19. n. 2 luglio 2003 - Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica

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19. n. 2 luglio 2003 - Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
ANNO X - NUMERO 2 - luglio/dicembre 2003
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
ANNO X - NUMERO 2
Luglio - Dicembre 2003
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
Finito di stampare nel mese di SETTEMBRE del 2003
dalla tipografia Grafica Vallelunga
In copertina:
R. MAGRITTE, La perspective amoureuse, 1935
Copyright Succ. R. Magritte - by S.I.A.E./1993
La rivista PSICOTERAPIA PSICOANALITICA aderisce alla
UNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
Rivista semestrale edita dalla SIPP
SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
Direttore
MARIA LUISA MASCAGNI
Redattore capo
LUCIA SCHIAPPOLI
Redazione
FELICIA DI FRANCISCA, CHIARA NICOLINI, ELVIRA A. NICOLINI, ANNA SABATINI SCALMATI, GIAMPAOLO SASSO, GIOVANNI STARACE
Comitato Di Lettura
M.L. ALGINI, G. AMODEO, M.C. AUTERI, I. AZZARO, V. CALIFANO, P. CATARO, L. DE LAURO,
G. DE PILATO, G. DE RENZIS, P. DI BENEDETTO, C. FARINA, E. FERRETTI, A FERRUTA, A. LANZA,
R. MANFREDI, F. MARAZIA, G. MILANA, S. MILANO, M. G. MINETTI, M. G. PINI, A VALENTE,
G. ZANOCCO, M. ZIEGELER
Impaginazione, grafica e Servizi Editoriali
Revery Studio Grafico di MONICA INFANTINO
DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
Via Po, 102 - 00198 Roma
Tel. 06.85.35.86.50 Fax 06.85.80.05.67
http://www.psychomedia.it/sipp/pstrpsan.htm
Registrazione al tribunale di Roma n. 297 del 9/7/1993
Direttore Responsabile: Maria Lucia Mascagni
Sommario
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Editoriale
IL LIMITE
14
Un fenomeno limite: il transfert
MICHEL GRIBINSKI
30
Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
ORAZIO COSTANTINO
54
Il bambino in lutto. L’evento, l'enigma, il dolore
LAURENCE KAHN
72
Eloquenza del segnale sensoriale
MARIA ZIEGELER
88
Terminabilità o interminabilità dell'analisi. Il ritorno di Pietro
PIA DE SILVESTRIS
100
Uno psicoanalista al limite
RITA MANFREDI
114
Limite, limiti, liminale
FAUSTA FERRARO, ALESSANDRO GARELLA
(Conversazione a cura di Fiorella Occhiuzzi)
138
Sulla possibile patologia teoretica del limite
ANTONIO ALBERTO SEMI
FRONTIERE
146
Sulla memoria del terrore. La presenza dell'altro (Verbundenhet)
MARCELO N. VIÑAR
158
Violenza sociale e sofferenza psichica
ANNA SABATINI SCALMATI
RIVISTE
176
Nouvelle Revue de Psychanalyse: Aux limites de l'analysable
ALESSANDRA DE MARCHI (a cura di)
NOTE
202
Le parole e gli affetti tra Logos e Eros
A proposito di La forma delle parole di Chiara Nicolini, Lorenza Lazzarotto, Carlo
Suitner
AGOSTINO RACALBUTO
LETTURE
212
GILDA BERTAN
Il labirinto, Arianna e il filo
(MARIA LUISA ALGINI)
215
PAOLO DI BENEDETTO, RUTILIA COLLESI, LELLA CITTERIO, MARINA CAMPANINI,
MARIELLA PAGANONI, ROSETTA BOLLETTI, NICOLAS CONTISAS, MARILENA MORELLO
La creatività nella stanza d’analisi. Marion Milner (1900-1998)
(GIAMPAOLO SASSO)
220
GIUSEPPE RIEFOLO
Psichiatria prossima. La psichiatria territoriale in un’epoca di crisi
(Luigi Ippedico)
226
LUIGI RINALDI (a cura di)
Stati caotici della mente. Psicosi, disturbi borderline, disturbi psicosomatici, dipendenze
(Mariangela Villa)
231
Fratelli. Quaderni di psicoterapia infantile
N. 47, a cura di MARIA LUISA ALGINI
(Maria Grazia Minetti)
Editoriale
Editoriale
L’esperienza del limite (dei limiti) si impone a tutti gli esseri umani. Non si diventa persone senza fare i conti, già molto presto, con i confini che delimitano la nostra individualità,
inesorabili nel definire la nostra separatezza, eppure fragili sotto l’urto delle invasioni esterne e interne. Certo l’I am, Winnicott ha trovato questa espressione così efficace per dirlo, ci
costituisce come individui, ma è ancora Winnicott a ricordare che l’integrazione ha un prezzo, essa crea “un paranoico potenziale”. Inoltre diventare uno significa scoprirsi mortali.
Nel tempo che ci delimita l’esistenza siamo affaccendati a sfidare e ad accettare i limiti
della condizione umana e quelli della nostra vita. Il limite anche della comprensione di noi
stessi.
Questo riguarda tutti gli esseri umani. Particolarità nostra, non dico di noi che ci occupiamo di psicoanalisi, ma di noi che abbiamo fatto un’analisi, è di ricorrere alla nostra analisi personale, agli “strumenti” che ci vengono da essa, per lavorare su quei limiti. “Che ci
impone anche la sgradevole consapevolezza dei limiti della nostra stessa analisi e dei suoi
cosìddetti “risultati”. (Non avevamo segretamente sperato, quando la cominciammo, che sarebbe stata l’esperienza risolutrice, senza difetti? Che questa volta - questa “nuova” prima
volta - tutto sarebbe stato diverso? Che noi ne saremmo usciti con una pienezza di umanità,
di equilibrio, di capacità di vivere speciali, cioè quasi pari a quella che di sicuro doveva avere il nostro analista?).
Quando, un anno fa, abbiamo cominciato a individuare dei temi intorno ai quali organizzare alcuni numeri della nostra rivista, quello del limite ci si è imposto per primo. Non è
strano. L’interrogativo sul limite si ripropone continuamente nella clinica: stiamo, insieme
ai nostri pazienti, sul limite difficile dell’inconscio e della coscienza. E alcuni pazienti sono
particolarmente esperti nel condurci nello spazio impotente dell’Hilflosigkeit, o nel vuoto
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Editoriale
del fear of breakdown dove il crollo temuto “è già avvenuto”, ma non è “ancora stato sperimentato”.
Vent’anni fa, Eugenio Gaddini, attento studioso non solo dei limiti che incombono sulla
strutturazione dell’Io ad opera delle primitive angosce di perdita di sé, ma anche dei limiti
con cui deve obbligatoriamente confrontarsi la ricerca psicoanalitica, scriveva: “Volenti o
nolenti, gli psicoanalisti sono un esercito di ricercatori, che per la prima volta nella storia
umana indagano sistematicamente da circa un secolo sulla patologia del funzionamento
mentale e, attraverso questa, sul funzionamento naturale. [...] La psicopatologia umana è
sempre stata un deserto della conoscenza prima che gli psicoanalisti, seguendo Freud, cominciassero a penetrarvi. Tra le mille cose che Freud ha insegnato agli psicoanalisti, c’è il
senso della scientificità e della gradualità in questo tipo di ricerca. Inutile correre avanti. Chi
lo ha fatto, è rimasto per strada. [...] È chiaro, adesso, che sul deserto della conoscenza incombeva la pazzia, e che pazzia rendeva deserto il deserto. [...] la conoscenza della psicoanalisi è andata verso la conoscenza della pazzia, circondata dalla paura di tutti. Non sono i
nostri pazienti che vanno verso la pazzia, ma gli psicoanalisti che si vanno avvicinando con
il loro aiuto, e debitamente muniti di esperienza, a quella conoscenza perennemente temuta.
L’uso che noi facciamo dei nostri pazienti è reso possibile dall’uso che loro fanno di noi”.
Il limite è stato l’oggetto e il metodo della ricerca di Freud. Michel Gribinski (ed è con
un suo articolo che apriamo questo numero) lo dice efficacemente nel suo ultimo libro (Les
séparations imparfaites. Gallimard, 2002, p. 139): “Freud non si è occupato che dei limiti,
dall’invenzione, cioè delimitazione, del suo oggetto, fino allo studio delle analisi senza fine.
Egli pensava a partire dai limiti e per mezzo di essi, i limiti erano consustanziali alla psicoanalisi. [...] Forse proprio perché con Freud e con la sua invenzione in crisi costante la questione dei limiti fu la trama tacita del pensiero analitico, la parola ‘limite’ (Schranke) non è
registrata dal Gesamtregister degli scritti di Freud, lo sono soltanto i due o tre casi in cui
compare la forma Grenz, confine; e forse è ancora per questo che i curatori delle Gesammelte Werke non hanno ritenuto interessante registrare la parola Abgrenzung quando Freud descrive la pulsione come un concetto-limite o di demarcazione”.
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Editoriale
Non anticiperò nulla del modo in cui ciascuno dei nostri autori ha contribuito a costruire
un discorso sul limite. Come scrive Agostino Racalbuto nel lavoro “Le parole e gli affetti
tra Logos e Eros” (la Nota in cui commenta il libro di Chiara Nicolini, La forma delle parole) “Freud ha potuto teorizzare e portare alla scrittura la sua esplorazione dell’inconscio e il
lavoro della cura [...] solo a patto di poterci trasmettere la sua familiarità con le parole”. La
sensibilità “nei confronti della circolazione delle parole nel preconscio” è ciò che permette
di ascoltare in senso psicoanalitico. Anche per scrivere “occorre ascoltarsi, e ascoltare quelle ‘voci’ che, in una dialettica interna, ci permettono di pensare, di evocare immagini, di
suggerire ritmi, di aprire a certe associazioni e non ad altre, di inventare le ‘forme’ più appropriate per esprimere ciò che le parole vogliono dire”. Ma le forme delle parole svelano
sempre qualcosa della “originaria matrice affettiva [...] che le ha permeate” e dunque “le
forme che ognuno di noi - consciamente o inconsciamente - sceglie per comunicare lo configurano, e diventano una attendibile sua carta d’identità”. Non c’è dubbio che gli autori che
leggerete siano stati generosi nel presentare questa particolare carta d’identità.
Infine, questa volta abbiamo compiuto una scelta inconsueta per la sezione “Riviste”.
Presentiamo un documento “storico”, il numero 10 della Nouvelle Revue de Psychanalyse,
Aux limites de l’analysable, apparso nel 1974.
Durante il seminario “Les états limites”, che Jacques André organizzò nel 1996/97 e
raccolse poi in un libro, André Green ripensò a com’era nata l’idea di quel numero, raccontò
dell’intensa collaborazione che c’era stata allora tra Pontalis e lui stesso e aggiunse: “Credo
di poter dire, dato che anche Pontalis non è lontano dal pensarlo, che questo numero è stato
forse il migliore della rivista. E comunque ha fatto epoca”.
A distanza di quasi trent’anni Aux limites de l’analysable è un volume di grande interesse. L’ha rivisitato per noi, articolo per articolo, Alessandra De Marchi, che fa parte della redazione della Rivista di psicoanalisi.
All’inizio del 2000, scrivendo per la prima volta di Le fait de l’analyse (ora penser/rêver), ci auguravamo che fosse possibile una conversazione tra riviste. Pensavamo anzitutto a una conversazione/collaborazione, per così dire, da lontano e in effetti questa è cominciata presto e diventa sempre più intensa e proficua. Ma facevamo anche fantasie su un
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Editoriale
incontro vero e proprio, che ci consentisse di varcare anche “fisicamente” i confini delle nostre riviste e del nostro lavoro redazionale (naturalmente con le riviste sotto braccio). Ora
l’incontro “vero e proprio” avverrà per iniziativa della rivista penser/rêver e dell’Ateneo
Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia, che, per il 9 novembre di quest’anno, hanno
organizzato la giornata internazionale “Riviste di psicoanalisi a Venezia: un colloquio” sul
tema “Leggere la psicoanalisi”. Non mi soffermerò sul programma, che i nostri lettori hanno
ricevuto per altre vie, ma sugli interrogativi proposti dall’Ateneo Veneto: “Durante le sue
attività, l’Ateneo si rivolge ad un pubblico variato, colto e mosso semplicemente
dall’interesse culturale - e in questo caso agli psicoanalisti. Di fronte a questo pubblico - il
tipo di pubblico che fu per molto tempo quello di Freud - porremo l’interrogativo di chi legga ancora la psicoanalisi, e di come la legga. Le aspettative del lettore attuale richiedono
nuovi modi di scrivere la psicoanalisi? E gli psicoanalisti, vogliono essere letti? E da chi?”.
In attesa di discuterne a Venezia passiamo queste domande ai nostri lettori.
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IL LIMITE
Un fenomeno limite: il transfert
MICHEL GRIBINSKI
Un fenomeno limite: il transfert
(Traduzione di Maria Lucia Mascagni e Luisa Schiappoli)
Prenderò in considerazione la natura folle del transfert, la parte folle che è in qualsiasi
transfert. Quel che segue assomiglia un po’ a uno studio al microscopio: sotto il microscopio non c’è orizzonte, non c’è quasi profondità di campo, ma dei dettagli che si presentano
su un solo piano e hanno tra loro delle connessioni organiche tali che ci si ritrova a parlare
di tutto col pretesto di non seguire se non un’unica idea, Qualche volta succede così anche
in seduta. E io pure vorrei potere andare e venire, procedere guardando altrove, andare, per
così dire, man mano, senza privarmi dei pensieri incidentali, quando sono degli incidenti del
pensiero, serbare, più che la mobilità, la disponibilità dell’incidente: ho detto questo? Sì,
l’ho detto e adesso dico quest’altra cosa, che vedo lì accanto e che non si accorda proprio
per nulla con la prima, ma tanto peggio. Quello che ho detto lo riprendo e allo stesso tempo
lo lascio, era un proposito in stato d’attesa o di esitazione, non un linguaggio a senso unico
come è un transfert; che è a malapena un linguaggio e che non pensa.
La natura del transfert è umana. Ciò che caratterizza la natura del transfert, e al di là (o
al di qua) la natura umana, è la perdita della realtà, dove la parola “perdita” conta quanto la
parola “realtà”. Perdere una realtà per trovare, al suo posto - ma è veramente al suo posto? che cosa? Qualcosa, qualcosa di impreciso, Bion forse avrebbe detto un “oggetto bizzarro”
(ma non sono forse bizzarri tutti gli “oggetti”?), fatto di un pezzo del mondo reale e di un
altro, fantasmatico e inoltre, e soprattutto, fatto delle tracce attive di questa stessa fabbricazione. Ci sono nella natura umana degli elementi deliranti che non consideriamo patologici
e di cui riconosciamo l’esistenza nella manifestazione o nei prodotti del funzionamento psichico quotidiano, il sogno ne è evidentemente un esempio, ma lo è anche l’allucinazione, o
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Un fenomeno limite: il transfert
ancora il diniego e di sicuro il fenomeno della credenza e quello della scissione; a un tratto
sembra che l’elenco si possa allungare indefinitamente e coprire il giorno e la notte, il passato e i progetti, Vi aggiungiamo la funzione, smisurata, senza un limite certo, dei sostituti
(Ersatz), funzione che permette alla teoria delle nevrosi di costruirsi e alla quale il transfert
deve il suo accecamento o, se si preferisce, il dono della sua doppia vista.
L’allucinazione comprende accezioni diverse e occorre scomporla, però, vorrei dire, non
troppo, non del tutto. In effetti l’allucinazione in senso psichiatrico, l’attività immaginativa
del bambino e la funzione allucinatoria desiderante perderebbero gran parte del loro significato se le si considerasse in modo troppo separato, cioè se si separassero sintomo patologico, fabbricazione di un mondo magico e meccanismo del funzionamento psichico.
L’allucinazione nel senso in cui l’intende la psichiatria e nel senso comune del termine - le
visioni, le voci, le allucinazioni olfattive, eccetera - è al centro di una storia delle idee del
XIX secolo che Tony James [1995] presenta efficacemente nel suo bel libro Vies secondes e
che sfocia in quest’altra vita seconda che inventerà Freud: l’analisi, in cui la realizzazione
allucinatoria del desiderio diverrà un modo di funzionare dell’apparato psichico se non permanente, almeno permanentemente disponibile.
L’allucinazione infantile normale viene più tardi, con Winnicott, nel territorio intermedio del gioco come egli lo intende. Così Winnicott dice che non penserebbe mai di fare una
diagnosi di psicosi se una madre gli andasse a raccontare che il suo bambino è preoccupatissimo perché una mucca sbarra il passaggio nel corridoio e sembra darsi molta pena per capire come superare l’ostacolo; lo stesso bambino ha a sua disposizione tutta una serie di oggetti immaginari che devono essere trattati col dovuto rispetto. Per esempio ce n’è uno che
si chiama Fluflù, vive generalmente sotto una sedia e ha una vaga rassomiglianza con Gesù.
Questi bambini “allucinano liberamente”, dice Winnicott (1957, 53)1: espressione che merita di venire sottolineata. Significa che il bambino, perché è stanco o per qualche altra ragione, smette di tenere nascoste queste queste allucinazioni tra gli oggetti del suo ambiente. Es1
Psycho-Analytic Explorations, il libro di Winnicott che contiene questo saggio, è stato tradotto in francese
da Michel Gribinski col titolo La crainte de l’effondrement et autres situations cliniques (Gallimard, Paris
2000). NdT]
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se sono incidenti di ciò che lo circonda o, per dir meglio, incidenti del suo dominio su ciò
che lo circonda.
L’attività allucinatoria attinge all’allucinazione libera del bambino e ai fenomeni meno
liberi - visioni, voci - ricordati sopra. Ora, l’attività allucinatoria è per molti aspetti vicina
all’attività transferale: condivide con essa un “sentimento” particolare, fatto allo stesso tempo di una convinzione assoluta e di un dubbio, più o meno accessibile, sulla pertinenza di
tale convinzione.
Si tratta dunque di fenomeni che trasformano la realtà in “realtà seconda”; nel novero di
questi noi collochiamo il transfert attraverso il quale, per dirla senza mezzi termini, l’uomo
riproduce ciò che gli sfugge, riproduce la perdita stessa della realtà; vale a dire che, riproducendo l’esperienza di una realtà a lui sconosciuta, scopre la propria stessa natura. Questa definizione un po’ oscura del transfert (come “ri-produrre” una realtà fino allora sconosciuta?)
e che potrebbe uscire da un racconto di Hoffrnann, bisognerebbe dirla e subito riprendersela, non conservarne se non l’intuizione. Ho bisogno che essa sia inconseguente o provvisoria, e di lasciarla trascinare nell’ambiente, di trattarla come un “Fluflù”, sotto la sedia, in segreto, prima di dirmi (di farmi dire): “tutto questo per questo”.
Il transfert mette in opera il paradosso della nostra ricerca di realtà. Vogliamo incontrare
la realtà, sicuramente, ma a modo nostro, alle nostre condizioni. Che il transfert ne riproduca la perdita e finanche la funzione della perdita, sia pure; però ci metta le forme che voglio
io, bussi alla porta all’ora convenuta, non a un’altra, e, preferibilmente con gentilezza. Non
è affatto certo che durante la seduta l’analista abbia con la realtà un rapporto più omogeneo
o meno paradossale del paziente, e il momento dell’interpretazione in seduta, quando
l’analista e il paziente fanno concordare una rappresentazione di attesa con la realtà, questo
momento, o questa esperienza vissuta, costituisce un’autentica curiosità.
Lo psicoanalista interpreta a partire dai regimi del funzionamento psichico che sono regimi di transizione in cui la distinzione tra la realtà esterna e la formazione di immagini, il
materiale psichico, non è assicurata: per esempio dei regimi del funzionamento psichico intermedi tra veglia e sonno, cosa che si può attribuire all’idea di un’attività dello spirito che
non si verifica se non ai limiti, in una via di mezzo o su una soglia, nella confusione delle
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Un fenomeno limite: il transfert
soglie. L’interpretazione psicoanalitica in seduta è un caso limite dell’attività dello spirito2.
La psicoanalisi che, come sottolinea Josef Ludin [2003], riconosce un altro paradigma rispetto a quello dell’arte o della scienza, la psicoanalisi come paradigma a parte del sapere
può essere vista, per così dire concretamente, nel tempo psichico dell’interpretazione.
La via stretta, il punto di vista monoideistico e microscopico: la strettezza della via e la
reiterazione dello stesso punto di vista, ripreso senza posa eventualmente sotto forme differenti, non sono altro che un modo un po’ formale di lavorare: descrivono anche
un’“esperienza cumulativa” (l’espressione è di Masud Khan che la usa in un altro contesto).
La cura e la sua esperienza progrediscono in questo modo: per impilamento, accumulazione,
sedimentazione, di vuoti eventualmente, difetti di parola, interdizioni di pensiero, e poi viene… che cosa? Non ancora un pensiero, ma qualcosa che si avvicina già di più a
un’immagine: una percezione interna, un’autopercezione che è diversa dalla somma
dell’insieme delle esperienze cumulate3. Poi un giorno, qualcosa che era già lì da prima comincia a insistere con una delle sue qualità, con uno dei suoi aspetti. Questa descrizione non
è necessariamente positiva: la la qualità può essere un “difetto” e l’aspetto una fuga
dall’“oggetto”. È indubbiamente più esatto dire che ciò che insiste lo fa a causa
dell’incontro di una qualità e di un’espressione verbale, senza che si sappia bene il perché. E
qui, di nuovo, incontro non è un termine soddisfacente: può anche trattarsi di una percezione
che si dà alla fuga nel linguaggio e vi si dilegua.
Un’esperienza cumulativa del transfert procura dunque improvvisamente la sensazione
che ci sia Il, sotto i nostri occhi, un’evidenza. La si sarebbe potuta vedere dal “principio”,
d’altro canto la si è vista, ma le mancava uno statuto e un’innervazione. Ciò che si acquisi2
E porta l’identità dell’analista proprio fuori dai suoi limiti. Michel de M’Uzan (1994) è stato il primo a dar-
ci una descrizione metapsicologica di questi avvenimenti ontologici e irragionevoli dell’interpretazione, con
i loro “pensieri strani”. Il va e vieni tra questo lasciare e riprendere l’identità nel momento
dell’interpretazione è presente in Winnicott, e prima di lui è percepibile in Freud, presso il quale occupa inoltre i momenti dell’invenzione della teoria.
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Si veda al proposito Petrella (2003).
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sce cumulativamente è l’innervazione della percezione: la cosa percepita resta la stessa “questo l’ho sempre visto, sempre percepito, lo sapevo già”, può dirsi l’analista, che, spesso, piuttosto che dirsi che lo sapeva già preferisce tacere (e mi sembra sia un peccato, di solito, per la cura) - ma lo statuto della cosa già saputa si mette a cambiare perché essa entra in
un pensiero diverso e diversamente libidinizzato (questo vuol dire la metafora desueta e non
molto chiara dell’“innervazione”); la cosa entra in un pensiero la cui espressione verbale è
presa essa stessa nel transfert e nell’importanza delle parole di un altro.
Perché l’espressione verbale che viene incontro a (o che facilita la fuga da)
un’esperienza clinica e la trasforma in un pensiero nuovo è fatta di parole che qualcuno ha
già pensato, detto o scritto, parole che erano già lì, ben più delle parole trovate da sé, o anche delle parole del paziente, Quell’espressione era nel giornale, nel libro di un collega, letto e riletto, in una conversazione di salotto, e conosciamo bene il celebre esempio della conclusione di una frase di Charcot pronunciata durante una riunione mondana, quel: “In casi
simili, la questione è genitale sempre, sempre, sempre” colta al volo da un Freud che scopre
così ciò che sapeva, stupefatto che l’altro lo sappia ma non lo dica se non di sfuggita.
Un’autopercezione innervata attraverso le parole e la vita di un altro, è un paradosso
comune: per sapere ciò che, confusamente, vedevo già, ho il serbatoio dei libri e delle amicizie e, talvolta, delle inimicizie (è un’ironia notevole quella che fa trovare aiuto nel pensiero o nello scritto di chi consideriamo poco raccomandabile). Ciò non toglie che in seduta
non si sappia troppo bene che cosa entra, Si sa che è lì. Forma vaga che ha corpo, ma non
età, struttura atemporale dallo svolgimento temporale complicato. Fantasma. E il fatto che la
psicoanalisi abbia subito cominciato a scrivere la sua storia ha in questo, senza dubbio, la
sua causa più concreta. La scrittura immediata della propria storia da parte della psicoanalisi
risponde al bisogno di elaborare la temporalità del tutto inaudita del transfert, presa tra ciò
che c’era già e ciò che non diventa attivo se non attraverso un fenomeno di après-coup. La
scrittura immediata della propria storia fatta dalla psicoanalisi è animata, o messa in scena,
dal paradosso temporale del transfert. Per questo il racconto storico e presto il romanzo sto-
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Un fenomeno limite: il transfert
rico della psicoanalisi (non ben separato dal racconto di una faccenda di famiglia4) racchiude tanta tensione; la Darstellung freudiana, la rappresentazione positiva e figurata di una situazione concettuale, deve a delle temporalità incompatibili la sua maniera attiva di presentare, la sua presentazione in atto; la “presenza” non è lontana, agisce sul lettore, soprattutto
se del mestiere, con una forza di convinzione tale che egli più di una volta è tentato di confondere la storia e la verità: mentre il progetto era la scrittura della storia e la ricerca della
verità. E poiché la storicità freudiana possiede una dimensione programmatica, la confusione può contribuire a fabbricare dei pensieri fideistici. Non è lontano il passaggio dal programma alla propaganda.
“Lo si sapeva già”. Qui ci si domanda: si sapeva che cosa? Il lavoro di Freud (1912) sulla dinamica del transfert mostra che ciò che cerca di riprodursi nel transfert lo fa per sfuggire al già saputo, per sfuggire alla rimemorazione. È un’effervescenza di agiti. C’è un “risveglio”, Erweckung, risveglio in atto, nel senso di resuscitare: ri-eccitazione o reinnervazione, reincarnazione. C’è un risveglio di movimenti, o di “mozioni”5 (“motion” è la
traduzione francese ammessa per Regung) inconsce. Una traduzione del termine tedesco
Regung con “émoi”, (emozione) darebbe ragione a Josef Ludin [2003] quando afferma che
il transfert non ha per oggetto che gli affetti. E queste mozioni cercano di riprodursi senza
tenere alcun conto della situazione reale. Ma i prodotti del risveglio delle sue mozioni inconsce hanno per il paziente un carattere attuale e reale. Questi prodotti hanno la realtà di
un’allucinazione.
4
Questo mi ricorda un’osservazione di Adam Phillips: gli psicoanalisti si battono per le loro teorie come se
si trattasse dei loro genitori; e si sa quanto un figlio sia propenso a prendere le difese soprattutto del genitore
“cattivo”.
5
[Il traduttore italiano di Laplanche e Pontalis (1967), com’è noto, per Regung propone “moto” (si veda la
voce “moto pulsionale”). Noi conserviamo qui motion e la traduciamo con mozione nel tentativo di conservare entrambe le accezioni del termine: quella di movimento (sebbene ormai rara nella nostra lingua) e quella di atto inteso a promuovere la deliberazione di un’assemblea. NdT]
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Un fenomeno limite: il transfert
Edmundo Gómez Mango cita spesso un passaggio dei Viaggi di Gulliver in cui un professore di lingua ha inventato l’abolizione delle parole e ha creato un linguaggio di cose.
Così gli incontri dovevano essere “comunicazioni di gruppi di oggetti” ... Swift scrive che
ogni parola che diciamo ci accorcia la vita corrodendoci i polmoni, e perciò col “linguaggio
delle cose” la salute guadagnerebbe quanto la concisione. Il transfert: non so se prolunghi le
nostre vite. Sì, sicuramente, in certe cure, quando certe volte non c’è più che il transfert e il
suo accanimento a mantenere la vita dello spirito e talora quella del paziente, e anche il movimento psichico dell’analista. Ma che risparmi i nostri polmoni è certo il transfert non è un
linguaggio di parole, né di cose o di oggetti, ma di atti. Come sottolinea Freud il paziente
non dice il transfert, il transfert è un agire. Il transfert è un atto con le sue intenzioni, le sue
manovre, i suoi effetti, che, non potendo essere detto con le parole, dev’essere indovinato6.
La traduzione di Regung con motion va in questa direzione, è vicina all’idea di movimento dove si riconosce già il cominciare dell’atto. Il termine di motion è stato proposto dal
Vocabulaire de la psychanalys7 in riferimento al suo uso in psicologia morale. Ma il Littré
ne dà anche un secondo significato, quello figurato di “proposta fatta in un’assemblea deliberante da uno dei suoi membri”. È una scena vivace e familiare: una elaborazione comune
viene interrotta perché qualcuno si alza e presenta una proposta e, per un certo tempo, non si
potrà più pensare che a quello, non si parlerà che di quello. Una mozione può rallentare un
movimento fino a paralizzarlo. Il transfert è anche resistenza e ostacolo al movimento.
Occorre notare che la traduzione di Regung con motion è datata, sebbene il termine sia
stato conservato da Laplanche nell’impresa di tradurre le opere complete di Freud; “datata”,
come nella temporalità analitica, non significa “sorpassata”. Oggi si stenta a vedere che il
Vocabulaire de la psychanalyse è stata un’opera polemica. La sua prima pubblicazione è del
1967, fu dunque messo in cantiere contemporaneamente al declino dell’ascendente delle parole di Lacan. Far sì che le parole di Freud si aprano alla discussione fa parte della polemica
6
6 Sul problema a lungo ignorato e tanto poco scientifico, nel senso che interessa Ludin, della necessità di
indovinare il transfert e l’inconscio del paziente, si veda Vassalli (2002).
7
7 [Poiché si sta parlando della appropriatezza delle traduzioni conserviamo nel testo il titolo originario
dell’opera di Laplanche e Pontalis, che in italiano è diventato Enciclopedia della psicoanalisi. NdT]
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Un fenomeno limite: il transfert
divenuta possibile, per l’appunto, sul filo di una comprensione di quel che era la natura del
transfert.
La polemica riguardava anche le traduzioni esistenti, spesso ‘lenitive”, non ancora criticate. Regung, nella traduzione di Anne Berman del saggio di Freud sulla dinamica del transfert, è émoi (emozione), con il problema, e le relative conseguenze sulla pratica della cura,
dell’idea di un’“emozione inconscia”. Il registro era direttamente quello degli affetti e
dell’Ego (“Parle-moi d’moi, y a qu’ça qui m’cause d’l’émoi”8 cantavano in coro Jeanne
Moreau e Guy Béart...). Ma, si legge nel Vocabulaire, a differenza della pulsione, la “mozione pulsionale [il moto pulsionale] è la pulsione in atto, considerata nel momento in cui
una modificazione organica la mette in movimento”. Regung, motion, comporta il senso di
avvio di un atto interno: e dopotutto, per contraddire al mio proposito, questa potrebbe essere in verità la definizione prosaica del bella parola émoi (emozione) ...
Ma il titolo dell’articolo di Freud “Dinamica della traslazione” - dinamica: si tratta di
movimenti sottoposti a delle forze - non è uno studio dell’emozione né del movimento
dell’affetto. Sicuramente vi è una lotta tra il medico e il paziente, e senza dubbio essi non
sono di marmo, ma la lotta è tra intelletto e forze pulsionali, e tra Erkennen e Agierenwollen: tra discernere, individuare o riconoscere ciò che è in causa, e voler agire, desiderare di
agire, averne l’intenzione, proporlo, chiederlo, esigerlo. Si ha la sensazione che il dizionario
dispieghi per il termine Agierenwollen tutto il senso che esso prende nelle situazioni cliniche. Strachey, nell’introduzione al saggio di Freud, nota che egli ha incluso il testo nei suoi
scritti sulla tecnica9, ma che in realtà si tratta ben poco di tecnica: il saggio è piuttosto uno
studio teorico del transfert in quanto fenomeno. Di fatto, una notazione tecnica compare soltanto verso la fine del testo: “Non si può negare che l’assoggettamento (Bezwingung) del fenomeno del transfert metta lo psicoanalista di fronte alle più grandi difficoltà” 10. Notiamo
8
[“Parlami di me, non c’è che questo che mi dà emozione”. NdT]
9
[Per le medesime informazioni sulle successive edizioni di questi scritti si veda in OSF, 6, l’Avvertenza edi-
toriale che precede Tecnica della psicoanalisi (1911-1912). NdT]
10
[In OSF, 6, la frase è tradotta cosi: “È innegabile che il controllo dei fenomeni di traslazione crea allo psi-
coanalista le maggiori difficoltà” (Freud 1912, 531). NdT]
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Un fenomeno limite: il transfert
di passaggio che la sottomissione o l’assoggettamento del fenomeno del transfert (del transfert, non della persona del paziente! Ancorché... ) si interseca qui con la sola indicazione
tecnica che Freud darà al soggetto del controtransfert: ossia che bisogna riconoscerlo (erkennen) in se stessi e padroneggiarlo (bewältigen).
Nella traduzione francese La technique psychanalytique di Anne Barman, la frase aveva
perduto, in qualche modo, la sua motion: “Ammettiamo che niente è più difficile in analisi
che vincere le resistenze”. E poi? Vale la pena ricordare questa traduzione antica e immobile, dove non è messo in movimento nessun atto interno? La “polemica”, la guerra delle parole, che aveva un senso negli anni 1960-1970, è ancora la nostra? Che cosa trasferiamo sulle parole, che cosa domandiamo loro? Di mettere un freno all’immaginario, quando si tratta
di stare attenti a non inventare ciò che ha detto Freud. Ma se invece dovessimo proprio inventare, e non miseramente, quello che lui ha detto? E per prima cosa inventare noi stessi.
*
Il transfert è un atto amoroso: è là che ci si inventa (questa dichiarazione mi era parsa
giusta e bella quando l’ho scritta; abbastanza in fretta mi è suonata vuota: la sua forza è
quella del fantasma). Nella storia subito scritta dell’analisi, e fino, diciamo, alla prima guerra mondiale, transfert vuol dire amore. Nella prima lezione di Introduzione alla psicoanalisi11, dedicata al transfert, non si tratta di niente altro, e Il delirio e i sogni nella “Gradiva”
di W. Jensen è una costruzione esemplare della vita amorosa, fatta di allucinazioni e dei loro
inseguimenti folli alla ricerca della forma che possa riempire il taglio della realtà allucinato
dall’eroe. Fino a ciò cui porta l’amore medico, l’amore medico o più esattamente l’amore
interprete (per non parlare della mania interpretante, l’erotomania di Zoe-Gradiva).
Transfert, all’epoca della giovane psicoanalisi, vuol dire amore, e controtransfert vuol
dire padroneggiare quello che l’amore vuole da te, o vuole farti fare. La “Dinamica della
traslazione” è un’osservazione dei movimenti e delle forze della vita amorosa. Ogni individuo ha un modo personale di vivere la propria vita amorosa, scrive Freud in quest’opera, ha
11
[In OSF, 8, 1915-17, 199-207. NdT]
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Un fenomeno limite: il transfert
delle mozioni amorose (Liebesregungen) che gli sono proprie. Non sono le mozioni amorose ad essere trasferite, ma i “prodotti del loro risveglio” (erano dunque addormentate). I
prodotti, non gli affetti. I prodotti o, secondo il significato di Ergebnis, i risultati, le conseguenze, l’esito, il frutto, l’effetto: va bene tutto ciò che indica che non è l’emozione, e
nemmeno la mozione, a venir trasferita, ma la sua conseguenza, e la sua conseguenza seconda perché il risveglio è un tempo dell’après-coup. L’après coup è un ingrediente della
natura del transfert e della natura umana. Le mozioni amorose si risvegliano (non siamo lontani dalle fiabe) e, con esse, le loro conseguenze da allora trasferite, e senza dubbio è il che
si risvegliano anche i guai.
Il risveglio non avviene in piena luce, il campo è totalmente inadeguato, vi è errore sulla
temporalità, errore sulle qualità dell’oggetto, errore sulla soddisfazione attesa. Tre inadeguatezze: ce n’è più che a sufficienza, e si può supporre che un Ersatz (sostituto) si sia insinuato
tra le conseguenze addormentate delle mozioni amorose e il loro risveglio nel transfert.
Le mozioni amorose nell’infanzia, ben sveglie - più che sveglie: presenti all’eccitazione
delle cose - hanno incontrato un ostacolo al quale il bambino pone rimedio come può, dando
loro uno sbocco, una soluzione non sempre felice: si sa che la paralisi del pensiero, o il godimento masochistico, o la malattia organica possono essere delle “soluzioni”, per non parlare della nevrosi. Queste soluzioni complesse sono i prodotti trasferiti. Ma esse non sono le
sole a contribuire al modo personale in cui ciascuno, in amore, vive la sua vita. Vi è anche
la predisposizione congenita o innata.
Freud dedica una sorprendente nota a piè di pagina, fin dalle prime righe della “Dinamica della traslazione”, alla discussione del ruolo relativo che le soluzioni adottate dall’antico
bambino diventato adulto hanno negli accidenti della sua vita amorosa, e alla discussione di
ciò contro cui l’individuo non può nulla, ossia la sua inscrizione in una genealogia in cui
l’amore si è fatto, senza di lui. Bisogna vedere concretamente questa nota, con i propri occhi. Due volte più lunga del testo della pagina, non è una nota aggiunta, è presente fin dalla
prima edizione e costituisce il vero inizio dell’articolo: è un brusco riferimento al lamarckismo e alla filogenesi. L’inscrizione in una genealogia, le disposizioni innate, la “costituzione”: ecco il daímon, ossia, invero, la natura dell’amore. I fattori infantili, accidentali: ecco il
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Un fenomeno limite: il transfert
destino, tuche, e la sua esperienza vissuta. Due serie di fattori che Freud invita a considerare
insieme, in attesa che i loro rispettivi ruoli siano chiaramente stabiliti; ma egli stesso poi
non aspetta che si delinei un loro ruolo separato, per scrivere che “dopo tutto, ci si potrebbe
avventurare a considerare la costituzione stessa come un precipitato di tutti gli effetti accidentali prodottisi nella catena senza fine dei nostri antenati”12.
Quando negli scritti di Freud si parla di filogenesi, ognuno legge ciò che vuole, come
vuole. Si va dal rifiuto puro e semplice di un’eredità preistorica dell’inconscio fino all’uso
della filogenesi come di una metafora. Noi leggiamo che il daímon del transfert cela un sapere-limite sulla natura umana, trascinando con sé la “catena infinita dei nostri antenati” non
meno che le tracce del destino individuale. Vi è in ciò un sovvertimento della nozione di destino, uno spostamento della sua rappresentazione abituale, di modo che, per esempio nel
mito edipico, non è facile dire quale sia in verità la forza attiva e tragica. Il vero eroe del mito edipico, è il daímon, è la túche? Oppure l’isteria, perché c’è, in questa descrizione, una
dinamica isterica dell’amore, una dinamica della conversione (del precipitato) di ciò che è
accidentale (túche) in ciò che è naturale (daímon).
Il lettore che ha percorso questo lungo ed avventuroso occhiello di fondo pagina e che,
con un po’ di vertigine, ritorna alla pagina appena cominciata e alla sua lettura, riprende il
cammino col presupposto più sconcertante: una parte della vita amorosa - una parte delle
mozioni pulsionali - è tenuta lontana dalla realtà come dalla coscienza. È questa parte amorosa, crediamo, che riproduce un transfert che, in effetti, perdendo la realtà, perde la coscienza o la testa e, secondo la formulazione freudiana, allora, “passa la misura”.
La perdita della realtà permette di descrivere la nevrosi. Questa descrizione non è tanto
comune, anzi il più delle volte è assente dalle nostre abitudini di pensiero. In effetti è la psicosi che tendiamo a descrivere sotto questa angolazione. Ma forse converrebbe considerare
la psicosi nel suo rapporto con un eccesso di realtà, o con una realtà in qualche modo satura12
[In OSF, 6, 523, n. l: “Del resto si potrebbe azzardare l’ipotesi che la costituzione stessa sia il sedimento
degli influssi accidentali sulla serie infinitamente grande degli antenati”. NdT]
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Un fenomeno limite: il transfert
ta, una percezione della realtà che, come la carta geografica di Borges, occupa un territorio
grande quanto quello che essa percepisce; una percezione psicotica della realtà che non si
distingue da essa non potendo perderla, non potendo allucinarla negativamente.
Un’analogia con i bambini che non guardano mai la loro madre mi è stata suggerita da
Emmanuel Suchet. Non è che questi bambini ignorino la presenza materna, non è che ne
abbiano smarrito la realtà. Al contrario, la presenza materna è in eccesso per il bambino che
non può “negativizzare” la madre per poi inventarla. A causa di ciò, ossia a causa
dell’impedimento a farla sparire e riapparire o, se si vuole, a giocare al gioco del rocchetto
(il famoso gioco al quale non gioca nessun bambino ma di cui parlano tutti gli analisti), egli
guarda accanto a lei, la mette fuori campo. Allo stesso modo nel transfert bisogna poter negativizzare la presenza dell’analista per allucinarla. Un paziente che non potesse allucinare
il suo analista sarebbe nell’impossibilità per così dire materiale di fare un transfert.
Sarebbe opportuno a questo punto rileggere il saggio di Freud del 1924 su “La perdita di
realtà nella nevrosi e nella psicosi”, e introdurre una riflessione che tenga conto della seconda topica e del ruolo dell’Es, dell’Io e della realtà esterna. È il saggio in cui Freud dice che
la nevrosi non rinnega la realtà, non fa che ignorarla. E che inoltre si accontenta di solito di
evitare il frammento di realtà in questione, si protegge da ogni contatto con esso. Questo testo sfocia nella questione dei sostituti della realtà. La Realitätsersatz: un crocevia dove
s’incontrano il feticismo e la scissione dell’Io, e la costruzione regressiva di una realtà del
passato che sarebbe più soddisfacente. Con una teoria della formazione del ricordo che non
è più esattamente la stessa di quella del ricordo di copertura, dell’amnesia infantile e della
rimemorazione: una teoria dell’arresto del ricordo, che sarà richiamata nell’articolo sul feticismo per spiegare la scelta di quel sostituto che è l’oggetto feticcio. Ciò che è trattenuto dal
ricordo non è, in questo caso, un sostituto dell’avvenimento traumatizzante, è qualcosa che
precede tale avvenimento, di modo che il ricordo non “risale” lungo la gamba dalla punta
delle dita del piede fino all’assenza del pene, ma si arresta, nel corso della risalita, per
esempio alla scarpa o alla giarrettiera. Si è all’interno di una logica limite, una logica della
soglia, intermedia tra la logica della rimozione nevrotica e quella di un’incapacità psicotica
a simbolizzare. Il feticista è un antico distratto, che è rimasto tale; la sua perdita di realtà as-
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somiglia a una distrazione lungo la via. Il transfert, in rapporto a una memoria che feticizza i
suoi oggetti, riproduce sia la distrazione sia la via percorsa.
E ugualmente: qual è la realtà che l’Ersatz rimpiazza? Ciò che è sostituito dall’Ersatz si
avvicina molto a quello che Winnicott, nel saggio “La paura del crollo”, ha chiamato
“l’impensabile stato di cose sottostante all’organizzazione di una difesa”13. Certo la distinzione tra nevrosi e psicosi è netta: ciò che alberga dietro le difese, nella nevrosi, è l’angoscia
di castrazione; nella psicosi, è un crollo dell’unità del Self. Ma se si considera l’intuizione
centrale di questo studio, viene una grande voglia di impadronirsene (a dispetto del fatto che
Winnicott si riferisce alle psicosi) e di accostare tra loro il transfert descritto da Freud e la
“verità di tipo bizzarro” di Winnicott. Un avvenimento ha avuto luogo, ma non ha avuto
luogo in me. Il transfert riproduce ciò che non ha avuto luogo. “Il solo modo di ricordare è
che il paziente faccia per la prima volta, nel presente, ossia nel transfert, l’esperienza di questa cosa passata”, scrive Winnicott.
Si tratterà dunque di una prima volta, e questa prima volta farà dell’esperienza del transfert un avvenimento reale. Si è tentati di dire il solo avvenimento reale. L’avvenimento reale: l’esempio fin troppo noto è quello del fuoco che incendia il teatro, nell’amore di transfert, in realtà non nell’amore di transfert ma nella passione di transfert, e non nella passione
di transfert, ma nella passione del transfert, nel transfert inteso come passione agita. Paradosso: il transfert riproduce una perdita di realtà ma, nell’esperienza del transfert, una realtà
(la stessa? In ogni caso non del tutto un’altra) trova per la prima volta il suo luogo. Il transfert, questa concezione del transfert, ha qualcosa di esorbitante.
I pazienti lo sanno, e se ne difendono: non è la vera vita, dicono, non è la vita reale. La
vera vita, in effetti, è altrove. Ma la qualità, lo spessore di realtà cui l’esperienza del transfert dà luogo non ha equivalenti. Quanto bisogna riconoscere ed accogliere dei fraintendimenti, delle confusioni, dei disordini, quanto bisogna esplorare delle percezioni allucinate
per accedere all’altrove più vero della vita, per essere capaci di invenzione, per scoprire
l’oggetto esterno, tanto più enigmatico e difficile e ricco dell’“oggetto interno”; e per uscir13
[cfr. Winnicott 1963, p. 106. NdT]
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ne! Giacché tale è effettivamente la natura aspra, tumultuosa del transfert e della sua esperienza. E non ci toglieremo dalla testa che l’interpretazione del transfert, che è
l’interpretazione dell’esperienza che ne fanno insieme l’analista ed il suo paziente, è contro
natura, assolutamente trasgressiva, forse la sola capace, ancora una volta, di inventare, di fare apparire l’avvenimento dietro l’incidente. Qui l’avvenimento è l’amore che va al di fuori
(pochissimo per Gradiva), l’amore senza transfert. Si scopre la realtà e con essa non che vi è
“dell’altro”, ma che vi è dell’altro nell’altro e che, senza una meta a priori (giacché questo
non è indirizzato a me, io non ci sono, non particolarmente, non più di tanto), ciò fabbrica
quello che Giona chiama la “rotondità dei giorni”, per chi accetta che “i giorni comincino e
finiscano in un’ora torbida della notte” e non nell’istante in cui ci si risveglia o ci si addormenta. L’allucinazione, il transfert allucinato ha la forma lunga, questa “forma delle cose
che vanno verso una meta: la freccia, la strada, la corsa dell’uomo”. Ma la realtà è tonda,
quando si giunge ad averne coscienza.
Infatti, molto presto, non si sa più granché, e non solo a causa del ricorso qui un po’
abusivo alle immagini. La realtà senza direzioni, tutta tonda, è forse banalmente la rappresentazione di un diniego della castrazione, abilmente collocata là dove nulla le impedisce di
essere attiva. Oppure è vero il contrario: il transfert istituendo incessantemente una meta ci
situa al centro della mira supposta della realtà, nega che la realtà non si cura di essere teorizzata, è indifferente al nostro bisogno di dominio, ed è relativamente più eterna di noi.
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Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.
WINNICOTT, D.W. (1963) La paura del crollo. Ibidem.
MICHEL GRIBINSKI
38, rue de Turenne
75003 Paris
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Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
ORAZIO COSTANTINO
Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
Il termine “costruzione”, introdotto da Freud nel 1937, aveva in origine il significato di
una ipotesi o di una elaborazione, a partire dalle associazioni libere del paziente, destinata a
ricostituire, nei suoi aspetti reali e fantasmatici, una parte della sua storia remota (J. Laplanche e J.-B. Pontalis 1967), nel convincimento che tutti i ricordi devono essere rievocati con
l’eliminazione dell’amnesia infantile, essendo lo scopo dell’analisi chiarire i conflitti del paziente rendendo conscio l’inconscio. La “costruzione” veniva comunque concepita come più
distante dal materiale di quanto non lo fosse l’interpretazione.
Fine della costruzione doveva quindi essere la rievocazione del ricordo infantile. Talora,
però, al posto del ricordo il paziente realizzava un sicuro convincimento della verità della
costruzione e in questo senso essa da un punto di vista terapeutico aveva per Freud (1937) lo
stesso effetto di un ricordo recuperato.
La posizione dell’analista rimaneva esterna alle tensioni di origine pulsionale che si evidenziavano attraverso lo spostamento di esperienze passate (transfert), mentre le resistenze
ed il controtransfert che insorgevano per i conflitti nevrotici irrisolti nell’analista venivano
considerate delle interferenze e come tali trattate. Nell’opera di Freud si trovano, però, delle
indicazioni che suggeriscono un uso più estensivo della costruzione da destinare ad una organizzazione del materiale inconscio del paziente, al di là, quindi, di un uso quasi strettamente tecnico, finalizzato solo alla rievocazione dei ricordi. Freud, ad esempio, ne parla in
questo senso negli Studi sull’isteria (1892 -1895), laddove descrive il compito dello psicoterapeuta come finalizzato ad una ricomposizione dell’organizzazione del materiale patogeno
inconscio del paziente, pluristratificato ed inaccessibile alla coscienza ove arriva “come tagliato a pezzi o in nastri”. In questa direzione la costruzione “evoca tutto il problema delle
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
strutture inconsce e della loro ristrutturazione attraverso la cura” (J. Laplanche e J.-B. Pontalis 1964).
Mentre nelle nevrosi si tratta solo di eliminare le resistenze affinché il materiale psichico
patogeno pervenga a livello di coscienza, nella schizofrenia il terapeuta si trova ad affrontare un quadro patologico completamente diverso, immediatamente legato ad una frammentazione degli organi di senso, alla loro disseminazione proiettiva e alla perdita del loro collegamento con l’apparato di coscienza: meccanismi, questi, che il paziente mette in atto proprio per sfuggire ad una realtà interna ed esterna ed al carico emozionale che la percezione
di esse comporta. In tale contesto diventa difficile individuare le fantasie originarie che indussero il paziente a porre in essere meccanismi difensivi così destrutturanti, fantasie però
che ad un attento esame potremo individuare come nuclei di quella verità nascosta dietro le
deformazioni, che è rilevabile anche all’interno dell’organizzazione delirante del paziente.
