è questo?
Ov’è la mia Rosmonda?
CAMERIERO
Ov’ella volse.
107
Torquato Tasso
REGINA MADRE
E Torrismondo?
CAMERIERO
In quel medesmo loco,
ov’egli volle.
GERMONDO
Altre percosse in prima
hai sostenute di fortuna aversa;
ora questi soffrir più gravi colpi,
che già primi non sono, al fin convienti,
o mia saggia regina e saggia madre,
che s’altri figli avesti, or son tuo figlio:
non mi sdegnar, benché sia grave il danno.
REGINA MADRE
Ahi, ahi, ahi, dice: Avesti; io non gli ho dunque?
Non respiran più dunque
i miei duo cari figli?
GERMONDO
Ahi, che non caggia!
Deh quinci Torrismondo e quindi Alvida,
quinci vera amicizia e quindi amore
fanno degli occhi miei duo larghi fonti
d’amarissimo pianto, e ‘l core albergo
d’infiniti sospiri. E ‘n tanto affanno
e fra tanti dolori ha sì gran parte
la pietà di costei. Misera vecchia,
e più misera madre! Oimè, quel giorno
ch’ella sperava più d’esser felice,
è fatta di miseria estremo essempio.
Io sarò suo conforto, anzi sostegno.
Io farò questo, lagrimando insieme,
dolente sì, ma pur dovuto officio
e pieno di pietà. Consenta almeno
ch’io la sostegna.
ROSMONDA
Oh foss’io morta in fasce,
o ‘n questo giorno almen, turbato e fosco,
mentre egli fu sì lieto e sì tranquillo.
Bello e dolce morire era allor quando
108
Torrismondo
io fatto non l’avea dolente e tristo.
Io misera il perturbo, e l’alta reggia
io riempio d’orrore e di spavento.
Io la corona atterro e crollo il seggio.
Io d’error fui cagione, or son di morte
al mio signore. Or m’offrirò per figlia
a questa orba regina ed orba madre,
la qual pur dianzi ricusai per madre.
E ricusai, misera me, l’amore,
e ricusai l’onore,
serva troppo infelice,
ch’era pur meglio ch’io morissi in culla,
innocente fanciulla.
CORO
A piangere impariamo il vostro affanno
nel comune dolor che tutti afflige.
Al signor nostro omai quale altro onore
far possiam che di lagrime dolenti?
Al signor nostro, il qual fu lume e speglio
di virtute e d’onor, chi nega il pianto?
REGINA MADRE
Ahi, chi mi tiene in vita?
O vecchiezza vivace,
a che mi serbi ancora?
Non de’ miei dolci figli
a le bramate nozze,
non al parto felice
de’ nepoti mi serbi.
Al duolo amaro, al lutto,
a la morte, a la tomba
de’ miei duo cari figli,
or mi conserva il fato.
Ahi, ahi, ahi, ahi,
ch’io non gli trovo, e cerco,
misera me dolente,
pur di vederli in vano.
Ahi, dove sono?
Ahi, chi gli asconde?
O vivi, o morti,
109
Torquato Tasso
anzi pur morti.
Oimè,
oimè!
GERMONDO
Quetate il duol, che tutto scopre il tempo.
REGINA MADRE
Signor, se dura morte
i miei figlioli estinse,
che non me ‘l puoi negare,
e certo non me ‘l nieghi,
ma co ‘l pianto il confermi
e co’ mesti sospiri,
abbi pietà, ti prego,
di me: passami il petto,
e fa ch’io segua omai
l’uno e l’altro mio figlio,
già stanca e tarda vecchia,
e sconsolata madre
meschina.
GERMONDO
S’io potessi, regina, i figli vostri
con la mia morte ritornare in vita,
sì ‘l farei senza indugio, e ‘n altro modo
creder non posso di morir contento.
Ma, poi che legge il nega aspra e superba
di spietato destin, vivrò dolente
sol per vostro sostegno e vostro scampo.
E saran con funebre e nobil pompa
i vostri cari figli ambo rinchiusi
in un grande e marmoreo sepolcro:
perché questo è de’ morti onore estremo,
benché ad invitti re, famosi in arme,
sia tomba l’universo e ‘l cielo albergo.
A voi dunque vivrò, regina e madre:
voi sarete regina, io vostro servo,
e vostro figlio ancor, se troppo a sdegno
voi non m’avete. A voi la spada io cingo,
per voi non gitto la corona o calco,
non spargo l’arme sì felici un tempo,
e non verso lo spirto e spando il sangue.
Pronto a’ vostri servigi, al vostro cenno,
110
Torrismondo
sinché le membra reggerà quest’alma,
sarà co ‘l proprio regno il re Germondo.
REGINA MADRE
Oimè, che la mia vita
è quasi giunta al fine,
ed io pur anco vivo,
perché l’amata vista
mi faccia di morire
via più bramosa
co’ dolci figli,
ahi, ahi, ahi, ahi!
GERMONDO
Oimè, che non trapassi. O donne, o donne,
portatela voi dentro, abbiate cura,
che ‘l dolor non l’uccida, o tosco, o ferro.
O mia vita non vita, o fumo, od ombra
di vera vita, o simolacro, o morte!
CORO
Ahi lacrime, ahi dolore:
passa la vita e si dilegua e fugge,
come giel che si strugge.
Ogni altezza s’inchina, e sparge a terra
ogni fermo sostegno,
ogni possente regno
in pace cadde al fin, se crebbe in guerra.
E come raggio il verno, imbruna e more
gloria d’altrui splendore;
e come alpestro e rapido torrente,
come acceso baleno
in notturno sereno,
come aura, o fumo, o come stral, repente
volan le nostre fame, ed ogni onore
sembra languido fiore.
Che più si spera o che s’attende omai?
Dopo trionfo e palma,
sol qui restano a l’alma
lutto e lamento e lagrimosi lai.
Che più giova amicizia, o giova amore?
Ahi lagrime, ahi dolore!
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