Ogni tentativo del terapeuta di comunicare al paziente la sua “verità” rimarrebbe, però, vano
se non tosse preceduto da un trattamento psicoterapeutico mirato a restaurare nel Sé le parti
perdute e ad accrescere l’integrazione psichica attraverso l’attivazione nel paziente di un
processo per il quale gli elementi parziali possano combinarsi in un intero. Il paziente
nell’esperienza che vive col terapeuta avrebbe così la possibilità di introiettare un modello
di integrazione dei suoi impulsi e dell’Io, sperimentando nella relazione quella funzione integrante e differenziante di cui egli è personalmente carente.
In questa ottica e per questo tipo di pazienti, la figura del terapeuta acquista pertanto un
importante rilievo, dal momento che si offre come un modello di funzionamento corporeo e
mentale in tutti quegli eventi che inevitabilmente si vengono a creare nell’interazione fra il
paziente e l’analista; al punto che egli, come sostengono Greenberg e Mitchell (1983, 384402) “non può mai agire ‘al di fuori’ del transfert ... qualunque cosa (infatti) egli faccia si
colloca nell’ambito del transfert, sia che reagisca sia che non reagisca al comportamento del
paziente”. Secondo questa concezione psicoanalitica di campo condiviso col paziente, il terapeuta “farebbe avvertire l’infinito, l’inconscio, il vuoto di identità e l’assenza di direzione
del pensiero del paziente, come un’area condivisa con lui, formata da infiniti elementi, non
immediatamente percepibili ma presenti e costituiti da tracce di memorie sensoriali e verbali
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Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
o ancora da elementi ignoti, in attesa di essere evocati, individuati e chiamati per nome,
nonché utilizzati per strutturare le differenze reciproche, una identità in divenire e mai data
come immodificabile” (Costantino 1999). Il processo di costruzione opererebbe a partire da
questi elementi e sarebbe sempre più caratterizzato dalle aggregazioni piuttosto che dalle
scissioni. Il rapporto terapeutico così configurato soddisferebbe un’esigenza primaria del
paziente grave, la cui patologia è caratterizzata proprio dall’essere il residuo di vuoti, carenze ed arresti evolutivi, a differenza di quella psicopatologia che è il prodotto di una conflittualità intrapsichica (Storolow e Lachmann cit. in Greenberg 1983) e che trova invece giovamento dall’uso dell’interpretazione. Per questi motivi la costruzione più che le interpretazioni si costituirebbe per il paziente come un esempio di esperienza integrativa, e la complessa opera costruttiva e riorganizzativa della sua psiche, mediante la quale egli può raggiungere sufficienti livelli di pensabilità sul suo mondo interno, si configurerà alla fine come una funzione costruttivo-simbolica peculiare del processo psicoterapeutico.
Se gli sviluppi del pensiero psicoanalitico sono stati notevoli rispetto al pensiero di
Freud, altrettanto produttiva è stata dal suo canto la riflessione psichiatrica a orientamento
analitico nella ricerca di un modello comprensivo dei disturbi schizofrenici. Ne è derivato
che lo stesso concetto di schizofrenia si è molto modificato nel tempo, al punto che oggi si
tende a considerarla più come un complesso molto variegato di patologie che una malattia
definita: una sindrome, cioè, entro cui confluiscono diverse entità morbose distinte, che secondo alcuni autori (si veda Feinsilver 1986) richiedono soluzioni di trattamento diverse.
Considerando poi il continuo cambiamento del tipo di patologia, nel senso della gravità, per
il quale viene richiesto il trattamento psicoterapeutico, ed anche il frequente riscontro nella
pratica clinica di soggetti affetti da tratti schizofrenici di personalità rispetto ai casi di psicosi schizofrenica conclamata, penso che una riflessione sugli aspetti più propriamente tecnici
del trattamento possa essere utile specialmente in riferimento al modello di rapporto cui
prima ho fatto cenno e che prevede una attiva partecipazione del terapeuta alla problematica
psicotica e l’invenzione di soluzioni immaginative e costruttive ai problemi della pratica
clinica.
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Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
È una tematica che svilupperò in seguito nella prospettiva di un funzionamento della
mente in senso creativo. Sotto questo aspetto penso ai luoghi costrittivi e segreganti del paziente come a vere e proprie prigioni della fantasia, erette per tenere a bada i suoi fantasmi
persecutori e con essi anche i nostri allorché come terapeuti ci impediamo l’accesso agli
spazi del gioco e della fantasia. Penso alla storia dello schizofrenico come a quella di un
bambino che non è mai riuscito a credere nelle favole e che non è mai stato capace di giocare; e penso ancora a lui come ad un individuo da sempre considerato un oggetto Iudica o
comunque da manipolare e non come un soggetto pensante. Un lavoro che abbia come suo
oggetto di studio la schizofrenia potrebbe correre il rischio di rientrare in questi schemi oggettivanti, dunque per meglio esprimere, viceversa, la partecipazione soggettiva al tema, ho
cercato il più possibile di rendere in queste note quella tensione di ricerca che anima il terapeuta nel tentare di individuare i meccanismi primitivi del funzionamento mentale e l’area
di piacere che si è venuta organizzando intorno ad essi, nonché le modalità di separazione
contrastate dall’angoscia altrettanto primitiva connessa alla sua perdita. Tento di descrivere
come a questo sforzo di ricerca non sfugga l’indagine sulla propria dimensione intrapsichica, dimensione che acquista, così, il significato di uno spazio condiviso col paziente.
Qualora lo sforzo posto in atto dal terapeuta nella risoluzione della propria conflittualità
primitiva sia efficace, assisteremo all’apertura di nuovi spazi per il pensiero dello schizofrenico, che scoprirà così l’area del gioco e della dimensione simbolica del pensiero nello spazio analitico che egli utilizzerà in tal senso.
“Nel tempo si è dunque modificato il campo di osservazione dello scenario analitico, dice Riolo (1982), - non più il funzionamento mentale considerato fine a se stesso, ma
l’intimo operare di due fantasie di due persone, il paziente e l’analista insieme, e quello alla
luce di questo”. In tal modo si fa riferimento al funzionamento di una “mente di coppia”,
così come si fa riferimento ad una “memoria analitica” e non solamente alla memoria del
paziente: memoria analitica caratterizzata dall’accumulo di esperienze, vissute sempre dalla
coppia, dall’impronta di una risignificazione e di una discriminazione fra quanto il paziente
attualizza delle sue esperienze passate nella relazione ed il presente terapeutico rispetto al
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Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
quale esse acquistano la configurazione del ricordo. Tale costruzione deriva dal procedere e
dall’intrecciarsi delle fantasie della coppia, quelle del paziente e quelle del terapeuta, che
utilizzano entrambi gli elementi percettivi ed emozionali del campo analitico, l’uno per trasferirvi il suo passato e l’altro per organizzare il suo pensiero onirico di veglia, come dice
Ferro (1998), su di esso.
Questa modalità di funzionamento mentale nella coppia terapeutica non è diventata,
quindi, solo un’esigenza tecnica che si è andata sempre più imponendo nel tempo come requisito essenziale perché la relazione psicoterapeutica possa andare a buon fine, ma è stata
individuata come un bisogno fondamentale determinante il costituirsi proprio della coppia.
Sotto questo profilo andrebbe rivisto quanto descrive Searles (1965) circa i tentativi che
il paziente schizofrenico mette in opera per fare impazzire l’altro. Egli ne ha parlato nei
termini di chi tende a rendere schizofrenico l’altro provocando in lui dei conflitti emotivi attraverso l’attivazione di settori della sua personalità in opposizione tra di loro senza che
questi possano né separarsi né incontrarsi, come si verifica, appunto, nel paradosso. Alla
realizzazione di questa affinità mentale concorrono sia le identificazioni proiettive del paziente che l’attivazione, sempre ad opera del paziente, di quello stato di affinità che accomuna il terapeuta a lui che sappiamo essere determinante sia nella presa in carico sia nella
stessa prosecuzione del trattamento. In fondo, così facendo, il paziente fa in modo che il terapeuta assuma come proprie le sue difficoltà perché gli vengano prospettati percorsi mentali diversi da quelli da lui precedentemente abbracciati, percorsi che il terapeuta dovrebbe
sentirsi disponibile a suggerire anche quando la paradossalità delle circostanze dà il senso
dell’inutilità di una simile ricerca.
Le difficoltà del paziente si riferiscono, se vogliamo, ad una sua ricerca infruttuosa per
stabilire una dialettica interna fra le sue opposte tendenze mai ricomposta in modo soddisfacente perché mai supportata da un confronto a sua volta dialettico e specifico di una relazione di coppia che sia improntata sempre alla dualità a partire da una condizione di base indifferenziata sul piano emozionale.
Il terapeuta nel suo contatto mentale ed emozionale col paziente, nel recepire il suo bisogno di “sconfinare” oltre ogni limite perché tutto diventi omogeneo, sente di essere invaso
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da sensazioni inabituali, talora anche da un vuoto concettuale ed emozionale, quasi fosse
immobilizzato nella mente e nel corpo. Può avvertire un senso di vero o viceversa di inverosimiglianza circa i racconti del paziente, che a volte sembrano essere tanto conformi al vero
da rendere credibili anche fatti non avvenuti, come può, ad esempio, succedere con i suoi ricordi infantili; o, al contrario, il terapeuta può scambiare per immaginarie delle realtà effettive, come può succedere, ad esempio, per alcune dinamiche familiari ritenute irrealistiche
per la loro paradossalità. Egli, quindi, può rimanere molto perplesso circa la falsità o la verità degli elementi in causa e quindi la loro aderenza o meno alla realtà, e allo stesso tempo
dubitare anche del significato da attribuire a quanto comunemente si indica come realtà, o a
quanto si indica come verità per la sua qualità di concordanza o aderenza ad essa.
Anche lo stesso paziente, da parte sua, vive analoghe perplessità o confusioni vere e
proprie; a volte mette in guardia rispetto a se stesso il terapeuta avvertendolo di non prendere per vero quanto lui stesso dice presentandolo come tale. In tali circostanze si sono di fatto
creati i presupposti per il costituirsi di una mente di coppia in quanto il “vero” rimanda per
il suo significato al “me” ed il “non-vero” al “non-me”. Si può ben comprendere come possa
essere fallimentare perseguire in questi casi un ordine di pensiero piuttosto che un altro perché ci si trova dinanzi alla paradossalità stessa della relazione psicoterapeutica, il cui fondamento è proprio costituito dalla indifferenziazione fra il “me” e il “non-me”.
Una mia paziente aveva raffigurato questa condizione in una scena nella quale due corpi
erano uniti da un’unica testa. In essa c’era l’indicazione a che si costituisse una mente comune capace di stabilire differenze e, nello stesso tempo, veniva paventato il pericolo che la
relazione venisse improntata al misconoscimento del pensiero dell’altro. In tal caso il terapeuta si sarebbe fatto concretamente carico del paziente portandoselo dietro come una propaggine fantasmatica aderente alla sua testa per quelle parti comuni che egli sarebbe stato
portato a non riconoscere come proprie.
La distinzione operata da Winnicott (1965) fra il vero ed il falso Sé trova riscontro nei
vissuti del paziente schizofrenico. Winnicott descrive la frammentazione dell’esperienza del
bambino, conseguenza di una prolungata intrusione, come una separazione fra un “vero Sé”
che si distacca e atrofizza e un “falso Sé” su base compiacente. “Falso Sé (che) assume fun-
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zioni cognitive, nella sua anticipazione degli urti ambientali e delle reazioni ad essi (col) risultato (di) un’eccessiva attività della mente e una separazione dei processi cognitivi da
qualsiasi base affettiva o somatica” (Greenberg, op. cit., 197).
Per il paziente, infatti, le sensazioni e le emozioni acquistano la valenza di un vero e
proprio criterio discriminante della sua realtà rispetto a quella esterna: sono, cioè, una garanzia della veridicità dei suoi vissuti. L’ostacolo reale che il paziente incontra
nell’utilizzazione di questo criterio è però dato dal suo fare ricorso al meccanismo difensivo
della identificazione proiettiva. L’assenza più o meno totale, infatti, della sensorialità corporea conseguente a tale identificazione è indice di un più o meno massiccio ricorso alla
proiezione di parti del Sé, mentre la sua ricomparsa, prima a macchie di leopardo e poi man
mano in modo più totale, è indice di un’efficace integrazione nel Sé delle parti prima scisse.
Sembra essere una costante nel quadro della schizofrenia che la verità o il vero Sé debba essere comunque nascosta dentro elementi che la deformano e la falsano. A questa considerazione non sfugge neanche il delirio.
Freud ha fatto riferimento nei suoi scritti, in particolare nel saggio sulle costruzioni
nell’analisi (Freud 1937), a quello che lui definisce il nucleo di verità di ogni delirio, verità
che riesce ad emergere nella coscienza solo in forma deformata, mentre il sentimento di
convinzione aderisce al sostituto deformato della verità stessa. Con Freud si comprende come il paziente falsifica la sua verità e la verità altrui esattamente percepita nell’infanzia o
nella realtà attuale e come non possa insorgere in lui un bisogno senza che questo sia accompagnato dal suo stravolgimento o addirittura dalla sua negazione radicale, così come
egli ha appreso nelle sue relazioni infantili. I dati di verità comunque falsati come un nucleo
dentro il bozzolo del suo diniego, cosa che dà un doppio significato alla parola dello schizofrenico, emergono in seguito al crollo del “falso Sé” (Semi 1988).
La memoria ha un ruolo rilevante in questi accadimenti psichici. Essa sembra conservarsi nel paziente anche in seguito agli sconvolgimenti più destrutturanti che possono colpirlo.
“Nessuno è mai riuscito ad apprezzarne il valore”, mi dice un paziente schizofrenico
portandomi un antico reliquiario sfuggito alla distruzione del monastero in cui era custodito,
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in seguito ad un terremoto devastante. Esso rappresentava il luogo delle sue memorie resistito ad una crisi che lo aveva interessato durante la sua adolescenza.
Egli sembrava, così, portarmi le sue tracce mnestiche sensoriali o i frammenti delle sue
esperienze passate sulla spinta di un apprezzamento del loro valore avvertito nell’ambito
della relazione terapeutica, come se le sue produzioni potessero acquistare significato solo
nello scambio fra noi due. Il ricordo, per essere significativo, dice infatti Corrao (1992), deve verificarsi “nell’atmosfera carica di emozione inerente alla relazione transferale e controtransferale, altrimenti esso può solo definirsi come un pensiero o una visione senza alcuna
relazione con eventi passati”. Freud in Inibizione, sintomo e angoscia (1925) sottolinea fortemente questo aspetto. “L’esperienza vissuta, passata, egli infatti dice - peraltro separata
dal suo contesto emozionale e relazionale sta come isolata e non viene neppure riprodotta
nel corso dell’attività del pensiero. L’effetto di questo isolamento è uguale a quello della
rimozione con amnesia”. È l’emozione, quindi, o addirittura il grado di passionalità che può
esprimere in una relazione l’elemento attivante ed evocativo di un vissuto collocabile nel
passato.
Non è quindi importante che il paziente “porti” i suoi ricordi perché il terapeuta faccia
una ricostruzione storico-biografica della sua vita, quanto che questi faccia una “costruzione” del passato del paziente confinando, come abbiamo detto, nella forma del ricordo, quello che delle esperienze infantili, emozionalmente affini al presente, lo stesso paziente può
vivere nella relazione terapeutica.
La “storia analitica” acquista, proprio per queste considerazioni, una grande rilevanza rispetto a quella che può avere la biografia del paziente, pur restando a quest’ultima saldamente ancorata.
Credo che il materiale clinico debba poter fare una maggiore chiarezza sugli argomenti
presentati anche perché può mettere bene in luce il funzionamento di una mente di coppia, i
movimenti di controtransfert e la funzione costruttivo-simbolica della psicoterapia. Prima
della presentazione del caso o, meglio, di una ipotesi di costruzione su un caso, vorrei fare
un rilievo del tutto personale a proposito del trattamento psicoterapico del paziente schizofrenico, rilievo che serva come una sua premessa introduttiva.
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Sono portato a credere che il terapeuta in siffatti trattamenti venga impegnato negli
aspetti più primitivi della sua angoscia di castrazione che colloco in quelli della separazione
dall’oggetto primario, con la relativa angoscia di perdita del Sé, e quindi in quelli relativi alle prime forme di contatto mentale, quello che del resto più profondamente teme il paziente.
In genere credo che si è troppo distratti per porre attenzione a queste forme primitive di contatto, preferendo quello più immediatamente fisico, sensoriale comunque, di certo più rassicurante, quello che del resto più profondamente desidera il paziente. Ed è proprio questa,
penso, la nostra prima, profonda affinità con il paziente. In questa realtà clinica opporrei la
semplicità infantile propria del soggetto schizofrenico ai costrutti mentali talora artificiosi
che tentano di enuclearla e che tradiscono sempre un uso difensivo della teoria psicoanalitica.
Il riferimento alla semplicità del pensiero schizofrenico potrebbe apparire come una negazione della sua complessità: essa, però, sta ad indicare, a livello di giudizio, il compiacimento che provano sia il paziente sia il terapeuta quando si scoprono le fondamenta sulle
quali è stata costruita quella enorme e paurosa costruzione delirante che sembra posta in essere per impedire l’accesso ai pensieri del paziente, come quegli ibridi terrifici posti dai greci sui frontespizi dei loro templi proprio per impedire la violazione della sacralità dei loro
luoghi. Grandi colossi dai piedi di argilla, si potrebbe dire, che stupiscono lo stesso paziente
quando pone le sue domande infantili che sono alla base del suo delirio, e che sono per lui
motivo di vergogna, e di cui già conosce la risposta nel momento stesso in cui le formula.
Domande mai fatte perché pensate senza risposta secondo una visione dogmatica di quanto
trasmesso dai propri genitori, sulla quale non si ammetterebbe il minimo dubbio e la cui
ipotetica risposta consisterebbe in un indiscutibile “perché è così”.
La paziente è una giovane donna di 36 anni, diagnosticata come schizofrenica paranoide. È al sesto anno di psicoterapia a due sedute settimanali e da qualche tempo si ripromette
di finire la psicoterapia. Aveva passato una notte molto tormentata, si era sentita intossicata,
era rimasta sola in casa, ma non aveva riconosciuto di avere paura di morire all’idea di una
separazione. Si era sentita diventare uno scarafaggio e le persone alle quali era ricorsa col
pensiero in cerca di aiuto, erano diventate, a loro volta, altrettanti scarafaggi che avevano
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occupato tutta la stanza, provocando in lei un senso di repulsione ed un grande terrore. Arriva in seduta esausta e mi mostra il retro di una busta da lettera sulla quale durante la notte
aveva scritto una frase che le aveva provocato una grande paura; “i bambini buoni gli scarafaggi se li mangiano”. Avrei voluto scrivere, dice, “i bambini cattivi gli scarafaggi se li
mangiano”. Le frasi così descritte sembravano formulate da un oracolo e lasciavano dubbi
sull’esito della supremazia degli scarafaggi sui bambini o di questi sui primi, in base ad un
loro carattere improntato alla bontà o alla cattiveria.
Questa frase incomprensibile, e per questo paurosa, gliela dice la madre mentre col piede schiaccia uno scarafaggio che la paziente vuole prendere con le mani. Nel ricordo lei si
abbraccia alle gambe di papà e sempre nel ricordo, poteva avere tre anni, sente la pelle invasa da prurito come da scarafaggi che le camminano sopra. Mi porge la “busta con gli scarafaggi”, così mi dice, pregandomi di tenerla, cosa che io faccio. Tentavo di elevarmi dal livello percettivo ed emozionale della paziente ad uno simbolico che fosse però molto vicino
ma non equivalente al suo e ricorrevo ad immagini visive che lei dimostrava di recepire,
finché associò allo scarafaggio l’immagine delle prugne secche che ricordava di avere mangiato la sera prima per risolvere lo stato di costipazione intestinale che pensava fosse la causa della sua intossicazione. La direzione associativa che aveva intrapreso mi indusse a pensare al suo ricordo di infanzia come ad un ricordo di copertura che rimandava ad una conflittualità esistente fra lei e la madre a proposito del controllo sfinterico e ad una sua probabile manipolazione delle feci. La paziente iniziava a fare delle analogie fra le feci e gli scarafaggi tradendo una tendenza che aveva avuto fin da bambina e che la portava a mettere le
feci in bocca e a masturbarsi analmente, sollecitata in questo dal prurito anale dovuto ad uno
stato perenne di costipazione intestinale. Mentre produceva questi ricordi avverte un prurito
anale e si mette un dito in bocca. “Le feci, dice poi sorridendo, non hanno un buon sapore, è
metallico, insipido”, mentre allucina le gambe del padre attorno alle quali vorrebbe abbracciarsi. “Se qualcuno ci sentisse dire queste cose ci chiuderebbe in manicomio, dice, dove peraltro sono stata rinchiusa e dove vedevo i pazzi imbrattare le pareti con le feci”. Questa
idea ritenuta pazza si avvicina e si integra con i suoi ricordi di infanzia; “forse è questo che
io ho fatto quando ero piccola” e ride perché pensa di guardare la scena attraverso le gambe
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del padre. In tono poi più realistico commenta che avrà dovuto avere una febbre intestinale e
che le scariche diarroiche avranno dovuto imbrattare le pareti della sua camera.
“Quando stavo male, continua riferendosi al suo ricovero in reparto psichiatrico, immaginavo di essere incinta di uno scarafaggio e vedevo i diavoli”.
A questo punto intervengo, anche sulla base del materiale associativo in precedenza raccolto, e le dico che è portata a creare da sé quello che in realtà non può ottenere dagli altri, e
che questo le può sembrare diabolico perché distruttivo dell’ordine della realtà, riferendomi
con ciò ad un suo tratto creativo perverso (Chasseguet-Smirgel 1985). “Allora - risponde devo aspettare le cose così come avvengono, alcune non possono avvenire come che lei mi
possa mettere incinta di un bambino che mi farebbe passare la paura perché mi riempirebbe
di cose buone ed eliminerebbe quelle cattive”. La fantasia di avere un bambino buono darebbe un senso alla frase “i bambini buoni gli scarafaggi se li mangiano”, le darebbe una direzione per la quale i bambini buoni diventano i soggetti dell’azione eliminatoria degli scarafaggi.
“Se non posso avere un figlio da lei mi piacerebbe farlo da sola”, dice ... e a questo punto ecco la domanda infantile rivelatrice della struttura che sostiene la visione deliranteallucinatoria della realtà: “Gli scarafaggi non si autogenerano?”. Sorride molto imbarazzata
sentendo di sentirsi svuotata come dopo un’evacuazione. Dopo un attimo di silenzio le rispondo che non è così e che la sua domanda contiene un’idea di immortalità. “In questo periodo, commenta, mi è venuta una grande paura di me stessa mi sento fragile e mi rifiuto di
essere fatta di carne e di cuore per il fatto che così si deve morire. Se uno invece fosse riempito di cose che per loro natura devono essere uccise e che poi si auto generano come gli
scarafaggi o le cose cattive che secondo il proverbio “non muoiono mai” il gioco è fatto!
Devo rassegnarmi all’idea che esiste la morte!” L’idea della morte coincide con la castrazione, con la perdita cioè del piacere che le viene impedito di perseguire nell’essere un
tutt’uno con la madre.
La paziente mi chiede una costruzione: “E allora me la racconta la mia storia?”. Mi rifaccio alle frasi portate inizialmente in seduta dicendole che per salvare dalla morte tutto ciò
che di buono aveva avuto dalla vita, compreso la madre ed il padre, aveva dovuto immagi-
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nare che tutto e tutti fossero cattivi, che in quanto tali non sarebbero mai morti e che quindi
non li avrebbe mai perduti. Così facendo però aveva finito per pensare di sé di essere egoista e cattiva negando in tal modo quei tratti di bontà e di generosità che essa e che i suoi genitori in realtà possedevano. Aveva confuso ogni cosa e non si poteva rendere conto se è la
bontà ad avere ragione della cattiveria o viceversa non essendole ancora del tutto chiara la
differenza che passa tra di loro.
“È una cosa orribile, commenta, come possa fare una bambina ad avere un pensiero simile. Che storia triste ... vedo una luce verde di una incubatrice ... forse la mia precoce esperienza di ospedalizzazione mi avrà segnata fin da piccola... più divento un essere umano,
continua, e più sento la tristezza ed il peso della vita che finirà ... mi sento a pezzi!” Non sono convinto che la paziente abbia potuto attivare la memoria sensoriale relativa ai suoi primi
momenti di vita, tendo piuttosto a considerare la sua “visione” come un pensiero sul suo stato d’animo nuovo relativo alla comprensione raggiunta che però tenta di “fare a pezzi” nel
tentativo di annullarla per la prospettiva di cambiamento in essa contenuta. Si riprende il
“foglio con gli scarafaggi” e ride compiaciuta perché gli scarafaggi sono diventati buffi come dei cartoni animati, li può toccare come tocca la carta della busta mentre sente di diventare piccola e di giocare con me. La sua, in fondo, era la fantasia di una bambina per la quale come nei cartoni animati gli eroi anche se schiacciati ritornano a vivere come se si autogenerassero, uno spazio che la fantasia crea per esorcizzare la morte.
Il resoconto non proprio dettagliato di questa seduta non coglie tutti i possibili collegamenti che potrebbero essere fatti al suo interno né la drammaticità del vissuti della paziente
durante i vari passaggi. Il suo scopo è stato quello di sottolineare la semplicità dei contenuti
dei pensieri della paziente che, come dicevo prima, sta alla base delle sue costruzioni deliranti.
In coincidenza proprio del suo ricovero in reparto psichiatrico la paziente aveva prodotto dei deliri nei quali io non comparivo come personaggio, cosa che lei mi fece notare una
volta ripreso il trattamento. Se non c’ero era per il semplice motivo che io per lei avrei dovuto impersonare l’assenza o la castrazione.
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In quel periodo, riluttante sicuramente come dovevo essere ad assumere vissuti di perdita, le dissi in maniera alquanto bizzarra che invece io ero il corpo che lei aveva ma che sentiva di non avere. Una risposta, lo riconosco, non priva di una sua verità e anche di una discreta qualità delirante che si fondava sulla considerazione, più mia che sua, che solo attraverso le sensazioni del mio corpo lei avrebbe potuto riappropriarsi del suo.
Si può ben comprendere quanto fossi lontano dal vero ed enfaticamente destinavo la
stanza della terapia a “luogo” elettivo di un delirio condiviso e l’uscita da essa o dallo studio, cosa che lei concretamente mi proponeva sempre di fare, come alla sua risoluzione attraverso l’acquisizione dell’individualità dei nostri rispettivi corpi. All’assenza del corpo
opponevo una sua forte sottolineatura. I personaggi all’interno di un delirio come nel sogno
o dentro la stanza della terapia rivelano le valenze emozionali del paziente attraverso i loro
vissuti. Posto che il mio vissuto relativamente a quanto la paziente avvertiva come assenza o
castrazione, non c’era, in quanto da me negato, lo spazio fisico per una immagine corporea
non esisteva perché non davo corpo alla sua “assenza”. Altro infatti è dare corpo ad
un’assenza, altro è l’essere assenti.
“Lei di fatto non poteva apparire, mi dirà in seguito, perché non era entrato nella mia
pancia. Cominciò ad esserci quando incominciammo a divorarci. Inizialmente, prosegue, lei
non era ancora disposto a farsi mangiare da me, restava separato, e così non lo sentivo e non
capivo quello che lei mi diceva” che era appunto, posso ora aggiungere, la mia costruzione
delirante sulla sua.
Io credo che l’espressione della paziente relativa al mio entrare dentro la sua pancia sia
la metafora dell’essere attanagliati dalla morsa della memoria sensoriale più primitiva legata
alla sensorialità e alla concordanza assoluta dei pensieri. In effetti, sebbene io avessi fin
dall’inizio l’idea di un gioco cannibalico (Bion 1976), riferibile alla relazione con un paziente schizofrenico, non ero di fatto entrato nel gioco vero e proprio. Mentre infatti
nell’idea di gioco gli agenti non sono in relazione tra loro, nel gioco si mette alla prova la
loro disponibilità effettiva a giocare. Mi si chiedeva di vivere i vissuti devastanti
dell’assenza e della morte perché lei potesse accedere alla vita, mentre io mi proponevo come personaggio vivente destinandola alla morte. “Nessuno si immolava per me...” questo
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era stato il contenuto del suo delirio “perché io potessi vivere”. Tutto ciò mi rendeva “cattivo” ai suoi occhi e in quanto tale immortale colludendo così con la sua visione infantile della vita, oltreché delirante, dalla quale, in questo modo, non sarebbe mai più potuta emergere.
Avrei nello stesso tempo indotto in lei vissuti imitativi di “cattiveria” destinati a colludere
con i miei nel tentativo di controllare l’angoscia di castrazione. Pare che la fantasia di immortalità o di negazione dell’angoscia di castrazione sia retaggio comune ad ogni essere
umano come se ogni persona albergasse in sé, nel più stretto segreto, lo scarafaggio di kafkiana memoria.
L’elemento però più importante ai fini costruttivi è costituito dal sogno fatto dopo la seduta. La paziente sogna una giovane donna in un clima di serenità. Associa la donna ad una
collega psicologa dal carattere burbero, affettuoso e accattivante, nonché dal tratto “mascolino” simile al suo, lei mi dice, e a quello della madre.
Ricordando la madre la paziente avverte la sensazione di “perdere qualcosa di sotto, forse dice, si tratta di mestruazione o forse del pene”. Il pensiero della madre e, come vedremo,
della sua morte, le dava la sensazione di perdere con lei tratti femminili e maschili come se
le più primitive angosce di castrazione fossero da riportare ai processi di separazione dalla
madre, traumatiche perché primitive, quando ancora non esiste un chiaro orientamento sessuale.
Non può certo sfuggire in questo caso la connotazione “materna” del transfert della paziente: e la mia fuga dai suoi vissuti di castrazione e di perdita era assimilata all’abbandono
della madre allorché si suicidò lanciandosi dal balcone, di “sotto”, schiacciandosi così a terra, col suo vestito nero, come uno scarafaggio. Un gesto cattivo, abbandonico, al quale, però, la paziente affidava un’idea di immortalità che le permetteva di vivere con lei, i cui tratti
mascolini l’avrebbero protetta dalle difficoltà della vita, considerato che aveva perduto anche il padre. La paziente allucina una carezza della madre e si arrabbia molto perché prova
ancora rancore per il suo gesto che rappresenta tutt’ora ai suoi occhi la dimostrazione di
quanto da bambina fosse stata poco importante per lei, altrimenti l’avrebbe portata con sé o
avrebbe rinunciato al suicidio per vivere con lei.
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Ritorna però a riconsiderare l’affetto della madre per lei bambina mentre sente una voce
che le dice piano piano “sì” a conferma di tale amore, ma subito dopo commenta che ha
senz’altro bisogno di sentirlo dire da “fuori”, con le voci, questo “sì”, dal momento che non
è ancora in grado di accettarlo dal di dentro.
Fin qui il caso.
Come in tutte le analisi l’acquisizione di un nuovo significato porta a risignificare il
contesto secondo una circolarità che per lo schizofrenico sembra essere particolarmente attiva. Circoscrivendo l’attenzione sul sogno in sé, al di là quindi dei suoi contenuti, si può
indicare con esso la comparsa nella paziente di una iniziale capacità di trasformare
l’esperienza emozionale vissuta in veglia in un sogno che dà continuità alla vita mentale,
passando dalla veglia dominata dalle fantasie, al sonno dominato dai sogni. L’attività del
sognare impedisce di vivere la realtà come un sogno, di confondere il terapeuta con la madre anziché considerarlo “come” la madre per alcune sue caratteristiche. È sempre la memoria che nel sogno rende possibile il legame tra le esperienze emozionali del passato e quelle
del presente. “Memoria - come dice Mancia (1989) - intesa non nel senso di una attualizzazione di esperienze storicamente definibili ma come riattivazione di quella processualità affettiva che ha definito e caratterizzato le tappe emotivamente più significative dello sviluppo
della mente. Memoria quindi, - continua l’Autore - come passaggio essenziale della “ricostruzione” in analisi, intesa non nel senso storico-causale del termine ma come processo di
recupero-rielaborazione delle emozioni di un tempo e loro integrazione con le esperienze attuali vissute nel transfert”. Che l’attivazione degli affetti più che dei ricordi sia importante ai
fini costruttivi, va considerato secondo due ordini di ragioni. Il primo riguarda, come prima
abbiamo detto, l’inattendibilità propria dei ricordi, e il secondo riguarda il fatto che i ricordi
dello schizofrenico sono spesso delle allucinazioni o modalità attraverso le quali il paziente
tende a nascondere e a deformare delle verità che riguardano il presente terapeutico. “Una
memoria che serve a falsificare l’esperienza, - scrive Riolo (1982) - al fine di evitare un impatto emotivo catastrofico dovrà rendersi sempre più indipendente dal mondo della realtà.
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Questi ricordi, continua, saranno degli sviluppi del tipo delle allucinazioni tendenti alla evacuazione del mondo psichico nel mondo sensibile”.
Esemplifico ritornando al caso. La paziente subito dopo quella seduta che ho riportato
cominciò a “ricordare” con grande dovizia di particolari. Sul “ricordare vivace e vivido” e
sul suo rapporto con le allucinazioni si veda ancora Freud nel citato lavoro del ‘37. Ricordò
di una violenza anale subita ad opera di un cugino di otto anni più grande di lei quando ne
aveva due. Il resoconto del ricordo fu martellante. La paziente “intasò” letteralmente la mia
segreteria telefonica, tentò di reperirmi in tutti i modi per raccontarmi le sue vicende traumatiche, la disillusione provata nei confronti del cugino ritenuto il “buono” della famiglia, il
clima di mistificazione in cui era vissuta, clima che allargò al posto di lavoro e che le fece
proporre di isolarsi drasticamente dai colleghi perché immeritevoli del suo affetto. Sulla validità di queste “scene infantili” ricordate in terapia, Freud dice che “non sono la riproduzione di avvenimenti reali (ma) ... formazioni fantastiche nate da stimoli occorsi in età adulta, destinate a fungere in un certo qual modo da rappresentazione simbolica di desideri e interessi reali: tali fantasie, egli dice, debbono la loro origine a una tendenza regressiva, alla
tendenza a sottrarsi ai compiti del presente”. (Freud 1914, 525). Freud partiva dalla considerazione che le scene infantili dovessero essere invece il risultato di una loro ricostruzione
nel transfert.
Pensai di considerare prevalentemente il moto affettivo stimolato e come tale portato
nella relazione e che la paziente provasse un forte disappunto nei miei confronti avendola io
costretta quasi controvoglia a liberarsi dei suoi segreti come con un’applicazione di quel clistere che la madre doveva praticarle durante le fasi delle sue costipazioni intestinali, cosa
che lei mi confermò essere quasi una pratica quotidiana. Trovava la mia azione irrispettosa
nei suoi confronti e distruttiva dell’idea di bontà che si era costruita intorno alla mia persona. La scelta poi del cugino come “personaggio” dei suoi “ricordi” non era casuale. Questi
si era sempre opposto a che lei facesse la psicoterapia. A lui la paziente affidava il messaggio che potessi difenderla da me stesso evitando le intrusioni analitiche così violente e devastanti. Era altresì chiaro come lei avesse assorbito dalla sua famiglia la tendenza a dissimu-
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lare verità che in modo semplice e diretto avrebbe potuto comunicarmi senza il timore che
per questo io potessi abbandonarla.
L’allucinazione o il ricordo, come la paziente la definiva, aveva, se vogliamo, un suo
nucleo di verità garantito, come abbiamo detto, dalle sensazioni corporee anali che la paziente provava nel riferirlo. Dalla sensazione “vera” implicita nel “ricordo” si andavano però dipanandosi le emozioni proprie della sua relazione con la madre, relativamente al controllo degli sfinteri, e quelle legate alla relazione col padre secondo vissuti sessuali infantili
preedipici, temuti sempre per la rivalità primitiva con la madre. Queste tracce di ricordi,
quali oggetti fecalizzati trattenuti che le permettevano di vivere una condizione onnipotente
e magica, rischiavano così di disperdersi e di vanificare la complessità dei ruoli maternopatemi di cui lei mi aveva investito. Per cui la legittima relazione rabbiosa sopra descritta.
Era così che l’universo infantile della paziente si rifletteva nella relazione terapeutica al
di là di ogni attendibilità storica che potevano avere i suoi ricordi. Le tracce mnestiche sensoriali, allorché fossero rimaste prive del loro specifico contenuto emozionale, attivabile solamente in un contesto relazionale, sarebbero rimaste per sempre sconosciute alla paziente.
Abbiamo prima accennato al costituirsi della mente di coppia ed ora possiamo sottolineare l’importanza della memoria analitica su quella storico-biografica del paziente, essendo quest’ultima da considerare addirittura come un derivato del funzionamento della prima
(Riolo 1982). Quanto infatti il paziente porta in seduta come annotazione e come ricordi,
contenuti anche nelle sue allucinazioni e nei suoi deliri, perché delirare e allucinare è anche
un modo di ricordare, può corrispondere, è vero, ad una sua realtà ontologica realmente vissuta nella sua infanzia ma può anche non corrispondere, come abbiamo detto sopra.
Ma in quanto memoria storica o biografica essa ha una scarsa incidenza terapeutica. In
questo senso le considerazioni fatte da Niederland (cit. da Racamier 1980) a proposito di
Schreber e del suo delirio dell’assassino dell’anima considerato come la denuncia delle sevizie realmente patite ad opera del padre, a nulla avrebbero potuto giovare come a nulla
giovano ai pazienti le descrizioni ricostruttive biografiche se scollegate dal presente terapeutico. Il commento di Racamier sulla vicenda di Schreber, che per me è stato lo spunto per
fare queste riflessioni, e cioè che “se avesse potuto ricostruire la sua storia, anziché preten-
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dere di costruirla, non si sarebbe perduto”, rimanda giustamente ad un lavoro di coppia nei
modi in cui ho tentato di dimostrare.
In casi particolarmente gravi il paziente ha però il terrore di ricordare perché col ricordo
potrebbe rendere attuali, “reali”, vissuti di totale annientamento di Sé che sarebbero in questo modo prodotti da sé. Questo comporta, dice Gaddini (1984, 597), la necessità di “non ricordare” che non è ancora dimenticare o negare ma collocare quell’evento in un luogo diverso dall’attuale. Questi pazienti non riescono così a tradurre in ricordo il loro vissuto catastrofico.
Essi avvertono comunque che è per loro impossibile impedire quell’esperienza terribile
del totale e definitivo dissolvimento di sé e vivono in una tensione continua e penosa di potersi annientare. In seduta presentano il segno fisico della loro stanchezza per lo sforzo continuo di deviare dalla loro mente ogni traccia di memoria e pensano come se tutto funzionasse bene sapendo nello stesso tempo che non è affatto così, terrorizzati dalla possibilità di
rivivere quanto continuamente cercano di allontanare. Vivono nella paura che un “segno”
del funzionamento del loro corpo, una sensazione cioè o una emozione, possa equivalere ad
una incipiente catastrofe ed è così che decidono di sospendere di vivere. Chiunque abbia
avuto contatti con pazienti schizofrenici ha sicuramente vissuto quella condizione che definirei “chiusa”, dato lo svuotamento progressivo delle proprie capacità mentali e motorie fino ad avvertire come tutta la propria persona diventi priva di senso e, quel che è peggio,
privata della capacità di dare senso. È senza dubbio inimmaginabile il terrore che deve essere alla base di questa azione “inanitaria”, come la definisce Racamier, finalizzata ad interrompere sia i legami interpersonali che intrapsichici, pur di evitare ogni “movimento” fisico
e mentale che possa attivare la funzione della memoria.
Una volta mi capitò di subire una reazione aggressiva da parte di una paziente gravemente regredita che esigeva assumessi uno stato di immobilità assoluta. Lei se ne stava seduta a terra dietro un divano e ne potevo intravedere solo le gambe. La situazione era divenuta per me molto inquietante e priva di senso finché, come entrando dentro l’occhio di un
ciclone, al mio iniziale turbamento subentrò uno stato di calma pressoché assoluta. Ogni cosa sembrò omogeneizzarsi in un tutto. Il blu dei suoi jeans divenne parte integrante dei colo-
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ri della mia stanza. Allora mi venne in mente l’immagine di una targa inviata tempo fa nello
spazio che, nel caso dovesse essere trovata da altri abitanti sempre dello spazio, portava incise le figure di un uomo e di una donna e alcune formule fisiche fondamentali. Tanto bastò
o voglio presumere così, non considerando probabilmente altri elementi che sono potuti a
mia insaputa entrare nel nostro campo, per determinare nella paziente una reazione di disappunto per la rottura di quella immobilità anche mentale che pensava di avere realizzato tra
di noi. Io credo che il paziente attivi forme primitive di contatto all’insegna
dell’indifferenziazione dall’oggetto e del rigetto delle sensazioni rispetto alla separazione da
esso ed alle percezioni per le quali l’altro si configura già come distinto da sé.
Le sensazioni legate al primo contatto mentale o al primo distacco fisico, al contatto
cioè con il primo ideogramma portatore di una immagine di sé distinta da quella
dell’oggetto sono di per sé evocative delle sensazioni catastrofiche di rottura del Sé legate al
dinamismo implicito nella separazione.
L’ideogramma si potrebbe considerare come un primo movimento mentale verso un oggetto che a sua volta dovrebbe fare propria questa tensione di ricerca di un oggetto e recepirla condividendo così l’esperienza della separazione fisica. La disponibilità o meno del paziente a recepire questo contatto mentale potrebbe a sua volta riproporre nel terapeuta vissuti relativi all’accettazione o al rifiuto materno originario nei confronti della separazione. Dico “potrebbe” ma ritengo di essere nel vero dicendo questo perché i sentimenti che si provano in simili circostanze sono molto penosi, vanno oltre, presuppongono realtà diverse da
quelle vissute nella relazione terapeutica, realtà delle quali non si ha ricordo e che si attualizzano nel presente terapeutico come al di fuori del tempo.
La paziente del caso, mentre sentiva di essere uno scarafaggio, scriveva una frase che
descriveva il suo vissuto prima di perdere il pensiero verbale. Sentiva di essere realmente
fagocitata dallo scarafaggio o da un’idea di suicidio per andare incontro alla madre, tentativo ultimo di fusione con lei prima di orientarsi verso un altro oggetto, il terapeuta, per seguirne i percorsi che l’avrebbero portata inevitabilmente lontana da lei.
La tendenza ad invocare e a seguire la madre l’accompagna sempre come una seconda
pelle nei momenti difficili di scelta della sua vita. Se è vero però che desidera imitare la ma-
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dre, è anche vero che ne ha paura e non ha più voglia di farlo. Ma può anche essere che lei
provi entrambi i sentimenti come colui che potrebbe vedere entrare nella sua stanza due belve dalle uniche due porte che essa possiede, senza alcuna via di scampo se non quella del
tutto improbabile della immobilità.
Si dice che Kafka leggendo ai suoi amici le pagine del Processo e della Metamorfosi ridesse. Forse da questi resoconti non trapela la grande, nascosta, silenziosa risata della paziente, a volte segno di felicità, a volte di compiacimento cinico, a volte di sarcasmo, a volte
di amore, di speranza e, perché no, di svuotamento e di annullamento delle tristi argomentazioni che andava producendo solo perché, molto legata affettivamente alla mia persona,
aveva paura di perdermi, così come le era capitato con le persone care della sua vita, e per
evitare questo abbandono decideva di interrompere prematuramente la terapia ritornando alla madre attraverso il suo vecchio modo di essere.
Ho descritto l’iter di una complessa ipotesi costruttiva per la quale la paziente ebbe modo di cogliere l’insieme anche temporale della sua vicenda. Ebbe modo così di ricollocare
nel “passato” ciò che atteneva al suo passato rispetto al “presente” da cui esso andava differenziato e proseguì il suo percorso terapeutico affrontando le paure ad esso connesse. “Acquisire la memoria adulta, nel corso della crescita come nel corso di un’analisi, scrive Gaddini (1984, 598), vuol dire acquisire la dimensione del tempo. Tutto quello che viene descritto in termini di transfert consiste nell’attualizzare vissuti relazionali che non sono mai
entrati nei ricordi e mai, perciò, nel tempo. Uno degli scopi fondamentali dell’analisi è, a
mio avviso, dice Gaddini, proprio quello di tradurre ciò che viene vissuto come “ora” in “ricordo”. Ricordare significa appunto collocare i vissuti in un tempo passato, che non ha più a
che fare con “ora”. Fa parte della crescita costruire la dimensione del tempo, in cui il ricordo
ha un ruolo fondamentale perché colloca il “passato” nel passato, e il “presente” nel presente. Solo da un tale presente, conclude, può sorgere un senso del futuro”.
La paziente amava presentare il suo stato d’animo e i suoi pensieri nella forma della
“metafora”. Ritengo che ognuno utilizzi un proprio immaginario metaforico e che il terapeuta per conoscere il paziente debba entrare nel suo quale ultimo livello di relazione simbolica con lui, prima di colludere con i livelli di concretezza del suo pensiero, essendo la
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metafora lo scarto simbolico più contenibile da parte del paziente. Credo che la metafora,
cui ho fatto ampiamente ricorso in queste note, possa rappresentare un sussidio tecnico, una
modalità costruttivo-simbolica, vicina al processo primario e aperta al simbolismo proprio
del processo secondario.
Essa integra la parola e l’immagine e si costituisce come una interfaccia fra le due modalità di funzionamento del pensiero, permettendo al paziente, come attraverso un sogno, di
cogliere sia l’insieme che le differenze relative alle sue opposte tendenze che sono alla base
del suo conflitto irrisolto che egli è incapace di contenere nella sua totalità. Sono della convinzione che in tal modo possa venire attivata in lui e in senso progressivo, maturativo,
quella funzione trasformativa degli elementi del campo della sua esperienza che egli tende
ad utilizzare invece in senso regressivo e quindi nel senso della concretezza. Mi riferisco a
Bion e a ciò che lui intende per funzione alfa.
Mentre finisco di scrivere queste note mi viene il dubbio se esse non possano a loro volta rappresentare una metafora della stessa attività psicoterapeutica o meglio dell’aspetto
creativo di essa che recupera e restaura quanto è scisso e danneggiato nel terapeuta, riportando così a nuova vita i suoi oggetti interni che vengono in tal modo riparati, mentre nello
stesso momento egli, attraverso il suo stesso atto creativo, accede alla sua integrità, superando le lacune della sua maturazione a ogni stadio del suo sviluppo (Chasseguet Smirgel
1971).
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Le “Costruzioni” nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia
RIASSUNTO
Nel lavoro vengono sviluppate alcune riflessioni in tema di applicabilità del modello
delle “costruzioni” in analisi secondo Freud. Esse vengono considerate secondo un significato più estensivo di quello che originariamente era stato loro attribuito e cioè come un intervento mirante alla organizzazione del materiale inconscio del paziente. La loro applicazione nel campo delle psicosi e nel trattamento psicoterapeutico della schizofrenia avrebbe
anche il senso di fornire al paziente la possibilità di assumere un modello per le funzioni discriminative e integrative che gli mancano. La complessa opera costruttiva e riorganizzativa
della psiche del paziente, per la quale egli può raggiungere sufficienti livelli di pensabilità
sul suo mondo interno, si configurerebbe così come una funzione costruttivo-simbolica peculiare del processo psicoterapeutico.
SUMMARY
Constructions in the theory of schizophrenia
This paper tackles Freud’s model of constructions in analysis. Their meaning is regarded as an intervention which aimes at organizing the patient’s unconscious matters. The
application of constructions in the field of psychosis and treatment of schizophrenia can
provide the patient with a model to refer to for the integrative and discriminative functions
he needs. Due to such a complex reorganization work, closely related to the psychotherapeutic process, the patient is enabled to reach a sufficient capability of thinking about his
inner world.
ORAZIO COSTANTINO
via Pietra dell’Ova, 82
95125 Catania
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Il bambino in lutto: l’enigma, l’evento, il dolore
LAURENCE KAHN
Il bambino in lutto
L’evento, l’enigma, il dolore
Storia “secca” e storia “calda”
“Il vantaggio - mi disse un giorno René - è che la Francia, anche se è cattiva, dura sempre; non può morire”. René venne per la prima volta da me quando aveva sette anni. La sua
inadeguatezza in tutti i compiti di scuola faceva disperare i genitori. Originario dell’Asia,
era stato adottato a due anni e mezzo, lo sapeva e sapeva pure che a quel tempo viveva in un
orfanotrofio. I suoi genitori mi raccontarono tutte queste cose davanti a lui, senza difficoltà;
erano genitori caldi e attenti, molto preoccupati per l’inibizione del loro bambino. Non avevano adottato altri bambini e non potevano averne. Durante questo primo incontro non fecero cenno a problemi di comportamento.
In effetti tutto il primo periodo del trattamento di René fu dominato dall’apatia e dal ritiro. René sembrava un bambino anestetizzato1, poco sensibile al contatto, alla tristezza e alla
gioia, poco sensibile anche ai segni di tenerezza di coloro che lo circondavano e che cercavano in tutti i modi di rassicurarlo e di rassicurarsi davanti al fallire di ogni apprendimento.
Non che René fosse proprio assente, ma pareva muoversi nel mondo come se fosse dolcemente fuori da se stesso, offrendo a chi gli si rivolgeva un viso di una gentilezza disarmante.
*
Titolo originale: L’enfant endeuillé. L’évenement, l’énigme, la douleur. Penser/réver, 2, 2002. Traduzione
di Maria Lucia Mascagni. Ringraziamo Laurence Kahn e il direttore della rivista, Michel Gribinski, per il
permesso di pubblicare questo lavoro. Della depressione, che egli contrappone alla posizione depressiva,
Winnicott (1954, 329) scrive che “ricopre il terreno di battaglia di una specie di bruma” che smorza ogni cosa, permette “una cernita a ritmo ridotto” e lascia a tutte le difese possibili il tempo di intervenire.
1
Della depressione, che egli contrappone alla posizione depressiva, Winnicott (1954, 329) scrive che “rico-
pre il terreno di battaglia di una specie di bruma” che smorza ogni cosa, permette “una cernita a ritmo ridotto” e lascia a tutte le difese possibili il tempo di intervenire.
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Il bambino in lutto: l’enigma, l’evento, il dolore
Ma la gentilezza non durò. Il trattamento rivelò presto l’estrema violenza delle posizioni
persecutorie che invadevano il rapporto di René con se stesso e con gli altri, quando
l’inibizione non riusciva più ad assolvere la sua funzione di controinvestimento. Gli attacchi
verbali e quelli agiti, estenuanti, si ripetevano senza tregua, di seduta in seduta, fecalizzando
lentamente tutto il nostro mondo. Lo studio, gli armadi, i pennarelli, i libri, la sala d’attesa,
il giardinetto nella piazza sotto casa mia, tutto era “merda” e io ero una matta in uno studio
da matta. A scuola la sua vita si fece molto difficile. I compagni gli rubavano tutto, bramavano tutto ciò che possedeva - ed era naturale perché lui aveva le cose più belle - complottavano contro di lui. Faceva a botte in cortile durante la ricreazione e qualche volta anche in
classe. Veniva regolarmente punito, cosa che non era mai riuscito a ottenere con
l’insuccesso scolastico e che cercava di ottenere anche da me prendendosela con i pazienti
che lo precedevano o che venivano dopo di lui. Ma quando questa confusione cominciò a
trovare voce nei primi giochi di parole sul mio nome, divenne chiaro che quanto più i miei
contenuti corporei venivano mortificati, tanto più René si avvicinava a una domanda, alla
domanda: come nascono i bambini? L’emozione della madre per la nascita di una cuginetta
diede un forte impulso a tale movimento. Ma in tutto questo periodo la questione della sua
adozione e di quello che l’aveva permessa - le ragioni per cui si trovava in un orfanotrofio tale questione restò totalmente fuori da ciò che si presentava nel trattamento. Certo la sofferenza che cominciava a trapelare era considerevole, derivava dalla disperazione, ma viveva
in qualche maniera di vita autonoma, mentre la narrazione anamnestica veniva da fuori e
non c’era modo che René potesse impadronirsene.
Gradualmente, poco importa come, intervennero dei meccanismi di rimozione più coerenti man mano che gli mostravo la violenza dei suoi stratagemmi per ottenere da me rifiuto
e abbandono e come, dato che non gli infliggevo il castigo che cercava, giungesse a punirsi
da sé o a distruggere tutto ciò che rischiava di essere fonte di soddisfazione o di piacere goduti con me. L’oscillazione tra invidia e distruttività da un lato e il legame edipico dall’altro,
un legame già organizzato benché permeato di un terrore smisurato, fece sì che via via si
organizzasse uno scenario in cui fu la Francia ad apparire come una divoratrice che mangiava i bambini venuti da fuori. In quel periodo René creò dei magnifici disegni e la carta geo-
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Il bambino in lutto: l’enigma, l’evento, il dolore
grafica della Francia era talvolta uomo, talvolta donna, con un grande naso o un grosso ventre - una Bretagna smisurata o un’Aquitania rigonfia - sottoposta a numerose deformazioni,
accerchiata da oceani, assediata da armamenti marini e sottomarini. Mai una parola però
sull’adozione, se non in questa forma: “Il vantaggio è che la Francia, anche se è cattiva, dura sempre; non può morire”. In questo modo venne affrontata l’ineluttabilità dell’essere
mortali, la sottomissione alla legge della morte: la mia morte, la sua, quella dei suoi genitori, la sua paura di farli morire diventando grande. E Il libro dei record venne a sostegno
dell’indagine e delle sue argomentazioni, prima apertura alla differenza delle generazioni.
Prove alla mano René mi mostrò che l’uomo più vecchio del mondo era un cinese, il nonno
di un nonno di un nonno, che aveva centoventi anni. Ma, aggiunse, sapeva che anche quel
signore avrebbe dovuto inevitabilmente morire ...
“E allora nessuno si ricorderà più di quello che c’era prima.”
“E com’era prima?”.
L’anestesia, questo metodo che consiste nel non sentire nulla alla scomparsa di uno o di
entrambi i genitori - una componente che si incontra tanto spesso nella cura degli adulti che
hanno perduto delle persone care nell’infanzia o nell’adolescenza - aumenta moltissimo
quando il bambino ha subito una separazione definitiva in età assai precoce. Quali sono allora le condizioni dell’incontro con il dolore che accompagna il lutto? E di quale lutto si
tratta? Del lutto dell’oggetto amato o di quello del ricordo stesso? Di questi bambini che
danno l’impressione di non poter essere dentro alla loro pena si può dire che non giungono a
ricordarsi di sé. “Non ricordarsi di sé”2 oppure non ricordarsene se non per mezzo di una
strana “storia” che non si smette di ripetere silenziosamente a se stessi: il racconto di una tale “storia”, cioè di una fantasia, fu fatto dalla paziente di Masud Khan dopo che questi le
chiese che cosa l’aveva spinta a “voler vivere davvero” invece di “esistere soltanto”. Domanda essenzialmente winnicottiana, per giungere alla quale era stata indispensabile una
prolungata consuetudine con l’inerzia interna di questa donna, ma che aveva soprattutto ri-
2
[“Ne pas se souvenir de soi-meme”; vedi M. Khan (1977). NdT]
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Il bambino in lutto: l’enigma, l’evento, il dolore
chiesto all’analista “la capacità di essere il testimone della pena, senza tentare di dispensare
spiegazioni importune e senza manifestare un bisogno precipitoso di placare la sofferenza”.
Non è affatto certo che il bambino messo di fronte a un lutto sia in grado di accostarsi
alla propria storia con una storia. Perché in che consiste la storia di un trauma? Da questo
punto di vista il racconto anamnestico è una trappola che, sotto la copertura della narrazione
dei fatti, serve la resistenza: quella dell’analista, quella dei genitori, ma anche quella del
bambino che ogni tanto se ne varrà nella forma di una pseudo-riunificazione di sé. Indubbiamente la lingua inglese, con la sua distinzione tra story e history, ci indica meglio il
cammino. La story fa una deviazione, quella dell’invenzione di un racconto immaginario costruzione fantastica che dà impulso alla fantasia inconscia senza per questo scoprirla apertamente - e forse questa deviazione corrisponde al tempo costitutivo del lutto. Poiché il problema dell’evento rinvia allo statuto dell’enigma, l’invenzione della storia è l’invenzione di
una storia che cerca la risposta a un enigma. Ma, in questo caso, il passaggio dalla storia
“secca”, il racconto dei fatti, all’invenzione di una storia “calda” e libidinizzata equivale a
un rimedio contro il dolore o piuttosto a una via d’accesso al dolore? La paziente di Masud
Khan, che a diciassette anni decide di vivere raccontandosi la storia di una sculacciata che
un uomo rifiuta di darle mentre lei è seduta sulle sue ginocchia, si racconta una scena che
vede “come su uno schermo” e che cerca di collegare a una fantasia masturbatoria. Ma questa storia contiene un frammento di verità poiché, cercando di ricostruire le circostanze esatte della morte dei suoi genitori, avrà la conferma che morirono in un incidente stradale, ma
verrà a sapere che lei fu ritrovata, piccolissima, viva, seduta sulle ginocchia della madre
morta. In che modo la story apre la strada all’history? In che modo la prima dà forma alla
perdita e all’appropriazione della seconda?
All’inizio del quarto anno del trattamento René arrivò con una notizia importante e con
una decisione tutta sua. La notizia era che i suoi genitori l’avrebbero portato ai Giochi
Olimpici di Nagano e la decisione era che avrebbe terminato la terapia alla fine dell’anno
scolastico. “Tra un anno - prosegui non ci vedremo più, ma non significherà che tu sarai
morta, significherà solo che non ci vedremo più. E poi, quando non ci vedremo più, io tor-
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nerò laggiù, dove ci sono solo persone con la faccia uguale alla mia. Qui, sono diverso dagli
altri, laggiù sarò come tutti quanti. Saranno i miei genitori a essere diversi”.
Fu in quel momento, e solo in quel momento, che René affrontò apertamente la questione non solo della sua adozione, ma della sua stessa origine. Non saprà mai se i suoi veri genitori l’avevano messo in orfanotrofio perché non lo volevano, o se furono altri a metterlo
perché i suoi genitori erano morti. Ma almeno potrà cercare di rivedere il suo orfanotrofio.
Allora gli ho chiesto se aveva dei ricordi, anche un ricordo piccolo piccolo della sua vita
laggiù. Ha pensato a lungo e mi ha risposto che si e no, perché il suo ricordo era un falso ricordo. Gli ho domandato che intendeva dire parlando di falso ricordo e lui mi ha risposto
soltanto: “Vedrai”. E ho visto e credo di essere rimasta sconvolta da ciò che ho visto. René è
venuto alla seduta successiva con un piccolo portafoglio di plastica, assai sciupato, che conteneva tre fotografie: una, scattata con una Polaroid, molto sfocata, in cui apparivano due
donne dai tratti asiatici che si tenevano vicine l’una all’altra; la seconda era la foto in bianco
e nero del portale di un’antica residenza coloniale; la terza era quella di un bambino di circa
due anni, paffuto, sorridente, seduto davanti a una piccola tavola, con un cucchiaio in mano.
“Sono i miei ricordi; lo vedi, non sono veri ricordi”. Un vero ricordo per René era un ricordo che si ha in testa. Nella fine di questo trattamento era in gioco il lutto di un ricordo di
questo genere. E ciò si è palesato chiaramente nella penultima seduta. Quel giorno mi disse
di essere certo che l’avrei sostituito - “Ce ne sono tanti”, aveva aggiunto con un gesto verso
la sala d’attesa - e che sicuramente lo avrei dimenticato perché “insomma, non ci si può ricordare di tutti!”. Ma poteva anche darsi che non lo dimenticassi perché lui non era sostituibile: “Un Cinese come me, lo capisci, non ne ritroverai mai un altro”. René aveva ragione,
non ne ho ritrovato uno come lui.
È stata semplicemente la prospettiva della nostra separazione a permettere a René di affrontare ed elaborare la perdita. Ma, in questo caso particolare, la perdita aveva come posta
l’incontro, il contatto, nel trattamento stesso, di una storia e della sua storia, l’amalgama del
“falso ricordo” con l’avvento del vero ricordo; e io non penso affatto che, grazie al transfert,
l’uno sia valso in modo puro e semplice per l’altro. Al contrario il loro mescolarsi era senza
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dubbio la condizione necessaria perché si legassero tra loro la prova tanto a lungo introvabile del lutto e l’esperienza della nostalgia. Il costituirsi di ciò che era sconosciuto perché tanto remoto nel tempo e nello spazio - tanto inaccessibile anche, perché così poco assente - e
poi il costituirsi di ciò che “era perduto per sempre” risultarono dalla ripresa dell’esperienza
après-coup nella cura, l’après-coup che qui invertiva davvero la freccia del tempo.
Al punto che occorre senz’altro rovesciare del tutto le apparenze. È perché René si accinge a dover fare il lutto dei nostri incontri e della nostra relazione che si elaborano la storia del cinese, la storia dell’antenato e poi la questione della reliquia e del ricordo, con
l’apparizione della foto, alla fine, visibile. In questo senso, la storia del nonno del nonno
non è il prodotto deformato di una memoria lacunosa che tenderebbe a colmarsi, ma quello
della rimozione parziale delle conseguenze della mia sparizione. Questa storia è un contenuto manifesto. Il contenuto latente che essa ricopre e contiene riguarda in primo luogo la relazione appassionata, edipica, ostile e affettuosa, che noi abbiamo intrattenuto. La foto delle
donne si colloca là dove non ci sarà una mia fotografia.
Quando Pierre Fédida (1978) insiste sullo scarto, decisivo, tra la consapevolezza della
separazione e la credenza che qualcosa sussista malgrado tutto, intende sottolineare il ruolo
fondamentale della visibilità della reliquia contro la distruzione implicata dalla perdita senza
ritorno. Se “la reliquia è ciò che viene conservato del morto per garantire, in nome della
realtà, che egli non tornerà”, essa è anche, nella sua visibilità, ciò che dà corpo al rovescio
del mondo, alla sua invisibilità, alla sua parte nascosta, sottratta per sempre. Il ruolo della
credenza, credenza nell’immortalità di qualcosa contro l’annientamento, riguardava, nel caso di René, un suolo rispetto al quale la mia morte era il sottosuolo. La terra senza ricetta
coli, questo suolo diviso dal suo sottosuolo, è una terra d’esilio dove non c’è né un nascondiglio da scoprire né un mistero da penetrare a muovere l’attività di ricerca del bambino3.
Una terra senza requie e senza lacrime, luogo di un’eccitazione incapace di tornare al silenzio. L’esilio non è nella nostalgia, è nel turbine. Un turbine rumoroso oppure muto, alla ricerca dell’anestesia. Un turbine nel quale lo scomparso è, per eccesso o per difetto, un ospite senza volto. La gravità di questi casi non concerne dunque ciò che si è convenuto definire
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Come ho già tentato di chiarire in “Exils d’emants” (1987).
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il non detto. In un certo senso tutto è detto. Ma questo dire non porta affatto al costituirsi di
un enigma in cui l’assenza dell’altro dovrebbe allacciarsi al ricordo di sé.
D’altra parte l’attenerci alla versione in base alla quale il trattamento e la sua conclusione permettono la simbolizzazione della perdita ci dice poco sul motore della trasformazione.
A me sembra che, quando la rottura del legame è staccata dalla memoria della sofferenza,
sia l’irrompere del dolore a fare entrare il lutto nell’attività psichica. Certo la perdita è reale,
ma la realtà qui è messa per così dire in assenza di gravità, alterata dalla disgiunzione tra
realtà materiale e realtà psichica, apparentemente alleggerita dell’impatto economico
dell’evento. Solo il dolore è capace di fare entrare il lutto nell’effettività di un lavoro psichico. L’analista e il bambino devono dunque inventare il cammino, la storia che conduce fino
ad esso.
Il costituirsi dell’enigma
Nel 1960 sulla rivita inglese Psychoanalytic Study of Child si svolse uno storico dibattito la cui story è forse inaspettatamente rintracciabile nella lezione inaugurale di Claude
Lévi-Strauss al Collège de France4. Il punto di partenza di quello storico dibattito era uno
scritto di Bowlby sul posto da attribuire allo sviluppo del bambino nella possibilità stessa di
elaborare la sofferenza in lutto5. Nella sua lezione inaugurale al Collège de France, LéviStrauss poneva il problema di che cosa sia una domanda, che cosa una risposta, e
dell’attuazione incestuosa implicata nella riunione della domanda e della risposta. Sebbene
non lo dicesse in questi termini Lévi-Strauss poneva l’accento sulla sessualizzazione
all’opera, sempre all’opera, dal momento che viene aperta la questione dell’assenza,
dell’ignoto, del caos e della rimessa in ordine del mondo.
4
[Lévi-Strauss tenne questa lezione, “Elogio dell’antropologia”, il 5 gennaio 1960 durante il conferimento
ufficiale della cattedra di Antropologia sociale. La lezione compare in Antropologia strutturale (per la parte
a cui si riferisce Laurence Kahn si vedano in particolare le pagine 57-59 dell’edizione del Saggiatore). Il testo apparve in traduzione italiana anche in Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia. Einaudi,
Torino 1967. NdT)
5
Bowlby (1960). Il testo era seguito da una discussione critica di Anna Freud, Max Schur e René Spitz.
Questo articolo faceva seguito a un lavoro precedente sull’angoscia di separazione.
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Il bambino in lutto: l’enigma, l’evento, il dolore
Se si definisce l’enigma come una domanda alla quale si postula che non ci sarà risposta, scrive Lévi-Strauss [1960], si può rovesciare la frase e immaginare una risposta per la
quale non è stata una domanda. All’incrocio di queste strade si incontra il problema della
proibizione dell’incesto. Poiché la castità corrisponde a una risposta senza domanda, mentre
il commercio incestuoso corrisponde alla domanda senza risposta. L’incesto avvicina dei
termini destinati a essere separati: il figlio si unisce alla madre, il fratello alla sorella. Ma
l’enigma risolto, come il mito fondatore del divieto racconta, fa sì che la risposta riesca,
contro ogni aspettativa, a raggiungere la domanda. L’associazione della scoperta
dell’incesto e del motivo della sua proibizione costituisce dunque lo scarto, la disgiunzione,
ma è, nello stesso tempo, animata dal movimento fondamentale dell’incontro: la soluzione
dell’enigma vivente è personificata dall’eroe.
Proporre una domanda non equivale sempre a correre il rischio che essa incontri la risposta? E la scena della perdita, per potersi costituire, non presuppone forse la creazione
dello scenario dell’incontro? Incontro che è contatto o piuttosto scontro tra il tormento della
scomparsa e la spiegazione precaria della sua causa. Qui ci troviamo indubbiamente molto
vicini alla situazione descritta da Freud a proposito delle innumerevoli domande fatte, a cascata, dal bambino, che appena ha ricevuto una risposta, prosegue con un’altra domanda.
Certo il piacere sta nella ripetizione, ma ciò che si ripete è la realizzazione dell’incontro tra
l’enigma e la sua soluzione, mentre il centro della scena, la domanda cruciale, resta nascosta
dalla rimozione. In ogni caso bisogna intendere l’incontro nel senso forte dell’incontro sessuale e la scena si manifesta allo stesso tempo come uno spazio aperto e come il posto di un
ricettacolo impensabile.
Una tale sessualizzazione è, a mio parere, una via essenziale per l’approccio del bambino al lutto. E non basta dire che la sessualizzazione permette il legame. Il problema è sapere
come lo permette. Qual è il gioco non degli affetti, ma delle forze psichiche che entrano nel
processo di indagine? Il costituirsi dell’esclusione, la tensione tra l’eccitazione e
l’impossibilità di concepire la scena, sono decisivi per la possibilità stessa di conoscere e affrontare il dolore. La sessualizzazione permette così la trasformazione del dolore in un altro
dolore. Dalla perdita senza ritorno alla solitudine del bambino escluso dalla scena primaria,
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la sessualizzazione, lungi dal dare impulso al ritrovamento della passione, sposta l’abisso.
Da questo punto di vista la fantasia di seduzione, leva di tale spostamento, si configurerebbe
come la forza motrice del trattamento. È grazie ad essa che il bambino accede alla propria
sofferenza, quando, confrontandosi con la curiosità verso l’adulto e con la confusione delle
lingue, il gioco della passività e dell’attività sconvolge il dato dell’evento e lo trasforma in
enigma sessuale. L’angoscia della risposta mobilita, insieme, il terrore connesso alla trasgressione e il divieto della stessa realizzazione incestuosa; questo duplice movimento dà
corpo alla curiosità e alla colpevolezza del bambino. La distruzione e la fantasia omicida
trovano così il terreno di uno spostamento per significarsi e dare una forma alla scomparsa.
Sul terreno transferale della seduzione si compiono la realizzazione fantasmatica
dell’incontro e la perlaborazione6 del dolore e del lutto che ne derivano.
Della seduzione si è certo tenuto poco conto nel dibattito del 1960 sullo scritto di Bowlby e sul problema da esso posto: esiste propriamente un processo di lutto nel bambino piccolo? Però tale discussione ci permette di affrontare la questione da un altro punto di vista.
Riprendendo la descrizione delle tre fasi riconoscibili quando un bambino è separato
dalla madre - la fase di “protesta” con grida, lacrime, agitazione motoria, la fase di “disperazione” caratterizzata dal silenzio e dal ripiegamento e la fase di “distacco” quando il bambino si rivolge di nuovo agli oggetti - Bowlby sostiene che si tratta esattamente degli equivalenti delle fasi del lutto descritte da Freud in “Lutto e melanconia” e le identifica con queste:
rifiuto del verdetto della realtà, difficoltà di ritirare l’investimento poi riorganizzazione
dell’Io intorno a un nuovo investimento di realtà. Ora, se il dispiacere legato alla perdita era
stato a suo parere riconosciuto dagli autori che avevano affrontato il tema in precedenza, la
dimensione di un effettivo lavoro di lutto era stata ignorata da tutti. Prova ne sia che Anna
Freud e Dorothy Burlingham7, che osservarono con grande precisione gli atteggiamenti af6
[Per tradurre il concetto freudiano di Durcharbeiten-Durcharbeitung i francesi usano perlaboration e gli
inglesi working-through. La traduzione italiana non è univoca. La versione italiana dell’Enciclopedia della
psicoanalisi di Laplanche e Pontalis propone, com’è noto, “elaborazione (terapeutica)”. NdT]
7
Bowlby si riferisce a Infants without Families (ripubblicato a cura di Masud Khan da Hogarth Press nel
1974), questo libro contiene tutti i resoconti mensili dei nidi d’infanzia di Hampstead, il resoconto annuale
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fettivi dei bambini piccoli separati dai genitori durante l’evacuazione da Londra bombardata, non li hanno mai messi in relazione con un autentico processo di lutto. Hanno sempre ridotto il tempo di questo processo a quello del ritrovamento di un oggetto sostitutivo. Contrario a che si privilegi sempre solo il parametro della ferita narcisistica e della depressione,
Bowlby si oppone ugualmente a che si ritagli il modello del lutto su quello della perdita
primaria del seno materno, come fa Melanie Klein quando sostiene che lo svezzamento, paradigma del lutto precoce, genera una melanconia in statu nascendi. Nella stessa prospettiva
egli nota che le osservazioni di Spitz sulle reazioni all’ospitalismo, per risultare esatte, non
fanno che descrivere dei comportamenti narcisistici. E questi, concepiti sempre nel quadro
delle precedenti teorizzazioni sul narcisismo primario, trascurano la funzione del Super-io
nell’organizzazione di tali atteggiamenti. Bowlby è più sbrigativo con Winnicott. Sottolinea
che la posizione depressiva da lui concepita appare sempre come il felice risultato di un
processo normale e costante nella vita del bambino8.
Che cosa risponde Anna Freud? Innanzitutto che Bowlby, con la nozione di “attaccamento” (che secondo lei non è altro che la posizione anaclitica) lascia poco o nessuno spazio alle rappresentazioni psichiche legate all’investimento pulsionale inconscio a alloro trattamento da parte dell’Io. Poi che il narcisismo non riguarda un “comportamento”, bensì uno
stato di organizzazione del soggetto: negli stadi della prima infanzia l’oggetto non è trattato
della fine del 1941, nonché la ripresa e la discussione finale della questione dell’evoluzione psichica dei
bambini in queste nurseries: deambulazione, linguaggio, relazioni tra i bambini, formazione di famiglie artificiali, costituirsi di una madre sostitutiva, modi di soddisfazione pulsionale e pratiche autoerotiche (suzione
del pollice, masturbazione compulsiva, dondolio, offensa capitis e così via). Per inciso, vorrei sottolineare
quanto è emozionante accorgersi che l’osservazione diretta del bambino comincia in tempo di guerra, in un
momento di caos e di smarrimento totale, di resistenza comunque e in tutti i sensi del termine. Senza dubbio,
più che dal punto di vista dell’osservazione diretta del bambino, qui bisogna valutare l’importanza del progetto confrontandolo con Considerazioni attuali sulla guerra e la morte scritto da Freud proprio a metà del
1915 .
8
Eppure Winnicott (1954) mostra precisamente come la posizione depressiva presupponga l’accesso alla
“persona intera” e come il mantenimento contemporaneo di due esperienze collegate ai due aspetti della madre - la madre amata, che acquieta e la madre eccitante, che viene attaccata - sfoci nella percezione
dell’identità dei due oggetti e nella scoperta della fantasia.
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come una parte del mondo ma come una parte di sé, elemento costitutivo del narcisismo. E
infine: dato che le tre fasi descritte da Bowlby corrispondono a una descrizione, il problema
sta tutto nella loro interpretazione. La domanda di Anna Freud è molto precisa: la difesa descritta da Bowlby corrisponde a un processo difensivo orientato contro il riconoscimento
della realtà esterna o contro l’affetto stesso? Domanda cruciale perché nel primo caso si tratterebbe davvero di un lavoro di lutto, in cui la prima e la seconda fase corrisponderebbero al
tentativo di conservare il legame libidico con la madre e la terza al ritiro dell’investimento
con accettazione della perdita, movimento di introiezione e modificazione dell’Io. Ma questo è mai pensabile se il bambino non ha ancora raggiunto la capacità di conservare, dentro
di sé, la permanenza dell’oggetto ora perduto? E quando una tale permanenza interna non è
acquisita, come concepire il cambiamento provocato dal trauma della perdita se non come
un transfert d’investimento verso un nuovo oggetto anaclitico?
Anna Freud attribuisce quindi un posto centrale alla genesi dello sviluppo psichico del
bambino e, in particolare, all’evoluzione della relazione d’oggetto. Ora, io non sono convinta che ci si possa permettere di trascurare questo punto di vista quando ci si interroga sul divenire psichico di un bambino in lutto. Mi sembra che, più o meno, siamo sempre costretti a
tenere conto dello stato dell’attività psichica del bambino per chiarire gli effetti intrapsichici
della perdita. Quando Anna Freud [1954, 582-3], in “Il concetto di ‘madre che respinge’”, ci
ricorda che è altrettanto doloroso per il bambino piccolo abbandonare i propri sentimenti per
la persona amata, quanto lo è per l’adulto vivere un lutto, insiste anche sulla differenza essenziale tra questi due stati affettivi: mentre l’adulto è capace di ripiegarsi su se stesso e di
“legare” i propri sentimenti all’immagine interiorizzata dell’oggetto, il bambino ha bisogno
di una persona viva, capace di soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri. Ma l’incontro con
un nuovo oggetto non deve farci sottovalutare la gravità di quanto è accaduto. Poiché il primo tentativo di legame è stato distrutto, quello successivo non sarà più della stessa qualità:
l’esigenza di una soddisfazione immediata, la pretesa che si verifichi senza indugio, rivelano
le tracce dell’esperienza. E se ci saranno ripetizioni di quell’esperienza si avrà un deterioramento della capacità di ricreare il legame9.
9
Anna Freud (1964) riprenderà questo argomento in “Commenti sul trauma psichico”.
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Ma, aggiunge l’Autrice, è comunque lecito parlare di lutto? C’è una differenza tra
l’orfano strappato dalla morte alla coppia che egli forma con la madre e l’orfano “artificiale” di una madre vivente? Ora, mentre il bambino a cui muore la madre è oggetto della simpatia e della sollecitudine di coloro che lo circondano, quello la cui madre è soltanto assente
riceverà un interesse affettuoso minore e si tratta di “un torto”, scrive Anna Freud [ibidem,
581] perché “noi sappiamo che la madre ritornerà, il bambino no”. Anna Freud riprende qui
esattamente le parole di Freud in Inibizione, sintomo e angoscia circa l’incapacità del bambino piccolo di distinguere tra una separazione temporanea dalla madre e una definitiva.
Perciò importa poco la natura dell’evento dal punto di vista della realtà. Ciò che conta è
la sua natura dal punto di vista della realtà psichica, cioè il trattamento delle tracce lasciate
dalla perdita. E a questo proposito è senza dubbio particolarmente necessario tenere conto
della maturazione dell’apparato psichico quando bisogna distinguere il divenire della traccia
mnestica dal destino delle immagini mnestiche. L’anestesia corrisponde qui a un trattamento
della traccia mnestica, e l’amnesia non può essere attribuita solo alla rimozione delle immagini dei ricordi. Per contro si può capire come nella cura l’après coup, appoggiandosi sulla
permanenza interna dell’oggetto, carichi la traccia antica con l’esperienza attuale, la reiscriva sotto forma di immagine, la riorganizzi dal punto di vista del significato (Freud, S. 18871904; 1985)10. In questo senso l’après-coup mnemonico nella cura di René mi è parso illuminante perché, sebbene non potesse propriamente sfociare nell’eliminazione dell’amnesia,
corrispondeva a un trattamento di quelli che Freud [1985, 258] chiama “i processi primari
postumi”, trattamento il cui perno era ad un tempo la costituzione dello stesso enigma e la
sessualizzazione della sua messa in scena. In questo contesto irruppe il dolore sotto il suo
primo aspetto di violenza e sempre in questo contesto poté essere ripresa la funzione della
sofferenza, quella che René si infliggeva tramite la scuola, come puntello del “volere vivere
10
“I materiali presenti sotto forma di tracce mnestiche subiscono di tanto in tanto, in funzione di nuove con-
dizioni, una riorganizzazione, una reiscrizione” (Freud a Fliess, lettera del 6 dicembre 1896). [Qui Laurence
Kahn traduce direttamente dal tedesco; per ragioni di chiarezza e di coerenza con il testo dell’Autrice, mi attengo alla sua traduzione anziché, come vorrebbe la consuetudine, a quella dell’edizione italiana, nella quale
si veda la pago 236. NdT]
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davvero”. Mi sembra che nella sintomatologia infantile il fallimento scolastico massiccio,
con la sua corte fantasmatica di umiliazioni e di danni, tenga spesso il posto di un tale agente doloroso, conservato dal bambino, contro l’anestesia dell’“esistere soltanto”.
Il dolore a piccole dosi
Un’ipotesi simile viene proposta da Masud Khan. Il masochismo, cioè la creazione della
fantasia masochista da parte dell’Io, è destinato, secondo lui, a mantenere un clima di sofferenza che resta sotto controllo e può essere libidinizzata. Il compito dell’analista consiste allora nel permettere all’Io di allentare questi sistemi di controllo onnipotente in modo che il
Sé possa provare il dolore psichico senza che ci sia una minaccia di annichilimento. Dal suo
punto di vista il masochismo costituisce in questo caso una variante particolare della difesa
maniacale che l’Io utilizza per preservare il Sé da un dolore psichico che minaccia di annientarlo.
Luc aveva dieci anni quando venne da me per la prima volta. Aveva perduto la madre
due anni prima; era morta per una sclerosi a placche a evoluzione molto rapida. Dall’inizio
delle elementari andava sempre male a scuola.
La madre allora era già malata. Come comprendere che, in un primo tempo, Luc mi abbia presentato il racconto, direi compiacente e convenzionale, di tutte le sue sventure (che
erano davvero molte)? E come comprendere che in un secondo tempo abbia tanto confabulato? Luc creava e mi presentava innumerevoli compagni, che, assicurava, erano reali, con
loro trascorreva dei meravigliosi mercoledì11 per delle feste di compleanno, a loro volta innumerevoli e splendide. La caratteristica di questi compagni consisteva nel fatto che erano
tutti dei “piccoli spacconi”, “bambini niente affatto perbene”, ma allo stesso tempo estremamente affascinanti. Durante quel periodo, quando Luc mi parlava, tutto era privo di autenticità: gli affetti, il tono, i gesti manierati. L’alveolo, o il precipizio, della morte della
madre mi pareva avere dei margini così netti da indurmi a ipotizzare che non si trattasse tanto dell’organizzazione di un falso Sé quanto di un modo di sedurmi, che derivava, più o meno deformato, da ciò che Luc aveva vissuto accanto alla malata. Di fronte a questo bambino
11
[In tutte le scuole elementari francesi il mercoledì è giorno di vacanza. NdT]
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ferito ho adottato l’atteggiamento molto crudele di restare impassibile nella speranza che si
deprimesse.
Si manifestò allora una curiosità estrema. La mia vita privata, il nome di mio marito,
l’esistenza e la vita quotidiana dei miei figli - era sicuro che avessi due figlie, il che gli lasciava il campo ancora relativamente libero - i particolari privati del mio modo di impiegare
il tempo, tutto suscitava un’attrazione e un’indiscrezione senza ritegno, tanto che più di una
volta fu sul punto di frugare nei miei appunti, nella mia corrispondenza o nel mio appartamento. Ma, piuttosto che rivalità o ostilità verso i miei congiunti, questa attrazione affascinata manifestava l’esplorazione accanita di quello che lui si figurava come un gruppo di famiglia ideale. “Allora è tutta una famiglia! Tutta una grande famiglia!” ho finito per dirgli.
È stato come se non avesse udito affatto. Ma è arrivato alla seduta successiva molto cambiato, la voce e lo sguardo appesantiti. Ci furono poi, in seduta, degli addormentamenti intempestivi, lunghissimi silenzi, miseri disegni.
Davanti a uno di questi disegni piuttosto pietosi, come per scusarsi e trovare una spiegazione alla povertà della sua creazione, un giorno protestò: “Ma è il disegno di una città mezza distrutta!”. Allora gli domandai se non vedeva la sua famiglia mezza distrutta. Mi guardò, sbalordito, restò in silenzio, poi finalmente mi disse:
“Non so dove aveva le placche, mia madre”.
“Hai cercato?”
“No, avevo paura che morisse”.
Mancò la seduta seguente perché aveva l’influenza e a quella successiva arrivò in singhiozzi. Aveva ricevuto la sua pagella mensile. I suoi risultati erano catastrofici. Era inconsolabile e faceva una descrizione atterrita del suo avvenire scolastico. Io non dissi nulla della città mezza distrutta, ma gli proposi contrariamente alle mie abitudini e sorprendendo anche me stessa - di venire alla prossima seduta con la pagella, per guardarla insieme. Lo fece
e constatai, con grande stupore, che non c’era niente di spaventoso, che i risultati, senza essere brillano erano del tutto adeguati; glielo feci notare e gli chiesi perché questa pagella
l’aveva fatto tanto piangere. Ricominciò a piangere, in modo straziante:
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“Mia madre mi diceva sempre che il regalo più bello che posso farle è quando riesco
bene”.
Nella sua frase il passaggio dall’imperfetto al presente manifestava che la morte della
madre era conosciuta, ma che la colpevolezza era attuale. Colpevole di non aver potuto salvare sua madre, di non avere potuto guarirla. Luc piangeva l’impotenza di quei regali e lo
splendore dei suoi mercoledì.
Fu dopo questa sequenza che prese forma, in disegni grandissimi, coloratissimi, il furore
delle fantasie che lo animavano. Bulli di periferia castrati e bardati di caschi, corpi dilaniati,
teste di robot, riparazioni e mutilazioni di ogni genere proliferavano nei minimi particolari.
E le placche erano lì, trovavano la loro funzione, disegnate direttamente sugli scheletri,
mentre io scoprivo una specie di seconda versione dei piccoli spacconi. Nel punto di contatto tra violenza e dolore Luc elaborava un’angoscia di castrazione commisurata alla sua impotenza davanti alla morte, e all’onnipotenza che prima le aveva opposto. Come una spola
tra sadismo e masochismo, il lavoro psichico annodava e scioglieva filo dopo filo il legame
muto tra la sua debolezza di bambino e la mutilazione motoria della madre nel tempo che
aveva preceduto la morte. Solo molto più tardi la sua debolezza di bambino ha potuto attaccarsi alla sua debolezza di essere umano che era la debolezza di suo padre. La doppia via
identificatoria, maschile e femminile, era, a quel punto, aperta.
Siamo ben lungi dalla certezza che il “regalo della riuscita” corrispondesse al ricordarsi
in seduta di un frammento reale dell’amore edipico rimosso. E siamo ancora più incerti circa il fatto che la madre abbia realmente detto a Luc che delle buone pagelle erano i regali
più belli che potesse farle. Può darsi che tutto ciò sia stato una produzione del transfert.
Quello che invece mi sembra essenziale è che, di colpo, la visibilità della pagella si è annodata alla visibilità possibile dello spaventoso corpo della madre morta12. E che questa visibilità possibile, che spostava la distruttività verso il segreto della sua causa, tesseva la forma
di una risposta. Tra la città mezza distrutta e la localizzazione delle placche, la soluzione di
continuità, rottura e contatto ad un tempo, era della stessa natura di quella che congiungeva
la visibilità della pagella e la visibilità delle silhouettes grandiose e amputate. Ogni volta
12
“[Nel testo, molto più efficacemente: “corps de mort de la mère”. NdT]
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l’incontro con il dolore dava impulso all’incontro con una domanda sotto forma di enigma,
la cui soluzione prendeva la via dell’angoscia di castrazione. Se la sessualizzazione del lutto
nel transfert permette al bambino di uscire dall’anestesia totale o parziale forse è perché, dal
punto di vista della figurazione, essa dà accesso alla presentazione deformata di ciò che, per
effetto della scomparsa, è rimasto fuori dal campo delle presentazioni e perché, dal punto di
vista dell’economia psichica, rimette in movimento l’enorme quantità di eccitazione generata dalla perdita dell’oggetto amato.
In tal senso la posizione di Anna Freud mi sembra legittima e illuminante: dal grado di
elaborazione della relazione oggettuale dipende la capacità dell’Io di trattare le fantasie inconsce, e questo determina la natura e la qualità delle produzioni che sbocciano sotto
l’azione del transfert. Il problema non è quindi quello degli atteggiamenti del bambino, e
nemmeno quello degli affetti percepibili, perché il dolore in quanto tale è raramente accessibile. Controllato perché mantenuto a piccole dosi, dominato bene o male dall’Io con modalità mutevoli, il dolore prende in prestito lo scenario delle piccole punizioni per ritrovare e
al tempo stesso disconoscere il terrore senza conforto della grande punizione che si è abbattuta sul Sé. Ma nel transfert, ciò che manca e fa difetto oggi ha il potere di risvegliare
l’intrattabile, di riorganizzarlo in uno scenario violento, di disfare il silenzio che pesa su
quello che il destino ha rapito per sempre.
BIBLIOGRAFIA
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WINNICOTT, D.W. (1954) La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale. In:
Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975.
LAURENCE KAHN
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75011 Paris
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Eloquenza del segnale sensoriale
MARIA ZIEGELER
Eloquenza del segnale sensoriale
Introduzione
Il lavoro tratta del limite inteso come linea di definizione, come confine. C’è un limite
della dimensione verbale-simbolica e c’è un limite della dimensione sensoriale. Entro tali
confini si svolge la psicoterapia psicoanalitica.
La clinica rivela che, a seconda che il lavoro psicoterapico si svolga in dimensione sensoriale prevalente oppure in dimensione verbale simbolica prevalente, esso ha caratteristiche
veramente diverse.
Saranno comunicati elementi di osservazione ed elementi teorici e tecnici a questa relativi utili allo psicoterapeuta psicoanalitico per orientarsi sul caso che ha in carico e decidere
quale delle due dimensioni privilegiare in quel momento dato.
Lo psicoterapeuta che si prenda cura di un caso-limite è confrontato con azioni del paziente indipendenti da un pensiero significativo. Esse dipendono direttamente dalla dimensione emotiva inconscia dell’esperienza così come questa è vissuta dal paziente date le caratteristiche senso-percettive di cui dispone.
Diventa allora problema saliente trovare il modo di raggiungere la dimensione emotiva
inconscia quando ciò non è possibile tramite la verbalizzazione.
Sarà utile che il terapeuta possa distinguere tra le due diverse dimensioni della psicoterapia psicoanalitica: quella verbale che attribuisce significato alle emozioni e quella preverbale sensoriale delle percezioni e sensazioni sulle quali si costituisce la dimensione emotivo-affettiva dei sentimenti.
Si può ben pensare che esista, a delimitare ognuna della due dimensioni differenti tra di
loro, una linea di confine, un limite che definisce.
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Si può ben pensare che esista poi uno spazio entro il quale si stabilisce una relazione vivibile fra le due dimensioni. È questa la zona di confine, zona di trasformazione sia
dell’analisi sensoriale sia di quella verbale in una dimensione che dinamicamente si compone delle due ed è qualcosa di molto di più dei singoli territori dei quali essa sta al limite
(Bion 1961).
In ragione delle fantasie proprie al caso che esporrò si può ben pensare questa zona di
confine come un ponte che mette in comunicazione le due zone, che ne valica i limiti. È un
ponte sul quale c’è movimento tra i due territori confinanti.
Elementi di teoria
La neuroscienza ci testimonia oggi, basandosi su tecnica scientifica sperimentale, che
non solo all’inizio della vita, ma anche lungo la durata di questa, l’esperienza dell’essere
umano è legata allo sviluppo della dimensione corporea rappresentata dalle vie neurali. La
dimensione mentale dell’uomo, in strettissima dipendenza dell’esperienza di vita, si svilupperà a partire da qui (Gabbard 2000).
Freud ricorda in modo costante che la sua è ricerca psicologica e non biologica. Nonostante ciò dice della ricerca biologica che, in futuro, essa potrà precisare in maniera scientifica sperimentale alcune delle sue ipotesi. Importanti dal punto di vista che considera la dimensione corporea dell’uomo come determinante della sua dimensione psichica sono i Tre
saggi sulla teoria sessuale, in particolare quello su “La sessualità infantile” (Freud 1905).
Ricordiamo che Freud, introducendo nella teoria psicoanalitica il concetto di narcisismo,
spinge all’estremo le considerazioni sulla corporeità primaria dell’individuo umano che “è
un prolungamento del plasma germinale” (Freud 1917).
La teorizzazione psicoanalitica del primato della dimensione corporea dell’uomo proseguirà incessante. Cito pochi esempi importanti:
C’è il concetto di protomentale di Bion (1961): “Io rappresento il sistema proto-mentale
come qualcosa in cui il fisico e lo psicologico o mentale si trovano in uno stato indifferenziato. È da questa matrice che nascono i fenomeni che in un primo momento appaiono (a livello psicologico e alla luce di una indagine psicologica) come sentimenti distinti... Dato
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che si tratta di un livello in cui il fisico e il mentale sono indifferenziati, si capisce perché,
quando da questo prende origine un sentimento di angoscia, esso può manifestarsi tanto in
forma fisica che in forma psicologica”.
C’è, in tempi recenti, il concetto di “limite primigenio dell’esperienza” cui Ogden
(1989) dà il nome di posizione contiguo-autistica.
Con i casi-limite l’efficacia della cura dipende dal saper cogliere i segnali della dimensione sensoriale e nominarli in modo tale che essi divengano significativi. Si tratta davvero
di trasformare la dimensione sensoriale del paziente.
Se sono diverse le modalità in cui il paziente fa esperienza, sono necessariamente diverse le qualità dell’esperienza umana entro le quali lo psicoanalista è chiamato ad essere terapeuta della pena psichica.
Un terapeuta giocoliere
È bella la metafora che vede il lettore di psicoanalisi come un giocoliere che si adegua
allo scrittore di psicoanalisi il quale è, a sua volta, giocoliere egli stesso per necessità (Ogden 1989). I diversi oggetti che il giocoliere muove con attenzione tesa, precisione e rapidità
ci paiono essere un bell’oggetto unico in movimento, ma essi sono diversi ed il giocoliere
deve essere attento ad ognuno di loro. Si può ben pensare che egli crei la propria abilità padroneggiando gli oggetti separatamente quando si allena.
Questo scritto terrà in gran conto l’allenamento del terapeuta giocoliere necessario al
suo difficile lavoro. Osserverò i momenti di analisi sensoriale trascurando quelli di analisi
verbale. È un artificio che comporta l’esposizione molto limitata del materiale clinico.
L’esposizione è finalizzata a mostrare il netto limite che separa il territorio di sviluppo
dell’esperienza sensoriale da quello dell’esperienza verbale.
Solo infine potremo parlare di quella nuova zona-ponte, che sta tra i due territori, la cui
creazione è il successo di una psicoterapia psicoanalitica.
Ora però accenno a tale zona, in modo immediato e senza commenti.
Qui abitano i momenti di trasformazione del caso. Finalmente ci muoviamo sul ponte
che è stato costruito con un lungo lavoro di terapia.
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Questi momenti sono, per l’analista che ha lavorato al caso, i punti alti di una terapia
psicoanalitica, suonano come il nuovo canto di trasformazione che giunga dal nuovo ponte.
La paziente: “ho ancora in mente il sogno di ieri; lei non me ne ha detto niente, ma qualunque cosa lei avesse potuto dire di quel sogno io pensavo: non ha importanza se non capisco niente, perché io sento e so che era un sogno bellissimo” ... “ora io so, io sento se qualcuno mi vuole bene” ... “ora, in queste situazioni che erano di panico, mi trovo a non provare angoscia. C’è il cuore che batte regolare, c’è il respiro regolare. C’è un ritmo e io non mi
lascio più andare del tutto, io non mi perdo più. Allora ho un pensiero: c’è mio padre.”
Terapeuta.
Avevo taciuto perché al racconto di quel sogno avevo provata una commozione intensa,
forse anche dicibile. L’avevo accolta nel silenzio rispettoso dell’identità della paziente ora
separata da me.
Quanto ho citato è modello di credibili affermazioni della presenza di sensazioni e di
emozioni e di parole che le sanno dire. Il giocoliere analista mostra qui un bell’oggetto unico in movimento.
Se dico che tali affermazioni sono credibili, lo devo alla sensazione-emozione che è generata in me dal suono della voce che parla ed è in accordo con il sentimento di sollievo che
le parole esprimono. L’atmosfera è di verità. Dice il valido significato attribuibile al dialogo, spesso senza parole, durato quanto la psicoterapia e solo dopo molto tempo, solo alla fine nominabile.
Questo caso è stato l’esperienza che sta all’origine di quanto scrivo ora a proposito di
tecnica utile all’orientamento del terapeuta.
È tecnica che nasce dalle particolari difficoltà del lavoro psicoanalitico con il caso borderline. Il soggetto borderline prova sensazioni, percezioni ed emozioni intollerabili, legate
all’assenza della persona e/o alla mancanza delle circostanze che avrebbero dovuto esserci
perché la sua esperienza fosse adeguata, in primo luogo quanto a sensazioni e poi quanto ad
emozioni, sentimenti, pensieri e parole.
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C’è un intollerabile senso di perdita di elementi vitali, profondo, indicibile, immobile.
Se esso si mobilizza lo fa in falsi aspetti: l’attività è autolesiva, l’iperattività è insoddisfacente, l’altro non è cercato ma inseguito come presunto responsabile del disagio.
Con questo tipo di paziente ci si trova nella situazione in cui il lavoro psicoanalitico in
dimensione verbale è inadeguato. Infatti la nostra abituale ricerca di un senso da attribuire a
quanto ascoltiamo non trova nulla: sentiamo un discorso sconnesso, il suono violento
dell’impulsività trova sfogo nelle parole. Oppure troviamo un silenzio che è indifferenza
muta e disperata o, ancora, un assurdo discorso automatico ed apparentemente consapevole
che non rivela sentimenti ma li falsa in modo indifferente. Le parole non nascondono nulla
su cui intessere un significato. Ci troviamo di fronte ad un tessuto che manca di consistenza
perché la trama non lo tiene connesso. È un tappeto senza disegno; è una carta moneta che
non ha filigrana, è moneta falsa.
Osservazione clinica
Parlo del caso di una paziente che, un decennio dopo un tratto di terapia adolescenziale
dall’esito per allora soddisfacente, era tornata in terapia poco dopo la morte del padre perché la sua era improvvisamente diventata una vita di sofferenze eccessive ed incomprensibili.
Qui i movimenti del corpo hanno avuto valore di filo della trama, di segno delicato, appena visibile della filigrana. In sintesi, poiché percepivo che nelle parole ascoltate non si nascondeva una trama coerente, mi sono trovata a lavorare nella dimensione delle sensazioni
comunicate dal corpo. Parte del lavoro è stata possibile nella pura dimensione percettiva,
sensoriale, preverbale, corporea. “L’Io è, innanzi tutto, un lo corporeo”.
In molti tratti di questa analisi solo i gesti da me percepiti sono stati significativi.
Nel periodo iniziale sono gesti delle mani: diverse dita portano anelli che toglie, sposta
da un dito all’altro, ritmicamente, ripetutamente. L’attenzione alle mani in movimento è
confermata come valida tramite un’isolata immagine comparsa in sogno: dice che, nel sogno, ha visto uno dei suoi anelli. Era stato, dice, regalo prezioso del padre tanto tempo prima.
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Eloquenza del segnale sensoriale
Molto tempo dopo la mia attenzione viene attratta dalle sole mani liberate dagli anelli: la
mia paziente si accorge, in seduta, di fare un ritmico movimento di opposizione al pollice di
tutte le dita in successione, movimento che finisce con l’opposizione tra pollice e indice in
forma di cerchio.
Nella mia personale esperienza c’era stato una volta quello stesso movimento come credibile segnale di un “O.K! e grazie!” mai dimenticato.
Nell’esperienza dell’analizzante l’intero movimento, ritmicamente ripetuto, era stato,
come dice mentre lo nota con tono di sorpresa, un movimento abituale del padre.
La paziente mi dà così, con i movimenti, la possibile connessione significativa per la
verbalizzazione che, molto tempo dopo, diverrà possibile.
Poi passa a segnalare con sensazioni visive: un giorno gli abituali toni incolori e scuri
dell’abbigliamento sono sostituiti dal caldo e bel colore rosso di una giacca. Racconta di
aver potuto vedere, con piacere, il colore rosso dei capelli di un neonato in famiglia, e di
aver potuto, ora senza dispiacere, sentir chiamare quel bambino per nome: ha il nome del
nonno, il padre di lei. Le hanno detto che anche quel colore di capelli è quello del nonno.
Colore che lei non gli ha mai visto: suo padre era anziano quando lei è nata.
Solo dopo questa lunga fase di comunicazione sensoriale prevalente diviene possibile
muoversi in una dimensione verbale simbolica mentre la paziente incomincia a muoversi
nella vita in modo molto lontano dalle manifestazioni dell’organizzazione border scompensata che l’ha portata in terapia.
Vive una relazione sentimentale credibile e può dire del partner “meno male che questo
è diverso da tutti gli altri”; qui si riferisce alle precedenti sue storie egodistoniche ed autolesive, tipiche dei pazienti borderline.
Il segno di O.K., il colore rosso dei capelli, il nome del padre sentito con piacere significano per me che finalmente, col nostro lavoro, abbiamo ottenuta una nuova trascrizione sensoriale della storia della paziente e di suo padre.
Il padre torna, vivo in lei come forse non è mai stato. Tutto ciò vale se mi riferisco ai segni in dimensione sensoriale che sono stati accompagnati da un progressivo suo senso di
star bene. Se pensiamo al substrato neurobiologico il lavoro citato sin qui è avvenuto preva-
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Eloquenza del segnale sensoriale
lentemente entro il limite della dimensione di “mente e corpo non ancora separati”. E proprio ora compare uno di quei punti alti cui ho accennato prima:
“Ora, in queste situazioni che erano di panico, mi trovo a non provare angoscia. C’è il
cuore che batte regolare, c’è il respiro regolare. C’è un ritmo e io non mi lascio più andare
del tutto, io non mi perdo più. Allora ho un pensiero: c’è mio padre”.
Nei mesi in cui si compie la trascrizione della storia del padre la paziente incomincia a
vivere una storia d’amore. Si trova incinta e il partner, con cui la relazione si mostra sempre
più autentica e vivibile, propone il matrimonio. La paziente viene in seduta e racconta queste cose, sembra riflettere tranquilla, come ora è capace di fare, sulla cerimonia del matrimonio e dice: “lo voglio semplice; non voglio tanta gente, voglio solo i miei genitori”.
Quanto segue dice di un momento importante per me oltre che per la paziente. Per la
prima volta nella mia esperienza ho interpretato solo il movimento corporeo e ho dovuto
farlo in un momento in cui era questa la sola possibilità che mi rimaneva prima che la paziente abbandonasse.
Allora mi è stato dimostrato che l’importanza della comunicazione sensoriale è sovrapponibile a quella della comunicazione verbale.
Nella seduta successiva la paziente è per me irriconoscibile: c’è la ribellione aperta. Dice di non volere questa gravidanza e che, se si è messa in una situazione per lei inaccettabile
nonostante anni di analisi ciò significa che l’analisi non le è servita a nulla, che è inutile
continuare a parlare: non ha alcun senso per lei. Seguono due sedute di protesta molto dura:
un silenzio interrotto solo dalla sua ingiunzione di tacere qualunque cosa io tenti di dire per
comprendere l’angosciosa tensione presente. Viene ripetutamente dichiarato che non ha
senso alcuno che io dica qualcosa.
L’esperienza controtransferale è importante. Ricordo di aver percepito come doloroso
l’ambiente stesso del mio studio. Lì c’è, alla parete che ho di fronte, la riproduzione di un
Monet: un bambino fa una bolla di sapone. In quel silenzio ho visto e sentito quella bolla
farsi di vetro, frantumarsi, tagliente. In una esperienza in dimensione verbale ogni una paro-
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la aveva ora la qualità di quella bolla, in ogni caso troppo fragile ed anche capace di ferire
con i suoi frammenti.
La possibile rottura della nostra relazione era incombente. C’era un silenzio disperato ed
ostile di cui non sarei riuscita a venire a capo in dimensione verbale.
Intanto però la paziente era venuta lì, per la seconda volta, dichiarando poi inevitabile il
suo andarsene via. Unico segno di vita in quel silenzio pauroso è stato, ancora, il movimento della mano.
Infatti a momenti compare quel ritmico movimento delle dita della paziente che è stato
il segno dell’avvenuta trascrizione dell’esperienza di avere un padre.
L’esperienza di avere un padre era stata presente nel modo in cui la mano di lei si muoveva. Bisognava che diventasse esperienza di essere altra da lui e di poter essere ora al
mondo come lui ci era stato.
Allora decido di parlare per quella che sento e so essere l’ultima occasione di farlo. Traduco in parole solo quel movimento basandomi sul suo significato che si è generato nella
nostra ormai lunga storia.
Le parlo come ad un orfana di padre, che vuole assolutamente la presenza di lui al suo
matrimonio imminente, che subisce un rifiuto e lo percepisce nella sua inemendabilità di
morte come rifiuto assoluto nella realtà dei fatti della sua propria vita.
Le mie parole prendono così significato dal significato di quel gesto.
Trovo ascolto ed accettazione.
Dopo queste mie parole la realtà dei fatti, cioè l’avvenuta morte del padre, l’evento che,
inaccettabile prima di ora, le ha sconvolta la vita, viene accettato.
Entriamo così nel periodo del termine di questa analisi.
Ora siamo nella zona attorno al limite fra le due dimensioni dell’analisi che qui si mostreranno essenziali l’una all’altra nel costituire uno stabile ponte percorribile fra corpo e
mente bene funzionanti.
Dopo importanti esperienze nella vita reale affrontate dalla paziente senza eccessive angosce, dopo un periodo ricco di insight sullo sviluppo dei suoi sentimenti adulti, ci troviamo
ad elaborare la nostra imminente separazione.
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Eloquenza del segnale sensoriale
Anche la dimensione d’esperienza verbale-simbolica della paziente è ora bene consistente.
Ma l’atmosfera del nostro lavoro si sta di nuovo facendo difficile. Il periodo è annunciato da un sogno: “Ho sognato che c’era il terremoto. Non ho visto persone, non c’erano crepe
nei muri, nient’altro che sentire il terremoto. Solo la sensazione di instabilità, la terra che si
muove e non c’era niente di terribile. No, non era terribile”.
Questo è un sogno a dimensione sensoriale: è costituito dalla sensazione di instabilità
del corpo pur appoggiato sulla terra. La terra stessa è percepita instabile.
Riprendono le difficoltà dichiarate e sarebbero sconcertanti per me se non avessi vissuto
il difficilissimo momento che ho descritto prima.
Essenzialmente appare come se tutto il recente cammino fatto non volesse essere riconosciuto, come se l’analizzante tendesse a farsi trascinare indietro nel tempo. Racconta come se fossero attuali molte delle difficoltà di un tempo. C’è una specie di accusa ricorrente:
“Lei pensa che io sia cambiata ma non è vero. Non è cambiato veramente nulla”. Di nuovo
tutto ciò che dice in seduta mi trova impotente a rispondere alcunché. Di nuovo non ci sono
parole valide in questa situazione troppo intensa di angoscia.
Ancora una volta, ad attrarre la mia attenzione è l’eloquenza dei movimenti. In questo
momento critico prevale di nuovo la dimensione sensoriale ed è questa che può condurre
l’analista a trovare significato dicibile.
Non mostra più le mani. Esse stanno nascoste sotto il cappotto che usa avvolgendosene
all’inizio della seduta come se fosse una coperta. Non vedo le mani ma ho notato che non
porta più altri anelli che la fede nuziale.
Ad attrarre la mia attenzione è il fatto che invece delle mani ora muove le gambe. Infine
solleva un piede quasi a guardarlo e io in quel momento noto che porta scarpe per lei molto
nuove ed insolite: sono robuste, con suola scolpita: è il tipo di suola usato nelle calzature da
trekking. A differenza di quel che sta dicendo che è inquietante, quasi confusivo, quella suola sa di sicurezza. Tutto ciò riporta alla mia mente un sogno dei primi tempi del nostro lavoro; un sogno i cui elementi mi paiono importanti ora: erano il camminare ed il cambiamento.
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Mi trovo a raccontarle il suo vecchio sogno, col tono di chi raccontasse una favola:
“c’era una volta” ... questo sogno:
“Facevo un difficile percorso in salita per arrivare alla casa di una mia amica che stava
lassù. Non solo si doveva camminare in salita: era il percorso ad essere molto difficile. Si
doveva attraversare un fiume su un ponte sospeso. Questo non aveva sponde; era fatto di assi messe di traverso, ai lati c’era il precipizio e c’erano dei vuoti perché alcune delle assi
mancavano. Era molto difficile e pericoloso. Alla fine arrivavo dove stava la mia amica e le
dicevo quanto era stato difficile camminare così. Mi rispondeva che le cose erano già cambiate in meglio: prima avevano dovuto muoversi aggrappandosi a delle liane sugli alberi
perché non c’era neppure quella strada”.
Credo che il fatto che quel sogno mi tornasse alla memoria in quel momento fosse legato alla sensazione di pericolo che può dipendere dall’instabilità della terra sotto i piedi. Instabilità che avevo condivisa con la paziente la volta lontana del racconto del sogno e che di
nuovo si faceva temere nell’attuale situazione analitica della nostra separazione. Questa sensazione, ora molto meno temibile di un tempo, era stata richiamata sia dal recente sogno del
terremoto, sia dal contrasto fra il suo attuale vaniloquio e la solida struttura delle sue scarpe.
Ecco lo sviluppo del ricordo del sogno lontano e del mio racconto di “c’era una volta”.
Lo sviluppo è sia verbale sia simbolico in questi modi: dice, in tono subito molto diverso da quello di inizio seduta, che ha bisogno di chi le voglia bene, che sente che il marito le
vuole bene; che molte volte non capisce il senso di quel che le viene detto, molte volte non
ha capito neanche qui; ma sempre sente se le si vuole bene e sa che anche qui molto è cambiato “andando in questo modo”.
Alla seduta successiva ha finalmente di nuovo fatto un sogno e lo racconta subito:
“C’era da fare un percorso obbligato in discesa; non ero sola, c’era qualcuno con me che mi
dava una mano. No. Era qualcuno che mi aiutava. Il percorso era in discesa ed aveva ai lati
il precipizio; lo so perché qualcuno vi precipita davanti a me; ma questo non è troppo spaventoso; la persona che precipita io non la vedo morta; è solo la prova del fatto che c’è pericolo e che ci vuole molta attenzione. Ma io cammino e non si riesce a capire bene dove si
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mettono i piedi: sono dei gradini? No, sembrano delle tegole, no, degli scatoloni. Ma io
cammino e non sono sola; c’è qualcuno, non so chi è, che mi aiuta”.
Aggiunge: “È un sogno che non è brutto e che mi ricorda quello che lei ha ricordato
l’altro giorno: quello dove si saliva”. La paziente conclude questo sogno di fine analisi cercando la parola con cui dire la sua base di appoggio in un percorso finale di discesa.
Esclude la parola “gradini” ed anche quella “tegole”, che hanno tutte e due a che fare
con dimensioni piane, di superficie. Infine sceglie scatoloni; la sua immaginazione passa
dalla geometria piana delle superfici a quella dei corpi solidi. Parla di una dimensione capiente, di contenitori ampi e delimitanti e limitati dalle loro pareti piane. Penso al contenuto
del nostro lavoro: penso alla tanta esperienza della paziente vissuta in modo nuovo e profondo, quasi creata nel momento in cui poteva infine essere nominata.
Per l’orientamento del terapeuta: la tecnica
Ho descritto la zona di confine fra due diversi tipi di lavoro, quello sensoriale e quello
verbale. Essa appare, a lavoro ben fatto, come bene vivibile. Spesso, quando infine ci troviamo a muoverei in questa zona-ponte, ci chiediamo che cosa abbiamo fatto per arrivare lì.
La risposta che il caso osservato suggerisce è che, innanzitutto, abbiamo modificata la
modalità percettivo-sensoriale della paziente.
Ho descritto un modo in cui si raggiunge e si modifica l’organizzazione senso-percettiva
del paziente. Tenerlo presente significa sapersi orientare durante il proprio lavoro. Significa
disporre di una tecnica.
Voglio ancora notare che quanto nel racconto attuale appare chiaro e conseguente non si
è presentato come tale. Ciò che ho descritto è avvenuto lungo tre anni di lavoro.
Dopo parecchia elaborazione di quanto infine ho saputo pensare in modo chiaro e conseguente, ho costantemente cercata la verifica di ciò che ho descritto e la verifica c’è stata,
costante in molti casi.
Citerò perciò, infine ed in sintesi, due altri casi in cui la tecnica di attenzione
all’eloquenza del segnale sensoriale si è mostrata valida.
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Eloquenza del segnale sensoriale
Cenni alla validazione della tecnica descritta
Il primo caso è caratteristico perché c’era una difficoltà estrema all’uso della verbalizzazione. È particolare del caso che tale difficoltà fosse agita a livello corporeo. La paziente
non poteva quasi parlare a causa di una tosse incessante. La tosse impediva a questa ragazzina di vivere: mi è stata indirizzata da un pronto soccorso dove non si trovava modo, ormai
da molte volte, di farle superare con farmaci abitualmente adeguati le crisi di asma tanto
frequenti da essere quasi uno stato asmatico. Non poteva frequentare la scuola: la sua rumorosa tosse impediva ai professori di farsi sentire.
Io divenni un tipo di insegnante insolito; non avevo proprio nulla di mio da dire ma
ascoltavo il suo respiro affannoso e condividevo quell’affanno: quello che lei non sapeva né
dire né pensare, mentre il suo corpo lo urlava con la tosse. Tra un accesso di tosse e l’altro
potemmo un bel giorno parlare di una domenica in cui, così bisbigliò, era pur andata a sciare; con quelle sue parole mi faceva cogliere un suo rapporto felice con la velocità che si può
acquistare in una discesa su pista. Bene, mettendo io in parole il senso felice di velocità di
una discesa con gli sci, la ragazza incominciò a parlare di quanto le fosse piaciuto andare in
macchina col padre che andava veloce. La tosse non la interruppe, la lasciò parlare: per la
prima volta diceva dell’incidente automobilistico che aveva causato la morte del padre.
Seppi solo in quel momento che era stato un sinistro in autostrada causato da un camion che
veniva dal Belgio. Questo lutto non era stato elaborato da lei: nascosto nell’assenza delle
sue parole era manifestato dal clamore della sua tosse. Quel che seppi condividere con lei e
dire a lei in modo da incominciare a comunicare fu nominare le sensazioni di una discesa
con gli sci provate da me. Si può raggiungere la dimensione sensoriale semplicemente parlando di sensazioni che siano importanti, nell’accenno che il paziente vi fa e nella nostra
esperienza controtransferale presente in seduta. Questo nostro parlare può essere una prima
verbalizzazione significativa elementare che permette poi l’accesso alla dimensione sensoriale inadeguata del paziente.
Ancora un caso dei tanti:
Ci furono mesi e mesi di lavoro con questo paziente la cui capacità verbale simbolica
era solo apparentemente adeguata. Brillante docente di scuola superiore era in preda a dispe-
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razione costante e a eccezionali difese ossessivo-compulsive. Nelle sue azioni non meno che
nei suoi sogni comparivano fogli di carta: mi portò fotografie che contenevano immagini
tanto convenzionali da apparire raggelanti, comparve in sogno una strana parete facile da
abbattere perché era fatta di carta su cui erano disegnati i mattoni. Come materiale di analisi
verbale-simbolica i contenuti di questi fogli di carta erano inafferrabili, desertificati. Dopo
mesi così arrivammo al momento in cui parlò della luce sulle nuvole, della luce riflessa
nell’acqua, bella per lui come quel bagliore di un raggio di sole sul cristallo di un vaso che
stava percependo in quell’attimo nel mio studio. Sentii che finalmente ci si stava avvicinando alla dimensione sensoriale dell’esperienza. Mi fu a tratti possibile nominare le emozioni
che provava quando potevo parlarne per suggerimento controtransferale in tal senso. Infine
fu per me felicemente emozionante vedergli davvero portare in mano dei fogli su cui aveva
annotati i sogni della notte e commentare le sue annotazioni parlando dei suoi sentimenti
provati nel sogno. Teorico del campo, portò davvero, nei sogni scritti su fogli, elementi di
geometria dei solidi con notevole valore simbolico. La dimensione percettivo-sensoriale in
cui faceva esperienza a quel punto non era più appiattita, ma coerente con un corpo tridimensionale dotato dei sensi.
È questo un altro caso che passò dai simboli della geometria piana a quelli della geometria solida quando finalmente fu stabilita una sua dimensione sensoriale adeguata, quando
ottenne una dimensione corporea solida, dalle sensazioni sicure.
Potersi saldamente basare su un buon senso comune è il dono che viene da una dimensione di esperienza sensoriale adeguata. Ho parlato del modo di raggiungere la dimensione
sensoriale e di lavorare ad essa.
La dimensione sensoriale è inadeguatamente sviluppata in ogni caso di disturbo mentale. Lo è con intensità variabile a seconda del caso al quale lavoriamo. Tale inadeguatezza è
comunque sempre molto elevata nell’organizzazione di personalità borderline.
È sorprendente per chi abbia esperienza di psicoanalisi il fatto che in un caso-limite solo
quando la dimensione sensoriale si sarà adeguatamente sviluppata il paziente svilupperà al
meglio la dimensione verbale-simbolica.
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Eloquenza del segnale sensoriale
A questo proposito ricordo ancora la ragazzina di cui ho detto prima: nel mio ricordo ha
un nome: “l’innamorata del vocabolario”. Quando venne da me era al secondo anno di scuola media superiore e quando mi parlò dell’incidente mortale del padre, specificando che quel
camion assassino veniva dal Belgio, aggiunse che non sarebbe mai andata in Belgio e che
mai avrebbe voluto incontrare un “belgico”. Lungo il percorso psicoterapico sviluppò un
grande interesse per la lingua italiana. Divenne davvero “l’innamorata del vocabolario”.
Quando alla fine del nostro percorso parlò ancora di quell’incidente nominò l’autista come
“belga”. Conosceva infine le parole giuste...
A dimensione sensoriale adeguatamente trasformata i nostri pazienti impareranno a trovare le parole giuste per dire quel che finalmente sapranno sentire. Poi vorranno farlo da soli
e saranno in grado di farlo. Qui la responsabilità dell’analista terapeuta consiste
nell’orientarsi sulla situazione in modo da affidare al paziente la sua propria responsabilità
di se stesso al momento opportuno.
BIBLIOGRAFIA
BION, W.R. (1961) Esperienze nei gruppi ed altri saggi. Armando, Roma 1971.
FREUD, S. (1917) Introduzione al narcisismo. OSF, 7.
FREUD, S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF, 4.
GABBARD, G.O. (2000), A neurobiologically informed perspective on psychotherapy. Br. J.
Psychiatry, 177, 117-122.
Una prospettiva sul transfert basata sulla neuroscienza cognitiva. Relazione tenuta a Firenze, Convitto Ecclesiastico della Calza, per gentile concessione dell’Autore.
OGDEN, T.H. (1989) Il limite primigenio dell’esperienza. Astrolabio, Roma 1992.
RIASSUNTO
Si tratta del limite inteso come linea di definizione della dimensione verbale simbolica e
della dimensione sensoriale entro le quali si svolge la psicoterapia psicoanalitica. Si tratta
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anche della zona di confine che si genera tra i due limiti. Ove si tenga conto di tali limiti
teorici, si disporrà della capacità tecnica di orientarsi sul trattamento psicoanalitico e psicoterapico in atto e di scegliere la via da percorrere. Sarà possibile capire se, in un dato momento, sia opportuno utilizzare l’interpretazione verbale simbolica, là dove le parole definiscono le emozioni attive, o se si dovrà privilegiare la condivisione col paziente di stati emotivi che esistono per lui solo a livello di sensazioni corporee e di conseguenti azioni impulsive.
È accennata la possibilità, degna di ogni attenzione, che la dimensione sensoriale venga
raggiunta tramite la parola.
SUMMARY
Eloquence of the sensorial signal
Limit is intended here as a line, that defines the symbolic verbal dimension and the sensorial dimension within which psychoanalitic psychotherapy takes place. It is also the borderline that develops between the two limits.
Whenever these theoretical limits are considered, a technical capacity will be acquired
of understanding the psychoanalitic and psychotherapeutic process that is taking place and
to chose the best way to follow.
It will be possible to undersland, at a cerlain moment, whether it should be better to use
symbolic verbal interpretation - where words define active emotions - or whether to share
the emotional states of the patiens - that only exist for him at the level of bodily sensations
and of consequent impulsive actions.
The possibility is also mentioned - and it’s worth paying attention to it - of reaching the
sensorial dimension by talking.
MARIA ZIEGELER
via Roccavilla 4/13900 Biella (Bi)
[email protected]
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
PIA DE SILVESTRIS
Terminabilità o interminabilità dell’analisi
Il ritorno di Pietro
Freud, con uno dei suoi ultimi saggi, Analisi terminabile e interminabile (1937), ha lasciato il testamento del suo sapere psicoanalitico. In questo testo egli propone l’idea del
funzionamento psichico con una rappresentazione certamente non univoca, perché fondata
sulla doppia dimensione, temporale e atemporale, dello psichico. Nella dimensione temporale del pensiero secondario è molto difficile includere e contemplare l’atemporalità
dell’inconscio e quindi l’interminabilità dell’analisi.
Nella letteratura psicoanalitica si incontrano, sull’argomento della fine dell’analisi, due
orientamenti principali. L’uno mette l’accento sui risultati della psicoterapia ed anche
sull’importanza dei tempi brevi; specialmente quando i pazienti sono bambini e adolescenti,
ci si augura un felice lasciare andare, si ritiene cioè di non trattenerli nel momento in cui sopraggiungono dei cambiamenti utili. Ciò vale talvolta anche per gli adulti gravi. L’altro
orientamento tende a proporre analisi molto lunghe e a seguire un criterio diverso circa la
“guarigione”.
In realtà i due punti di vista non sono imprescindibili l’uno dall’altro perché è vero che è
importante che l’analista non sia ritentivo, e quindi che la cura sia terminabile, ma è anche
vero che l’analisi è interminabile di per sé anche quando la cura è terminata. I sintomi, finché c’è un inconscio, permangono anche se cambiano, si attutiscono, prendono altre strade.
La differenza tra cura e analisi è che l’analizzabilità dei derivati dell’inconscio è potenzialmente illimitata; la cura si confronta con una serie di limiti, interni ed esterni alla relazione analitica compreso il limite che riguarda il finire. Nella scelta del tempo in cui terminare la cura intervengono spesso circostanze provocate dal paziente, dai genitori (nelle analisi infantili) o dal terapeuta, ma ciò non si può mai definire fine dell’analisi.
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
Quello che si sperimenta nel corso dell’analisi è l’immersione nel non tempo. Chi quindi
decide che è finita? Di solito i criteri a cui si fa riferimento sono consci. La relazione analitica si svolge a nostra insaputa, è un altro regno (Alice nello specchio), è stare
nell’interminabilità e solo per motivi economici introduciamo la terminabilità. La durata
concreta dell’analisi reintroduce il tempo reale, mentre l’analisi “non dura” in quanto non ha
tempo.
Se nell’interminabilità introduciamo il tempo cronologico, c’è la conclusione. E la conclusione, anche se è difficile ammetterlo per noi terapeuti, avviene quasi sempre per motivi
esterni ai quali ci conformiamo. A volte sono i genitori che desiderano che il bambino o
l’adolescente continui la terapia perché, dicono, hanno paura di una ricaduta, quindi temono
i disagi che essi potrebbero arrecare e che immaginano si possano evitare con la terapia. A
volte è il bambino o l’adolescente che prova a sostituire il guscio protettivo familiare con la
terapia che lui usa allo stesso modo, per cui ha difficoltà ad andarsene. Infine anche
l’analista, soprattutto nei casi gravi, da una parte teme di non aver fatto ancora abbastanza e
dall’altra non ne può più e non vede l’ora di liberarsene.
L’analista che si trova tra il martello della colpa e l’incudine dell’insofferenza cerca di
trovare un compromesso di terminabilità. Ma tutto ciò è sempre espressione dell’andamento
relazionale inconscio, cioè di una vicenda che, non potendosi esprimere com’è, necessita di
trovare delle giustificazioni coscienti adeguate al contesto di “realtà”.
Ogni essere umano è portatore e soggetto di trauma, ogni paziente viene in analisi con il
suo bagaglio di traumi subiti e procurati, qual è la funzione dell’analisi relativamente al
trauma? Non credo si tratti semplicemente di “elaborare il trauma”, quanto piuttosto che
l’analisi possa permettere al soggetto di riutilizzare, il più possibile, quegli investimenti che
servivano ad isolare il trauma, per poterli usare insieme ad aspetti del trauma stesso nella
costruzione di sé.
Vorrei ora portare il caso di una terminazione molto sofferta e difficile sia per il paziente
che per l’analista.
Anna, una donna di trent’anni, venuta in analisi per una grave depressione, dopo dieci
anni in cui sembrava che, nella realtà, l’analisi non potesse terminare mai, dopo aver supera-
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
to vari livelli di insicurezza e di bisogno si accinge a finire la terapia. È molto commossa ma
contemporaneamente la sento risoluta. In questi anni è riuscita a ritornare ad occuparsi con
gioia della sua famiglia e anche a fare un lavoro di volontariato.
Nell’ultimo giorno dell’analisi mi racconta un sogno. Andava nella sua casa di bambina
e trovava un cartello listato di nero che diceva: “affittasi”. Chiedeva al portiere il permesso
di farle rivisitare quelli che erano stati i luoghi della sua infanzia.
Mentre raccontava mi veniva in mente un ragazzo che un giorno suonò a casa mia e mi
chiese di rivedere il giardino: in un angolo c’era il fico della sua infanzia; lo guardò e se ne
andò contento. La stessa cosa mi pareva che potesse fare Anna. Era finito quel rancore verso
i genitori che le impediva di parlare con affetto dei suoi primi anni di vita, ora finalmente
poteva guardarli e recuperarli con emozione e contentezza. Si poteva parlare come dice
Bruno Schulz (1937) “di maturazione verso l’infanzia”.
Ma qual è il tempo propizio, il kairòs, in cui il paziente sente che può separarsi? Come
quando Freud parla del lutto in cui si ritirano gli investimenti per poi con il tempo reinvestire altri oggetti, quello che prevale è lo spostamento. Prima di Lutto e melanconia Freud
aveva parlato del perdurare del transfert per spostamento su altri oggetti in una lettera a Ferenczi del 1910 (Freud/Ferenczi 1908-14, 129-130), nella quale Freud riportava la favola di
“Giovanni il Fortunato” come esempio di un transfert che passando da un oggetto all’altro si
esaurisce soltanto con la morte (De Silvestris, 1992).
Il ritorno di Pietro
Penso spesso ai bambini che ho avuto in terapia e che talvolta se ne sono andati insieme
ai loro sintomi. Ma se i sintomi sono eventualmente l’estremo modo di comunicare un bisogno e quindi di attirare l’attenzione, la stessa cosa forse si verifica quando se ne vanno, cioè
quando i bambini riescono a poter sostituire ai sintomi baratti e vincoli nella trama del tessuto familiare.
Siamo abituati a pensare che la decisione più o meno improvvisa di terminare sia dovuta
ad una resistenza dei genitori o anche del genitore dominante per una difficoltà a tollerare
un approfondimento della cura. Se i genitori hanno designato inconsapevolmente il figlio ad
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
essere portatore di una patologia, la scelta di fargli terminare la terapia sarebbe verosimilmente connessa a necessità altrettanto patologica, una necessità a cui il bambino certo non è
indifferente poiché è vitale per lui curare i genitori, è il prezzo della vita. Ma potremmo anche chiederci se quella decisione di terminare, apparentemente presa dai genitori, non sia
invece determinata anche dal bambino e dall’analista come espressione di un compromesso
tra il bisogno di vita del piccolo paziente ed un bisogno di riparare i genitori, qualcosa che
riguarda sia il bambino che il terapeuta. Infatti credo che, poiché la richiesta di terapia di un
bambino viene sempre dai genitori, evidentemente comunicata insieme ad un loro bisogno,
una componente importante delle motivazioni del terapeuta potrebbe essere quella di riparare un sé infantile incapace di corrispondere alle aspettative dei genitori, nel senso di non ritornare a deluderli. In questa chiave terapeuta e bambino sono alleati in una direzione terapeutica non resistenziale: così il progresso riparativo si avvale del fatto che il terapeuta, essendo disponibile ad essere riparato, facilita la trasformazione di quegli oggetti che si costituivano come ineluttabilmente distrutti e quindi non davano adito a nessun altra possibilità
di identificazione.
Credo che la questione si possa anche affrontare da un altro punto di vista, che è teorico
ma insieme anche ideologico. Se l’analista considera la relazione bambino-genitore come
competitiva e quindi probabilmente distruttiva, deve necessariamente interpretare tutto il
contesto come patologico e di conseguenza si pone relativamente ad esso ancora una volta
in una relazione competitiva che dovrebbe contrastare quella patologica. Se l’analista invece
vede nella relazione bambino-genitore un nucleo fondamentalmente vitale che ha difficoltà
a sopravvivere per un sovrappiù traumatico, dove la causa del trauma non è necessariamente
ascrivibile agli attori in scena poiché la condizione traumatica potrebbe essere l’unica possibilità di vita che tutti insieme hanno ricevuto sia dal dentro che dal fuori, allora l’analista
non potrà fare a meno di interpretare quel nucleo come qualcosa di vitale da difendere e di
lavorare per renderlo più forte e capace di metabolizzare i traumi.
Poiché non è facile decidere quali di queste posizioni teoriche siano di volta in volta più
fondate, e poiché è un moto personale di affetti che guida l’analista a propendere per l’una o
per l’altra, per questo dico che si tratta di un vertice anche ideologico “nel senso in cui
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l’ideologia può essere un rappresentante, per spostamento e condensazione, di affetti o
traumi rimossi. Di fatto non credo che nella pratica si possa decisamente trovare una posizione o l’altra, ma ho invece l’impressione che esse oscillino o si alternino all’interno di una
stessa esperienza psicoterapeutica.
La problematica genitoriale si condensa molto in quello che viene chiamato “il lutto dello sviluppo” (Palacio Espasa 1999) che si inscrive lungo quel processo di trasformazione
dell’essere umano che va dalla graduale rinuncia della propria condizione di bambino alla
graduale assunzione di una funzione genitoriale con tutte le sfumature intermedie. In altri
termini, la capacità di una funzione genitoriale è strettamente connessa al poter tollerare la
perdita dell’oggetto.
Lo stesso problema, dal momento che il lutto è un processo che non finisce mai
nell’essere umano, si pone anche per l’analista. Infatti anche l’analista dovrebbe sempre
chiedersi se istintivamente sta più dalla parte del bambino o dalla parte del genitore, quando
interviene nella relazione bambino-genitore.
Nel ripensare a come sono finite le terapie di molti bambini, a distanza da quelle analisi,
mi viene da riflettere su un aspetto che allora non prendevo in considerazione. Ho
l’impressione che un bambino che viene in analisi si trova sempre nella condizione di essere
esposto ad un trauma o a più traumi, non ha importanza se recenti o passati. Ciò che vengono a chiedere insieme il bambino e i genitori è la possibilità di chiudere quella ferita aperta
che angoscia tutti e quindi di poter dimenticare piuttosto che ricordare. Però per poter chiudere la ferita è necessario anche poterla scavare e ripulire. Questo processo non avanza in
modo lineare ma va continuamente oscillando fra un tentativo di approfondimento e un tentativo di copertura provvisoria. Per esempio, se nella terapia l’analista intravede una sofferenza intollerabile, riferibile ad una dipendenza di tipo orale, che in sé può contenere alti livelli di reciproca aggressività, vedrà quasi certamente che il bambino nel gioco tenderà ad
assumere la funzione da cui dipende, per cui il dolore diminuirà magicamente. In questo caso l’analista non ha bisogno di interpretare perché sa che il bambino sta iniziando in quel
modo un processo di cicatrizzazione. Naturalmente tutte le difese del pensiero di fronte al
dolore, si pensi a quelle dei popoli primitivi, all’inizio sono sempre costruite in modo magi-
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
co e onnipotente; solo a partire di lì hanno la possibilità di evolvere verso costruzioni più
complesse e sofisticate.
In questo senso la terapia di un bambino potrebbe essere circoscritta in questo tipo di
operazione fondamentale: la rimozione del trauma e di conseguenza l’apertura della possibilità della costruzione dell’Io.
La fine della analisi infantile è perciò un transito verso una condizione più evoluta o che
presuppone una possibilità di evoluzione. Si termina quando il bambino, il terapeuta e i genitori hanno fatto un’esperienza di pacificazione interna, cioè di minor attrito o conflittualità
tra aspetti infantili e imitazioni adulte fragili.
In un suo recente lavoro Maria Luisa Algini (2002) ci ricorda come la conclusione del
percorso analitico con un bambino non vada intesa nel senso di un “esaurimento”, penso che
la si potrebbe considerare anche come una necessaria latenza che interviene rispetto al discorso esplicito della relazione per favorire l’elaborazione profonda e solitaria
dell’esperienza già introiettata.
Vorrei ora rendervi partecipi di una riflessione che ho potuto fare attraverso il ritorno in
psicoterapia di un paziente che avevo analizzato per quattro anni quando era bambino.
Pietro era venuto da me per la prima volta a tre anni, a sedici chiese di tornare1.
L’adolescente che ritorna in analisi, dopo aver fatto una terapia da bambino e quando,
secondo me, quella terapia è riuscita ad accompagnarlo alla realizzazione di uno stato di latenza, si trova in una posizione particolare.
L’analisi che ha fatto lo ha portato alla rimozione. La rimozione riuscita fa si che anche
il periodo della terapia rientri nel rimosso, perciò, quando l’adolescente ritorna, difficilmente vuole riprendere dal punto dove ha lasciato; desidera che gli incontri siano una nuova
esperienza. È un individuo che avendo rimosso i conflitti edipici, al momento
dell’adolescenza rievoca in modo diverso (essenzialmente attraverso spostamenti, scissioni
1
Ho dedicato all’analisi di questo bambino un capitolo del libro Il transfert nella psicoanalisi dei bambini.
Vedi De Silvestris (1994)
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
dell’oggetto buono e cattivo) quei conflitti ma senza nessun nesso di memoria. Soffre senza
sapere il perché.
Pongo subito un interrogativo che naturalmente può sorgere solo nell’eventualità di un
ritorno. Deve il terapeuta rispettare questo rimosso? O addirittura, proprio perché in qualche
modo ci sembra di esserne a conoscenza, e la stanza e i giochi nascosti nella nostra mente ne
ripropongono fortemente la presenza, provare a rievocarlo?
Non credo che in tal caso valga il principio che primo compito dell’analista è quello di
favorire il ritorno del rimosso anche perché la rimozione è una condizione necessaria per la
separazione, di conseguenza ciascuno, paziente e analista, ne ha una rappresentazione individuale. Pertanto il contenuto della rimozione è sempre da scoprire come per la prima volta
e quindi bisogna assumere che il paziente che ritorna è un altro paziente.
Certo ci si chiede perché un bambino ritorna e un altro no. Alla luce dell’esperienza oserei dire che a quello che ritorna rimane una porzione di lutto ancora da elaborare e questo gli
dà il coraggio di affrontare nuovamente gli oggetti interni in una condizione di dipendenza
relativamente minore. Penso che questo si verifichi specialmente per gli aspetti aggressivi
che, nella condizione di estrema dipendenza, talvolta non è possibile esprimere.
In effetti il ritorno di Pietro è stato all’insegna di una forte aggressività verso i suoi oggetti e verso se stesso. Devo confessare che rivedere un paziente dopo molti anni, un paziente con cui si è avuta una relazione profonda e per di più un bambino che si è visto piccolo e
che si presenta con tutte le trasformazioni dell’adolescente, è un’esperienza molto emozionante ed ha un carattere fortemente ambivalente. Da una parte si vive il ritorno come una
sconfitta, relativamente ad un sentimento di onnipotenza sempre in agguato, dall’altra c’è
quasi un piacere narcisistico, come se il paziente non potesse ancora fare a meno di noi.
Pietro a 16 anni mi telefona chiedendo di rivedermi perché si trova in una situazione angosciosa. L’incontro è pieno di emozioni da entrambe le parti ed è il setting analitico, come
qualcosa di anticamente stabilito, che ci aiuta a misurarci l’uno con l’altra. Ha molto bisogno di essere ascoltato, parla ininterrottamente senza lasciarmi alcuno spazio, ma, penso,
come se avesse anche paura che io possa fare cenno a qualcosa del passato. Il motivo preminente della sua venuta è una delusione d’amore che l’ha lasciato interdetto e smarrito. Di-
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ce di ricordarsi molto poco dell’analisi precedente e che in questi anni non è stato facile vivere. Poi ha conosciuto una ragazza di 12 anni, compagna di scuola della sorella, con la
quale ha stabilito un rapporto di amicizia amorosa e alla quale si è molto legato. Questa intesa è durata circa un anno, poi la ragazza, più giovane di lui, ha cominciato a distaccarsi
pian piano, a trovare delle scuse per non vederlo: che lui era più grande di lei, che la sua
famiglia ostacolava il loro legame e così via. Pietro si è sentito totalmente smarrito di fronte
a questa nuova situazione. Lui, che si era lentamente e a fatica distaccato da una famiglia
difficile diventando più autonomo, è ripiombato in modo pesante nella situazione famigliare
chiedendo alla madre di diventare la sua confidente e il difensore di tutte le sue sconfitte,
minacciandola persino di suicidarsi se non l’avesse fatto. In questo stato di depressione e di
malessere si è rivolto a me per un aiuto.
Nelle prime sedute parla ossessivamente della sua relazione con la ragazza e mi chiede
di poter disegnare, riprendendo una modalità del nostro rapporto di quando era bambino. A
quel tempo, nelle nostre prime sedute ero stata io a disegnare per lui. Per quel bambino di
tre anni che non parlava e che sembrava non esserci disegnavo. Disegnavo Pietro che veniva
da me insieme al padre; Pietro con la mamma raggiunti dal padre... Cominciai presto a sentire che quei disegni si costituivano “come un tramite tra il suo corpo e la sua storia” (De
Silvestris 1994, 43). Più tardi, quando Pietro comincerà a riempire i fogli di tratti informi e
dirompenti, mi chiederà di disegnare intanto per lui una macchinina e anche per me il suo
vissuto di frammentazione diventerà più tollerabile, così correlato alla rappresentazione della mia funzione contenitrice. Ci saranno poi, negli anni successivi, le sue macchinine tutte
nere o quelle strapiene di teste di bambini.
Ora, a sedici anni, disegna dei grandi volti che palesemente gli somigliano, sorride compiaciuto della propria abilità, che sottolinea firmando in modo enfatico e ampolloso.
Mi sembra che Pietro abbia bisogno di trovarsi di fronte alla persona dell’analista per ratificare un’identità peraltro posseduta. Ma forse si tratta anche solo di un’identità ufficiale o
dimezzata, poiché in un altro disegno egli esprime il suo stato rappresentando un carcere.
Tutto questo riproponeva in modo diverso il trauma per cui era venuto in analisi a 3 anni: la
nascita della sorella, un evento che per lui era stato molto drammatico, non compreso dai
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famigliari e che addirittura lo aveva costretto ad assumere un comportamento di autismo
mutacico. (O meglio ad assumerlo di nuovo, perché a quindici mesi, dopo una visita oculistica, Pietro aveva avuto una fase di mutismo che era durata fino ai due anni).
Certo, nella situazione attuale, vi era uno spostamento: invece della sorella c’era la
compagna della sorella e una condensazione madre-sorella-amica della sorella, per rappresentare l’oggetto della perdita e il dolore che ne conseguiva. Ma c’era anche un’altra novità
in questa rappresentazione: la rabbia al posto del ritiro mutacico di fronte all’incapacità, ancora di tipo psicotico, di accettare la realtà. Infatti nel disegno la realtà è rappresentata da
Pietro come un carcere e il suo sentimento è quello di oscillare tra due visioni totalizzanti:
quella dell’accettazione del carcere come contenimento estremo o quella della ribellione e
della distruzione totale.
Questo è anche il segnale di una non rassegnazione al tramonto del complesso edipico.
Un tentativo di rinuncia alla battaglia edipica avviene in fase di latenza, ma in adolescenza,
con il risveglio pulsionale, riemerge il conflitto.
Un’eventualità molto diffusa è che questo risveglio venga vissuto come necessità di
vendetta ovvero come una forma di risarcimento per il trauma.
In una costellazione familiare di tipo narcisistico, ed era il caso della famiglia di Pietro,
il bambino si trova a subire il trauma della violenza narcisistica e non può neanche combattere la lotta della rivalità edipica perché non è riconosciuto come oggetto. Egli si ritrova
quindi con nessun oggetto da amare e con un odio impotente proprio nel momento
dell’adolescenza, quando da parte degli altri si cerca di farlo diventare potente, almeno per
essere riconosciuti come oggetti. L’odio è quindi uno strumento importante che può permettere di trasformare una costellazione famigliare narcisistica, senza relazione, e spingerla nella direzione della relazione oggettuale.
In questa ripresa Pietro esprimeva continuamente il suo odio sia in seduta sia in famiglia. A volte lo sentiva così grande che diceva di volerla rivolgere verso se stesso. Poi gradualmente cominciò a maturare un sentimento intuitiva del nesso che poteva sussistere nel
materiale che andava sviluppando.
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La sua possibilità di poter esprimere e vivere la rabbia in una situazione di contenimento
era così lenitiva da ricompensarmi dell’impegno che mettevo nel trattenerla. Se, come dice
la Kristeva in Il romanzo dell’adolescente (1993), l’adolescenza è un riepilogo di modelli di
esistenza che furono dell’infanzia, Pietro aveva usato proprio questa occasione per riportarmi delle emozioni attinenti alla sua origine.
Cominciò a portare in analisi le fotografie dei suoi famigliari, per mostrarmi e parlarmi,
non più con i giochi ma con le parole, delle sue origini, i fumetti che da molti anni costruiva
con i suoi compagni, le loro gite e il loro gergo di comunicazione. Fra tutte queste cose Pietro mi parlò anche del suo amore per il cinema, e ne parlava da vero intenditore. Da parte
mia silenziosamente pensavo di avergli quasi trasmesso la mia stessa passione, non si sa in
quale maniera perché non aveva mai avuto modo di conoscere questo mio interesse.
Attraverso le sue comunicazioni sembrava che venisse tessuta gradualmente una continuità tra la sua condizione infantile e quella attuale di adolescente. Egli non desiderava che
io mi sostituissi a lui per colmare lacune ma lavorava per costruire o ritrovare un legame interno.
In fondo perché era ritornato? Che voleva veramente da me?
Dopo un anno, nelle ultime sedute, disse di ricordare poco della sua infanzia: tra le altre
cose sapeva che veniva da me a giocare e pensava che io fossi una specie di zia. Il debole
ricordo che ne aveva era positivo.
Forse era venuto per elaborare il lutto dell’esperienza precedente che non poteva fare allora ed aveva dovuto ritornare da me perché rappresentavo ancora quel nodo transferale che
lo separava dal padre, un nodo che voleva sciogliere senza sentirsene troppo colpevole2.
Solo dopo aver scritto queste pagine mi sono resa conto di una singolare coincidenza: il
rapporto affettivo di Pietro era durato un anno e lo stesso tempo era intercorso dalla ripresa
dell’analisi. Dopo un anno quindi egli aveva deciso di “lasciarmi”. Forse questa era stata
l’unica modalità possibile per sentirsi risarcito.
2
Come nella soluzione edipica per spostamento che era comparsa in una fase avanzata della sua analisi in-
fantile: “Facciamo finta che noi siamo marito e moglie e che la mamma è la nonna” che faceva seguito alla
verbalizzazione di un’altra fantasia: “Facciamo finta che babbo è morto e la mamma sposa un sorellastro”.
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BIBLIOGRAFIA
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Roma 1998.
PALACIO ESPASA, F. (1999) Il posto della conflittualità depressiva nelle psicoterapie psicoanalitiche dei bambini e degli adolescenti. Convegno Internazionale EFPP, Roma 1999.
SCHULZ, B. (1937) Le botteghe color cannella. Einaudi, Torino 2001.
RIASSUNTO
La questione della terminabilità e dell’interminabilità costituisce il testamento freudiano
sul funzionamento psichico e la sua dimensione temporale e atemporale. Partendo da questa
considerazione, l’autrice propone di assumere il versante temporale come cura terminabile
ed il versante atemporale come analisi interminabile.
SUMMARY
Terminability and non-terminability in analysis. Peter’s return.
The question of terminability and non-terminability represents Freud’s testament about
the psychic functioning and its temporal and timeless dimension. Taking this into considera-
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Terminabilità o interminabilità dell’analisi. Il ritorno di Pietro
tion, the author suggests that the temporal side be assumed as terminable cure whereas timeless side be considered as interminable analysis.
PIA DE SILVESTRIS
via Paolo Segneri 1/b
00152 Roma
[email protected]
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Uno psicoanalista al limite
RITA MANFREDI
Uno psicoanalista al limite
Il lento e laborioso cammino introspettivo che ognuno di noi percorre nel tempo, alla ricerca di una conoscenza più profonda della sua interiorità, viene ad essere illuminato da improvvisi bagliori, da chiarori inaspettati. Sono luci che provengono dall’esterno. Incontri
con un mondo “altro da noi” che si unisce ad uno “intimo”. Si potrebbe dire che
l’“estraneo” che vive in noi si unisce allo “sconosciuto” che nasce da questi segni. Una
compenetrazione di interno ed esterno che spesso ci trova impreparati, inebetiti, forse angosciati. Una sensazione di infinito che ci terrorizza poiché sentiamo il nostro avvicinarci al
“segreto”, al non conosciuto o all’inconoscibile.
Lo stimolo esterno, per un momento, sembra rompere lo schermo di paraeccitazione che
ci protegge dall’eccesso. I messaggi, in questi casi, hanno l’effetto di piccoli traumi che
creano scompensi momentanei al nostro equilibrio psichico. L’effetto dinamico del riaffiorare è il punto nevralgico.
Questa sensazione di “inquietante estraneità” è ciò che ho provato di fronte ai quadri di
Hans Hartung, pittore informale, la visione dei quali mi ha provocato uno shock emozionale. Avevo bisogno di una messa a distanza per poterlo assimilare, per poter dare a questa
esperienza una figurabilità che mi permettesse di comprenderla.
La necessità di creare un confine fra mondo interno e stimolo esterno troppo intenso,
non è forse ciò che fa dire a Freud, all’inizio del suo lavoro Il Mosè di Michelangelo, come
di fronte alle opere d’arte egli mettesse in atto “una disposizione razionalistica o forse analitica [che] si oppone in me a ch’io mi lasci commuovere senza sapere perché e da che cosa”?
E proseguire più avanti: “... proprio alcune creazioni artistiche più travolgenti [il corsivo è
mio] sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti
dalla loro grandezza, ma non sappiamo dire che cosa rappresentino ... quel che è raffigurato
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Uno psicoanalista al limite
nell’opera d’arte, devo cioè poterla interpretare ... solo al termine di essa [interpretazione] io
posso rendermi conto delle ragioni per le quali sono stato sottoposto a un’impressione così
violenta” (p. 300).
Interpretare serve a non lasciarsi sopraffare da queste pulsioni inibite nella meta che ci
conducono in un campo dove è l’esteta, più che lo psicoanalista, che trova il suo oggetto.
Interpretare anche per il bisogno di porre dei limiti alle emozioni, per mettere un confine
che tenga lontana l’angoscia, per poter collocare “l’estraneo” al di fuori. Intimità ed estraneità, semanticamente all’opposto, ma in un rapporto dialettico costante, sono significanti
del limite.
Differenziare ciò che appartiene all’Io da ciò che fa parte del mondo esterno è tipico della percezione; questa distinzione è elastica poiché ad essa si perviene anche attraverso i movimenti del corpo. Il riconoscimento da parte dell’Io del limite dell’inconscio, invece, si
esprime in una formula negativa. È la negazione che permette il riaffiorare di ciò che era nascosto: l’Unheimliche (Freud 1919). Il turbamento che questo riaffiorare può provocare, la
sua non familiarità rispetto alla costruzione che ognuno ha fatto del suo equilibrio psichico,
può creare il bisogno di una assoluta chiusura verso questo non-familiare che si sente pericoloso. Il bisogno di porre dei confini rigidi può portare all’illusione di aver raggiunto una
totalità dell’essere, del sapere. Questo taglia alla base le radici della nostra storia, della mitologia familiare e non permette spiragli all’evoluzione. D’altra parte se i limiti non venissero posti per incapacità o impotenza, il senso dell’illimitato, la sua fascinazione, prenderebbero il sopravvento e diventerebbero altrettanto pericolosi per l’equilibrio psichico
dell’individuo. Il rimosso potrebbe falsificare eccessivamente la realtà; allucinazioni e stati
deliranti potrebbero far vivere ciò che è esterno come realmente pericoloso. Possono evidenziarsi fenomeni, alcune volte solo momentanei, di estraneità e di depersonalizzazione.
Quanto sopra mi porta a pensare alla distinzione fra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo come a una determinante essenziale del costituirsi di un limite nella psiche.
A questo proposito, visto che questa mia “meditazione” sul senso del limite è iniziata
con una mia esperienza emotiva di fronte a un’opera d’arte, mi avvalgo delle parole di Magritte che, nel cercare di distinguere tra immagine e oggetto, tra interno ed esterno, così si
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Uno psicoanalista al limite
esprime: “Misi di fronte a una finestra, vista dall’interno di una stanza, un quadro rappresentante la parte del paesaggio nascosta alla vista del quadro. Quindi l’albero rappresentato nel quadro nascondeva alla vista l’albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso
esisteva per lo spettatore, per così dire, simultaneamente, nella sua mente, come dentro nella stanza del quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo come al di fuori di noi. Allo stesso modo a volte situiamo nel passato una cosa che
accade nel presente. Il tempo e lo spazio perdono così il loro significato grossolano, l’unico
di cui l’esperienza quotidiana tenga conto” (Gablik 1985, 87).
L’ambiguità che esiste fra l’“oggetto reale” e la sua “immagine mentale” viene proposta
da Magritte in un suo dipinto: La condizione umana. In esso la finestra segna il confine tra
un dentro e un fuori, ma il quadro che copia perfettamente il mondo esterno rende opaco il
vetro. Ancora una volta ci troviamo confrontati con l’inquietante, con il limite, con il non
limite, con un fuori che invade e un dentro che riproducendo esattamente la realtà la rende
inesistente.
Riflettendoci, il quadro che riproduce il reale, il quadro che sovrapponendosi al reale diventa il reale non può essere considerato rispondente al concetto winnicottiano che afferma
che nei pazienti caso-limite il setting e l’analista non rappresentano la madre, ma sono la
madre? Come afferma Winnicott (1971), in questo caso, l’analista viene vissuto dal paziente
come “oggetto soggettivo”, così come lo era il quadro posto davanti al vetro. Un oggetto
esterno creato dal soggetto stesso. Non siamo ancora nell’area dell’“oggettivo”, che invece è
fuori dal bisogno di controllo onnipotente del soggetto, cioè di un oggetto-analista che può
essere “usato” dal paziente. Come nel dipinto di Magritte, il quadro posto contro il vetro appare come la natura stessa che scompare alla percezione. È stata essa distrutta dal soggetto?
No, la natura reale, così come l’analista oggetto oggettivo, al di là del vetro, del limite che il
terapeuta sa mantenere, può autonomizzarsi e sopravvivere all’attacco distruttivo e ripresentarsi (basta togliere il quadro) nella sua realtà. Il soggetto potrà allora godere di quella natura che avrà dimostrato di essere sopravvissuta anche se, non essendo ideale, sarà soggetta a
mutamenti e deterioramenti naturali.
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L’accettazione del paradosso per cui l’analista in quanto oggetto reale viene inconsciamente distrutto, ma proprio per questo può divenire oggetto reale, diventa, così, un concetto
essenziale per la comprensione della psiche, soprattutto nel rapporto con pazienti al limite.
A questo punto dobbiamo prendere in considerazione ciò che è analizzabile e in questa
ricerca andare al di là del limite dell’analizzabilità inteso in modo pregiudiziale. Oltrepassare il confine, cercare come si possa, in questi territori, applicare lo strumento psicoanalitico
per dare una rappresentazione comunicabile che crei l’avvio di una dinamica intrapsichica e
intersoggettiva. Certo, ma lo “strumento psicoanalitico” non è utilizzato in modo soggettivo
da ogni analista?
La relazione, il gioco del transfert e contro-transfert, la sessualità, il linguaggio e così
via, vengono giostrati in modo differente secondo il modello teorico al quale ci si riferisce e
alla personalità stessa dell’analista. I modelli stessi, a volte, diventano “dogmi”, chiusure
verso linguaggi considerati obsoleti che vengono sostituiti da altri, apparentemente innova
tori in modo radicale, ma che alla fine riprendono e ripetono i concetti abbandonati; oppure
il desiderio, pure legittimo, di ampliare i propri orizzonti con interscambi con altre discipline, può creare contaminazioni non sempre feconde, sino alla perdita della propria identità,
delle proprie radici. Radici rappresentate dalla elaborazione dei processi psichici inconsci,
dai movimenti pulsionali, dalla sessualità e dal complesso edipico come: “... struttura fondante e referenza assiologica di partizione, di articolazione e di confronto insieme, rispetto
al pensiero che si sviluppa all’interno e all’esterno della psicoanalisi” (Masciangelo 1988,
401). Se questi sono i principi di base, le ricerche teoriche e le modalità della tecnica si sono
nel tempo significativamente arricchite.
Io ritengo, a proposito della passione che anima il dibattito sulla teoria, che l’ansia di alcuni analisti che pensano di “dover far rivivere” una psicoanalisi che loro considerano
“morta o in agonia” sia fuorviante e pericolosa. A questo proposito già Freud nel 1914, sullo
stesso problema, ricorreva a una comunicazione scritta da Mark Twain al direttore del giornale che aveva riportato la notizia della sua morte: “Notizia del mio decesso fortemente esagerata” (p. 408).
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Certo i pazienti che si presentano attualmente nei nostri studi di consultazione sono sovente al “limite” di quelle patologie che venivano in passato ritenute analizzabili, ma, come
afferma Pontalis (1988), il più delle volte i veri limiti all’analizzabile appaiono essere quelli
dell’analista. Non è forse l’analista il più turbato di fronte all’irrazionale, all’incoerente,
all’irrapresentabile, all’Unheimliche che gli impongono, come difesa, di capire, di interpretare, di prenderne le distanze?
Ci rifugiamo nel concetto di contro-transfert quando ci sentiamo bloccati, arrabbiati,
narcisisticamente feriti. Se la ferita provocata da moti distruttivi del paziente tocca, senza
che ci si renda conto, aspetti sensibili del nostro narcisismo, una difesa che possiamo mettere in atto è quella di addossare in toto la responsabilità del nostro disagio all’analizzato.
Questo non ci consentirà di dare l’avvio al lavoro introspettivo di autoanalisi indispensabile
perché noi per primi si sia in grado di porre i limiti intersoggettivi.
Il bisogno di agire per uscire dal turbamento, da sensazioni corporee dolorose, da irritazioni profonde, sfocia nell’interpretare subito, “botta e risposta”. Sediamo così le nostre ansie, le paure di regressioni del paziente, ma anche nostre; ci aggrappiamo ai concetti del nostro “sapere analitico” mutilando la seduta del pensiero e dello spazio creativo.
Un tentativo di uscire dall’impasse che ci fa sentire immobilizzati, impotenti, può essere
quello di “sedurre” o “suggestionare” il paziente con spiegazioni, interpretazioni di tipo cognitivo. Le nostre parole possono così diventare atti, il nostro linguaggio, il più delle volte,
risulta secondarizzato, di tipo razionale, intellettualistico e apporta più informazioni che
messaggi.
Ancora una volta un mio vissuto mi è maestro. Dopo alcuni anni dalla fine della mia
analisi personale, chiesi al mio ex analista perché ad un certo momento del mio percorso sul
lettino lui, per ben sei sedute, non avesse pronunciato una parola. Io avevo raccontato molti
sogni, avevo associato e lui ... silenzio. Mi rispose: “Perché mettere il tetto sopra al primo
piano? Avrei rischiato di impedire al fantasma di strutturarsi”. Questo mi aveva aiutato a riconoscere l’area intermedia nel mio spazio interno fra inconscio e preconscio-conscio, ma
anche quell’area di gioco, come dice Winnicott, quello spazio potenziale, quel regno intermedio, mondo dei fantasmi che, come affermano Laplanche e Pontalis (1985, 17), “può si-
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tuarsi nel quadro dell’opposizione fra soggettivo e oggettivo, fra un mondo interiore che
tende alla soddisfazione attraverso l’illusione e un mondo esterno che progressivamente impone al soggetto il principio di realtà con la mediazione del percettivo”.
Interpretare, concettualizzare, parlare al paziente in modo cognitivo perché lui capisca
può farci stare meglio. Questo è psicoterapeutico e può provocare nel paziente risposte
comportamentali e relazionali positive. Ci sentiamo, per questo, appagati: finalmente sentiamo che il paziente “esiste”.
Il paziente esiste, per noi, ma non è “nato a se stesso”, e questo è il compito della psicoanalisi.
Il doppio sogno
Se è vero che transfert e contro-transfert rappresentano l’asse portante della psicoanalisi,
è altrettanto vero che fra i due attori della seduta psicoanalitica possono instaurarsi dinamiche tendenti a impedire l’emergere di un vissuto che viene da entrambi temuto perché disorganizzante. Fra i due si può, in questo caso, instaurare una sorta di complicità che crea una
specie di congelamento, di immobilità del percorso analitico.
Clara mi consultò poiché riteneva che il suo matrimonio “bianco”, che durava da più di
8 anni, “non fosse normale”.
Quando la vidi per la prima volta, il suo aspetto mi colpì profondamente: nonostante
avesse 32 anni, appariva una ragazzina di 14/15 anni, un visino grazioso di cera, una figura
senza tempo.
Figlia unica, il padre morì quando Clara aveva 15 anni. L’uomo, affetto da oltre un anno
da un tumore maligno, si spense durante la notte nella camera vicina a quella della figlia. Ella ricordava il grande trambusto, ma si disse sorpresa di questo decesso: aveva completamente negato la malattia del padre. Si era anche chiesta come mai la madre piangesse ancora a distanza di alcune settimane dalla morte del genitore.
Sappiamo che l’elaborazione del lutto può avvenire solo se il soggetto è in grado di rappresentarsi l’oggetto e l’affetto al quale deve rinunciare. Il paradosso è che la rappresenta-
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zione dell’oggetto può avvenire solo in mancanza di questo, si deve creare quindi uno spazio vuoto che era prima occupato dall’oggetto divenuto assente.
Dopo 4 anni di analisi nulla di sostanziale era mutato, ogni seduta veniva immediatamente cancellata; ogni seduta diventava la prima e l’ultima.
Se le parlavo di affetti, di emozioni, mi rispondeva: “Capisco la rabbia, l’amore, l’odio,
ma è come se non riuscissi a trovare la forza per provarli”. L’allucinazione negativa di una
percezione interna dell’affetto era in atto1. Clara tentava con le sue parole di rappresentare
ciò che le era impossibile rappresentarsi. Tentava di dare un significato a qualche cosa della
sua esperienza soggettiva relativa alla sua storia e all’attuale e, così facendo, cercava di appropriarsene. Avevo la sensazione che da piccola non fosse riuscita a distinguere in modo
chiaro ciò che all’inizio erano state le sue percezioni dalle rappresentazioni, ancora molto
fragili, degli oggetti. Per lei la perdita dell’oggetto risultava, così, essere la perdita della
rappresentazione di esso. Questa perdita mi faceva supporre che la soddisfazione allucinatoria del desiderio non si fosse sufficientemente organizzata, lasciando spazio solo ad una profonda disperazione. Mi chiedevo se a lei bambina non fosse stato interdetto di vivere i suoi
affetti, in questo caso il profondo dolore, per evitare un vissuto traumatico alla madre. Questa ipotesi aveva un riscontro nel racconto autobiografico che la paziente mi aveva fatto in
modo distaccato, senza che le emozioni trasparissero. Potevo quindi supporre che il suo
pensiero concreto, il suo vivere il quotidiano, il fattuale come unica modalità di rapporto
con il suo mondo interno e con quello esterno fossero causati dalla privazione della possibilità di sperimentare l’affetto in età precoce.
1
“L’allucinazione negativa”, come afferma Green (1993), non deve essere confusa con una rappresentazio-
ne. Differente appare il lavoro del negativo che rimanda alla rappresentazione o agli affetti. L’allucinazione
negativa ci porta alla rappresentazione dell’assenza di rappresentazione. Essa impedisce l’accesso diretto alla
rappresentazione che permetterebbe al soggetto di prendere coscienza di una certa realtà che potrebbe essere
espressa a livello verbale, come avviene per il rimosso. L’allucinazione negativa ha, invece, la funzione di
mettere in evidenza come il suo oggetto sia scolorito (bianco) e le cause della sua sparizione. La rappresentazione dell’assenza di rappresentazione mette così in risalto il suo rapporto con quello che si trasformerà poi
in “pensiero”.
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Dopo una ennesima seduta, mentre la salutavo, provai la sensazione di camminare in un
deserto di sabbia, senza limiti, senza appigli.
La notte feci questo sogno: mi trovavo in un ampio spazio segnato da tre punti. Sulla
mia destra intravedevo un deserto, ma distoglievo subito lo sguardo abbagliata dal riflesso
del sole sulla sabbia. Mi dirigevo verso il secondo punto dello spazio del sogno dove c’era
una casa in costruzione, ma con la gamba destra entravo in un buco che era stato nascosto
da un tela. Nel sogno penso: “per fortuna la gamba che è caduta nella buca è quella rotta2,
così potrò uscire facendo leva su quella sana e mi potrò recare nella casa del dr. X (allora
mio supervisore) e che rappresentava il terzo punto nello spazio.
Al risveglio mi resi subito conto di come la relazione con Clara avesse toccato luoghi
inconsci miei. Il chiarore del deserto mi riportava alla rappresentazione di qualche cosa di
difficile rappresentazione, sia mia che della paziente, visto che proprio al deserto avevo
pensato nella seduta precedente al sogno. Mi ricordai allora della mia prima volta al mare,
ero una bambina di 9 anni, in estate, sulle spiagge sabbiose dell’Adriatico. Ero stata accompagnata da una signora poiché mio padre era gravemente malato (morì alcuni mesi dopo) e
mia madre gli era accanto. Mi fu facile associare la sabbia al sentimento di abbandono e di
morte che avevo rielaborato durante la mia analisi personale.
Pensando alla sabbia accecante che si estendeva in uno spazio senza limiti e avendolo
associato anche allo spazio intrapsichico di Clara, presi atto dell’impossibilità per lei di dare
una figurabilità alle eccitazioni. Per questo doveva tenerle al di fuori della sua coscienza,
per non perdersi in quel deserto, per evitare che quelle eccitazioni primitive che non avevano trovato un aggancio alla figurabilità per mancanza di uno schermo para-stimoli adeguato,
non irrompessero violentemente attaccando il suo Io.
Va sottolineato che i soli sogni sino a questo momento raccontati dalla paziente rappresentavano case con porte e finestre sbarrate, oppure perdita o acquisto di oggetti senza alcun
apparente valore simbolico e affettivo. Tenere chiuso il suo mondo interiore era stata una difesa dall’invasione di un genitore-analista che sentiva pericoloso per la sicurezza dei propri
confini fra un dentro e un fuori, della propria identità, ma questo la portava a disconoscere
2
Io mi sono veramente rotta la gamba destra in un incidente.
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le proprie pulsioni che sentiva altrettanto pericolose per i limiti intrapsichici fra inconscio e
preconscio-conscio.
Mi resi conto come per lei lo spazio per rappresentare la rappresentazione degli affetti,
fosse completamente sbarrato. Era mancata la fiducia in una figura (la madre) che facesse
da schermo alle eccitazioni dolorose che in un primo momento avrebbero invaso il suo
mondo interno.
Presi atto anche di come “ero caduta” in una forma di relazione omosessuale dove il limite intersoggettivo si sfumava. Solo il terzo, al quale il mio “buon narcisismo” si indirizzava, poteva intervenire a separarci da questo coinvolgimento. Un padre al quale trasferire
quel “maschile” che avrebbe dato l’avvio alla differenziazione sessuale. La seduzione primaria, che si appoggia infatti sul “maschile” della/nella madre, può diventare così seduzione
secondaria, segnata dal sessuale, dalla seduzione della madre per opera del padre. Cominciai
a pensare per lei a questo spazio, senza temere il fatto che ancora non ci fossero rappresentazioni che gli dessero una dimensione.
In seduta il mio atteggiamento mutò, mi permisi lunghi silenzi, non mi posi più il problema del dover capire, ma cominciai ad immaginare di camminare in quel deserto sperando
di trovare un sentiero. Mi resi conto che solo uno sbocco economico e lo slegamento delle
eccitazioni avrebbero permesso nuovi rimaneggiamenti associativi, nuovi legami. Dovevo
fungere da schermo para-eccitazioni al fine di temperare la quantità di stimoli dirompenti ed
evitare che immagini percettive traumatiche, come le mie assenze, quelle della madre, ogni
piccolo mutamento all’interno della sua casa, potessero presentarsi al posto di una rimemorazione, di un ritorno graduale alla memoria di eventi traumatici.
Dopo tre settimane mi raccontò questo sogno:
“Sono in una stanza. Una luce bianca e violenta mi abbaglia. Giro la testa e mi trovo
davanti a un grande specchio dove vedo riflessa la mia e la sua figura sorridenti. Improvvisamente si apre una porta alle nostre spalle e, riflesso nello specchio, vedo entrare un
gruppo di persone che poi esce da un’altra porta”.
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Clara si vede vedente e riflette il proprio lo e l’Altro da lei proiettato. Un Io e un Altro
che si riflettono reciprocamente creando una immagine i cui elementi appartengono tanto
all’interno che all’esterno.
La qualità narcisistica dell’immagine riflessa è evidente, ma questo specchio intrapsichico mette in rilievo come i due personaggi siano contemporaneamente soggetto che osserva e oggetto osservato. L’uno è il doppio dell’altro e questo investimento libidico
dell’analista in quanto doppio dà l’avvio alla rappresentazione di un minimo di alterità. La
differenza Io/altro è una conquista dello sviluppo che ora appare in atto nella paziente. Evoluzione che si manifesta con l’immagine anche di un dentro e di un fuori (le porte si sono
aperte) e che permetterà a Clara di prendere coscienza di ciò che dell’altro era stato assimilato all’Io, identificato a sé stessa. Anche Clara sogna un terzo che distoglie dalla fascinazione reciproca della immagine narcisistica, ma, a differenza del terzo del mio sogno, è una
figura ancora indefinita (più persone) che per la prima volta dà vita a un movimento, un entrare e un uscire che segna uno spazio, un tempo, un inizio e una fine.
Ora che c’è questo spazio, possiamo renderci conto dell’irrappresentabile (la luce del
deserto e il chiarore bianco abbaglianti) che io avevo ignorato e che Clara aveva allucinato
negativamente.
Il sogno reciproco era diventato, anche se a livelli diversi, quello spazio dove la rappresentazione dell’impossibilità di rappresentazione poteva trovare una sua formulazione.
Kaës (1995), facendo tesoro della sua esperienza di analista di gruppo, afferma che
l’attività del preconscio è conosciuta come “formazione intersoggettiva” dipendente, in parte, dal preconscio dell’altro, dalla sua capacità di rêverie, di contenitore, di trasformatore.
Preconscio intrapsichico e intersoggettivo che, come afferma Green (1992), appare per questo come una linea di confine.
Il preconscio di Clara e il mio si erano influenzati reciprocamente e questo ci aveva
permesso di svelare sia la relazione intersoggettiva che le differenze intersoggettive che si
agganciavano ai nostri versanti narcisistici.
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Nella vignetta clinica su esposta ho cercato di mostrare come, soprattutto in casi difficili, quello che ritengo vada costruito in analisi sia uno spazio transizionale. La seduta stessa
diventa così un “sogno”.
Sempre più mi rendo conto di come il processo di simbolizzazione, in molti casi, non
possa svilupparsi poiché manca la capacità del soggetto di rappresentare la mancanza della
rappresentazione (il bagliore bianco, nel sogno di Clara, le permetterà la presa di coscienza
di questo deficit e permetterà il successivo lavoro di sviluppo del processo rappresentativo).
Perché ciò possa avvenire, l’analista, anche attraverso il contatto con il suo mondo interno,
la sua capacità di rappresentarsi l’assenza della rappresentazione e di sostenere poi il paradosso della compresenza del narcisismo e della relazione, potrà ritrovare dentro di sé quegli
spazi “al limite”.
L’espressione di “gap” di Winnicott, di “allucinazione negativa” di Green, di “manque
du manque” di Nicolaïdis ed altri autori francesi, esprimono, anche se non sono concetti
equivalenti, un deficit dell’organizzazione narcisistica o dell’organizzazione del campo rappresentativo.
Laplanche (1994) sottolinea come accanto al classico transfert (en plein) debba sussistere anche un transfert en creux (nel vuoto), cioè un transfert legato ai messaggi enigmatici
dell’infanzia. Questo “vuoto” si viene a creare quando uno psicoanalista al limite do avviene
una scissione all’interno delle imagos o delle scene trasferite nello spazio lasciato vuoto, per
un tempo che il paziente possa sostenere, dall’analista durante la seduta. Partendo da questo
vuoto nel vuoto l’analista e l’analizzato potranno cominciare a interrogarsi, a cercare di elaborare quelle immagini enigmatiche che solo in quello spazio hanno la possibilità di apparire.
Quindi, concordo con Roussillon (1999) quando afferma che si deve permettere la creazione di quel “vuoto” che possa accogliere il non conosciuto o il non rappresentabile; questo
può costituirsi solo promuovendo, graduando, le quantità di stimoli in eccesso che in questo
spazio vuoto possono trovare un legame qualitativo.
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Vorrei terminare questo mio cammino meditativo chiarendo quello che questi miei pensieri mi hanno suggerito.
Nella pratica psicoanalitica il problema del limite dell’analizzabilità è sempre presente e
dibattuto. Più ci si avvicina a pazienti al limite, più noi analisti ci sentiamo messi in discussione. L’attenzione a tutto quello che è latente è alta, sia per ciò che è intersoggettivo che
per ciò che è intrapsichico e interpsichico.
Dovremmo pensare non più in senso di limiti dell’analizzabilità, ma vedere questi limiti
come confini da valicare alla scoperta non solo dei desideri rimossi, delle pulsioni inibite,
ma di aree dove ritrovare segnali dei bisogni psichici del paziente.
Se consideriamo l’organizzazione psichica del paziente basata su ciò che è irrapresentabile, ciò che è forcluso, come qualche cosa di strutturato e quindi stabile e poco mutabile,
parleremo di pazienti che non possono accedere alla cura psicoanalitica.
Se, invece, cercando di capire il senso di queste forclusioni le consideriamo come costitutive di un processo dinamico, allora il nostro compito sarà, in prima battuta, di aiutare il
paziente a ricostruire uno spazio dove lui possa rappresentarsi questa mancanza di rappresentazione. Il “mancante”, allora, può essere considerato come una difesa contro la ripetizione dell’“agonia primaria” di cui parla Winnicott o di quel “terrore senza nome” citato da
Bion (1967).
Perché queste aree si “mostrino”, mi pare opportuno prendere in considerazione modalità di rapportarsi al paziente che non siano più le consuete interpretazioni esaustive, ma “interpretazioni allusive”, frasi incomplete o illogiche o, come affermano de M’Uzan (1994) e
Nicolaïdis (2001), anche solo suoni che siano in armonia con il clima emozionale della seduta. In questi casi la mobilitazione percettivo-sensoriale che corrisponde agli stadi preverbali, potrebbe permettere il riorganizzarsi di rappresentazioni arcaiche. Importante appare la
disposizione psichica dell’analista a tollerare che i limiti fra dentro e fuori, oggettivo e soggettivo, si sfumino per brevi momenti.
Insomma l’analista dovrebbe accettare di essere “al limite”.
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Uno psicoanalista al limite
RIASSUNTO
Come possono essere affrontate in analisi situazioni al limite, là dove i confini
dell’analizzabilità, i limiti fra soggettivo e oggettivo, fra intrapsichico e interpsichico si
sfumano? Come affrontare quelle mancanze di figurabilità che rendono impensabile sia
all’analizzato che all’analista ciò che è forcluso? Come organizzare il rappresentante della
rappresentazione i cui elementi figurativi verranno dall’interno come costruzioni psichiche,
ma anche dal mondo esteriore sotto forma di percezioni o di stimoli provocati da altri? A
queste domande l’Autrice tenta di dare una risposta proponendo, anche attraverso una vignetta clinica, la organizzazione di un tipo di transfert non classico che si alterni ad esso secondo i ritmi che l’analista e l’analizzato sono in grado di sostenere.
SUMMARY
A psychoanalyst on the border
How can psychoanalysis face those “borderline situations”, where the limits of analysability shade, at the edge between subjective and objective, between intrapsychic and interpsychic? How should we deal with those gaps of conceivability, which make the forclosed unthinkable both for the analyst and for the analysed? How can we organise the representative of the representation, the elements of which come both from the inside, as psychic
constructions, and from the outside, as perceptions of external stimuli?
The Author tries to answer these questions by proposing a non-classical transfert, which
should alternate to the classical one, in agreement with the needs and the ability of both the
analyst and the analysed.
RITA MANFREDI GERVASINI
viale Aguggiari, 104
21100 VARESE
[email protected]
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Limite, limiti, liminale
FAUSTA FERRARO, ALESSANDRO GARELLA
Limite, limiti, liminale
Conversazione a cura di Fiorella Occhiuzzi
FIORELLA OCCHIUZZI
Accingendomi a ragionare con voi sul concetto di “limite”, mi sembra doveroso, per
collocarmi io stessa nel contesto del discorso che veniamo facendo, ricordare che nella teoria freudiana il limite non è una categoria concettuale definita esplicitamente se escludiamo
(ma non è cosa di poco conto) la definizione di pulsione “come concetto limite tra lo psichico e il somatico”. Per il resto, il concetto di limite può esistere per inferenza, allorché
consideriamo la realtà dello psichismo permeata di ‘dualismi’ che in rapporto dialettico, a
guardare bene, risolvono la loro dicotomia ad un livello che potremmo definire ‘terzo’:
dentro-fuori, Io-oggetto, piacere-realtà, realtà psichica-realtà materiale, processo primario-processo secondario. E ancora: rispetto alla topica pensiamo al preconscio (il guardiano che staziona sulla soglia), o, rispetto al sogno, il lavoro onirico che esplica la sua funzione ‘tra’ i residui diurni e il desiderio inconscio.
Per ricordare a noi stessi il motivo di questa digressione occorre dire che l’interesse
per la concettualizzazione del limite, ha preso corpo in relazione e in funzione della clinica
degli “stati limite”, come dimostra l’interesse da cui è partita e si è dipanata nel corso degli ultimi vent’anni la riflessione di André Green (1990, 1995b, 1999) intorno ai processi
terziari: riflessione che, ricordiamolo, se ha implicato tra l’altro il riconoscimento del contributo di Winnicott, non ha mai smesso di ritrovare, ad ogni passaggio, ciò che era già lì,
inscritto nella costruzione teorico-clinica di Freud, cosicché la serie di ritrascrizioni (vedi
il passaggio dalla prima alla seconda topica) altro non sarebbe che un teorizzare intorno a
ciò che resiste alla cura tipo.
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E dunque viene da chiedermi/vi se, richiamando il concetto di limite solo per definire e
spiegare le patologie ‘al limite’, non si rischia invece di indebolirne il senso forte di ‘terzeità’, quella linea d’ombra-zona di confine dove ogni volta si incontrano la teoria e la clinica
nel dispositivo della cura.
ALESSANDRO GARELLA
Vorrei fermarmi innanzi tutto al problema generale del senso che il limite, sul piano
concettuale e su quello operativo, possiede per la psicoanalisi. Come concetto, pur non essendo specifico o specificamente formulato nel nostro campo, esso, a mio avviso, si riferisce:
1. al fatto che la teoria (che qui identificherei con la Metapsicologia) possiede
un’estensione (campo dei fenomeni descritti e spiegati) ed una profondità (descrizione della
catena causale o quanto meno dei processi di determinazione degli eventi accolti e descritti
dalla teoria) necessariamente limitate. Nulla di nuovo, essendo una condizione condivisa da
qualunque attività scientifica e in genere teoretica. Questo tipo di limite, oltre ad essere di
tipo logico-filosofico, sul piano operativo identifica quella condizione per cui una teoria è
vincolata nelle proprie capacità di apprensione e spiegazione dalla struttura concettuale, semantica e metafisica che la caratterizza. Questa è una della premesse descritte da T. Kuhn
del cambiamento di paradigma nelle rivoluzioni scientifiche: quando una teoria tocca i suoi
limiti, si produce una crisi che può essere risolta solo da una nuova struttura teorica. E infatti sappiamo che sui limiti della Metapsicologia e sulla sua legittimità a porsi come la teoria
migliore della realtà psichica si è scritto molto e da almeno una trentina d’anni.
2. Come precisazione del punto 1, la teoria, in quanto tale di per sé limitata, possiede
limiti operativi, per così dire di orizzonte, che non coincidono necessariamente con il limite
nel senso precedente. Questi limiti sono transitori e spostabili e in un certo senso garantiscono della possibilità di crescita teorica. Qui il discorso si fa interessante, perché il lavoro
teorico e pratico (clinico) su questi limiti determina un feedback sul corpo teorico di maggiore anzianità con problemi di economia (concettuale e logica), dinamica (relazioni fra le
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diverse parti del corpus) e topica (dibattiti e controversie sui livelli di profondità dei diversi
gruppi concettuali e sotto-teorie, rispetto al dominio di riferimento, ovvero il campo dei fenomeni psichici). Detto scherzosamente, l’allargamento dell’orizzonte fa sempre correre il
rischio di perdere la bussola. E così la metapsicologia, nata per l’esplorazione dell’area sessuale del mondo psichico, si è allargata all’intero dominio dello psichismo, e poi ha incontrato il limite delle psicosi, e poi quello dello psico-somatica, ... Un punto che vorrei qui sollevare è che limite spesso coincide con limitazione, ma non sempre: per esempio, se la censura rappresenta un limite per la possibilità che un contenuto inconscio raggiunga il preconscio o che un contenuto preconscio raggiunga la coscienza, tale limite, a sua volta, possiede
una struttura ed una configurazione, potenzialmente indagabili e dunque in sé non sottoposte al limite che esse devono interpretare, come dimostra lo studio freudiano del processo
della rimozione. In altri termini, il limite può certamente essere un confine, spesso insuperabile, ma non di meno approssimabile (come l’orizzonte), ed in questo avvicinamento, asintotico quanto si vuole, la teoria cresce. Ciò che viene a contare, allora, non è raggiungere il
limite, ma la traversata (alla Pontalis) per raggiungerlo, il processo di affinamento teorico e
clinico che essa impone. Su questo punto trovo assai interessante l’affermazione di Assoun
(1997) che “punto di fuga” (assimilabile nel nostro discorso al limite) della Metapsicologia
sia il Soggetto, in un momento storico in cui la Soggettività sembra pesare più
dell’Oggettualità nella ricerca e nel dibattito psicoanalitico.
FAUSTA FERRARO
Concordo con il rischio segnalato e proverei a ragionare su questo concetto precisandone di volta in volta il contesto di riferimento. Sui riferimenti freudiani nulla da eccepire, solo una piccola interposizione volta a sottolineare come sia nella prima che nella seconda topica vi è la necessità di pensare a delle “linee di demarcazione” tra sistemi o istanze, insieme all’esigenza di render conto non solo della distinzione ma anche delle interrelazioni.
Queste linee di demarcazione diventano nella seconda topica più sfumate come Freud
(1932) precisa con un brano molto efficace della lezione 31 Scomposizione della personalità
(p. 184). Che implicazioni trarre da ciò?
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Potremmo ad esempio sostenere che, visto che la seconda topica, più nettamente della
prima, si pone il problema della genesi della organizzazione dell’apparato psichico, sia proprio ciò a rendere più sfumati i limiti-confini tra le sue parti? Oppure vi potremmo vedere la
scelta di indebolire la estensione di frontiere troppo nette (che tuttavia permangono in certi
punti dello schema grafico) per privilegiare ed ampliare le aree di comunicazione, delineando implicitamente l’importanza, ma anche la difficoltà di definire con precisione il lavoro di
trasformazione? In ogni caso possiamo se non altro concludere che l’intero apparato psichico comporta un riferimento a ciò che de-limita le sue province.
Assumendo un altro vertice a me sembra si possa sostenere che il concetto di limite sia
stato operante nella psicoanalisi postfreudiana nel suo riferimento soprattutto spaziale come
confine e individuazione di forma e sia da questo punto di vista molto importante. È un concetto all’opera, più implicito che esplicito, ma a mio parere di grande importanza teoricoclinica. Penso al discorso di Anzieu sull’io pelle, come prima definizione di una forma che
separa interno ed esterno, all’insistenza di Eugenio Gaddini sull’importanza di rapportarsi a
ciò che funge da confine di sé e, naturalmente a Winnicott e alla Bick che hanno dato consistenza teorica e clinica ai processi di formazione del sé come una unità racchiusa nei propri
confini. La conquista di un confine di sé come limite strutturante il rapporto tra un interno
ed un esterno consente di individuare uno snodo evolutivo capace di rendere conto sia degli
aspetti di organizzatore che delle implicazioni patogene della sua mancanza.
È qui che io credo si inserisca quella efficace proposta concettuale di ridefinire gli stati
limite patologie del confine piuttosto che al confine. Naturalmente tutto ciò che è implicito
in questo fine gioco linguistico andrebbe svolto e sviluppato in dettaglio, ma in prima approssimazione potremmo pensare all’intreccio tra una precarietà dei propri confini identitari
e, per contro, ad organizzazioni difensive molto rigide, laddove i confini divengono piuttosto barriere, che se da un lato proteggono da un rischio di frammentazione, ostacolano per
ciò stesso connessioni e scambi tra diversi ambiti di esperienza.
Una ulteriore, ed ineludibile, articolazione del discorso che andiamo facendo, teso a focalizzare quanto il concetto di limite sia intrinseco alla teoria psicoanalitica, investe la concettualizzazione del setting o, nella dizione da te preferita, il dispositivo della cura. Anche in
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questo vertice vi è un doppio versante, l’aspetto più generale attinente alla peculiarità del
nostro metodo e un aspetto più specifico, le declinazioni particolari che ritroviamo nelle patologie di cui stavamo parlando. Racalbuto (2001, 2003) definisce il setting una metafora
dell’io, essere di frontiera, di certo non casualmente attaccato nei suoi confini nelle patologie borderline.
In termini più generali il setting è il contenitore del trattamento, definizione che pone
immediatamente in risalto l’importanza della cornice come delimitazione di uno spazio, ma
anche come depositario di molteplici livelli di realtà; “condensazione polisemica”, in quanto
come ha scritto Green (1995a), esso è, nella sua indeterminazione originaria, il quadro che
vale via via come materializzazione del modello teorico del sogno, come analogon delle cure materne, e come situazione che illustra la proibizione dell’incesto. Ciò che è comune, a
mio parere, a queste tre definizioni è proprio il riferimento al limite, inteso e come schermo,
e come barriera contro gli stimoli, e come introduzione di un divieto organizzatore.
Sonia Abadi (2003) in uno dei contributi di apertura del prossimo Congresso internazionale il cui tema è “Working at the frontiers” parla di due paradigmi fondamentali in psicoanalisi quello dei limiti-frontiere e quello del network, e si sforza di evidenziare come essi
siano reperibili in alcuni dei nostri più importanti costrutti teorico-clinici. Noi abbiamo nelle
prime battute della nostra conversazione già sfiorato questo tema, ciò che mi preme qui evidenziare, perché penso che avremo poi modo di riprenderlo successivamente in modo più
ampio, è la combinatoria di due funzioni opposte: separare e dividere, unire e scambiare.
Non mi piace il termine network per una sorta di genetica estraneità al nostro linguaggio
metapsicologico, ma penso possiamo convenire su ciò che esso tenta di rappresentare: la
funzione di legame e di abolizione di distinzioni troppo rigide che l’Abadi, come d’altronde
molti altri autori, vede ben rappresentate dal travaglio teorico che ha dato luogo al concetto
di spazio transizionale.
FIORELLA OCCHIUZZI
Da quello che dite mi sembra che emergano diversi rivoli di riflessione su versanti diversi che riguardano il limite/limitato, ma anche il limite/orizzonte-linea di demarcazione.
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Limite, limiti, liminale
Anche se riconducibili ad uno stesso contesto - lo scarto tra teoria e prassi - si potrebbe
dire che enfatizzare i limiti della teoria può condurre alla tentazione di considerare ormai
in atto un vero e proprio cambiamento di paradigma (semplificando: dal primato del pulsionale al primato del deficit) e dunque, perché no?, cambiamenti nello stesso dispositivo
della cura: magari con l’aiuto di nuove categorie nosografiche.
Altro è considerare il limite/linea di demarcazione come ambito di elaborazione in sé,
spostando in avanti i limiti della teoria e lavorandoli in stretto rapporto con la cura, compresi i suoi scacchi: rischiando, è vero di “perdere la bussola”, ma non perdendo la speranza di avvicinarci... al limite dell’analizzabile.
È dunque in questo modo che (magari sto forzando i vostri intendimenti) “ampliare le
aree” può prendere (l’altro) senso: poterlo esplorare “approssimabile... come l’orizzonte”
(Garella); oppure limite come “linee di demarcazione” tra sistemi o istanze e che soprattutto nella seconda topica divengono confini mobili (Ferraro).
Non so se siete d’accordo ma io direi che ciò che si va rappresentando può significare
considerare il “limite come concetto” elaborabile all’interno dei nostri fondamenti epistemologici: “In primo luogo, prendendo coscienza che ogni concezione dell’apparato psichico è un riferimento a dei limiti. Che d’altra parte i limiti sono delle zone d’elaborazione.
Che queste zone d’elaborazione sono intrapsichiche e fra l’apparato psichico e l’oggetto,
intersoggettive” (Green 1999, 30).
Dunque: l’intrapsichico contiene ‘zone di elaborazione’, cosicché quelle zone di confine
tra le istanze, o la censura da voi prima citate divengono esse stesse concetti ‘del/sul limite’, così l’intersoggettivo potrebbe essere rappresentato come luogo-tempo del “margine”,
idealmente vuoto ... “perché l’Io possa avvenire”.
Il rapporto tra l’intrapsichico e l’intersoggettivo così delineato sembra dunque evocare
oltre che uno spazio del limite anche un tempo del limite, cosicché in analogia, riferito al
lavoro della cura, sto pensando alla metafora della ‘traversata’ evocata poc’anzi da Alessandro Garella: traversata che spesso si caratterizza - nel lungo percorso psicoterapeutico
- per la difficoltà di trovare di volta in volta la ‘giusta’ distanza e il tempo ‘giusto’ per dire
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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Limite, limiti, liminale
o tacere; tempo e spazio dunque (la cornice del setting, come diceva poc’anzi Fausta Ferraro) che possono assumere di per sé e in quanto tali la funzione di “processi di legame”.
Per ora finisco qui, ma tengo conto che c’è un rischio nel teorizzare il concetto di limite: che si può trovare il luogo-tempo del limite dovunque nella teoria psicoanalitica e allora... se tutto è limite niente è limite: dunque continuiamo a ragionare.
FAUSTA FERRARO
Potremmo allora imporci di ancorare più strettamente le riflessioni sul limite al tema
specifico della conclusione dell’analisi.
Riprendo per brevità espositiva una affermazione contenuta in un nostro scritto: “La cosiddetta conclusione dell’analisi con le sue implicazioni strette di guarigione, è la forma da
noi scelta per rappresentare il Limite in Psicoanalisi. Scelta non perché riteniamo che sia
l’unica, né quella più evidente in sé, ma perché in essa vi abbiamo ritrovato il Limite in ogni
piega e ad ogni livello, come fosse un frattale” (2000, 31).
Rinunciando in partenza ad una pretesa di trattazione esaustiva vorrei menzionare alcune delle articolazioni essenziali dell’intreccio evocato, scelte secondo due criteri: consentono di ricostruire in un certo senso il percorso della nostra ricerca, e sono quelle che io considero più significative in ordine a questa delimitazione concettuale che ci siamo proposti.
Intanto vi è un punto di partenza cui non si può cessare di tornare ed è Analisi terminabile e interminabile, testo scritto da Freud, ormai al limite estremo della sua esistenza, che
potremmo icasticamente connotare come uno scritto in cui l’opzione di fondo è la riflessione sia sul Limite che sui limiti dell’analisi. Sono incline a considerare declinazioni del primo tipo sia le considerazioni sulla importanza del punto di vista economico che quelle sulla
ineliminabile dialettica tra processo primario e secondario (“l’unico punto di riferimento, di
inestimabile valore, che ci consente la Strega”).
Il privilegio che Freud accorda, nella sua trattazione dei tre fattori responsabili del successo di una analisi, alla forza costituzionale delle pulsioni, a fronte della eziologia traumatica e delle alterazioni dell’Io, riveste un duplice significato. Risponde, innanzitutto,
all’esigenza di riaffermare il profilo scientifico dell’impresa analitica che, ancorata alle
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Limite, limiti, liminale
quantità pulsionali come costituenti ultimi della vita psichica, vi trova i suoi invalicabili limiti. Ha inoltre lo scopo di conferire una peculiarità al lavoro dell’analisi differenziandolo
da prassi terapeutiche non strutturali, di superficie o puro maquillage “la minestra riscaldata
della psicoterapia”.
In una prospettiva, inoltre, che tenta di precisare la terminabilità dei percorsi analitici, il
richiamo alla tensione incessante tra processo primario e secondario, espressiva
dell’inesauribile lavoro di trasformazione dell’inconscio, configura il Limite che discende
dalla teoria stessa, e che conferisce un ineliminabile tratto di incompiutezza ad ogni analisi
liquidando drasticamente qualsivoglia pretesa di esaustività.
Parlerei invece di limiti laddove Freud si riferisce alle resistenze di controtransfert, evocando con perspicacia sentieri al momento poco battuti e certamente oggi un po’ più esplorati (penso ad esempio a specifici incastri transfert-controtransfert descritti in ricerche come
quelle dei Kantrowitz).
FIORELLA OCCHIUZZI
Sempre più dunque mi sembra che il discorso ‘intorno’ al limite si definisce per contenere una certa paradossalità: ciò che da un lato è “tensione incessante tra processo primario
e
secondario,
espressione
dell’inesauribile
lavoro
di
trasformazione
dell’inconscio”(Ferraro), può mostrare la sua deriva come “limite dell’analisi” e dunque
della trasformabilità del soggetto, quando la si incontra sotto le sembianze della quantità:
“Anzi, l’espressione ‘traumatico’ non ha altro senso se non questo, economico” (Freud
1915-17, 437). Sottolineo questo passaggio non per eliminarne l’aporia sottesa, ma al contrario per ribadire che il nostro lavoro/pensiero abita costantemente questo paradosso
(pensiamo per sintesi al transfert come spinta e ostacolo alla cura), paradosso che forse
può essere lavorato solo nei suoi margini come un resto - rimasugli li chiama Freud -: lavoro e attenzione sui nessi dunque, rifuggendo dalla tentazione di ricomporli in una qualsivoglia sintesi.
Vero è che è Freud stesso alla fine (punto di approdo della sua vita e della sua teoria) a
porci di fronte ad un limite ultimo e invalicabile: la biologia.
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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Limite, limiti, liminale
FAUSTA FERRARO
Di più problematica collocazione (quanto a provenienza: si impone nella clinica come
Freud sembra suggerire o è anticipato dalla teoria?) è quell’esemplare discorso sul limite
posto a chiusura di Analisi terminabile e interminabile attraverso il riferimento alla roccia
basilare, rigetto della femminilità, che si declina come ribellione contro la propria impostazione femminea o passiva nell’uomo e invidia del pene nella donna, ostacolo insormontabile
radicato nel biologico ed indicato quindi come deriva estrema della teoria e della prassi analitica. Green ha osservato che il biologico nella teoria freudiana spunta nei momenti aporetici, più come tentativo di spiegare la impossibilità di superare certi limiti che come ipotesi
esplicativa tesa a sbloccare l’impasse delle spiegazioni puramente psicologiche. Ha più la
funzione di indicare un Al di là dell’Es, intravisto il quale non ci si può che fermare.
Questo è un punto specifico che può imboccare percorsi concettuali diversi da quello
freudiano. Mentre per Freud è un Limite su cui si infrangono vanamente gli sforzi analitici
esso si è posto, invece, nel pensiero postfreudiano, come uno dei punti qualificanti il dibattito sulla conclusione dell’analisi imboccando ad esempio le strade opposte del rapporto della
Roccia con la pulsione di morte o quella di una maggiore attenzione al controtransfert come
fattore che codetermina l’interminabilità. (Emblematico il titolo di un contributo di Barande
(1968) ad un panel di rivisitazione critica di Analisi terminabile e interminabile e a proposito dello strato roccioso: legge biologica o controtransfert?). Nel primo caso lo strato roccioso assume più l’aspetto di limite invalicabile, mentre nel secondo caso esso si presta ad essere eroso in più direzioni e si configura quindi come limite specifico della teoria freudiana,
che può essere in qualche modo forzato in virtù di avanzamenti teorici e clinici. Tra questi
ad esempio quelli connessi ad una più approfondita comprensione degli aspetti narcisistici
implicati nella roccia. Come dire che in questo caso il limite si può prestare ad una diversa
lettura interpretativa che lo disarticola nelle sue molteplici determinanti.
Dal mio punto di vista questa questione “finale” (nel duplice senso della dislocazione alla fine dello scritto di Freud e come fondo ultimo di un percorso) della corporeità della roccia è una traccia freudiana che non ha esaurito le sue potenzialità euristiche e di cui mi limi-
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to ad indicare delle possibili riprese a partire da alcune osservazioni sollecitate dalla esperienza clinica:
1) in prossimità della conclusione, non di rado, la dimensione corporea irrompe sulla
scena analitica imponendosi alla stregua di ultimo elemento roccioso;
2) il tema della bisessualità, che emerge talora in alcuni sogni di fine analisi, è un tema
cruciale a proposito del discorso sui limiti. Mi sovvengono due declinazioni di questo tema:
la comparsa onirica di aspetti omosessuali presumibilmente segnala la spinta dedifferenziante e di intolleranza del limite sollecitata dal compito della terminazione o,
all’opposto, come nel caso descritto da Winnicott (nell’articolo sul maschile e femminile e
creatività) un non riconoscimento della propria bisessualità può sottomettere un’analisi ad
un destino di interminabilità.
Vi è poi tutta la questione della conclusione dell’analisi come anticipazione e confronto
con la morte, intesa come limite estremo dell’esistenza. Questo è in realtà un punto controverso, che si innesta su uno degli organizzatori centrali da noi assunto per ordinare o riordinare la complessa fenomenologia della conclusione: la temporalità. Dico che è un punto
controverso perché alcuni autori, come ad esempio la de Simone (1994) che ha posto la questione della temporalità in primo piano nel discorso sulla conclusione dell’analisi, non condivide un modello interpretativo che, segnalando l’idea della propria morte come strato roccioso invalicabile elicitato dalla separazione analitica, finisce per tematizzare un isomorfismo tra conclusione del processo analitico e conclusione e fine della vita. La nostra posizione è più sfumata nella misura in cui non tematizza uno stretto isomorfismo tra esperienza
psichica della fine analisi e realtà psichica della propria morte e tuttavia è stata indotta, direi
forzosamente, ad occuparsi di un frequente rimando dall’una all’altra.
Abbiamo provato a leggere la presenza quasi ubiquitaria del tema della morte nei percorsi di fine analisi all’insegna del lavoro della posteriorità, con uno spostamento d’accento
dalla anticipazione alla risignificazione a posteriori di esperienze traumatiche di morte o di
perdita.
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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Limite, limiti, liminale
ALESSANDRO GARELLA
Mi sembra che il discorso oscilli fra una visione del Limite ed una concezione psicoanalitica dei limiti: il primo è unico (come l’orizzonte) ed è esterno, in qualche modo, in quanto
circoscrive o delimita, nel nostro caso, il campo psicoanalitico, in altri termini è extrateorico; i limiti sono interni alla teoria, possono essere molteplici e non sono per principio
irriducibili. Prova ne è il fatto che la roccia biologica non è irriducibile ad un tentativo di
rappresentazione psicoanalitica (come sostengono coloro che si sono occupati di patologie
psico-somatiche, come la McDougall): e ciò non solo nel senso della clinica (possibilità di
un trattamento psicoanalitico), ma anche in quello teorico (analisi teorica del controtransfert, studio del narcisismo primario, ecc.). Vorrei sforzarmi di tenere distinti i due ambiti,
che tuttavia si intrecciano in maniera particolare nella questione della conclusione
dell’analisi. Su questo punto direi che, mentre la roccia biologica si è rivelata essere un limite freudiano e di un certo stadio della teoria psicoanalitica, che altri hanno tentato di superare senza rifiutare la Metapsicologia, ma articolandola ed approfondendola, ben altro problema è il superamento della questione economica posta da Freud e ricordata da Fausta Ferraro. In questo caso ci troviamo di fronte al Limite della metapsicologia in quanto teoria, il
non accettare il quale esige di cambiare la Teoria (e dunque le varie annunciate morti della
Metapsicologia, da trent’anni a questa parte). Il corpo e la morte sono l’orizzonte della nostra vita umana, che intravvediamo ma non possiamo ridurre a nient’altro: la rappresentazione che ce ne facciamo, in un certo senso, è quanto costituisce la vita psichica. Mi scuso
per la gravità delle espressioni, ma penso che, su scala più piccola ma non meno importante
per il nostro discorso, nella conclusione dell’analisi ci troviamo ad operare stretti fra il Limite ed i limiti. Fausta Ferraro ha già indicato i problemi che ci troviamo ad affrontare, in
particolare quelli posti dalla forma che il Limite assume nel contesto della fine dell’analisi:
corporeità - che vedrei in collegamento con la (bi)sessualità - e morte, che stanno lì a ricordare un fondo quantitativo (nella mia visione), nella misura in cui la componente affettiva vi
prevarica largamente su quella rappresentativa. Forse potremmo dire che se Eros e Thanatos
sono i due principi regola tori dello psichico, allora il sessuale e il mortale (il distruttivo, il
disgregativo), in quanto loro domini, sono irrappresentabili nella loro totalità. Se ne colgono
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Limite, limiti, liminale
soltanto frammenti, e questo pone il problema dei limiti nel e del trattamento: da un lato c’è
la pressione (teorica, individuale, sociale, culturale, ecc.) ad andare oltre, a fare di più e meglio, in estensione e profondità, dall’altro gli analisti sono avvertiti da Freud in poi
dell’importanza di resistere all’hubris di voler afferrare tutto il campo, di curare tutto e tutti,
e di ricercare una “fine perfetta”. Dal momento che in entrambi i casi troviamo motivazioni
razionali e sostegni teorici e metodologici, scientificamente coerenti (il tutto non si può avere teoricamente; ogni singola teoria va falsificata ricercandone le contraddizioni e i fenomeni inspiegati, per dirla alla Popper), quali sono i punti di repere che ci proteggerebbero (paziente e analista) da un eccesso di delimitazione (il dogma) e/o di hubris (libertà assoluta di
sperimentare e teorizzare: speculazione nel senso peggiore)? Ovvero, se accetto il Limite
della teoria (ripeto: corpo e morte), quale metodo mi consente di differenziare nel trattamento la presenza del Limite dai limiti interni alla teoria? Penso che questo interrogativo esprima nella sua forma più astratta il nostro lavoro sulla conclusione dell’analisi: un occhio al
limite ed uno ai limiti. La nostra tesi, ed il concetto di liminale che la sostiene, è che data
l’irriducibilità di limite e limiti, ne derivi sempre uno scarto, un residuo, che funziona da vis
a fronte. Esso cioè ci risucchia sia in quanto terapeuti, spronandoci ad andare oltre (ma
esponendoci ad un sorta di richiamo delle Sirene, mortale nella sua illusorietà), che come
teorici, in direzione del superamento teorico (ma esponendoci a forme di confusione tra fantasia teorica e formulazione fondata). Ma risucchia anche il paziente, chiamandolo al riconoscimento dei propri limiti, alla definizione di se stesso rispetto ai desideri, alla presa
d’atto dello scarto irredimibile fra ideale dell’io ed io: ma questo può essere qualcosa di insopportabile, da rifiutarsi di vedere o appena dopo averlo intravisto. Le interruzioni del trattamento o certe più sottili forme di siderazione, come alcune impasses della terminazione,
testimoniano a nostro modo di vedere l’impossibilità di accogliere tale condizione, che richiede una disposizione particolare che richiama a mente l’“interesse” dell’Io, come diceva
Freud, e non solo i desideri e i moti pulsionali. Accettare di essere risucchiati è accettare di
porsi nello scarto, dandogli forma e sostanza psichica, facendone una soglia, da cui osservare se stessi nelle proprie limitazioni, che fanno la storia psichica individuale ma proprio perché storiche sono sottoposte al cambiamento ed alla modificazione. E nel contempo consta-
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Limite, limiti, liminale
tando che ogni storia ha un inizio e una fine: è conchiusa, noi diciamo, e non possiamo abitare nell’inizio o nella fine, ma solo nella storia che vi si svolge. Oppure lo scarto può essere
accettato parzialmente, con grado ed intensità diverse. In questo secondo caso, il processo
della conclusione serve a favorire questo lavoro e stabilire l’esperienza della differenza fra
la speranza, connessa al sentimento di modificabilità (e in parte di superabilità) dei limiti interiori e la rassegnazione verso il Limite che circoscrive la propria vita psichica (corpo e
morte).
FIORELLA OCCHIUZZI
Mi sembra che il percorso fin qui fatto (considerando le diverse sfumature con cui
ognuno di voi lo ha circoscritto), ci metta ora in condizione di riconoscere due ambiti a forte valenza euristica: il Limite e i limiti, il primo definito “extra teorico” nel senso che configura un confine che idealmente si definisce, rispetto all’esterno, all’oggetto della psicoanalisi e al suo metodo; all’interno di tale confine troviamo invece i limiti, idealmente mobili
e dunque scalfibili dal lavoro di assidua dialettica tra clinica e teoria: la roccia biologica e
il fattore quantitativo, sebbene quest’ultimo si definisca sul doppio versante del traumatico
(di cui l’irriducibile difesa si rappresenta nella ripetizione), e del costituzionale (la forza
delle pulsioni).
La morte e il corpo d’altra parte, intesi come realtà ontologica essi stessi risultano Limite ultimo e irriducibile, irrappresentabile per eccellenza. Ma la morte e il corpo ‘tradotti’
nella loro essenza rappresentazionale (linguaggio della psicoanalisi), ricollocati
nell’ambito della dinamica psichica delle due componenti fondamentali - rappresentazione
affetto - risultano analizzabili come scarti tra il tutto e il nulla della rappresentazione e come lavoro del lutto sul versante affettivo; per altro verso, con il lavoro della posteriorità la
irrappresentabilità della morte prenderà il segno del trauma della perdita.
Credo allora sia molto importante sottolineare ciò che voi affermate rispetto alla impossibilità di tenere separati questi due ambiti - il Limite e i limiti - distinti, ma non separati
appunto, e in questo senso la definizione di una ‘soglia’ può farci intravedere
l’interconnessione: il contesto della fine analisi diventa esso stesso un contenitore concet-
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Limite, limiti, liminale
tuale rappresentabile ed analizzabile attraverso il termine-concetto liminale: “concetto del
transito” lo definite, cosicché applicandolo al processo della conclusione lo avete messo...
‘alla prova della psicoanalisi’ (Ferraro, Garella, 2001).
In tema di “derivazione” dei concetti, in che senso il liminale ci aiuta a capire meglio il
nostro “oggetto” e, rispetto al processo di terminazione dell’analisi (interrogativo che riguarda il lavoro dell’analisi tout court), cosa ha dato in più rispetto al già teorizzato, per
esempio in riferimento ai processi terziari di cui dicevamo sopra?
FAUSTA FERRARO
La definizione che tu riprendi pone un problema preliminare, quello di differenziare innanzitutto il concetto di liminale da quello di transizionale. Questo è puntualmente un quesito che ci viene posto, una costante delle varie discussioni cui abbiamo sottoposto il nostro
pensiero, il che sta ad indicare che vi è qui un nucleo problematico, un nocciolo duro che
occorre da parte nostra continuare a lavorare. Vediamo allo stato attuale quali possono essere considerati più chiaramente aspetti differenziatori che molto schematicamente vedrei organizzati intorno alla questione della temporalità e dei paradossi. La concettualizzazione del
transizionale ha, pur nelle sue permutazioni, mantenuto sempre un riferimento prevalentemente spaziale (il transizionale come terza area, lo spazio potenziale), il nostro concetto di
liminale si colloca soprattutto nell’ambito della temporalità, teso come è ad intercettare la
comparsa di una dimensione inedita della temporalità irriducibile e al tempo ciclico e a
quello lineare, in una particolare connessione con la posteriorità.
Vi sono certamente ampi margini di sovrapposizione e con il transizionale e con gli altri
concetti da te giustamente richiamati, e nondimeno io credo che la peculiarità del liminale
stia anche nella cogenza teorico-clinica che ne ha promosso nella nostra ricerca
l’elaborazione, ossia la necessità di individuare un indicatore di terminabilità che fosse al
tempo stesso sufficientemente generale da poter render conto di aspetti tra loro interconnessi
e fosse anche non troppo difficilmente rilevabile. Quest’esigenza ha come retroterra un ampio, nonché storico, dibattito sui criteri di terminazione e gli indicatori di fine analisi; traggo
da questo consistente ed inesauribile sforzo concettuale due sole notazioni sintetiche che, a
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Limite, limiti, liminale
mio parere, aiutano a contestualizzare la nostra ipotesi sul liminale. Si è imposta spesso nel
dibattito sui criteri di terminazione l’esigenza di una convergenza di indizi (si veda ad
esempio Glover), a fronte del rischio di puntare su un unico indicatore; dobbiamo inoltre a
Novick il merito di avere distinto mete del trattamento e criteri di terminazione, distinzione
che fa emergere lo scarto che può esservi tra il delinearsi di condizioni aurorali della possibilità di terminare e la conclusione dell’analisi che sancisce la realizzazione di mete.
Il concetto di liminale cerca di descrivere il prendere forma di una particolare dimensione della temporalità che coniuga la rappresentazione di sé e del percorso analitico con
un’apertura verso il futuro sottratto alla coercizione della coazione a ripetere o al blocco paralizzante di una logica binaria. È spesso nei sogni (ma ovviamente non solo in essi) che si
può cogliere l’intreccio tra un riferimento alla propria vita come un insieme dotato di continuità e la peculiare storicità del rapporto analitico cui sembra ora attagliarsi il “noi”, condizione complessa che si dipana sotto gli occhi di un io osservante in stato di sospensione tra
passato e futuro, come su di una sorta di simbolica soglia. Si tratterebbe della emergenza di
un vissuto della propria storia capace di combinare chiusure ed aperture di senso e di imporre alla configurazione del passato, retroattivamente, “il senso del punto finale”, quella dimensione configurante di cui parla Ricoeur in Tempo e racconto.
Il concetto di liminale per come ci è occorso di tratteggiarlo nel contesto argomentativo
della conclusione dell’analisi, non intende solo descrivere un transito tra stati mentali e assetti relazionali diversi, elemento nondimeno decisivo, ma indicare che nello spazio-tempo
di quel transito è andata emergendo una forma conchiusa, una nuova configurazione della
propria storia che ne include i nuclei traumatici e dà vita ad un racconto come base di infinite ritrascrizioni. Questo sarebbe il paradosso tipico e centrale del liminale, la compresenza
di due elementi in apparenza inconciliabili: una forma chiusa, quella della propria autorappresentazione, con la forma aperta connessa ad una mobilizzazione psichica propria del virtuale. In un regime di continuità-differenziazione avremmo qui l’aspetto paradossale che lo
avvicina al transizionale ma se ne discosta perché il paradosso è diverso da quelli che sostengono il transizionale.
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L’apparentamento con il transizionale è senza ombra di dubbio sollecitato anche
dall’utilizzazione che noi (e in particolare Alessandro) abbiamo fatto del contributo di studiosi come Von Gennep e Tumer, che hanno formulato il concetto di riti liminari o di margine proprio nel tentativo di comprendere le peculiarità di quei meccanismi cerimoniali che
hanno lo scopo di facilitare i mutamenti di stato e i passaggi (transiti per l’appunto).
L’aspetto significativo di queste concettualizzazioni ci è parsa quella tipica condizione definita dal margine che consente di non far coincidere la separazione (da una situazione A) con
il movimento di aggregazione (ad una situazione B). Gli autori citati parlano espressamente
di transizione come di un processo, un divenire ma il loro sottolineare che il soggetto del rituale è strutturalmente invisibile perché non è più e non è ancora ci pare evidenzi una condizione paradossale che riguarda ancora una volta il tempo. La connotazione temporale del
liminale è ancora più esplicita in quegli autori come Halpern e Christie che vi fanno ricorso
per sottolineare il carattere antistrutturale di alcuni eventi non riconducibili né al tempo lineare e progressivo né a quello ciclico e ricorsivo.
Nella esperienza clinica ravvisiamo nella comparsa del liminale un tempo eminentemente analitico che, emergendo ad un certo punto del processo, investe, mobilizzandoli, sia il
tempo del setting, usato fino ad allora nei suoi aspetti di circolarità ripetitiva, sia il tempo
della vita che da apportatore di angosce catastrofiche può cominciare a divenire contenitore
di eventi piacevoli. La mobilizzazione chiama in causa l’incremento delle capacità di risignificazione e quindi la posteriorità. Al punto di intersezione tra la visione retrospettiva e
quella prospettica della propria esistenza il processo temporale della ripetizione acquista la
qualità dinamica di una ricapitolazione risignificante. La possibilità di far coesistere entrambi i movimenti, che abbiamo identificato come distintiva del tempo liminale, conferisce
al percorso verso la terminazione il ruolo bifronte di completamento di un processo e di
apertura sulla post-analisi.
I Botella individuano nella tesi freudiana della simultaneità dei tempi psichici un caposaldo fondamentale per affrontare la questione della conclusione in quanto il compito di
terminare in continuità con la post-analisi deve necessariamente cimentarsi con una accresciuta capacità di tollerare la coesistenza di regimi di funzionamento diverso. È qui che io
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Limite, limiti, liminale
credo si ponga un problema di articolazione-differenziazione rispetto ai processi terziari che
come sostiene Green “meritano di essere isolati sul piano concettuale come processi di relazione tra processi primari e processi secondari. Se fosse necessario dar loro una sigla nella
scrittura analitica sarebbero l’x.” (1995b, 159). Il quesito è: i processi di relazione hanno
una loro consistenza e peculiarità (come ambisce ad essere il liminale) o si esauriscono nella
funzione di legame?
FIORELLA OCCHIUZZI
Non è per sfuggire alla domanda, ma credo che ‘non ci convenga’ tentare una radicalizzazione della questione, soprattutto se riconosciamo alla concettualizzazione del liminale
la sua valenza euristica, inserita com’è nel contesto del rapporto tra processo ed evento
della fine analisi. Per questo, procedendo un po’ per libere associazioni, ripartirei dalla tua
definizione per cui... “il soggetto del rituale... non è più e non è ancora”, condizione che allude alla condizione paradossale dei tempo dell’analisi: un tempo che a questo livello non è
più né lineare né ricorsivo cosicché questa condizione temporale installandosi nel processo
della conclusione apre all’evento della conclusione e dunque al dopo analisi.
D’altra parte, contestualmente, come non considerare che il processo della conclusione
si pone come ‘secondo tempo’ dei processo analitico (primo tempo) e che analogamente
l’evento della terminazione è il secondo tempo che qualifica il processo della terminazione
come un primo tempo? La posteriorità e il trauma dunque mettono di nuovo al lavoro il
concetto di liminale nel senso della ‘ritrascrizione’ del trauma: lavoro di rimaneggiamento.
Due sono i termini che vorrei sottolineare del vostro discorso: soglia e scarto, due termini che fanno concetto e che sono in stretta correlazione con l’aspetto della temporalità
ma non solo, e in questo senso mi risulta chiaro che il concetto di soglia è usato da voi non
come analogo a ciò che afferisce al transizionale ma che farebbe venire in mente piuttosto
un No Man ‘s Land - terra di nessuno -: è dunque in questo contesto concettuale (ma anche
esperienziale) che lo scarto - il marginale - inteso come ciò che non è stato tradotto, può
essere risignificato in “traduzioni meno alienate e rimuoventi” (Laplanche, 1989): lavoro
infinito che deve però fare i conti con la terminabilità dell’incontro analitico.
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Limite, limiti, liminale
ALESSANDRO GARELLA
È innanzi tutto sorprendente l’accordo implicito che circola fra di noi nel sottacere di
menzionare quell’aspetto del Limite e dei limiti che concerne il trattamento psicoanalitico
secondo la prospettiva medica di “cura”, “terapia”. Tuttavia non posso fare a meno di ricordare che vaste aree della psicoanalisi, così fameliche di tecniche e di teorie della clinica, di
specializzazioni ed applicazioni analitiche, eccetera, appaiono privilegiare fini adattivi, restitutivi, deficit-correttivi, tanto da somigliare sempre più a trattamenti medici riabilitativi,
in un’ottica interpersonale, il cui realismo sembra mirare ad un recupero sociale che è anche
espropriazione della propria irriducibile soggettività. Sarebbe interessante qui utilizzare gli
strumenti concettuali di Foucault per studiare la forma assunta dalla “volontà di sapere” nel
campo occidentale e psicoanalitico in particolare. Vorrei poi precisare qualcosa a proposito
della relazione fra Limite, limiti e Liminale. Se per i primi due il discorso è epistemologico
e metapsicologico, per il secondo è clinico-teorico (metapsicologico). Nel senso che non
vedrei il Liminale come interposizione fra un Limite della teoria e dei limiti del trattamento,
ma piuttosto qualcosa che emerge nel trattamento come possibilità per il paziente di porsi il
problema (la rappresentazione) dell’esistenza di un contesto di vincoli e limiti, personali,
temporali, culturali, a volte anche antropologici, all’interno dei quali egli vive. Perché il paziente possa consentirsi questo, occorre che siano accadute una gran quantità di cose: per riprendere i punti sollevati da Fiorella Occhiuzzi e Fausta Ferraro, occorre che ci sia stato un
sufficiente lavoro analitico (nel tempo, nella profondità, nella “analiticità” del lavoro di separazione, differenziazione, interpretazione di insiemi complessi ed altamente sintetici di
fantasie, comportamenti, ecc.), che si sia realizzato un holding e si sia aperto un ambito
transizionale sufficienti a garantire il paziente della continuità del suo essere e della relazione analitica (in specie nei casi gravi), che il paziente sia sufficientemente avanzato sul piano
oggettuale da consentirsi di sviluppare colpa e riparazione, ... insomma ci sono molti modi
di dirlo, ma il punto è che il liminale emerge a testimonianza di un qualcosa che è accaduto
e non solo a indicazione di qualcosa che deve accadere. Infatti, noi pensiamo che può accadere di tutto: interruzioni, impasses, infine l’inizio di un vero processo della conclusione.
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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Limite, limiti, liminale
Il Liminale emerge come soglia, non come spazio (transizionale) dell’illusione benefica
e creativa, che in un certo senso lo precede e lo sorregge, ma come espressione della possibilità-capacità dell’Io di sentirsi come l’istanza mediatrice, il che a nostro avviso si esprime
sul piano temporale come un punto di vista che connette passato e futuro, e nel contempo
attualizza un presente che il paziente, ogni paziente, respinge incessantemente, preso com’è
dal passato o da un futuro-passato.
FIORELLA OCCHIUZZI
D’altra parte il processo di terminazione, così come lo avete considerato in relazione al
processo analitico, ha rimesso in questione il processo di temporalizzazione come ‘fondamento’ e in questo senso mi viene in mente ciò che Laplanche definisce la triade freudiana
presente-passato-futuro come lavoro di detraduzione-ritraduzione sulle ‘teorie’ che l’essere
umano costruisce su se stesso e la sua storia (o, usando le parole di Fausta Ferraro: ‘forma
chiusa, quella della propria autorappresentazione’), finendo per essere “il modo in cui
l’esistente-umano si organizza secondo il tempo, tentando di cogliere di se stesso, ad ogni
nuova svolta, una nuova prospettiva”(Laplanche 1989, 429).
E che siamo in tema, si evidenzia dall’uso per analogia che Laplanche fa dei ‘tre tempi’
rispetto al lavoro del lutto: la perdita ‘attuale’ (presente), evoca ricordi che sovrainvestiti ,
possono essere ‘sbrogliati’ ai fini del doloroso distacco (passato), per essere “reincorporati in un nuovo pro-getto” (futuro).
Se consideriamo questa concezione della temporalizzazione come paradigmatica del dispositivo della cura includendovi il suo metodo (che non è quello della sintesi), mi rendo
conto che a questo punto si potrebbe evidenziare una differenza di prospettiva rispetto
all’ipotesi sulla temporalità da voi evidenziata, che merita una chiarificazione. Diversità
che, nella traversata sui territori del Limite e dei limiti, potrebbe rivelarsi d’altra parte stimolo per valorizzare le differenze.
Quello che vorrei sottolineare è dunque, ancorché riferito ad un ambito di fine analisi,
che “imporre alla configurazione del passato, retrodittivamente, il ‘senso del punto finale’
(Fausta Ferraro che riprende Ricoeur), sembrerebbe rappresentare una possibile inversio-
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Limite, limiti, liminale
ne di quelli che fin qui abbiamo individuato come vettori della triade temporale. E dunque
la domanda implicita è: se la vettorizzazione presente-passata-futuro vira in presentefutura-passato, nel verso cioè di un essere-per-il futuro, non si rischia di essere attratti (nel
senso di polo di attrazione) dalle “mete della vita” piuttosto che verso un lavoro senza fine
di rimessa in questione delle teorie soggettive? Rimaneggi infiniti di messaggi intradotti
dunque, utilizzando il tempo ‘attuale’ del transfert la cui risoluzione può essere concepita
soltanto nello spostare ‘altrove’ il processo di auto-traduzione: lungi dall’essere lavoro definito, il transfert del transfert, svolge dunque la sua funzione nell’aprire il soggetto - sempre impreparato agli eventi che lo riguardano - ad altri incontri che rinnoveranno le domande sulle sue questioni fondamentali.
ALESSANDRO GARELLA
Nelle teme temporali, che anche Fiorella Occhiuzzi menziona, tendo a porre il presente
al centro, poiché è da esso che si estendono gli altri due. Il presente dell’Io che è presente a
se stesso, naturalmente, e non il finto presente dell’attuale, che è il passato che ha mantenuto
tutta la sua potenzialità di primo tempo del trauma, e nemmeno il finto futuro dell’azione
impulsiva, che in esso vede solo la scarica e non il progetto. Il Liminale, dunque, non è
adattamento ad alcunché: anzi può segnalare possibilità di rottura e/o di rifiuto di adattamenti.
L’esempio che mi viene a mente è quello di una paziente che, nel momento venne a trovarsi in una condizione liminale, quando cioè il pensiero fulminante e lancinante della morte
la colse mentre pensava per la prima volta alla possibilità che l’analisi fosse qualcosa che un
giorno poteva terminare, realizzò con altrettanta rapidità che una metà del dolore riguardava
il tempo perduto, perché non passato, non trasformato in esperienza. Il “senso del punto finale” da noi citato tenta di comunicare non un aspetto narrativo, per certi versi retorico in
quanto sintetico e finalizzato ad una convinzione, del discorso del paziente (e dell’analista)
su di sé, quanto piuttosto un aspetto costruttivo, poco discorsivo e più legato al gioco rappresentazione-affetto. Non ci riferiamo quindi al punto finale come fine, conclusione (nemmeno dell’analisi, poiché il Liminale annuncia un processo e non un evento e tanto meno un
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Limite, limiti, liminale
fatto) ma come punto di fuga, come ciò verso cui si tende. Non c’è nulla di adattivo, piuttosto c’è l’indicazione, sul piano metapsicologico, di una modifica del regime economico e
dinamico e di un cambiamento topico e strutturale.
Non c’è dubbio per me che si tratti di una terziarità, ma non saprei dire fino a che punto
il Liminale si accordi con i processi terziari di Green, che mi sembrano di portata molto più
generale e legati ad una concezione della terzeità piuttosto complessa.
È evidente anche che non condividiamo la concezione di Laplanche sulla conclusione
dell’analisi, centrata sul transfert del transfert come condizione che presenta una sorta di
spontanea tendenza a presentarsi appena se ne diano le possibilità. L’immagine di finestra
temporale usata da Laplanche, infatti, evoca un alone meccanicistico nella misura in cui le
finestre temporali sono intervalli di tempo definiti da rapporti e condizioni oggettive (per es.
in astronomia). Essa si pone in antitesi all’interpretazione narrativista che identifica “senso
del punto finale” come conclusione di un racconto o di un discorso, ma al pari di
quest’ultima mi sembra escludere, non nelle intenzioni ma nelle conclusioni che suggerisce,
la soggettualità individuale, che non è oggettiva, se non in maniera singolare, non è discorsiva, anche se una buona conclusione apporta un migliore discorso su di sé, ma è fondamentalmente “costruttiva” nel senso di Costruzioni in analisi. Ma qui il discorso si fa troppo
lungo e complicato.
La peculiarità e la novità del liminale, almeno lo speriamo, sta nel fatto che esso incrementa la possibilità di rappresentarsi la dinamica del processo della conclusione: non intende avere una portata eccedente questo punto ma introdurre freudianamente la nozione di
faccia o interfaccia tra dinamiche, regimi e rappresentazioni connessi alla prospettiva della
conclusione dell’analisi. In questo il discorso sul Liminale è un esempio di applicazione
“locale” del più ampio discorso sulle forme, i modi e le relazioni fra Limite e limiti in psicoanalisi.
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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FAUSTA FERRARO
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Sulla possibile patologia teoretica del limite
ANTONIO ALBERTO SEMI
Sulla possibile patologia teoretica del limite
Quando mi sono seduto a scrivere questo articolo, del quale avevo già pensata la “scaletta”, un pensiero m’ha assalito d’un colpo, come succede quando - dopo aver pensato su un
tema ed essere rimasti insoddisfatti dei propri pensieri - d’improvviso, dunque venendo
dall’inconscio finalmente (e comunque) legittimato a presentarsi alla coscienza, un diverso
modo di vedere il problema consente di riformulare il tutto e di evitare il disagio iniziale.
In breve, mi sono chiesto se parlare del limite in un contesto storico e teorico che lo ha
inflazionato non sia già un superamento del limite e, meglio, un superamento di una serie di
limiti. Non abbiamo, talora, passato tutti i limiti? Il limite della quotidianità, del buon senso,
della esperienza pratica. Il limite della propria autocritica e della - ad essa connaturata - autoironia.
E mi sono chiesto se non sia una tendenza conformistica di noi psicoanalisti, quella di
cercare - come fanno i medici o i biologi - di andare talora oltre qualsiasi limite. E, viceversa, se non sia una tendenza onorevole della nostra categoria quella di interrogarsi continuamente sul concetto di limite, di confine, di barriera.
Naturalmente, la ricerca come tale non ha un limite ma i limiti nella realtà esistono. Ad
esempio la morte, limite per definizione che la medicina sta cercando di trasformare e/o negare. O la nascita, sulla quale si sorvola più volentieri ma che subisce anch’essa, in questa
epoca, una trasformazione importante (la medicalizzazione o la artificializzazione ad esempio).
Dichiaro dunque ab initio che, nonostante tutto, a me sembra che il limite che in psicoanalisi si cerca continuamente di documentare di aver superato, ma di documentare con termini che divengono sempre più iperbolici (Semi, 1986) sia quello che esiste tra coscienza e
inconscio.
C’è a mio avviso da questo punto di vista tutta una patologia teoretica del limite che a
volte può anche suscitare l’ilarità, come quando si assiste ad una gara a chi va “più indietro”
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Sulla possibile patologia teoretica del limite
avvicinandosi sempre più a quel momento fondante (sarà lì il vero limite?) che è costituito
dalla fecondazione dell’ovocita.
Un fenomeno interessante a questo proposito non è solo la rincorsa alla regressione ma
anche l’andamento diacronico di molte scoperte o invenzioni teoriche. All’inizio, un analista sostiene un’ipotesi che affonda nella notte dei tempi dell’individuo. Poi molti analisti,
che condividono la ipotesi iniziale, tendono a riconoscerla valida si ma ancora ulteriormente
retrodatabile. Infine sopraggiunge la schiera di chi ritiene, all’opposto, che la stessa ipotesi
si possa “verificare” anche in situazioni personali meno gravi o, com’era da aspettarsi, anche nelle situazioni “normali”. Solo dopo questo andamento la scoperta (o invenzione) viene a poco a poco ridimensionata, collocandola nell’ambito di tutte le altre risorse o diavolerie dell’animo umano o delle vicissitudini relazionali umane, non sempre però cercando anche di verificarne la compatibilità o meno con uno dei corpora teorici circolanti. Chi volesse percorrere la storia del concetto di identificazione proiettiva o quella del concetto di campo o di lutto, potrebbe verificare questo andamento. Prima si perde il senso del limite - e allora tutto l’universo appare interpretabile in base a meccanismi semplici - poi si tende a circoscrivere la scoperta o invenzione e però si tende ad evitare quel faticoso lavoro che consiste nel rendere “ragionevole” l’invenzione prodotta. Così, a livello di coscienza, possono
convivere spezzoni di teorie assai diverse. Non è questa una rappresentazione o una presenza del processo primario nel sistema Cs?
Non ricorrerò qui, per descrivere e cercare di spiegare questo fenomeno, che ci riguarda
tutti, né alla teoria del cambiamento teorico per catastrofi (alla Kuhn) né ad alcun altro concetto epistemologico, perché quel che mi interessa è osservarlo dal punto di vista psicoanalitico.
Questa patologia teoretica non deve insomma essere liquidata, a mio avviso, con una
spiegazione extra-analitica né con un’alzata di spalle, perché costituisce invece
un’importante manifestazione sintomatica e - proprio come nell’analisi clinica - si sbaglierebbe gravemente a sottovalutarne la portata. Tanto più che si tratta di una manifestazione
frequentemente ego-sintonica, nel senso che i sostenitori di queste teorie composite non
provano alcun disagio nell’accorgersi di albergarle.
PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
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Sulla possibile patologia teoretica del limite
Il problema, semmai, sta nel come interrogare questa manifestazione, nel come cercare
di comprenderne le ragioni senza per questo perdere il bambino che, si sa, sguazza
nell’acqua sporca. O senza per questo perdere il nucleo di verità che alberga in ogni delirio.
La questione del delirio non viene qui sollevata a scopo iperbolico né, tantomeno, per
formulare un giudizio né, ancora, per indicare un’analogia. Non credo che il rapporto tra
teoria e delirio si possa liquidare nell’ambito di una sgradevole analogia. Freud (1915) sostiene piuttosto che «se pensiamo in termini astratti corriamo il rischio di trascurare le relazioni delle parole con le rappresentazioni inconsce delle cose; e non si può negare che il nostro filosofare acquista allora un’indesiderata somiglianza, nell’espressione e nel contenuto,
con il modo di fare degli schizofrenici» (p. 88, corsivo mio), anche se, più tardi, in Costruzioni nell’analisi (1937) parlerà proprio di analogia a proposito del ruolo del delirio e di
quello della costruzione in analisi.
Il problema che Freud affronta nell’ultima parte di questo suo problematicissimo scritto
è però quello della «forza di convinzione» (p. 552) esercitata dal delirio, dalla costruzione in
analisi e, infine, dai grandi sistemi «deliranti che contraddicono la realtà e risultano inaccessibili ad argomentazioni critiche fondate sulla logica» (ibid.) come sono le religioni e che
sono condivisi da gran parte dell’umanità.
Ora, anche a proposito delle teorie psicoanalitiche e delle loro mode - che manifestano
appunto la forza di convinzione - varrebbe la pena di interrogarsi se esse non debbano in
qualche misura (si spera piccola) attraversare un periodo nel quale la forza di convinzione
trasmessa dal capostipite-scienziato-analista è massima, tanto da risultare inaccessibili ad
argomentazioni logiche. O addirittura da dover essere difese manu militari.
In una bella lettera ad Hanna Segal del 21 febbraio 1952, Donald Winnicott deplora
l’intervento fatto da Segal la sera prima, ad un dibattito della Società Britannica e aggiunge
«In ogni caso, il modo con cui i kleiniani scattano in ogni occasione per difendere quel che
viene esposto da uno di loro, dà l’impressione, di cui ci vorrà parecchio tempo per sbarazzarsi, che ci sia una organizzazione paranoide tra i guardiani del seno buono interiorizzato».
L’osservazione di Winnicott può valere, mutatis mutandis, per differenti scuole e differenti teorie in differenti momenti della loro esistenza. Si tratta, in ogni caso, del problema
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Sulla possibile patologia teoretica del limite
della forza di convinzione di una teoria o, all’opposto, dell’uso della forza (dialettica, di
gruppo ecc.) per convincere i riluttanti.
L’esempio delle discussioni inglesi è importante, semmai, per un altro aspetto: quello
del transfert. Quanto di transferale c’è in ogni teoria? O, in altri termini, quanto la nostra
teoria è si anche una teoria del transfert ma soprattutto - e proprio nella sua struttura - una
teoria di o da transfert?
Questi interrogativi vanno tenuti presenti in generale, secondo me, ma tanto più quando
si parla di limite.
Per tornare allora alla possibilità di individuazione di una patologia teoretica del limite,
bisogna osservare come essa si manifesti sia come una ricerca di superamento del limite sia
come una ricerca di delimitazione sia infine come una conseguenza del transfert. I primi due
movimenti indicano la contraddittorietà - e l’ambivalenza ad essa collegata - ma è la terza
caratteristica che ci interroga maggiormente. Transfert di cosa? E di chi? E verso chi?
Se pensiamo alla storia del concetto di transfert... ebbene non possiamo non vedere come esso stesso abbia subito un andamento singolare e abbastanza simile a quello descritto
più sopra per ogni concetto nuovo. Dapprima transfert ha indicato il trasferimento di un importo d’affetto da un gruppo di rappresentazioni ad un altro, poi il trasferimento di un affetto dalla rappresentazione di un oggetto (generalmente gli oggetti primari) ad un altro, poi il
coagularsi degli affetti e della rete associativa del paziente sul nuovo oggetto ad indicare la
costituzione di una nuova nevrosi (la nevrosi di transfert) e delle sue implicazioni. Infine il
cercare di distinguere - o meno - un controtransfert come elemento impedente o conoscitivo.
Oggi siamo - se dovessimo cercare di fare il punto della situazione per quanto riguarda il
transfert - nell’ultima fase, quella della giustapposizione di teorie differenti: transfert e controtransfert fanno parte del bagaglio teoretico di ogni psicoanalista, ma le differenze tra, ad
esempio, nevrosi (o psicosi) di transfert e transfert tout court sono ben lungi dall’essere sottolineate, dalla maggior parte degli autori. Ne derivano conseguenze importanti nella tecnica
clinica, poiché, ad esempio, la tecnica dell’interpretazione varia molto se si ritiene di dover
giungere allo sviluppo della nevrosi di transfert perché l’interpretazione abbia il suo pieno
valore o, al contrario, se si ritiene che si debbano o possano interpretare i fenomeni di trans-
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Sulla possibile patologia teoretica del limite
fert man mano che si rendono osservabili. Ma se non si mantiene questa distinzione, non
viene abolito un limite importante? O, viceversa, non si agisce così a livello del pensiero cosciente (che è pur sempre un’azione di prova) e poi della condotta tecnica, una “trascuratezza” teorica che ha poi importanti conseguenze?
Tuttavia, se si guardano le cose dal punto di vista della teoria del transfert, siamo non
già alla fine ma all’inizio del percorso, quando per transfert si intendeva il passaggio, il trasferimento di un importo di affetto da un gruppo di rappresentazioni ad un altro. Insomma
esiste un transfert nella teoria (anche in quella del transfert, non solo in tutte le altre teorie
psicoanalitiche) come hanno studiato sia Neyraut (1974) sia Fédida (1978, cap. XI: Topiques de la théorie) ed un transfert non completamente eliminabile ma certamente assumibile. La consapevolezza di questo transfert consente che la teoria - nella testa dell’analista - si
renda relativamente autonoma dalla struttura mitologica che la sottende e che è il portato
necessario ma pericoloso della natura metaforica delle nostre teorie. E questo movimento
transferale rende la teoria collegata alla propria esperienza analitica personale, al gioco
complesso di trasferimenti di affetti, di disimpasti e re-impasti di energie pulsionali, alle vicissitudini delle identificazioni primarie e secondarie mai “superabili” del tutto ma sempre
ri-mobilizzabili e ri-giocabili.
Ora, è proprio in queste situazioni che un limite va riconosciuto - ed è quello delle regole della ragione caratteristiche di un funzionamento del sistema Cs. Queste regole -il principio di non contraddizione, ad esempio - sono a loro volta pericolose, perché anche la costruzione di una teoria impeccabile dal punto di vista logico-formale riporta alla costituzione del
delirio, alla costruzione di una teoria delirante che nella sua perfezione raffigura, proiettata
all’esterno, la perfezione dell’Io ideale.
Insomma, le teorie (psicoanalitiche) oscillano in un campo che vede, ai poli estremi, due
modi di delirare: da un lato un delirio transferale (che ha come elemento nobile, nucleo nascosto di verità, il riconoscimento implicito dell’oggetto e che si configura come una passione) dall’altro il delirio risultante dalla proiezione della (propria e agognata) perfezione. A
questi poli non si sfugge. La consapevolezza (auto)critica consente però rimanere in un ambito che utilizza l’uno per modulare l’altro. Ad esempio per costruire una teoria che rispetti i
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Sulla possibile patologia teoretica del limite
limiti richiesti dalle regole logiche ma collochi queste ultime nel loro ambito, le riconosca
come ciò che ci è richiesto dalla nostra organizzazione per poterci rappresentare le cose coscientemente. Una teoria limitata e dunque utile per proseguire nel difficile compito di pensare cose nuove, di integrare e modulare affetti.
La patologia teoretica del limite, allora, può essere vista in quelle situazioni - che ognuno di noi sperimenta anche quando semplicemente si mette a scrivere - in cui o viene direttamente agita la passione, (denegando allora il limite posto dalle nostre regole di funzionamento del sistema Cs) o viene costruito un modello teorico che rispetta solo le regole logico-formali del sistema Cs e che potrà affascinare - come potentemente affascinano le esibizioni narcisistiche con le quali volentieri ci identifichiamo (per proiettare il nostro desiderio)
- e spingerci magari verso il successo sociale del guru.
In queste situazioni, il limite è saltato. E recuperarlo non è sempre facile. Né, del resto,
necessariamente gradevole. Entrambe queste situazioni, infatti, sono in fondo all’insegna
del principio di piacere e può darsi che qualcuno anche tra noi - preferisca un ruolo di caposcuola-guru a quello, più modesto, di collega che presenta i suoi nuovi pensieri per condividerli e discuterli con altri colleghi. E per poterne sorridere.
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ANTONIO ALBERTO SEMI
Castello 3471 30122 Venezia
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FRONTIERE
Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
UN. VIÑAR
Sulla memoria del terrore*
La presenza dell’altro (Verbundenheit)
Una notte a Dachau 50 anni fa
“Si spegne la luce. Accanto a me c’è un ombra. E la brace di una sigaretta accesa. Di
tanto in tanto il tiro illumina una bocca e un naso, come un faro lontano.
La brace si allontana dalla bocca e avanza nell’oscurità, mi si avvicina. Non sto attento.
Un colpo di gomito nel mio braccio. Il tizzone mi si avvicina.
Prendo la sigaretta e do due tiri: la mano se la porta via. Dico: Grazie.
È la prima parola. Io ero solo. Non sapevo dell’esistenza dell’altro. Perché questa sigaretta verso di me? Non so da chi viene. La brace si accende in un suo altro tiro. Adesso siamo insieme, lui e io, fumiamo la stessa sigaretta.
Mi domanda: Franzose?
Rispondo: Sì. Ruski? Sì. Parla dolcemente, una voce giovane. Non lo vedo.
Wie alt? ( che età?)
Achtzen (diciotto)
Un silenzio mentre aspira il suo tiro. Gli domando di dove è.
Sebastopol
Risponde docilmente, nel buio, come se mi raccontasse la sua vita.
La sigaretta si spegne. Non l’ho visto. Domani non lo riconoscerò. L’ombra del suo corpo si china. Nell’angolo il rumore di chi russa. Mi chino anch’io. Nulla esiste al di fuori
dell’uomo che non vedo. La mia mano si posa sulla sua spalla.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
A voce bassa: Wie sind frei (siamo liberi). Si alza, cerca di vedermi. Mi stringe la mano.
Si!”1
Un giovane spagnolo (Jorge Semprún) arriva a Buchenwald, il corpo e l’anima ancora
indenni da quella irreversibile usura che impone il campo di concentramento nazista al corpo e all’anima di coloro che non vi lasciano la vita.
Al tavolo della registrazione, un vecchio comunista - come lo identifica il distintivo che
porta - compie le mansioni burocratiche relative alla scheda di ingresso al campo: nome, età,
nazionalità, professione.
“Studente di filosofia”, risponde lo spagnolo. “Ma così non va bene qui, ribatte il vecchio, é meglio operaio specializzato, Stukkateur (stuccatore)”. Parole che suscitano
l’indignazione del giovane e una infuocata risposta retorica con la quale egli, trionfante,
chiude la conversazione.
Cinquant’anni dopo Semprún scrive un romanzo su Buchenwald2 e la sua memoria allucinata dell’universo “concentrazionario”. Ne deriva una intervista televisiva sul luogo dei
fatti. Durante la passeggiata che precede l’intervista un cielo luminoso copre il paesaggio
ineguagliabile di un bosco secolare e il canto incessante degli uccelli. Solo uno tra gli organi
di senso si contrappone alla cattura del fascino della scena, il più rudimentale: l’odore della
carne umana bruciata nei forni, che accompagna tutta la vita di Semprún. Ma anche
l’assedio di un sogno ricorrente: del freddo della neve come marchio percettivo del trauma,
che la sua vita onirica reitera.
*
Traduzione di Elvira A. Nicolini.
1
Da: Robert Antelme, L’espece humaine. Gallimard, Paris 1946.
2
L’écriture ou la vie (Gallimard, Paris 1995). Questo romanzo autobiografico indica col suo stesso titolo (“la
scrittura o la vita”) l’alternativa che per quarant’anni tormenta l’autore: se vuole vivere non può scrivere la
sua testimonianza sul Campo, ma per vivere non può rinunciare all’assedio ricorrente del suo bisogno di testimoniare.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
Un altro vecchio - ora custode del Campo - porta a Semprún una fotocopia della scheda
d’ingresso e lì si diceva Stukkateur, non studente di filosofia.
Attraversando il tempo di una vita, Semprún torna alla scena originale, durata pochi secondi. Che cosa indusse quel vecchio tedesco a cambiare il registro senza cedere
all’insolenza del giovane? Oggi Semprún capisce che quel laconico dialogo forse gli ha salvato la vita. Nella logica nazista un filosofo in fieri era più facilmente candidato al forno di
un operaio qualificato con il vantaggio che portava al sistema produttivo del KZ (Campo di
concentramento).
Questo è un punto sostanziale della Verbundenheit (Solidarietà = Coinvolgimento). Poter mettere da parte il fuoco di artificio di un confronto retorico, affinché la verità di un legame solidale si sviluppi e si esprima.
Abbiamo un esempio opposto. Jan Novak, messaggero della resistenza polacca, con un
inaudito coraggio, riuscì ad entrare, esplorare, conoscere il Ghetto di Varsavia ed uscirne.
Portò il suo messaggio a Londra e a New York, dove incontrò uomini di stato inglesi e nordamericani, e si recò in visita anche dal Presidente della Suprema Corte di Giustizia: un
vecchio giudice ebreo, che informò sul ghetto, sulla persecuzione e sulla soluzione finale in
corso.
Il giudice gli dice: “Non le credo giovanotto”. Novak replica: “Ma Signor Giudice, Lei
crede che io le stia mentendo?”. “No - risponde il giudice - penso che Lei dica la verità, sono io che non posso crederla”.
La lettura di questo folgorante aneddoto mi risulta affascinante ed enigmatica. È difficile
provare o confutare la sua verità storica. Ciò che importa é la sua verosimiglianza, che ci interroga e che può essere messa al lavoro solo sul modello del paradosso. Si direbbe a prima
vista, che si tratta della versione estrema del gesto di Pilato: il potente che si disinteressa del
martirio. Ma come esempio di reincarnazione di Pilato e come modo di condannare la codardia non mi basta. Il giudice poteva delegittimare il messaggero e non lo fa. È su se stesso
che fa ricadere la contraddizione: “Lei dice la verità, io non posso crederla”.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
È su questa ricusazione di una evidenza che dobbiamo interrogarci. Perché non è casuale né contingente, e neppure emerge dalla psicologia del giudice come soggetto individuale.
Ma proviene da una posizione generica e universale circa la percezione e la metabolizzazione psichica dei fatti di terrore, rispetto ai quali nel mondo attuale, e forse da sempre e per
sempre, ogni essere umano si sente inseguito o intrappolato nell’alternativa di decidere se il
dolore dell’altro lo riguarda o gli è estraneo. Una definizione che non è solo operativa e pratica, ma che stabilisce una strategia di vita pubblica e privata. E al di là della sua parvenza
moralistica, è costitutiva di una posizione soggettiva.
Nell’incapacità di assegnare ai fatti di terrore il valore psichico intrinseco alla loro crudeltà, si mettono in gioco alternative ossessive riguardanti la crudeltà: sarà?, non sarà? Come se l’unico modo di avvicinarsi ed accettare la dimensione dell’orrore, riproducesse le
strategie di quando dobbiamo manipolare un metallo rovente, con cautela, cercando guanti o
panni protettori3. L’evocazione, la rappresentazione, la memoria di questi argomenti, a causa della loro intensità eccessiva, suscita sempre disagio o scandalo.
A livello mentale e logico (anche se le circostanze e il contesto non potevano essere più
diversi) il giudice di New York e il prigioniero di Buchenwald si trovano a dettare una sentenza sulla possibilità che un terzo sopravviva. C’è dunque una sia pur minima affinità nella
posizione soggettiva (all’interno di una distanza abissale) tra l’essere un funzionario del
campo di concentramento e l’essere il burocrate della giustizia americana. Distanza tra
l’opulenza e la precarietà di chi deve decidere. Ci siamo interrogati su quali effetti,
nell’attività di giudicare, derivino dalla condizione di opulenza oppure di precarietà di chi è
preposto ad eseguirla? Un giudizio che pesa sul destino di quel tale altro, gravando - anche
se forse in minima parte - sulla sua salvezza o sulla sua rovina.
Questo è un universale che si ripete quotidianamente quando si tratta della percezione
dell’orrore che proviene dal mondo (articolazione del soggettivo e del sociale). Si dispiegano lì le mille e una strategie di riconoscimento e/o di negazione, che aprono oppure occludono l’impossibile accesso diretto alla verità nucleare dell’orrore.
3
Cfr. Freud, Al di là del principio di piacere. OSF, 9.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
Le situazioni estreme mettono a nudo, in modo scarnificato, il luogo assegnato alla rappresentazione del simile nel nostro funzionamento psichico. Luogo psichico del prossimo
che è sostanziale nella solidarietà (Verbundenheit). Socio o avversario, modello o rivale, diceva Freud in Psicologia delle masse, però più radicalmente e più arcaicamente, l’altro da
amare o l’altro da distruggere come alternativa basilare all’inizio. Il giudice preserva la propria esistenza psichica, miscredendo l’evidenza che non può metabolizzare ... e quante volte
facciamo come il giudice, affinché la miseria del mondo non ci pervada nel nostro quotidiano benessere, che è una delle ragioni dell’essere vivi.
La questione del coinvolgimento con il prossimo, e quella dei suoi limiti, è un argomento su cui pensare. Quante volte la memoria della barbarie assedia le nostre insonnie! Tante
quanto la sua salutare assenza ci consente di partecipare e di godere la delizia del mondo!
La percezione da assimilare è massiva benché semplice. Dunque la difficoltà non è di
carattere cognitivo, ma “l’inibizione dell’ apprendimento è di ordine emotivo”, come recita
l’ormai logora formula di psicopatologia dell’infanzia. Hanno la medesima origine:
l’intensità dell’angoscia da metabolizzare. Dice Semprún che: “il tema non si affronta come
uno sforzo ma come distrazione della memoria”.
La difficoltà del racconto (della rappresentazione) non riguarda la forma ma la sostanza:
il racconto non è indicibile, ma invisibile. Lo specchio dello sguardo del prossimo può essere ostile e diffidente o soccombere alla seduzione dell’orrore. Il lettore-interlocutore può
ascoltare con indifferenza, con pazienza o con passione. Ma è comunque alieno e distante,
qualsiasi sia la sua empatia o indifferenza.
Il primo-tempo è l’iscrizione di un non-senso, di un terrore senza nome. Le nozioni di
ricordo, di rappresentazione, di memoria, vale a dire tutte le categorie ordinarie che puntano
a render presente un passato evocabile, sono perfettamente inutili e da scartare in questo
ambito della memoria del terrore. Quando l’esperienza iniziale e l’evocazione che la convoca avviene entro i termini dell’angoscia ordinaria è possibile la costruzione della memoria
conscia. Si potrà ogni volta e sempre discutere fino a che punto questa costruzione è un registro e fino a che punto è una reinvenzione. Oppure in quale modo ogni soggetto riproduce
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
o inventa la “realtà” dell’evento. La frammentazione e la pluralità del ricordo di un evento
costituisce qualcosa di straordinario appartenente alla diversità umana. Ogni archivista è - in
misura diversa e variabile - documentarista e inventore.
La distanza nei confronti dell’esperienza che organizza il racconto, ha sempre uno statuto equivoco, tra la realtà più ovvia e qualcosa di fantastico e inverosimile. Non è appunto in
questo limite alla credulità che Freud colloca l’emergenza del familiare-perturbante?
La relazione con l’esperienza dell’orrore non è un ricordo, è la disarticolazione della parola e la siderazione del soggetto. È presenza delle anime, dei morti viventi. In questo mondo delle anime le strategie di riconoscimento e di misconoscimento sono un turbinio e i limiti tra normalità e follia sono sfumati. La verità e la pazzia danzano all’unisono, in una
vertigine da cui la percezione è fuggitiva.
Perché l’esperienza del campo e la tortura si collocano sul limite dell’umano. Tuttavia
non è inumana o non-umana, perché è l’uomo stesso l’unica forza capace di creare, inventare, portare a termine, con efficienza e precisione scientifica e tecnologica l’esecuzione di
quella decisione mostruosa: Non voglio che tu esista.
Cos’è la memoria del terrore? È evocabile, è convocabile?
Qual è la relazione con l’infanzia che si conquista puntualmente quando la psicoanalisi
funziona? Che legame esiste (o creiamo) tra il presente e il tempo del terrore evocato, tempo
fondatore dell’esperienza?
La nozione freudiana di après coup qui è centrale per capire di che cosa si tratta.
L’esperienza iniziale - fondatrice del terrore - che non è solo quella sessuale, non è di per se
stessa generatrice di senso. Non è significabile. Non è un significato ma un marchio, siderazione di un soggetto, nella lacerazione di un dolore.
Di fronte a un evento storico la cui verità è sempre elusiva (fatta eccezione per la memoria ufficiale del regime autoritario e totalitario, quella sì, unica e monosernica) la memoria
collettiva intesse sempre i fatti in modo diffrattivo e polisemico. Ciò che è normale e desiderabile è la diversità e la diffrazione, la disseminazione dell’evento in una verità esplosa e
molteplice. È quello il flusso della vita, conflittuale, inquieto, contraddittorio.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
Evocare e trasmettere una memoria del terrore è un’altra cosa. Non si può riprodurre né
ripetere (“io non so ben ridir...” come si legge in Dante4). Non esiste un nesso tra quello e il
qui e ora. Gli ordinari parametri non bastano, o anzi, non servono per raccontare e narrare la
tortura o il campo di concentramento.
L’ordinaria testimonianza, semplice descrizione di fatti, sprigiona monotonia e con essa
la sordità che provoca l’abolizione del messaggio che si vuole trasmettere.
Il messaggio tragico, invece della comunione verso la quale punta, prende una tonalità
confinante con l’oscenità, che banalizza l’esperienza che si vuole condividere.
La memoria del terrore è un’altra cosa. Bisogna inventare un’altra “macchina per
esprimere” (Antelme). Non trasforma il ricordo ma il marchio. Non descrive né trascrive
ma crea, costruisce partendo dal vuoto dell’abolizione del soggetto.
Come rappresentare l’inimmaginabile? A Dachau, il monumento più intenso è una aiuola di fiori, e una semplice pietra la cui iscrizione spiega che sono depositate lì le ceneri di
centinaia di migliaia di esseri umani. Non come altri umani e noi stessi, che anche noi saremo polvere, bensì di vite piene, brutalmente interrotte, per “la purezza della razza e della
cultura” e per altri deliri o razionalizzazioni che evidenziano il lato abietto dell’umanità.
Come portare l’inimmaginabile alla rappresentazione? Facendo si che l’allucinazione
onnipresente sia condivisibile e trasmissibile. Che dal delirio si possa raggiungere la poesia.
Non si tratta di un linguaggio allusivo e in grado di rappresentare una scena del passato.
Si tratta di altro, di una creazione narrativa nel presente, che si separa dalla esperienza originaria nel dire, per la prima volta, ciò che mai è stato detto, ciò che solo si è subito negli
abissi di una allucinazione, in una esperienza che ha soppresso la rappresentazione.
Dare un nome al terrore indica il momento in cui esso finisce di paralizzarci per siderazione. Uno spazio nuovo, al di là della paura che il giudice ebreo della Suprema Corte - e
noi tanto spesso quanto lui - non è riuscito ad oltrepassare. Non per egoismo o per una particolare cattiveria. Perché di quel giudice tutti abbiamo tanto: il bisogno di proteggere, legittimamente, la confortevolezza della posizione che abbiamo ottenuto, conquistato, non lanciandoci nell’avventura di un riconoscimento che ci getterebbe nella precari età.
4
[Inferno, I, 10: “Io non so ben ridir com’io v’entrai”. NdT]
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
Il demonio del consenso è sempre in agguato. Non fare ciò che pensiamo, ma pensare
nel modo in cui vogliono che lo facciamo. “Vogliono” fa riferimento a un terzo, a volte incarnato e nominabile, altre volte anonimo o inesistente, ma che esegue gli ordini
dell’entropia adattiva. Localizzabile all’esterno, nello spazio sociale o interiorizzato in noi
stessi. E questa è la porta d’ingresso della banalità del male...
Una mattina a Dachau, 50 anni dopo...
Con il fiato sospeso ascoltavamo Langbain, con la sua eroica aureola di vecchio della
resistenza ad Auschwitz, e prima combattente della guerra civile spagnola. La figura minuta
dell’anziano, piccolo, magro, contrastava con la sua voce vibrante e metallica che catturava
l’uditorio.
Benché non parlassimo il tedesco (la traduzione simultanea era precaria) ci rimasero tuttavia due o tre idee semplici ma nitide e forti. La prima: l’atto di barbarie richiede sempre
un tempo interiore e precedente che lo abiliti. Contrapponendosi all’idea consueta di una irrazionalità esplosiva, debordante, la violenza xenofoba che porta al genocidio si cuoce lentamente, matura passo passo, decantando argomentazioni che nella mente individuale e nella psicologia dei gruppi crescono come la palla di neve che fa precipitare la valanga. Tutto
ciò viene detto da un combattente intriso della forza del vissuto e non da uno psicoanalista,
un teorico delle pulsioni. Impariamo che quella forza irrazionale non ci spinge mai ciecamente. L’atto barbarico è eseguito con lucidità, prodotto da una intenzionalità sofisticata.
Non è giusto ridurlo al debordare della collera. La passione e l’odio sono altrove, non è il
mancato controllo (forse la caricatura del Dr. Stranamore, di Kubrik, potrebbe esserne un
paradigma).
La seconda idea: di quella razionalità un punto centrale va ricordato: il nazismo, la sua
xenofobia inizia quando un uomo può far perdere ad un altro la categoria di simile, quindi si
impone una superiorità autoreferenziale che autorizza e pseudolegittima la distruzione
dell’altro.
Terza idea: un corollario per la psicologia collettiva. Quando la logica descritta sopra
permea di sé una parte della società e la sancisce come consenso dominante, la capacità di
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
rifiutare, di dire di no, diviene un’operazione molto difficile. Appunto per questo diventa
necessaria, ineluttabile, imperiosa. Di nuovo qui la “Psicologia delle Masse” s’intreccia con
“l’analisi dell’Io”. Si dice “le vittime”, “i torturatori” accorpando in una categoria unificante coloro che hanno vissuto l’orrore.
I fenomeni di suggestione collettiva e d’ipnosi sono tanto più perentori ed efficaci quanto più cresce la violenza nel campo sociale.
L’appellativo di “sovversivo” con il quale le nostre dittature hanno stigmatizzato tutti gli
oppositori e i dissidenti, ha operato come quello di “ebreo” nella Germania nazista. E oggi
tutti siamo più portati a pensare che i poveri, gli emarginati e gli esclusi equivalgono ai delinquenti, benché l’aumento dell’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza, chiaramente
presente nell’ultimo decennio del postmodernismo neoliberale, non abbia avuto la conferma
che ci si aspettava nelle statistiche della delinquenza.
È importante constatare che quando si è scatenata l’operazione del terrore, invece di suscitare l’opposizione delle nostre pacifiche anime magnanime, paradossalmente si produce
una adesione alla tirannia, come se ci trascinasse l’ebbrezza del suo successo. Il corto decennio dell’ascesa del nazismo - come il tempo delle nostre dittature - ci evidenzia questa
dura constatazione.
Antelme si indigna e si oppone a questa omogeneizzazione. Giustamente l’orrore è sempre vissuto singolarmente.
“Le SS ci confondono ma non possono farci confondere. Non possono impedirci di scegliere. Qui, nel campo, al contrario, il bisogno di scegliere cresce a dismisura ed è sempre
costante ... L’uomo del campo di concentramento non è quello dell’abolizione delle differenze, è, al contrario, l’esasperazione della differenza, la sua effettiva realizzazione”.
Singolarità esasperata. Non permutabilità (ma una prima e unica volta) “il mio dolore
non è il dolore generico”, è una silenziosa esigenza di riconoscimento che la definizione di
vittima rischia di sopprimere.
Sono un numero, non un nome, gridano il torturatore e la nomenklatura che riproducono
l’esclusione iniziale. La logica genocida può entrare in azione quando l’altro cade come altro unico con i suoi difetti e virtù e diviene una categoria che agglutina tutto il rifiutabile.
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
L’estasi dell’unisono, di essere tutt’uno, avviene solo dal punto di vista del carnefice e
dei complici che lo sostengono - attraverso l’azione o l’omissione e lo spazio politico ci lancia nell’orrenda disgiunzione binaria di essere dalla parte delle vittime o dei carnefici.
A questo punto la psicologia sociale e la psicoanalisi lasciano un vuoto in cui la nostra
comprensione ci è insufficiente.
Andavamo a Dachau a raccontare gli effetti della tortura istituzionalizzata in America
Latina. Sembrava un nonsenso. Come se l’orrore fosse misurabile o comparabile. Come se,
dato che conoscevamo appena qualche decina o centinaia di vittime, noi non avessimo il diritto di parlare ai milionari dell’orrore. Hitler e l’Olocausto, come modello e unità di misura
del terrore del secolo.
Non è così, non c’è mai una possibile comparazione né una misura comune. L’orrore,
come la vita, non costituisce solo una serie, né solo un insieme, è giusto esigere di preservare la singolarità. Ogni caso è unico. La nostra testimonianza di stranieri, consentiva loro di
pensare a se stessi.
“Grazie di essere venuti”, ci disse una bella giovane signora dopo la conferenza. “Mi
aiuta a capire mia madre. Lei è vissuta molto male, sempre irritabile, tutta la vita. Diceva
che questo le veniva da suo padre, che invecchiò piangendo ogni notte. Mi rivelò la ragione
solo poco prima di morire: lui è stato infermiere di bambini handicappati per tutta la sua
vita. Un giorno è venuto l’ordine dell’eugenetica, dell’iniezione letale. Il sistema era inflessibile, si eseguivano ordini. Inoltre l’iniezione implicava una organizzazione molto costosa
e il nonno li caricava solo sul camion, ma conosceva il loro destino”.
Eravamo in una scuola di un paese della Baviera, ottanta genitori si erano riuniti per
ascoltare. La direttrice era sorpresa della loro presenza, che cosa li richiamava?
La donna mi guardava con tenerezza, io pensavo al terribile destino del vecchio infermiere che aveva concluso la sua vita professionale diventando un elemento della catena di
montaggio dell’industria della morte. Anello di un sistema, cellula di un organismo, legato a
una logica globale che non consente ribellione né proteste. O morire, o solo obbedire facendo impazzire qualcuno. La donna guardava con sollecitudine la sua figlioletta, quarta gene-
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Sulla memoria del terrore. La presenza dell’altro (Verbundenheif)
razione della discendenza. La scuola era sfavillante, confortevole e raffinata. Io ho pensato
alle nostre scuole rurali. La comunicazione era in francese, lei non parlava lo spagnolo né io
il tedesco, ma non c’era alcuna interferenza etnica, l’orrore era lontano da quell’istante di
comunione.
MARCELO N. VLIIAR JOAQUIN NUFTEZ
2946 11 300 Montevideo
URUGUAY
[email protected]
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Violenza sociale e sofferenza psichica
ANNA SABATINI SCALMATI
Violenza sociale e sofferenza psichica
Da anni seguo in psicoterapia psicoanalitica persone provenienti dal subcontinente sahariano che hanno conosciuto la prigionia, la tortura, la violenza fisica e sessuale e, in momenti di assoluto pericolo, si sono trovate a scegliere tra due alternative: o consegnarsi ad una
morte crudele ed anonima, o fuggire non importa dove. Per un imprevisto gioco del caso, si
è fatta avanti la seconda possibilità, da cui il loro fortunoso arrivo in Italia. Sulle spalle di
queste persone, accanto ad esperienze di brutalità e violenze, grava la lacerazione del tessuto familiare e sociale, radice ed humus della loro identità affettiva e della loro personalità.
Caso clinico
Dall’istituzione con cui lavoro ricevo un dossier che mi dà sommarie notizie di un ragazzo di 17 anni che, dietro suggerimento dell’assistente sociale, ha accettato di avere dei
colloqui con me.
Nel file leggo che il giovane, per l’attività e l’impegno dei genitori, è stato molti mesi in
prigione; ne è poi fuggito, grazie all’intervento di persone esterne.
Quando la violenza di Stato iscrive una persona nelle liste di proscrizione, prima o poi
perseguita tutti i suoi familiari, adulti o bambini che siano. La sorte di questo giovane, a cui
dò il nome di Carlo, non è diversa da quella di molti altri. Non si sa nulla dei suoi familiari.
Subito dopo la fuga, Carlo è stato fatto salire su un aereo con destinazione Italia: scalo
Fiumicino. Superata la frontiera, il passer che l’ha accompagnato si è dileguato. Carlo è abbandonato, alla mercé di una realtà sconosciuta e di imprevedibili presenze estranee. In tasca ha 10 mila lire.
All’angoscia catastrofica connessa alla perdita di tutto ciò che è noto - affetti familiari,
compagni, gruppo sociale e poi carcere - si aggiunge l’angoscia dell’assolutamente nuovo e
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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 2/2003
Violenza sociale e sofferenza psichica
della mancanza di un qualsivoglia punto di riferimento. Vincoli improvvisamente perduti
aprono voragini, impediscono di fare distinzione tra il passato e il presente, tra mondo interno e mondo esterno.
Al primo appuntamento, come poi a tutti gli altri, Carlo giunge puntuale.
Entra timoroso, a testa china. Stento a riconoscere in lui l’adolescente che quelle poche
righe mi hanno fatto immaginare. Si siede e inarca la testa sul petto; del suo viso riesco ad
intravedere solo la palpebra destra abbassata, scossa da un rapido tremore e il labbro superiore, anch’ esso scosso da fremiti.
Passano i secondi, il silenzio è profondissimo; ho l’impressione di cogliere i battiti del
suo cuore; ho davanti a me un giovane ferito di cui percepisco i segni del terrore e
dell’angoscia.
Il tempo scorre in silenzio: parla il suo corpo chiuso su se stesso, le mani che si stringono e si aggrappano l’una sull’altra, il pallore che tinge la sua pelle di ombre verdastre. Chiuso su se stesso, Carlo sembra difendersi da uno spazio senza confini da cui può essere risucchiato e da cui può arrivare di tutto.
Cerco di contenerlo con il mio sguardo e con la mia attenzione che si è fatta molto intensa. Dopo poco gli dico che sono con lui e che in questa stanza, assieme, possiamo fare
qualcosa per aiutarlo, so che ha molto sofferto.
Dopo più di 30 minuti, le sue prime faticose parole: mi chiede se può avere dell’acqua.
Nell’alzarmi ho un brivido, mi domando quanto quest’incontro ne rievochi altri ben diversi,
da cui questa richiesta d’acqua. Dopo l’applicazione di elettrodi, il bisogno di bere è fortissimo. Torno a sedermi e mi domando se lo sguardo con cui avvolgo la sua persona, il silenzio della stanza, l’acqua che gli ho offerto l’aiutino a differenziare questo luogo dai luoghi
in cui è stato rinchiuso per tanto tempo.
Lo vedo lottare per trattenere scoppi di pianto, poi, ad un tratto, due lacrime grosse come chicchi di grandine gli solcano il viso.
È pericoloso fare rumore in prigione, ancora più pericoloso far vedere il proprio dolore.
Ha imparato a trattenere le lacrime, a nasconderle, a condensarle in due sole grandi gocce.
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Violenza sociale e sofferenza psichica
Ma è anche pericoloso essere in contatto con l’ansia che questa stanza ha fatto emergere.
Occorre mobilizzarla, tenerla sotto controllo.
Alcuni minuti prima della fine del nostro tempo gli comunico che la seduta sta per terminare e che, se lui è d’accordo, ci vedremo alla stessa ora, lo stesso giorno fra una settimana. Si alza; dopo alcuni secondi, senza guardarmi, ma con parole che aprono al mio sguardo
il suo mondo interno, mi dice: “Come si può guarire da tutto questo...?”
Gli dico che non lo so, ma assieme possiamo provarci. Esce a capo chino, come era entrato.
Durante la seduta il suo corpo si era fatto veicolo di forti emozioni e aveva messo in secondo piano la parola; quando, dopo averlo accompagnato alla porta, rientro nella stanza,
percepisco una forte oppressione alle tempie.
In queste terapie occorre molta esperienza e sensibilità clinica; più che interpretazioni di
significati, quello che transita sono intense comunicazioni di transfert e controtransfert.
La settimana successiva, Carlo giunge puntuale all’incontro. Continuerà poi a venire per
circa due anni.
Nel primo incontro, il giovane mi ha insegnato che il silenzio è la lingua in cui transiteranno le nostre comunicazione più profonde. Il suo silenzio, ciò che mi dice il suo corpo - la
postura immobile e tremante, la tensione con cui stringe una mano sull’altra o, nei giorni
freddi, il suo berretto, il capo reclino, la distanza che interpone tra sé e il tavolo - danno
espressione ai suoi stati mentali.
La mia stanza è calda, piccola ed accogliente, ma io ho sensazioni di freddo e
l’impressione che i confini del mio corpo incontrino il vuoto. Lascio che i minuti trascorrano in silenzio e che queste sensazioni si decantino; poi, gradualmente, gliene parlo. Gli parlo del suo sentirsi solo, anzi isolato, che la sua storia tanto diversa da quella delle persone
che incontra amplifica il suo isolamento; che nulla di quello che lo circonda ha senso per
lui, che soffrire assieme tutto ciò lentamente l’aiuterà.
Dopo un po’, sempre a testa china, mi dice: “Le mie ossa non si scalderanno più, le mani mi fanno male, il sangue non scorre”. Sul suo volto una, massimo due lacrime. Penso che
dobbiamo lentamente scongelare un mondo ghiacciato dall’odio, dalla vergogna e dal dolore
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Violenza sociale e sofferenza psichica
delle torture, tornare a fare circolare il sangue in un corpo che ha più volte visto in faccia la
morte. Anche le sue notti sono “ghiacciate”, Carlo da mesi non sogna. Dorme pochissimo,
ha paura dei suoi compagni di camera.
Le notti in prigione sono più pericolose del giorno, l’arbitrio è più nero. Si è chiamati, si
è portati via, non si sa se si tornerà in cella.
Le sedute si susseguono con le stesse modalità: alcuni movimenti significativi e poche
parole. Dopo due mesi riesce a slegare una mano dall’altra e porta la mano destra sulle labbra. Un gesto per placare il tremore? per sentirsi? o solamente un gesto di libertà? Non lo
so, è un movimento, l’inizio di un disgelo. Dopo poco mi dice: “Non ce la faccio a parlare.
Io sono sempre là, quello che è avvenuto là è il mio presente”.
Il dolore che improvvisamente fa irruzione protrae a tempo indefinito lo spavento
dell’aggressione subita, il tempo sembra chiudersi all’interno di un continuo presente. Ciò
impedisce alla sua voce di diventare parola, e a Carlo, da “cosa” in mano dei carcerieri, di
tornare ad essere persona umana tra altre persone. Carlo non può andare dal medico, ne teme il verdetto: infezione da HIV.
Gli dico che so che è molto difficile parlare ad una sconosciuta del dolore, della vergogna e dello strazio in cui è stata presa la sua giovane vita. Che sono qui per accogliere e sorreggere le sue difficoltà e per cercare di alleviare il suo vissuto di sofferenza e paura. Spero
di aiutarlo a sentire che, accanto al suo passato, può incominciare a percepire lo scorrere di
giorni diversi.
L’effrazione del terrorismo di Stato lascia come marchio una grande fragilità e
un’invasiva sensazione di piccolezza. L’adolescente dalla cui vita l’adolescenza è stata violentemente cancellata, ha imparato a vivere con queste piaghe, sa come muoversi e cosa
l’aspetta. L’aprirsi a questo paese così diverso dal suo, sapere cosa ne è della sua famiglia,
forse completamene massacrata, guardare questo suo forzato presente, apre altre piaghe; ne
ha paura, non ne conosce l’entità e il prezzo.
Tutto ciò deve essere affrontato, ma questo verrà dopo; per prima cosa è urgente che
Carlo percepisca che c’è qualcuno che condivide i suoi fremiti, che coglie la sua sofferenza,
che lo aiuta a differenziare tra i diversi aspetti della sua esperienza; e che egli può depositare
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Violenza sociale e sofferenza psichica
nei nostri incontri la sua vergogna, la sua rabbia, il suo dolore, il suo odio e i suoi sentimenti
di morte.
Nel corso delle sedute assisto alla lotta che il gelo, la sfiducia, l’enormità dei fatti hanno
ingaggiato contro la sua parola. Gliene parlo in termini molto semplici, mi dice: “Le parole
vengono alla bocca, ma poi tornano dentro, non escono”. Gli dico che questo accade perché non sono solo parole, ma urli, pianti, emozioni intere, fatti duri e concreti a cui è impossibile dare un nome. Per un attimo, timidamente, per la prima volta dopo mesi, alza lo
sguardo su di me. Sul suo volto una lacrima, ma anche sul mio.
La volta successiva arriva in ritardo. Mi dice che è sceso alla solita fermata, ma si è perduto, non riusciva più a trovare la strada, si è accorto che girava sempre attorno al mio palazzo senza riuscire a vedere il portone.
È difficile ristabilire la fiducia, tornare a vedere la luce. In pochi secondi si dà la morte,
si lacerano legami ed affetti, ma quando poi si prova a ridare un senso alla vita, a riappropriarsi di qualche sentimento, si perde la strada, il percorso diventa lento, scivoloso ed irreale.
Dopo quattro mesi riesce ad andare da un internista, poi appare il primo sogno. Ovviamente terribile, così terribile che gli fa male il cuore. I sogni di questi pazienti hanno una
qualità concreta con ripercussioni sul loro stato di salute.
“Ho visto massacrare mia madre... silenzio, effrayant! Mi sono svegliato di soprassalto,
un’angoscia terribile, il cuore..., e si porta la mano al petto, mi fa male”.
Mi chiedo a quale movimento psichico sia legato questo sogno, cosa è accaduto, a cosa
si deve questo scongelamento, pur se così doloroso. Gli chiedo della giornata, della sua serata. Mi dice: “Mi sono svegliato per andare in bagno, tornavo in camera quando degli
uomini ospiti del centro, forse avevano bevuto, hanno cominciato a parlare male
dell’Africa, a ridere. È vero, mi dicevano, che nel tuo paese gli uomini e le donne vanno in
giro nudi? Io mi sono molto offeso, ho sentito dolore, ho cominciato a difendere il mio paese, la mia terra; poi me ne sono andato. Non avevo mai parlato con loro, mi ha fatto tanto
male sentirli. Poi mi sono addormentato, e ho fatto questo sogno”.
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Gli faccio notare che ha difeso la sua comunità, che ha fatto una fondamentale distinzione tra la popolazione e i carcerieri, ma poi il passato, la violenza del potere si è prepotentemente ripresentata, l’ha ripreso nella sua rete di morte ave non è ammessa differenziazione,
ambivalenza, contraddizione, Prima gli era difficile parlare con i compagni del centro perché la sua prigione si estendeva anche al mondo esterno, ora che è riuscito a circoscriverla
al suo interno, che ha avuto il coraggio di difendersi e di dare la sua versione dei fatti, i soldati sono tornati; con tutto il loro potere l’hanno colpito al cuore.
Con il passare delle settimane, Carlo lentamente comincia ad abbassare le sue difese,
cessa di immobilizzare in una chiusura autistica le sue angosce, torna ad essere in contatto
con alcune sue risorse; riprende a sognare. Ma i suoi sogni sono terribili. “È notte, buio.
Nella foresta è inseguito dai soldati che afferrano le persone e le gettano nelle fiamme”. Un
altro: “I soldati gettano i prigionieri da elicotteri in pasto ai coccodrilli”.
Da questi sogni si sveglia di soprassalto e non riesce più a dormire.
La riattivazione dell’attività onirica va di pari passo con un netto peggioramento psicofisico. In seduta poche, intense comunicazioni. Carlo è molto pallido, si sente male, dispera di
riuscire a venire fuori dal suo stato di confusione e paura. Eppure ha cominciato ad essere
più presente alla sue giornate; seppure per brevi tratti, il passato in qualche modo comincia a
divenire tale. Durante le giornate è impegnato in un lavoro, al centro di accoglienza si sente
più sicuro, ma gli incubi hanno riaperto le porte del suo inferno personale; tutto sembra spostarsi contemporaneamente nel passato e all’interno. Sembra che quello che non è stato ucciso allora nella realtà, debba esserlo adesso, nella raffigurazione onirica. I momenti di speranza che, seppure deboli, erano apparsi all’orizzonte, sono attaccati da questo movimento.
lo sono in pena per lui.
Un giorno entra zoppicando. Dopo alcuni minuti di silenzio gli chiedo cosa è accaduto
alla sua gamba: “Mi hanno bastonato”. Sto per esprimere un moto di indignazione e di allarme, quando noto che sta per dire qualcosa. Gli lascio tempo.
Dopo un po’: “Stanotte ho fatto un sogno terribile. Sono in prigione, entrano i soldati
con pistole, fucili, mi bastonano, mi prendono a calci. Chiedo pietà, ma niente, ancora calci, botte, non finivano mai. Poi entra una donna, io non la vedo in faccia. Sono per terra,
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ma sento che dice a quello che più di tutti si era gettato su di me di andare a consegnare
una lettera. Gliela porge. Allora quest’uomo se ne va, gli altri si allontano. La donna mi dice: svelto, fuggi, fuggi!! Lei va da una parte, io dall’altra. Da quando mi sono svegliato la
gamba mi fa male. Mi hanno bastonato tanto. Ho avuto una terribile paura, credevo di morire”.
Considerazioni di tecnica e di teoria
A questo punto credo siano opportune alcune riflessioni.
Nel colpire l’avversario, il terrorismo di Stato vuole in lui/lei colpire il percorso di umanizzazione, la lenta evoluzione degli affetti, l’essere soggetto ed individuo, l’appartenere alla vita ed essere un’espressione dell’esistere.
La violenza dello Stato lo/la strappa dal suo retroterra culturale ed umano, dalla sua storia familiare, sociale ed affettiva, dagli odori e dai colori della sua terra, in una parola da
quell’humus originario nel quale è emersa la sua differenza: quell’area di dipendenza assoluta con l’ambiente che è inscritta nei livelli profondi della personalità umana.
“Il nostro presente senso dell’Io - scrive Freud - è [...] un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva ad una
comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente” (Freud 1929, 562 ).
Il sopruso del potere strappa l’individuo dai luoghi affettivi ave si saldano i primi legami, e con essi il primordiale sentimento di sé, un’appartenenza di base, fatta di reciprocità e
complementarità, ove si depositano i nuclei indifferenziati, indeterminati ed originari del
nostro esistere. Là ove trovano ricettacolo e depositazione aree di ambiguità e di simbiosi: il
nucleo agglutinato ed ambiguo di cui parla Bleger, che di norma rimane silente. Ombra mai
dissipata, che non chiede di esserlo nella misura in cui è condivisa e contenuta
dall’ambiente. Che in parte si decanta nei comuni gesti quotidiani, in parte rimane immobilizzata sullo sfondo, sorretta dal consenso muto della comunità, retroterra di sicurezza, sintesi ed espressione dei suoi membri.
La perdita di questa relazione primordiale, con cui si ha una relazione massiva ed indiscriminata, è catastrofica. Quando ciò avviene si ha a che fare con la perdita del “deposita-
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rio” a cui seguono a valanga tutte le altre perdite. Vera e propria “apocalisse culturale” da
cui si fanno avanti i fantasmi inquietanti, confusi e primigeni dell’indifferenziazione primaria e dei primi orizzonti persecutori.
Il venire meno dei legami. primari, della famiglia e della comunità tracima
sull’individuo confusione, terrore e persecuzione. Stati di inquietante estraneità e il timore
di non riuscire a sopravvivere.
Invaso dall’improvvisa cancellazione della propria identità affettiva e sociale, intersoggettiva e trans-soggettiva, l’Io è sopraffatto dall’insorgere di stati di confusione. Ne possono
derivare un annebbiamento più o meno temporaneo della coscienza e un’invasiva angoscia
catastrofica, vissuti di depersonalizzazione e derealizzazione, confusione psicotica e frammentazione.
Nel lavoro con questi pazienti è necessario avere ben chiaro che abbiamo a che fare con
la défaillance del sociale e del trans-soggettivo, con lo sfaldamento di ciò che era dato per
garantito. Con l’impotenza della mente ad integrare, legare, elaborare in catene associative
l’accelerazione affettiva/sensoriale della brutalità sofferta, con l’angoscia legata al crollo e
all’assenza di oggetti protettori esterni. Con profondi sentimenti di impotenza, di mancanza
di difesa e vissuti di disintegrazione e morte.
A queste considerazioni consegue la modalità tecnica per cui, ad esempio nel sogno “mi
hanno bastonato”, sebbene sia esplicito il ruolo affidato alla mia persona, non faccio interpretazioni di transfert. Non le faccio perché è urgente aiutare il paziente a dipanare il connubio intenso ed improvviso che si è verificato tra le aree primitive ed indifferenziate della
sua mente - il nucleo agglutinato - e la perversione e la violenza subite.
In questo sogno il paziente ha operato una discriminazione fondamentale, è questa che
va sottolineata e rafforzata perché egli ha bisogno di continuare a procedere su questa strada. A livello intrapsichico appare una differenziazione tra buoni e cattivi, tra la morte e la
vita; questa stessa differenziazione deve estendersi tra il suo mondo interno e la violenza
dello Stato il cui ordine “non è contenuto dallo spazio psichico del soggetto, ma [...] lo determina senza che egli possa riconoscervi ciò che attiene alla propria personale violenza”
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(Puget 1989). Solo dopo questa primaria distinzione, gli eventi che vive nel presente si potranno differenziare dal suo passato.
Primo obiettivo di queste terapie è stabilire chiare scissioni, non integrare una divisione
schizoide.
La perversione è legge in prigione; come in una cloaca qualsiasi cosa è uguale al suo
opposto, così tra le sue mura, tra prigioniero e carceriere, sequestrato e sequestratore si stabiliscono false simmetrie, e false equazioni equiparano un oggetto ad un altro. Carlo deve
riuscire a liberarsi da tutto ciò, deve tornare a fare delle discriminazioni, a differenziare tra
sé e gli altri.
Sta a me aiutarlo in questo processo, dalla mia non “ambiguità” dipende la sua possibilità di continuare a procedere su questa strada. Chiamarmi dentro con una interpretazione di
transfert non serve al paziente. Mentre ciò che serve è aiutarlo a fare luce sulla perversa fusione che egli teme sia avvenuta tra lui e i suoi persecutori, e ad uscire dalla proditoria confusione in cui si sente impaniato, potendo distinguere tra la sua persona e gli altri. Ciò significa lenire i suoi profondi stati confusionali, i momenti di annebbiamento e restringimento
di coscienza.
L’astenersi dall’interpretazione di transfert, norma a cui mi attengo sempre, era tanto più
necessaria in questo caso. Carlo era fuggito dalla prigione grazie all’intervento di una donna, probabilmente inviata da sua madre, che era riuscita a corrompere qualcuno e salvarlo. Il
sogno ci permetteva di far riemergere queste figure e ritessere i dialoghi da tempo interrotti.
I sentimenti di Carlo verso la madre erano fortemente ambivalenti: il suo essere
un’intellettuale e avversaria del partito in carica, aveva sollevato contro di lei l’onda omicida del potere che aveva travolto anche Carlo. Ma non solo, la madre era una donna impegnata nel lavoro, per cui presumibilmente lo aveva spesso lasciato solo e, elemento centrale,
era assente - era già stata arrestata - quando i soldati, fatta irruzione in casa, lo hanno trascinato in prigione.
L’effrazione provocata da questi eventi “genera un’alterazione della funzione e della
struttura della memoria che, per così dire, si congela attorno a fatti traumatici per poi irradiare il suo cono d’ombra sullo spazio/tempo precedente gli eventi lesivi” (Sabatini Scalma-
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ti 2000, p. 175). La terapia, di contro, si assume il compito, spesso la sfida, di riallacciare i
fili del passato, ridare vita e tenere vivi, anche in momenti fortemente depressivi, i rapporti
con gli “oggetti buoni”, oggetti che dobbiamo estrarre dalle macerie, restaurare e, frammento dopo frammento, restituire ai loro colori e alla loro tridimensionalità.
È nell’ordine del terrore cancellare gli spazi del mondo interno, della soggettività, della
circolazione degli affetti e della rappresentazione fantasmatica. È nell’ordine della relazione
terapeutica fare attenzione ai piccolissimi frammenti di memoria relativi ai vissuti e agli
eventi precedenti i fatti traumatici, farli tornare in vita, rivestirli delle emozioni e degli affetti che una volta li hanno abitati e che, a differenza degli ultimi, li hanno fatto sentire vivi e
amati.
Ancora sul caso clinico
Torniamo al paziente e al suo dialogo interno con la madre che lentamente riusciamo a
ricostruire.
In una seduta Carlo riesce a dirmi: “Tutto quello che mi è accaduto è terribile. Questi
eventi mi hanno fatto crescere molto in fretta”. Pur soffrendo, egli non recrimina. Comincia
a ricordare alcuni aspetti del carattere della madre e degli altri familiari.
Nelle sedute le comunicazioni sono molto intense, emozioni, angosce, spaesamento,
immagini di terribili episodi, la morte di compagni di cella, il suicidio di altri. Dopo circa
otto mesi Carlo osa appoggiare un suo avambraccio sul bordo del tavolo. A questo atto di
avvicinamento, di distensione - il suo corpo non è più così contratto e le sue mani non sono
più aggrappate l’una all’altra seguono nuove difficoltà e ansie persecutorie. “Per me tutto è
perduto, mi dice, non so cosa fare, come vivere, e poi non posso parlare, non mi sento bene”.
Fuori lavora con impegno, sta facendo delle cose importanti, i risultati sono buoni. Le
analisi cliniche hanno escluso danni seri, ma Carlo ha sempre forti dolori alla testa e notti
con lunghe ore di insonnia.
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In una seduta mi dice: “Io non mi riconosco in questo corpo, non ci sto bene. Sono cresciuto quando ero in prigione e, dopo un silenzio, non glielo volevo dire, ma io non mi fido
di nessuno, proprio di nessuno”.
Le sue parole mi conducono nei luoghi bui, umidi e sporchi ove sensazioni di disgusto
hanno fanno sentire disgustosa la vita, ove sono state sistematicamente lacerate le reti di relazioni interne. Carlo è cresciuto nei sotterranei; il suo corpo è stato umiliato, il suo pene attraversato da scosse elettriche, cosa ne sarà della sua vita sessuale?
Esposto alla nudità e ai suoi bisogni primari, violato da sguardi estranei, privato delle
più elementari condizioni igieniche e di ogni forma di privacy, picchiato, abusato e torturato, l’essere umano diviene un corpo esposto ad una spaventosa vergogna di sé. Un processo
di de-umanizzazione cancella in breve tempo secoli di socializzazione e individuazione.
Le sue parole danno voce alla sua profonda solitudine, alla distanza spazio temporale in
cui per la maggior parte del tempo vive, ad una qualità di vissuti che, a buona ragione, pensa
io non possa capire.
Eppure, se è vero che la mente dell’analista può raggiungere solo i livelli psichici che ha
esplorato nella sua analisi, è anche vero che, se la sua analisi e la sua ininterrotta autoanalisi
gli hanno permesso e gli permettono di vegliare sulle proprie aree di ambiguità (Bleger
1967) e di annebbiamento di coscienza, sulla subdola sollecitazione a cadere nelle trame
alienanti e “pacificanti” delle istituzioni e del potere (Aulagnier 1979), guidato dai pazienti,
senza perdere la propria strada, l’analista può affacciarsi all’esperienza dell’orrore per ciò
che il genere umano è capace di fare. Avvicinarsi alle loro esperienze e incontrarli là dove è
avvenuta la terribile cesura. Un nuovo sentire si renderà allora disponibile ad essere investito dal transfert e dal controtransfert.
Rassicuro Carlo dicendogli che in gioco non è la fiducia in me o in altre persone che gli
sono vicino, ma la sua capacità e possibilità di sostenersi senza nessun ma o però; di poter
tenere assieme il suo sé di oggi e quello di ieri; affrontare la vergogna, perché questa gli impedisce di prendersi cura fino in fondo di sé.
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La sua vergogna ci parla dell’interiorizzazione dello sguardo irrisorio degli altri, sguardo che l’ha alienato da sé, dal suo corpo, dalla sua storia e oggi lo aliena dalla comunità che
lo circonda.
In prigione l’odore diviene umiliazione e quando il pudore, la vergogna e il disgusto,
primi veli che l’essere umano tesse attorno a sé, sono lacerati ed offesi, la mente si ritrae, distoglie lo sguardo. Tra l’Io e l’ideale dell’Io, tra il soggetto e gli altri soggetti si apre una voragine senza fine. Un passo di Freud ci può aiutare a dare voce alle fantasie di morte che affiorano in questi momenti
“L’angoscia di morte, nella melanconia, ammette soltanto una spiegazione: l’Io rinuncia
a se stesso, giacché, invece che amato, si sente odiato e perseguitato dal Super-io. Vivere
equivale dunque per l’Io a essere amato dal Super-io [...]. II Super-io svolge la stessa funzione protettiva e salvatrice anticamente svolta dal padre e in seguito dalla Provvidenza o
dal destino. Tuttavia l’Io è costretto a giungere alle stesse conclusioni quando si trova in un
pericolo reale di enormi proporzioni, pericolo che non ritiene di poter superare con i propri
mezzi. Si sente abbandonato da ogni forza protettiva e si lascia morire” (corsivo mio)
(Freud 1922, 520).
Nonostante le oscillazioni, le difese che Carlo mette in campo siano meno violente, accanto alla proiezione compare l’introiezione; gli amici gli diventano sempre più cari e la sua
vita quotidiana conosce molti cambiamenti.
Lavora, è accolto con affetto da un gruppo di compagni, si avvicina alle ragazze. Ha dei
successi e delle soddisfazioni molto concrete. Riesce bene in quello che fa, pur se a prezzo
di lotte estenuanti con se stesso.
Quando gli altri si fanno troppo vicini riemergono tutte le sue difficoltà. Carlo percepisce e soffre le differenze. II confronto con la “normalità” è lancinante. “Se si avvicinano è
peggio. Non ce la faccio. Sul suo volto di nuovo contrazioni dolorose, di nuovo un nodo alla
gola, come se l’indicibile lo soffocasse. II confronto con i suoi nuovi amici gli ha rimandato
come uno specchio l’immagine offesa, orfana, diversa del suo sé.
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Eppure continua ad andare avanti; vuole sapere cosa ne è dei suoi genitori, inizia a fare
ricerche tramite la Croce Rossa. Mangia con fatica, come sempre si sveglia prima che
l’orologio suoni, altrimenti al trillo della sveglia è afferrato da un grande spavento. Carlo
accusa dolori al cuore. “Credevo - mi dice - che le cose cambiassero, ma quando sto con i
miei coetanei io dentro mi sento in prigione”. Affiora rabbia per i suoi genitori che non gli
hanno assicurato una vita come quella degli altri ragazzi, ma nello stesso tempo ha nostalgia
della sua famiglia.
La casa degli amici gli rimanda tutta la sua mancanza. Attraversiamo un periodo difficile. La fragilità che sembrava superata è sempre dietro l’angolo.
Le sedute si susseguono, a volte l’umore è alto, a volte meno; nei momenti in cui è più
in contatto con sé stesso e può dare parola ad episodi che gli pesano dentro, la sofferenza è
più acuta. È passato un anno dall’inizio dei nostri incontri, un giorno è particolarmente depresso, e con il volto tirato mi dice: “Io sono qui solo in apparenza, non mi sento nel mio
corpo. Io sono sempre là, questo è più forte. Sento molto odio, collera, dentro sono sempre
solo”.
Nonostante ciò Carlo sta meglio, la sua pelle ha un colore diverso, prima aveva delle
nuances che viravano sul verdastro, ora verso l’oro. La sua vita si è aperta a più livelli di
esperienza. Nella vita quotidiana le cose vanno bene, è inserito nel gruppo di amici, il suo
lavoro gli piace e si trova bene con le persone che frequenta; riesce anche a ridere e divertirsi. Eppure a livelli più profondi il vissuto traumatico continua a seminare attorno a sé il vuoto. Dopo una cena in casa di amici, fa questo sogno: “Mi trovo in un posto, forse in una cena, tutti parlano, ma io mi sento estraneo, non so cosa dire, non capisco neppure cosa gli
altri dicono”.
Ci incontriamo oramai da un anno e mezzo quando Carlo nel suo entrare manifesta
qualcosa di nuovo. Si siede, appoggia ambedue gli avambracci sul tavolo, il suo corpo è rilassato, la difesa dell’immobilizzazione sembra superata, mi dice: “Ho sognato che ero a x
(nel suo paese), con i miei compagni e la mia ragazza, prima di quello che è successo...”.
Questo “prima” gli permette di parlare del padre e dei fratelli, dei tratti affettuosi e gentili della madre, di recuperare affetti e legami che sembravano cancellati, di distendere il suo
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corpo, di appoggiarsi al tavolo. Prima di uscire dice: “Adesso mi sento più tranquillo, mi
rendo conto di cosa significa venire qui, mi ha fatto bene”.
Carlo si muove su un territorio sempre più vasto e le oscillazioni persecutorie/depressive
sono meno polarizzate. Si apre a qualità psichiche differenziate, sta faticosamente costruendo un tessuto di relazioni. Inizia a fare dei programmi per il suo futuro, si riaffacciano i progetti che aveva iniziato a fantasticare nella sua prima adolescenza.
Inizia in questo periodo a farsi avanti la possibilità di sospendere i nostri incontri. Un
giorno mi dice: “Con quello che è successo ci dovrò sempre fare i conti, però ora quando
lavoro riesco a stare meglio, qualche volta me ne dimentico anche. Questo è l’unico posto
in cui mi sento veramente con me, qui ci sono tutto. Forse ora anche fuori di qui posso avere meno paura per quello che provo dentro”.
Permangono aree di estesa fragilità, ma Carlo sente il richiamo di nuove esperienze.
Penso che posso lasciarlo andare, che per lui si è avvicinato il momento di distanziarsi. Abbiamo dato espressione emotiva e parola ad alcuni suoi terribili vissuti, ora può iniziare ad
allontanare dal cuore alcune immagini del suo passato.
Nonostante ciò che ha visto e sofferto, penso che Carlo sia in grado di affrontare la vita
e la sua particolare sofferenza esistenziale. Concordiamo di vederci fino alle vacanze estive,
ovviamente con la disponibilità a riprendere il lavoro in qualsiasi momento ne senta il bisogno. Al termine dell’ultima seduta, sulla porta si volta, avvolge la stanza con lo sguardo, poi
mi dice: “Qui ci sono le cose che nessuno sa”. Non ho più visto Carlo, mi ha telefonato alcune volte.
Pochi mesi fa, mi ha comunicato la sua decisione di andare a vivere in una città del nord
dove degli amici gli hanno trovato lavoro.
BIBLIOGRAFIA
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Violenza sociale e sofferenza psichica
BLEGER, J. (1967) Simbiosi e ambiguità. Studio psicoanalitico. Libreria Editrice Lauretana,
Loreto.
FREUD, S. (1922) L’Io e l’Es. OSF, 9.
FREUD, S. (1929) Disagio della civiltà. OSF, 10.
PUGET, J. (1989) Prefazione, in: Puget, J., Kaes, R. et al., Violence d’État et Psychanalyse.
Dunod, Paris. Tr. it. Violenza di Stato e psicoanalisi. Gnocchi Editore, Napoli 1994.
SABATINI SCALMATI, A. (2000) Memorie congelate memorie evitate: a proposito della relazione terapeutica con le vittime di tortura. Richard e Piggle, 2, 2000.
RIASSUNTO
Si presenta il caso clinico di un adolescente africano che, imprigionato e torturato per
mesi, ha conosciuto la catastrofica accelerazione affettiva/sensoriale messa in azione dalla
brutalità del terrorismo di stato. È essenziale in questi casi che la terapia si faccia ricettacolo
e luogo di depositazione di aspetti di vergogna, rabbia, dolore, sensazioni di piccolezza e
sentimenti di morte. Se ciò avviene, è possibile riuscire a riattivare processi mentali di differenziazione, ambivalenza, contraddizione. Operare una divisione schizoide tra prigioniero e
carceriere, primo passo per aiutare il paziente a ritrovare se stesso.
SUMMARY
Social violence and psychical suffering
The paper presents the clinical case of an African adolescent, imprisoned and tortured
for months, who has experienced the catastrophic state of constant and extreme emotional/physical upheavel, put in action by the brutality of state-sponsored violence. In cases like this, it is essential that therapy funclions as a container or a piace where aspects of shame, anger, pain, feelings of being powerless and the fear of death can be deposited. lf Ihis
occurs it is possible to re-establish mental process of differentiation, ambivalence and con-
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tradiction. It is crucial to establish a schizoid division between prisoner and keeper, as the
first step to help the patient to recover himself.
ANNA SABATINI SCALMATI
via Fregene 10
00183 Roma
[email protected]
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RIVISTE
Riviste
ALESSANDRA DE MARCHI (a cura di)
Nouvelle Revue de Psychanalyse:
Aux limites de l’analysable
n° 10, 1974
Mi accingo con una certa emozione a presentare il numero 10 della Nouvelle Revue de
Psychanalyse che è un documento storico non solo per la collaborazione di autori non più
presenti fra noi, che hanno contribuito allo sviluppo della psicoanalisi tra gli anni ‘50 e gli
anni ‘70, ma anche per il contenuto: ben lungi infatti dal presentarsi inattuale e superata, la
trama teorico-clinica mi è apparsa stimolante e viva oggi più che mai, perché - ancor oggi il pensiero analitico è impegnato nell’argomento concernente i limiti dell’analizzabilità.
J.-B. Pontalis nell’articolo introduttivo BORNES OU CONFINS? (Limiti o confini?)
inquadra con grande chiarezza la direzione seguita dal suo pensiero e pone l’assegnazione
dei limiti dell’analizzabilità “dal di fuori” seguendo due registri apparentemente lontani tra
loro: l’estensione del metodo oltre le frontiere che definiscono il quadro della cura, le indicazioni - o controindicazioni nei confronti delle diverse forme psicopatologiche.
Ma, poiché il discorso sulle indicazioni andrebbe pericolosamente a cadere sulla soggettività dell’analista, dalle cui caratteristiche relazionali dipenderebbe la maggiore o minore
riuscita del trattamento, si prospetterebbe la svolta di una “clinica soggettiva”, nella quale
“si nasconde il dogma” come ci ricorda Pontalis.
Conviene quindi abbordare il problema in un modo che dipenda in minor misura dalle
caratteristiche individuali. È quindi alle origini che Pontalis è portato a ritornare, alla esigenza freudiana dei limiti, non tanto a scopo riduttivo, perché per Freud delimitare il quadro
significava costituire l’oggetto psicoanalitico. Proprio i lavori che, a torto, si citano come
“escursioni”, vale a dire Totem e Tabù o il Disagio della civiltà, testimoniano una volontà di
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Riviste
indagare là dove si erge una resistenza, come se non ci potesse essere psicoanalisi se non
dove si ha a che fare con i limiti dell’analizzabile.
Bella la citazione freudiana riguardante l’approccio diverso di Reich e Ferenczi: “Non
c’è nulla cui l’uomo, per l’organizzazione che lo caratterizza, sia meno adatto, che alla psicoanalisi”. Freud alludeva alla costituzione dell’apparato psichico e alle sue difese, ai sentimenti acquisiti della conoscenza ecc... che ostacolano il funzionamento analitico. Reich
non ha riconosciuto in sé questi ostacoli, e proprio per questo ha seguito fantasmi di onnipotenza. Nella sua pratica clinica ha incontrato forme di organizzazione della personalità tendenti a far fallire la tecnica psicoanalitica, che presuppone l’accesso alla realtà psichica; si
viene così a definire una categoria psicopatologica specifica: nevrosi di carattere, personalità narcisistiche eccetera. Ferenczi, invece, dietro la rimozione sa riconoscere la “scissione
narcisistica di sé” (Selbstspaltung): i limiti per lui non sono sulla soglia ma al centro. Questo intralcia il lavoro dell’analista e dell’analizzando.
Da ultimo viene abbordato il tema degli stati-limite non tanto per la tecnica da adottare
nel trattamento specifico, quanto perché obbligano l’analista a confrontarsi con una questione radicale: il fatto che più vi si avvicina, più si sente messo in causa e spesso oggetto di
sfida. Qui indiscutibilmente l’analista funziona in modo diverso e l’esperienza dei limiti non quindi solo quella dei casi limite - gioca ancora una volta un ruolo determinante.
È proprio in base al controtransfert dell’analista che si possono definire due ordini di
stati-limite: i primi si situano al di qua dello spazio psichico intrasoggettivo, i secondi (tipo
falso Sé, alcune forme narcisistiche) si situano al di là.
Nel primo caso il legame con l’oggetto va mantenuto a tutti i costi; l’angoscia di separazione è prevalente. Nel secondo caso dovrà essere garantita la sicurezza che i legami fra le
rappresentazioni non saranno giammai interrotti.
Il campo dell’analizzabile costruito e circoscritto da Freud si situa entro questi due limiti. Tale spazio si è edificato su ciò che è presupposto nelle topiche freudiane: spazio psichico già edificato con le sue “frontiere” interne ed esterne, le sue “province” e la sua “barriera
protettrice”. Se psicoanalizzare - conclude Pontalis - è essenzialmente istituire questo spazio, la realtà dell’analisi non potrebbe essere che ai limiti dell’analizzabile.
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Riviste
Seguono quattro articoli storici di Ferenczi, Fairbairn, Bion e Winnicott: i primi tre vengono introdotti da Pontalis o da Green.
L’articolo di S. Ferenczi (1929), PRINCIPE DE RELAXATION ET NÉOCATHARSIS
è presentato da Green. (per il testo italiano si veda il terzo volume dell’edizione Guaraldi,
pp. 378-396: “Principio di distensione e neocatarsi”).
La lettura di questo scritto mi suscita un sentimento di stupita ammirazione per le profonde intuizioni espresse in modo così semplice ed elegante e per i contenuti di una sorprendente modernità. Farò riferimento soltanto ad una, consapevole che non possa valere
per tutte, perché è di importanza fondamentale: riguarda la psicosi passeggera posttraumatica, che prende per un verso la forma dell’allucinazione negativa, per un altro quello
di una compensazione allucinatoria positiva immediata, che dà l’illusione del piacere. Ne
viene di conseguenza l’ipotesi che tutti i casi di amnesia nevrotica e forse anche l’amnesia
infantile siano connotati dalla scissione psicotica di una componente della personalità sotto
l’effetto di uno shock. La parte scissa che sopravvive in segreto tende continuamente a dar
segni sé e alla fine trova sbocco nel sintomo nevrotico. Non si tratta quindi di una rimozione, ma di una Spaltung che vuota una parte della psiche. Concetti che soltanto molto più
tardi saranno ripresi e sviluppati a vari livelli da diversi autori. Il nome che per primo mi
viene in mente è quello di Green che, nella sua nota introduttiva all’articolo, mette in evidenza l’originalità del pensiero dell’autore citandone alcune idee fondamentali che “più tardi avranno miglior fortuna”: la scissione psicotica come conseguenza della rimozione traumatica primaria, il ruolo del gioco nell’analisi sviluppato in seguito nell’articolo “L’analyse
des enfants dans l’analyse des adultes”, 1931.
Segue l’articolo di R. Fairbairn, LES FACTEURS SCHIZOÏDES DANS LA PERSONNALITÉ (in: Psychoanalytic studies of the personality, Londres, Tavistock Publication
Ltd., 1952).
Se dovessi dire brevemente ciò che mi ha colpito, mi soffermerei sulla descrizione della
percezione dell’oggetto da parte delle persone schizoidi: l’oggetto è cioè perpetuamente
scisso in coppie antitetiche, mancante/rassicurante, espulso/incorporato, rifugio/prigione eccetera. Oggi si potrebbe ottimisticamente auspicare di arrivare, grazie ad un’attività rappre-
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sentazionale risanata, al distacco dall’oggetto primario e quindi dal “sistema chiuso” in cui
si deve riparare l’Io narcisistico così ferito del paziente schizoide. Il merito di Fairbairn è
quello di aver sottolineato l’importanza dell’oggetto della pulsione e di aver esplorato il “sistema chiuso”, guidato dalla domanda: come funzionano le cose là dentro? Così suggerisce
Pontalis nella sua introduzione.
Ricorderò ora l’articolo di W.R. Bion, DIFFÉRENCIATION DE LA PART PSYCHOTIQUE ET DE LA PART NON PSYCHOTIQUE DE LA PERSONNALITÉ (Differentiation of the psychotic from the non-psychotic personalities, Int. J. PsichoAnal., 1957,
XXXVIII), introdotto da Green che sottolinea l’originalità dell’autore nel concentrare la sua
attenzione sul pensiero e sul linguaggio, soprattutto il modo in cui quest’ultimo è collegato
direttamente con la pulsione. Il nucleo centrale dell’articolo riguarda gli ideogrammi - forme rudimentali di pensiero - e gli attacchi che impediscono la simbolizzazione diretti
all’attività di legame.
La sezione “storica” della rivista si chiude con l’articolo di D.W. Winnicott LE RÔLE
DE MIROIR DE LA MÈRE ET DE LA FAMILLE DANS LE DÉVELOPPEMENT DE
L’ENFANT (Mirror-role of the Mother and Family in Child Development, in P. Lomas édit,
The Predicament of the Family: A Psychoanalytical Symposium, 1967, Londres, Hogarth
Press).
L’articolo, notissimo anche perché divenne un capitolo di Gioco e realtà, esordisce con
l’affermazione: “Nello sviluppo emozionale e individuale il precursore dello specchio è la
faccia della madre”. Di seguito Winnicott cita Le stade du miroir (1949) per riconoscere
l’influenza che questo lavoro di Lacan ha esercitato su di lui e precisare la differenza del
proprio approccio. Winnicott entra direttamente nel cuore dell’argomento, con la consueta,
profonda semplicità e chiarezza. Si ritrova qui il concetto, mai abbandonato da Winnicott,
dell’importanza fondamentale dell’ambiente che, ai primordi, il piccolo bambino non è ancora in grado di distinguere da se stesso.
Cosa vede il bambino - continua poco dopo Winnicott - quando rivolge lo sguardo verso
il viso della madre? Generalmente se stesso. Ma, se il volto della madre riflette solo il proprio stato d’animo o la rigidità delle proprie difese, allora ciò che vede il bambino è il viso
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della madre e la funzione rispecchiante viene meno. È così che la percezione prende il posto
dell’appercezione.
Così viene bloccato l’inizio di uno scambio fecondo con il mondo che - attraverso
l’oggetto soggettivo e l’oggetto transizionale - permetterebbe a quel bambino di riconoscere
il proprio Sé.
Non credo ci sia bisogno di sottolineare le ricadute che questo concetto ha avuto sulle
modalità di impostazione di un trattamento analitico e di conseguenza sull’ampliamento delle mete terapeutiche.
H. Segal nel suo articolo, D’UN SYSTÈME DÉLIRANT COMME DÉFENSE CONTRE LA RÉSURGENCE D’UNE SITUATION CATASTROPHIQUE (la versione inglese
era apparsa da poco: A delusional system as a defence against the re-emergence of a catastrophic situation, Int. J. Psycho-Anal., 1972, 53, 393-401), dopo avere esposto un caso clinico in cui le difese nei confronti di una catastrofe infantile sono rappresentate da un sistema delirante “monoideico” e da una sintomatologia ossessiva di una gravità estrema, pone,
con la consueta acutezza e profondità, quelle domande che credo corrette di fronte ad ogni
caso grave. Esse riguardano sia l’opportunità dell’indicazione al trattamento psicoanalitico e
quindi il punto di vista tecnico, sia quello teorico. Rifacendosi agli scritti freudiani (1911,
1924) in cui si trova la descrizione del delirio in quanto “restituzione e sistema di difesa in
una situazione in cui si è prodotta una catastrofe”, Segal magistralmente sottolinea la differenza fra il termine “restituzione” e “riparazione”, quest’ultima riguardante il contesto della
posizione depressiva. Lo scopo della restituzione è narcisistico e gli elementi d’amore e di
sollecitudine nei confronti dell’oggetto giocano in questo paziente - che ella definisce un caso limite - un ruolo minore.
Ricordiamoci di questa fondamentale differenza durante il trattamento dei nostri numerosi casi gravi, perché credo che la prima e fondamentale battaglia che si combatte quando
si è alle prese con un lo infantile sommerso da pulsioni distruttive si giochi a livello della
restituzione del narcisismo primario annichilito che può secondarizzarsi nella relazione inter-psichica.
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J. Bergeret nell’articolo LIMITES DES ÉTATS ANALYSABLES ET ÉTATSLIMlTES
ANALYSABLES ci fa ancora riflettere sui casi limite e sulla loro analizzabilità, casi cioè in
cui l’Edipo non costituisce né il motore né il legame relazionale essenziale a livello strutturale. Si tratta di personalità caratterizzate da una particolare instabilità molto diversa dalla
fissità riconosciuta alla nevrosi e alla psicosi. Sono entità cliniche che da un punto di vista
psicogenetico si situano tra quella via di mezzo che separa il primo stadio anale (fase espulsiva) dal secondo (fase di ritenzione) - definita da R. Fliess Divided Line e la linea che introduce all’Edipo. In questo stesso stadio genetico troviamo anche la maggior parte delle
malattie di carattere e un certo numero di perversioni, come a partire da un tronco comune,
quello degli stati limite.
Se consideriamo invece il piano metapsicologico come punto di osservazione sarà
l’Ideale dell’Io ad imporsi, sia per le difficoltà ad approcciare la realtà che a far fronte alle
esigenze dell’Es; l’angoscia riguarderà la perdita d’oggetto, la relazione all’altro sarà di tipo
anaclitico.
Il soggetto, secondo uno schema proposto da H. Kohut, è diviso da una linea di frattura
verticale di natura narcisistica che corrisponde alla scissione dell’oggetto e separa ciò che,
sul piano degli investimenti, ha potuto svilupparsi all’insegna del raccoglimento materno
(Ideale dell’Io positivo). L’altra linea di frattura è orizzontale e di natura genitale: corrisponde alla rimozione e separa la componente degli investimenti narcisistici che avrebbero
dovuto raggiungere quelli genitali dal campo genitale. Questa congiunzione è stata resa impossibile dal ritiro degli investimenti dovuto al rifiuto materno (Ideale dell’Io negativo).
Qual è allora la possibilità d’azione del trattamento psicoanalitico quando ci si trovi a
giocare su un registro essenzialmente narcisistico, in cui l’Ideale dell’Io irrealistico occupa
quasi tutta la scena con le sue vicissitudini?
L’Io degli stati-limite sorprende per la sua grande fluidità, per gli aspetti lacunosi,
giammai frammentati. L’inibizione degli investimenti genitali in realtà non li sopprime: essa
li “addormenta”, ma non esiste un ritorno a fissazioni pregenitali. In questo senso, soprattutto se non sono presenti organizzazioni comportamentali di tipo caratteriale o perverso, un
certo numero di stati-limite resta analizzabile.
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Dove si gioca soprattutto la partita? Nel controtransfert - propone Bergeret - e molti di
noi ora aggiungerebbero nell’interpsichico.
Gli stati-limite sono pazienti che mettono particolarmente in difficoltà l’analista, perché
non può rappresentare nel transfert un sostituto genitoriale genitalizzato, cosa che conforta
narcisisticamente l’analista. D’altronde la condizione sufficiente perché una persona diventi
analizzabile consiste in un narcisismo primario ben costituito (vedi quanto detto sopra da
Segal).
La proposta di Bergeret è una cura analitica in due tappe. La prima tappa dovrebbe costituire la “restaurazione” narcisistica che consente il riempimento della frattura verticale,
una riunificazione positiva degli investimenti narcisistici del soggetto. Il transfert analitico
non mette ancora in questione la triangolazione edipica. La disposizione controtransferale
dell’analista dovrebbe essere tale da permettere al paziente di scoprire dall’interno che può
riprendere fiducia nel proprio narcisismo. La seconda tappa corrisponderebbe al risanamento della frattura orizzontale tramite un investimento, infine permesso, della sfera genitale ritrovata e ricongiunta a partire dagli investimenti narcisistici divenuti nuovamente positivi.
Essa si svolge come in tutte le cure tipo e può abbordare contenuti edipici.
Molto è stato scritto sul controtransfert dei casi limite da allora ai nostri tempi, ma
ugualmente colpisce la forza intuitiva dell’autore, tanto celebrato per le capacità sistematizzanti, che termina il suo articolo invitando gli analisti a ripensare ai problemi generali del
funzionamento mentale nei termini di strutturologia e caratterologia depatologizzate, al di
fuori dei sintomi. Allora - conclude - potremmo forse allargare un po’ i limiti
dell’analizzabilità a partire da una riflessione teorica meno frammentaria e meno arroccata
sul nostro proprio Edipo.
Nel suo appassionato articolo LES CAS-LIMITES: PSYCHOSE OU NÉVROSE?, O.
Flournoy ci fa sentire tutta la sofferenza controtransferale dell’analista, quando entra nella
prospettiva di prendersi cura dello psicotico, dunque di un essere umano dotato di un Io,
corporeo e mentale, ma con una visione di sé che considera il proprio Io come Io Ideale,
rinchiuso quindi su se stesso. Il progetto dell’essere umano psicotico è senza oggetto: è rinchiuso in una prigione anoggettuale. Se l’analista prova la necessità interiore di farsi ricono-
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scere come oggetto, non può farlo che in un solo modo: riconoscere quest’essere come il
proprio Ideale dell’Io. A sua volta il transfert dello psicotico oscilla fra assenza e onnipresenza, trasferimento di una componente mancante di sé sull’analista che può spiegare contemporaneamente sia l’indifferenza che l’attaccamento dello psicotico per il proprio analista. L’analista si trova così a che fare con un crudele Super Io (l’Io Ideale psicotico) che uccide le sue speranze e toglie vigore alle sue iniziative. Il suo stato d’animo non può che consistere in una lancinante inquietudine che esige un’estenuante padronanza di sé. È quindi
comprensibile che siano sempre più rari gli analisti che si occupano di psicotici e sempre
più numerosi quelli che si occupano di stati-limite.
I pazienti pre-psicotici, scambiando il proprio Io Ideale per il proprio Io, si trovano in
una trappola: questo Io non è il proprio Io, è il vuoto. Per questo essi si aggrappano disperatamente al loro analista: la relazione con l’analista è una sorta di saccheggiamento del “pieno” dell’analista per colmare il proprio vuoto.
L’analista diventerebbe così l’oggetto fallico onnipotente di fronte a cui il soggetto non
è niente, che è l’oggetto caratteristico del nevrotico e della relazione a due che si instaura
sotto l’egida dell’onnipotenza. Per cui è possibile concepire il vuoto insondabile psicotico se
lo si confronta con il pieno nevrotico a contorni definibili.
Se l’analista riesce ad aprire una piccola breccia in questo sistema patologico, sostituendosi all’Io Ideale e sostituendo il proprio Ideale dell’Io alle pseudo produzioni (più o meno
deliranti) del pre-psicotico, una modificazione inizia ad essere concepibile; ma solo, naturalmente, se il paziente riuscirà a trovare nello spazio potenziale analitico ciò che l’analista
vi ha depositato.
Se, dal punto di vista teorico, il caso limite si trova delimitato dalla psicosi e dalla normalità, dal punto di vista della tecnica e della clinica esso si troverebbe a definire i limiti
dell’analizzabilità in base al vissuto soggettivo della relazione intersoggettiva dell’analista.
È proprio tale vissuto che ci fa sperare di comprendere - conclude Flournoy - le persone
che abbiamo accettato di analizzare, quale che sia il loro limite, psicosi o nevrosi, nella misura in cui siamo tutti al di qua o al di là dei casi limite.
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J. Mc Dougall in LE PSICHÉ-SOMA ET LE PSYCHANALYSTE ancora una volta mi
stupisce per la capacità di apprendere dal paziente tramite il controtransfert. La seduta cui ci
fa partecipare comprende sia il dialogo analista-paziente che le riflessioni, le associazioni e i
tentativi - si potrebbero definire - di tessitura, da parte dell’analista di una trama psichica
che ancora non esiste, sepolta com’è nel corpo che ella definisce delirante, privo di simbolicità.
Per quanto la seduta sia invasa da contenuti prevalentemente sadico-orali e da oggetti
parziali e sia chiaro quanto il paziente non abbia ancora acquisito la capacità di fantasmatizzare i propri desideri cannibalici, pure c’è un filo che sapientemente l’analista sa dipanare
seguendo le associazioni del paziente, uno di quei pazienti dotati capaci di divenire lo
“specchio riflettente” per il proprio analista. Un’interpretazione intempestiva aiuta
l’analista, grazie al proprio controtransfert, a comprendere quanto fosse difensiva nei confronti della propria angoscia riguardo alla relazione duale imprigionante, divorante, in cui
deve vivere con il paziente, in questo stadio figlio cannibalico, se vuole conservare la speranza di farlo emergere dai contenuti primari verso mete genitali e simboliche.
L’ammissione - da parte dell’analista - dell’errore interpretativo permette al paziente di riprendere il filo interrotto delle proprie associazioni. Quanta sapienza e quanta umiltà nella
condotta di questa analista!
Ricorderò con interesse l’articolo di M. Masud R. Khan, LA RANCUNE DE
L’HYSTÉRIQUE (Il rancore dell’isterica) in cui il personaggio isterico emerge a tutto tondo grazie ad un’acuta ed elegante presentazione, connotato dal rapporto con una figura materna carente nell’accudimento dei bisogni dell’Io. (Qui l’autore si riferisce al concetto winnicottiano di sistema dei bisogni dell’Io, contrapposto a quello dei desideri). I processi di integrazione dell’Io vengono sostituiti da uno sviluppo sessuale precoce. Ne consegue una
dissociazione ugualmente precoce tra l’esperienza sessuale e l’utilizzazione creativa delle
capacità egoiche. L’isteria appare, così configurata, più che una malattia, una tecnica che
consiste nel “rimanere bianchi” come assenti da sé, con sintomi che sono sostituti che permettono di coprire questa assenza.
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Le conseguenze nel trattamento analitico saranno un transfert ipersessualizzato e lo stabilirsi di una particolare realtà psichica, il rancore, che permette all’isterico di entrare in relazione con l’altro senza che ci sia possibilità di scambio.
M. Khan pensa che la situazione analitica instabile che si crea con il paziente isterico
dipenda dalla mancanza di comprensione, da parte del curante, del tipo di comunicazione
isterica: cioè la capacità di creare e manifestare sintomi fa da schermo alla fondamentale incapacità di utilizzare il funzionamento psichico. A. Freud ha suggerito che il timore di base
del paziente isterico è quello di consegnarsi psichicamente all’oggetto (vedi la diffidenza
che è alla base delle sue modalità relazionali). Questo comporterebbe per il paziente rendersi conto di una affettività e di una creatività molto ridotte, da collegarsi, come emerge da un
caso clinico estremamente sintetizzato, con il rifiuto, da parte di un infante ancora troppo
poco attrezzato, dell’intrusione provocata dall’emotività materna. Il terrore di un possibile
scambio scatena nell’isterico una lotta, che durerà tutta la vita, tra la ricerca e il rifiuto degli
oggetti.
Poiché i ricordi dell’isterico sono prevalentemente somatici, relativi alle cure materne
effettivamente ricevute, le loro richieste in analisi saranno prevalentemente gratificazioni
sensuali: in caso di rifiuto, tendenza all’agito.
Questo segna il limite dell’analizzabilità di tali pazienti: i bisogni dell’Io della prima infanzia, che si ripropongono nel transfert, non possono esprimersi che attraverso i desideri
dell’Es, ciò che instaura una confusione permanente, a livello soggettivo, tra i bisogni
dell’Io e i desideri dell’Es. È da questo che scatta il rifiuto della relazione e il ritorno alla sicurezza offerta dal “bianco”, che è - ad un tempo - negazione di sé e dell’oggetto.
Il saggio di D. Braunschweig e M. Fain dal titolo DU DÉMON DU BIEN ET DES INFORTUNES DE LA VERTU è così complesso che poco si presta ad una rivisitazione rapida, alla ricerca dell’essenziale, cui sono costretta per dar posto a tutti gli autori del volume.
Braunschweig e Fain entrano senza esitazione nel cuore del problema riguardante i limiti
dell’analizzabilità, facendo notare che il punto di vista topico della metapsicologia freudiana
è il più frequentemente trascurato da quegli analisti che essi definiscono posseduti dal “dé-
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mon du bien” che volentieri evocano la regressione libidica e la regressione dell’Io, ma non
quella topica, che pone sul piatto l’estraneità dei processi primari rispetto al tempo (atemporalità dell’inconscio). Beninteso, anche se sembra un paradosso, sono proprio gli analisti che
non rifiutano a priori una concezione strutturale dello psichismo che dimostrano una maggior disposizione ad occuparsene.
Al posto della scissione seno buono - seno cattivo degli autori anglosassoni e postkleiniani, che negano costantemente la rimozione primaria della vagina zona erogena materna, essi propongono l’oscillazione della madre tra il suo esser madre e l’esser donna. Nella madre essi distinguono due rappresentazioni del bambino: un “bambino della notte” allucinato nel corso del sogno, raffigurazione erotica del desiderio per il pene del padre di questa madre e un “bambino del giorno”, reale, che soddisfa il bisogno di essere madre e fornisce la prova tangibile dell’amore di una coppia alla quale partecipa un padre reale. Il bambino della notte nella condensazione propria del lavoro del sogno è un pene/corpo/bambino/vagina materno, una “cosificazione” del pene del padre edipico della madre. Di giorno, questo pene cosificato è un bambino reale, che accusa la mancanza di percezione del precedente e di conseguenza produce nella madre pensieri latenti che andranno ad
alimentare nuovi sogni. L’organizzazione edipica della madre viene così ad assumere un
ruolo di primo piano nell’organizzazione topica dell’apparato mentale del bambino e si
svolge a due livelli: cioè, il fantasma di desiderio edipico è doppio: etero ed omosessuale. Il
suo desiderio erotico per il pene del padre è incorso nella rimozione quando si è costituito il
SuperIo paterno. L’indebolimento del SuperIo nel corso del sonno ha permesso
l’allucinazione di desiderio del bambino della notte, rappresentando nella condensazione
pene/corpo/vagina la relazione incestuosa con il proprio padre.
Da un altro lato, il suo desiderio omosessuale edipico ha provocato una censura la cui
funzione è prima di tutto di assicurare la rimozione originaria, di fornire i controinvestimenti necessari a far sì che la “pulsione vaginale” non possa uscire dall’inconscio primario, vale
a dire che non emerga nel bambino la condensazione effettuata nel bambino del suo sogno:
se questa sua identificazione a tale condensazione dovesse emergere, non ne potrebbe nascere che un desiderio di riscomparire in se stessa, di non vivere. Ma nel sogno la sessualiz-
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zazione della funzione di censura fa scomparire il bambino della notte nell’inconscio del
sonno profondo. Il sogno che rappresenta l’incesto della madre-figlia con la propria madre
in tal modo scompare. L’omosessualità femminile “normale” si trova così segnata dal lutto
del ritorno nell’inconscio dell’incesto figlia-madre. Verrebbe da chiedersi cosa accade del
Super Io materno.
Ma è appunto questo fondo primario dell’inconscio con il proprio alto potere di attrazione sui contenuti rappresentabili del rimosso secondario che costituisce la potente forza pulsionale cui Freud attribuiva i propri fallimenti (analisi interminabili). Gli autori definiscono
“pulsione vaginale” l’aspirazione a farsi scomparire psichicamente, che è uno degli aspetti
della vita psichica attribuita da Freud alla pulsione di morte.
Ne consegue che la restrizione dei limiti dell’analizzabilità di un individuo sarà funzione
dell’estensione della trasgressione mentale di sua madre nel campo della relazione omosessuale con la propria madre.
Se vogliamo, dopo questo percorso teorico, ritornare ai limiti dell’analizzabilità, va da
sé che per questi autori essi non potranno essere studiati che in ogni situazione analitica, che
comporta l’incontro dei due protagonisti. E va detto, prima di tutto, che il desiderio di essere
psicoanalista rinvia non tanto a un limite dell’analisi, quanto, questa volta, alla sua interminabilità: vale a dire che l’analista ha bisogno, per analizzare ed autoanalizzarsi, di appropriarsi del tema dell’altro, di ri-sognare il suo sogno, di procedere come Freud, utilizzando
cioè le proprie capacità di identificazione isterica. Così il desiderio di essere analista deriva
dal desiderio di far parlare il proprio “bambino immaginario” con l’intermediario del discorso dei propri pazienti. Anzi, si può procedere oltre e dire che è il desiderio di trovare il contenuto della propria identificazione primaria, peraltro inaccessibile, che costituisce la motivazione fondamentale del desiderio di essere analista. Ora, l’identificazione primaria non è,
alla fine, che il contenuto del fantasma inconscio del desiderio della madre (fantasma autoerotico) o allucinazione del suo bambino della notte.
Neyraut (1973) ha dimostrato come ogni paziente sia oggetto, da parte del proprio psicoanalista, di un desiderio particolare e ha sostenuto che il transfert è secondario al controtransfert. Uno dei casi più importanti che si possono presentare nel corso di un’analisi è che
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l’analista rischia di ripetere, nel proprio controtransfert, la condensazione corpo/pene del
sogno “bambino della notte” della madre del paziente, il quale diventerebbe così il suo “pene materno”: si parla qui di un’appropriazione, da parte dell’analista, dell’allucinazione di
una madre, di possedere, rappresentato dal proprio bambino, il pene del suo proprio padre.
E che ne è della seconda parte del titolo che concerne le sventure della virtù, vale a dire
le delusioni di uno psicoanalista ben intenzionato (coscientemente)? Gli autori hanno in effetti affermato che la base di un funzionamento sano dell’apparato psichico dipende da una
ragionevole elaborazione dell’angoscia di castrazione a partire dalla possibilità di far circolare i fantasmi originari (seduzione, castrazione, scena primaria). Questa elaborazione può
essere gravemente intralciata sia dall’importanza della condensazione attinente al bambino
della notte (l’omosessualità latente materna), sia dalla debolezza o dall’assenza materiale
del padre reale.
Per debolezza del padre, gli autori intendono una incapacità “virtuosa” di quest’ultimo a
mantenersi in equilibrio tra il padre castratore e quello desiderante. La nozione di forza o
debolezza del padre, per quanto appaia come contenuto manifesto, è una condensazione. Si
tratta in effetti di valutare la pressione economica del controinvestimento. Niente può inscriversi nell’apparato psichico se non trova una forza antagonista.
Il raffinato articolo di J.-C. Lavie, ABSENCE DE QUOI?... BEAUCOUP DE BRUIT
POUR RIEN, mi dà un po’ di respiro, dopo il necessario sprofondamento negli abissi della
rimozione primaria.
L’intuizione decisiva di Freud, per l’autore, fu di cogliere come ciò che il nevrotico riesce a dire definisce ciò che non riesce a dire. La psicoanalisi si fonda sulla possibilità di saper utilizzare il dire del paziente per accedere alle sue assenze nel dire. Le nozioni di resistenza, difesa, rimozione servono a chiarire questo furto involontario della parola.
Due casi presentati per far comprendere, tramite l’evidenza dei sintomi e la loro cura,
che l’assenza di un sapere su di sé garantisce l’assenza dell’angoscia, ma anche che la storia
di ogni uomo si costruisce nel corso dell’infanzia intorno ad affermazioni di assenza; assenza di pensiero, di desideri proibiti, di curiosità sessuale, di aggressività mortifera, assenza di
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tutto quello che costituisce il pane quotidiano del piccolo perverso polimorfo che si umanizza “depervertendosi” grazie alla strutturazione del linguaggio.
Nel nevrotico l’assenza, che costituisce l’enigma, manifesta attivamente la sua presenza
nel dire del paziente tramite una ripetizione che ne costituisce la struttura nevrotica. Non è
l’assenza che è patogena, ma la costrizione alla sua reiterata affermazione. Tutta la strategia
di una cura può trovarsi centrata sul rifiuto di un solo ricordo, non tanto per la sua negazione, quanto per la necessità dell’affermazione attiva della sua assenza. Il carattere difficilmente verbalizzabile di questa affermazione “decentrata” può incitare il paziente ad agire.
L’analista deve intendere questo agire come messaggio. Ciò che alla fine l’analista deve
comprendere, con un’accettazione che può essere molto difficile mantenere, sono le parole
di un bambino ingombrato sia dalla sua forza che dalla sua debolezza. La psicoanalisi - conclude Lavie - ha reso familiare una rappresentazione dell’uomo, portatore di una parte di sé,
da se stesso ignorata.
La nozione di assenza permette di cogliere come l’assenza di certi tratti che non appaiono costitutivi di sé sia continuamente, in realtà, l’oggetto di una affermazione.
L’affermazione, reiterata ed ignorata insieme, ci fa comprendere la natura dominatrice dei
processi inconsci, il loro lato imperioso ed inevitabile.
Si tratta di un altro modo per definire i limiti dell’analizzabilità che qui, anche se non
viene direttamente affermato, sembra dipendano in gran parte dalla capacità dell’analista e
dal tipo di limitazione personale ad intendere il niente del paziente che peraltro è capace di
produrre un rumore assordante.
Resistenza all’analisi e resistenza dell’analisi: due argomenti che si pongono come fili
conduttori dell’articolo di G. Favez, LA RÉSISTANCE DE L’ANALYSE.
La resistenza all’analisi è un fatto clinico costante, innegabile, determinante. È inoltre
inevitabile: non c’è analisi senza resistenza. La resistenza dell’analisi ha a che fare invece
con tutto ciò che ha contribuito e sta contribuendo a scardinare l’analisi dai suoi presupposti
fondamentali che poggiano sull’esistenza dell’inconscio e sulla sessualità infantile come determinante della strutturazione dell’essere umano adulto.
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L’autore afferma che si sta verificando (non dimentichiamo che siamo nel 1974) una
sorta di “negligenza” da parte del movimento analitico, che rende possibile la recente tendenza a spostare la psicoanalisi dal suo campo specifico verso quello, meno compromettente, della cultura, ad attribuirgli il significato di un sapere teorico rassicurante, in cui il contatto con “la carne, il sangue, la castrazione, l’omicidio non siano più cose credibili”.
Bisogna, secondo l’autore, elaborare una scienza della resistenza non tanto come una resistenza all’analisi, quanto invece una scienza dell’evitamento della resistenza dell’analisi:
“un atteggiamento critico, senza accecamenti, nei confronti delle nostre condotte e delle nostre idee, un approccio lucido, disinteressato e coraggioso alla resistenza dell’analisi da proporre agli analisti, alle Società, alle scuole, all’IPA”. Già allora si facevano le pessimistiche
previsioni che non ci sarebbe più stata psicoanalisi dieci anni dopo! Invece esistiamo ancora, ma dobbiamo più che mai trarre insegnamento dal passato per comprendere le derive attuali, la tendenza alle frammentazione delle scuole, la chiusura in linguaggi teorici sempre
più inconciliabili tra loro, il disconoscimento dell’importanza fondante delle scoperte freudiane, il tentativo di rimpolpare la psicoanalisi accoppiandola ad altri saperi scientifici.
Ritornando all’autore, quello che può fare l’analista nel processo analitico è assumersi la
responsabilità della resistenza dell’analisi alla ripetizione del vissuto primario, del vissuto
più antico pregenitale, ancorato al corpo prima di esserlo al cuore, tenace nella rimozione,
finché il ritorno del rimosso sarà reso possibile. Il proposito dell’analisi è prima di tutto che
la madre sia ritrovata (felice ritrovamento), per perderla successivamente (frustrazione). La
resistenza dell’analisi perdura finché la madre non è ritrovata, finché la madre non è perduta.
Forse oggi, come già nel 1974, quello che bisogna riabilitare non è più tanto il registro
del desiderio, quanto quello del bisogno, che Freud era ben lontano dal misconoscere, vedi
l’importanza da lui attribuita alla pulsione. La resistenza dell’analisi si troverebbe nel richiamo costante del bisogno, testimoniato dalla spinta pulsionale che agita ed anima l’essere
umano cercando il soddisfacimento. Certo, il bisogno conosce l’insoddisfazione. “Privazione, frustrazione, divieto”: sono “gli imperativi della realtà” secondo l’espressione freudiana.
Ma l’analisi ci propone anche di non vivere più in preda alla nostalgia, basata sull’illusione
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di non dover rinunciare agli antichi oggetti per non dover riconoscere che li abbiamo perduti. In questo consiste il superamento delle resistenza dell’analisi.
Quasi inutile aggiungere che la resistenza dell’analisi costituisce il limite fondamentale
all’analizzabilità.
Del lavoro di A. Freud, DIFFICULTÉS SURVENANTES SUR LE CHEMIN DE LA
PSYCHANALYSE, divenuto uno dei capitoli del terzo volume degli Scritti (Boringhieri,
1979), mi limiterò a mettere in evidenza un punto che ogni analista, secondo me, non dovrebbe proprio dimenticare.
A. Freud era fortemente critica, e lo ribadisce in questo lavoro, nei confronti della tendenza ad analizzare i tempi precoci dell’esistenza: che, altrimenti detto, significa abbandonare l’area del conflitto intrapsichico per inoltrarsi in quella più oscura delle interazioni tra
il campo dell’innato e l’influenza dell’ambiente. Non credeva possibile che il paziente in
analisi potesse regredire ad uno stato indifferenziato e non strutturato, nel quale non esiste
alcuna distinzione tra corpo e mente, tra sé e oggetto. Campo di dibattito teorico ancora presente ai nostri giorni. Ma è sul paragrafo intitolato “L’analista” che mi vorrei fermare, laddove ella esprime il suo pensiero soprattutto sulla produttività scientifica e la sua influenza
circa il futuro della psicoanalisi.
A. Freud ritiene che sia un errore porre il problema dello sviluppo scientifico in termini
di creatività. Il compito dell’analista non è tanto inventare, quanto esplorare, comprendere e
spiegare. Ed è proprio alla luce di questo compito che, secondo lei, una qualità importante
rischia di essere perduta: è l’inquadramento metapsicologico, il quale comporta che ogni
fatto clinico sia affrontato da quattro punti di vista: genetico, dinamico, economico e topico.
Quello che colpisce è che nulla è cambiato ai giorni nostri rispetto a trent’anni fa: è vero
quello che Anna diceva allora e cioè che il termine metapsicologia ha assunto un significato
molto diverso. Ciò che la denota riguarda prevalentemente l’elaborazione teorica senza incontro con il campo clinico. La metapsicologia è per questo divenuta la “bestia nera” degli
analisti ad orientamento clinico, che se ne sentono completamente staccati. Ne consegue una
divisione che rischia di rendere sterile il campo teorico per la mancanza di dati clinici e
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quello clinico che manca di referenze nei confronti degli studi teorici. Ciò che si perde è
l’unità fondamentale tra pensiero clinico e quello teorico. A. Freud era preoccupata perché
non si teneva abbastanza conto del fatto che i quattro punti di vista metapsicologici non si
trovano allo stesso livello quando li si confronta con la cura psicoanalitica: se le modificazioni economiche, dinamiche e strutturali della personalità ne costituiscono l’essenza,
l’esplorazione delle radici genetiche non è una meta in sé, essa aiuta la comprensione e
l’interpretazione. Ma per il momento, essa conclude, il desiderio di dissotterrare gli antecedenti più precoci non solamente dell’Io, ma anche delle emozioni e delle angosce umane, si
è impadronito dell’immaginazione degli analisti. E può darsi che ci voglia del tempo perché
gli altri punti di vista metapsicologici raggiungano il punto di vista genetico che ha conquistato la posizione di testa. Ciò che ci resta da attendere è che tali fatti precoci siano ricollocati nei quadri dinamici, economici e strutturali della personalità, di cui essi preparano le
basi. Soltanto così la metapsicologia riguadagnerà la posizione precedente e potrà essere recuperata una maggiore creatività in psicoanalisi. Eugenio Gaddini, tra i nostri pensatori, secondo me era riuscito nell’intento.
A. Green conclude il volume con lo scritto, L’ANALYSTE, LA SYMBOLISATION ET
L’ABSENCE DANS LE CADRE ANALYTIQUE che esordisce con la constatazione della
crisi della psicoanalisi. Egli auspica, riferendosi al contributo precedente di A. Freud, che,
così come la psicoanalisi ha aperto la via della conoscenza dell’uomo a partire dalla esperienza negativa della nevrosi, anche gli analisti possano utilizzare l’occasione di apprendere
su se stessi attraverso le loro esperienze negative.
Quello che più interessa a Green è riflettere sulla presa di coscienza del cambiamento attuale a partire da quello dell’analista: vale a dire che esistono i cambiamenti del paziente
nella misura in cui l’analista sia in grado di rendersene conto e questo dipende dalla visione
che l’analista possiede della propria realtà psichica e dalla capacità di interrogarsi sulle proprie
reazioni
nei
confronti
delle
comunicazioni
del
paziente,
utilizzandole
nell’interpretazione: detto in altri termini il campo del controtransfert si estende e si arricchisce. Il nuovo assetto rende l’analista capace di “intendere ciò che precedentemente non
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era udibile”. Questo procede parallelamente al fatto che i pazienti gravi che sempre più affollano gli studi degli psicoanalisti li mettono a dura prova sollecitandone la partecipazione
personale. Va da sé che l’estensione dei limiti dell’analizzabilità si pone di conseguenza: secondo Green è difficile definire limiti obiettivi e generali dell’analizzabilità che non tengano
conto del grado di esperienza dell’analista, delle sue specifiche doti nonché dei suoi orientamenti teorici. Questo fa sì che un determinato analista può essere adatto per un determinato paziente. Non penso - dice Green - che ogni paziente sia analizzabile, preferisco pensare
che non lo è per me. Quindi i limiti dell’analizzabilità non possono essere che quelli
dell’analista.
Ne consegue che anche il modello della nevrosi per Freud, fondato sulla perversione
(nevrosi come negativo della perversione), si è modificato fondandosi invece sulla psicosi:
gli analisti sono più sensibili ai meccanismi di difesa o ai nuclei psicotici delle nevrosi di
quanto non lo siano nei confronti dei fantasmi perversi evidenziabili nelle medesime. Era
probabilmente questo che Green pensava quando alludeva all’intendere degli analisti su cose precedentemente non udibili.
È chiaro che quando l’analista tocca un nucleo psicotico, si cade su quella che l’autore
definisce “la folie privée” in seguito divenuta titolo dell’omonimo volume (Gallimard,
1990) ed il discorso ritorna ai casi gravi.
Secondo Green il modello implicito degli stati-limite di cui è ben conosciuta la mancanza di strutturazione ed organizzazione rinvia alla coppia contradditoria angoscia di separazione-angoscia di intrusione. L’effetto di tale doppia angoscia non conduce tanto alla problematica del desiderio quanto a quella della formazione del pensiero.
Green e T.L. Donné (1973) hanno descritto come “psicosi bianca” il nodo psicotico fondamentale, caratterizzato dal bianco del pensiero, dall’inibizione delle funzioni di rappresentazione, dall’apparente triangolazione fondata in realtà su una relazione tra il soggetto e
due oggetti simmetricamente opposti (buono-cattivo, intrusivo-inesistente). Non è tanto di
conflitto amore-odio che si tratta, quanto dell’influenza sui processi di pensiero di una presenza invasiva che conduce al delirio e all’inaccessibilità della depressione. Perché il pensiero è così gravemente attaccato? Perché l’oggetto sempre intrusivamente presente non può
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essere pensato, mentre all’incontrario l’oggetto inaccessibile non può mai essere introdotto
in modo durevole nello spazio personale. L’effetto che si ottiene è la paralisi del pensiero,
che si traduce in una ipocondria negativa del corpo, soprattutto della testa: testa vuota, buco
nell’attività mentale, disturbi gravi di concentrazione e di memoria.
Non bisogna d’altronde temere che dare una tale importanza ai processi di pensiero conduca a una intellettualizzazione, proprio perché l’originalità della teoria psicoanalitica consiste nel legare il pensiero alla pulsione.
Ci sono altri due concetti fondamentali in questo articolo: la funzione del quadro analitico come terzo nella relazione duale e il posto occupato dal narcisismo sia nella teoria che
nella tecnica.
Il quadro analitico si pone come concetto cardine nell’evoluzione teorica riguardo al
funzionamento mentale del paziente (vedi Bion, Winnicott, Khan, Lewin, Bleger, per non
dire che i maggiori). Il quadro costituisce un fondo silenzioso, muto, una costante che permette alle variabili del processo un certo gioco. Una definizione felice data da Winnicott è
“ambiente facilitante” . L’esperienza degli analisti si è arricchita grazie all’analisi di pazienti che non sono in grado di utilizzare il quadro come ambiente facilitante.
Si possono presentare nelle analisi due situazioni: la prima è quella già citata, in cui il
quadro silenzioso si fa dimenticare, è come assente. A questo livello l’analisi si svolge tra
persone.
Nella seconda situazione il quadro fa sentire la sua presenza. In questo caso l’analisi si
svolge tra oggetti. È qui che l’analista è particolarmente stimolato dalla vivacità di rappresentazioni che possono prender forma improvvisamente, come emergendo da una indefinitezza ai limiti della rappresentabilità.
Sul carattere assai vivido, “ultranetto” (überdeutlich) delle rappresentazioni dell’analista
che possono sfociare in una sorta di attività quasi allucinatoria si sono recentemente espressi
anche C. e S. Botella (2001). Spesso le impressioni sono meno nette e non prendono né la
forma di immagini né di ricordi, appaiono come l’espressione di movimenti interni; in tutti
questi casi il lavoro controtransferale dell’analista deve supplire alle carenze di un apparato
psichico dagli incerti confini ed equilibri. Se tale attività approda alla verbalizzazione co-
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sciente lo stato d’animo dell’analista muta e la tensione diventa sentimento di soddisfazione.
Ciò che è stato appena descritto può verificarsi sia in momenti critici delle analisi classiche,
sia nelle analisi dei casi difficili. Importante è ricordare che questo tipo di lavoro è possibile
grazie al contenimento del quadro analitico, che assume la funzione del contenimento della
persona e permette la nascita e lo sviluppo di una relazione d’oggetto. Perché diventi possibile la formazione di un oggetto analitico è essenziale che si possano stabilire relazioni di
omologia e complementarietà tra analista e paziente (vedi la nozione di doppio in Green,
1970, 1974), in cui prende forma l’interpretazione che permette l’esplicitazione di un significato nascosto, assente prima della costituzione della relazione analitica. In questo senso la
relazione analitica è un doppio.
E veniamo al narcisismo: lavoro enorme quello di Green sull’argomento che, si può dire, l’ha accompagnato lungo tutto il percorso della sua vita professionale. Bisogna ripartire,
secondo l’autore, dal narcisismo primario, perché è stato oggetto di definizioni contradditorie da parte di Freud; per cui a volte è stato ciò che permette l’unificazione delle pulsioni autoerotiche contribuendo al sentimento individuale di unità, a volte un investimento originario dell’Io non unificato. Green si appoggia al secondo aspetto, riconsiderando l’ipotesi di
Freud del Narcisismo primario assoluto non come riferimento all’unità, bensì come tendenza ad arrivare il più vicino possibile al grado zero dell’eccitazione. Malgrado questa concezione del narcisismo sia minoritaria, c’è da considerare invece che tutti gli analisti hanno riconosciuto che la maggior parte delle manovre difensive degli stati-limite e delle psicosi
aveva come scopo non solo la lotta contro le angosce primitive persecutorie, ma anche contro il confronto con il vuoto, che è probabilmente lo stato più intollerabile per questi individui.
Facendo appello alla propria esperienza Green osserva che le regressioni, le recrudescenze aggressive eccetera, dopo sensibili progressi testimoniano il bisogno di mantenere a
qualsiasi prezzo la relazione con un cattivo oggetto interno. Si tratta soprattutto del timore
che la sua scomparsa lasci l’individuo davanti all’orrore del vuoto senza che possa mai riuscire a sostituirlo con un oggetto buono. L’abbandono dell’oggetto non conduce
all’investimento di uno spazio personale, ma ad un’attrazione irresistibile verso il vuoto, il
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nulla, che costituisce il vero significato della pulsione di morte. La carenza delle cure materne la favorisce; sembra che, poiché qualcosa che era necessario ricevere dall’oggetto non
si è mai verificato, non possa che rimanere questa fuga verso il niente, come se si trattasse
di raggiungere lo stato di quiete attraverso il suo contrario, l’inesistenza di qualsiasi speranza di soddisfacimento: la soluzione disperata di chi ha cessato di lottare.
Così Green arriva a congiungere i due effetti del narcisismo primario: l’effetto positivo
che segue al soddisfacimento e l’effetto negativo che fa del vuoto e del nulla il riposo mortifero. Già nel 1967 egli aveva proposto una teoria del narcisismo primario come struttura e
non solamente come stato, che, a lato dell’aspetto positivo (visibile e rumoroso) della relazione d’oggetto (buona o cattiva che essa sia) fa posto all’aspetto negativo (invisibile e silenzioso).
Questo aspetto negativo si forma in conseguenza dell’introiezione, contemporanea alle
cure materne che costituiranno la relazione d’oggetto, della struttura inquadrante di queste
cure tramite l’allucinazione negativa della madre quand’essa è assente. Esattamente il rovescio di ciò che la realizzazione allucinatoria del desiderio costituisce il dritto. Lo spazio così
delimitato, a lato ma distinto dalla relazione d’oggetto, è uno spazio neutro, che costituisce
il fondamento dell’identificazione se le relazioni favoriscono la continuità del sentimento
dell’esistenza o che, al contrario, può autoevacuarsi per l’attrazione del nulla. Il disinvestimento radicale coinvolge anche il tempo, grazie ad una capacità forsennata di sospendere
l’esperienza, creando “tempi morti” in cui nessuna simbolizzazione è praticabile. È lo spazio-tempo del narcisismo primario negativo che nel 1983 diventerà narcisismo di morte.
La clinica che corrisponde a questa teoria impone all’analista il massimo della sua funzione immaginativa. La tecnica di Winnicott sembra a Green l’unica con cui può concordare, perché è l’unica che dà lo spazio che merita alla nozione di assenza. Assenza come presenza potenziale, che rende possibile la formazione non solo degli oggetti transizionali, ma
anche degli oggetti potenziali necessari alla formazione del pensiero. La trasformazione dei
processi primari in secondari sembra a Green far parte di una visione troppo rigida o ideale.
Egli pensa che si tratta piuttosto di istituire un gioco tra processi primari e secondari, tramite
processi terziari, che sono processi di relazione.
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A mo’ di conclusione Green auspica che il lavoro non finisca lì, ma serva ad aprire una
discussione lasciando la parola ad altri. E credo che spenderò le ultime parole per scrivere le
mie ultime impressioni; questo lavoro ha quell’impronta caratteristica che tutti i successivi
possiederanno: un indistruttibile desiderio di procedere teorizzando, accorpando teoria e clinica, rilevando le contraddizioni altrui senza smettere peraltro di dialogare, toccando a volte
punte polemiche con un coraggio intellettuale, una cultura di cui non si intravedono i confini, una lucidità spesso impietosa ma “positiva” nel senso che egli dà a questa parola in questo lavoro. Contorto a volte, come anche stavolta, ma sempre curioso di approfondire, sempre esposto in prima linea. È uno di quei padri che siamo orgogliosi di avere.
Che dire per concludere, alla fine della lettura di questo volume? La prima impressione
è di riconoscenza. Mi sono passate davanti le intuizioni e le riflessioni e il lavoro clinico degli analisti tra i più importanti e significativi nel corso del ventennio 1950-70. Le loro divergenze, le loro preoccupazioni circa il futuro della psicoanalisi, le loro proposte perché
l’analisi non muoia. E mi sono ritrovata in sintonia con il loro stato d’animo a distanza di
trent’anni. La psicoanalisi è ancora in crisi e questo vuol dire che non ha nessuna intenzione
di morire. Siamo noi psicoanalisti del 2000 che dobbiamo fare buon uso di questa eredità.
BIBLIOGRAFIA
BOTELLA, C., BOTELLA, S. (2001) Figurabilité et régrédience. Rev. Franç. Psychanal., 65,
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Riviste
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NEYRAUT, M. (1973) Le Transfert. Presses Universitaires de France, Paris.
ALESSANDRA DE MARCHI
via Stradella, 311
41100 Modena
[email protected]
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NOTE
Le parole e gli affetti tra Logos e Eros
AGOSTINO RACALBUTO
Le parole e gli affetti tra Logos e Eros. A proposito di La Forma delle parole*
di Chiara Nicolini, Lorenza Lazzarotto, Carlo Suitner
“La forma delle parole”. Un libro sulle parole, cioè parole scritte sulle parole. Si tratta
allora di parole scritte o parlate? Potrebbe sembrare una domanda poco significativa, se
nell’introduzione Chiara Nicolini non precisasse che lo stimolo alla stesura di questo testo le
proviene dagli studenti che, con le loro domande, con le loro curiosità, con le loro intuizioni, quindi attraverso un linguaggio parlato e una motivazione affettiva a conoscere, l’hanno
spinta a scrivere e a dedicare a loro il testo, come “alla componente più bella e più vitale
della Facoltà di Psicologia”. Quindi parole “parlate”, quelle fra Chiara Nicolini e i suoi studenti, e parole “scritte”, quelle del libro, ma anche parole che, parlate o scritte che siano,
parlano il linguaggio degli affetti se conducono a una sentita dedica.
E quindi è evidente che il concepimento del libro, come ogni concepimento degno di
questo nome, ha una sua origine dialettica affettiva; non solo, o non tanto, fra lingua parlata
e lingua scritta, ma anche fra persona e persona. Come ogni atto generativo che per sua stessa natura non può prescindere da una fecondazione, sotto il patrocinio di Eros. Così
l’insegnamento che incontra ascolto e accoglimento, così una relazione d’amore fra individui, così la cura analitica, dove è solo all’interno di una relazione “feconda”, veicolata dalle
parole, che si genera un ‘fatto’ clinico che abbia una valenza terapeutica. Un docente e un
allievo, un uomo e una donna, un genitore e un figlio, un paziente e un terapeuta, una qualsiasi coppia di opposti sinergici, meglio di distinti e complementari che abbiano potuto e saputo familiarizzare affettivamente fra di loro, è sempre necessaria per un evento che abbia
un autentico valore generativo.
Se Freud ha potuto teorizzare e portare alla scrittura la sua esplorazione dell’inconscio e
il lavoro della cura, questo è avvenuto solo a patto di poterci trasmettere la sua familiarità
con le parole. Una familiarità che, tramite un processo apparentemente semplificatore di
*
Raffaello Cortina, Milano 2003
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Le parole e gli affetti tra Logos e Eros
condensazione, metaforizza di fatto la complessità degli enunciati e le contraddizioni psichiche che vi sono esposte. Certo, le parole dell’analista, quelle parlate, riprendono - risignificandole - gli affetti di ogni proprio paziente; è così che ogni analizzando può, per la narrazione e la storicizzazione della propria vita, sovvertire la lingua di partenza per riappropriarsene in un’altra forma. Ma è solo la sensibilità di Freud, originariamente, e degli analisti che
gli sono succeduti, nei confronti della circolazione delle parole nel preconscio dei pazienti,
nei confronti delle loro concordanze, delle loro ripetizioni, delle loro catene associative, dei
loro ponti verbali, che permette di ascoltare, di ascoltare in senso psicoanalitico. È
un’analoga sensibilità che presiede alla scrittura, come se per scrivere occorresse ascoltarsi,
e ascoltare quelle “voci” che, in una dialettica interna, ci permettono di pensare, di evocare
immagini, di suggerire ritmi, di aprire a certe associazioni e non ad altre, di inventare le
“forme” più appropriate per esprimere ciò che le parole vogliono dire. E già, perché non basta parlare, bisogna esprimere. E l’espressione a cui si fa riferimento, per apparire nella sua
connotazione mista di significato esplicito (potremmo dire di vocabolario) e allo stesso
tempo di affetto e referenzialità soggettivi, ha bisogno di forme. Senza l’espressione di tali
possibili forme o senza la loro comprensione, nel percorso fra emittente e ricevente, potremmo perdere una parte importantissima della comunicazione.
Questo libro si situa fra quelle non certo molteplici testimonianze, specie in ambito
scientifico, in cui la sensibilità precede ed è parte integrante della scrittura.
L’imprescindibile legame fra autentico sapere e affetti è ampiamente implicito. D’altronde,
nel primo capitolo del libro dal titolo “Perché studiare la retorica?” non si esita certo nel sostenere che “la forma, ancora di più del contenuto, è indicativa degli affetti”; quindi retorica
intesa non come specifica capacità oratoria ma come “arte” di cogliere e di interpretare il
flusso delle parole, certo come capacità di decodificazione di senso ma anche, e soprattutto
si direbbe, di ascolto, per esempio rispetto al modo di parlare con cui si presenta un paziente, in un colloquio clinico. Per andare infatti al di là di un discorso testuale non si può che
tentare di cogliere gli affetti che lo sottendono, lo permeano, lo animano, ne fanno cioè un
discorso “vivo”. Non a caso A. Green (1983) ha impostato un intero suo lavoro, Il discorso
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vivente, sulla tipicità del linguaggio, in relazione agli affetti, a seconda della struttura psichica e della configurazione caratteriale specifica.
Ciò presuppone - lo psicoanalista non perde l’occasione, o il vizio, di farvi riferimento che ogni essere umano struttura una forma di linguaggio verso quegli interlocutori interni
privilegiati che le singole storie personali hanno avuto e hanno permesso di strutturare. Al
punto che il transfert, fenomeno ubiquitario, significa che il nostro interlocutore non è solo,
o tanto, l’ascoltatore con cui parliamo... Questo comporta la possibilità di pensare che in
origine ogni acquisizione linguistica verbale, in fondo, è resa possibile dalla presenza di un
adulto in grado di significare - possiamo anche dire interpretare? - l’esperienza, dando occasioni e forme (linguistiche e affettive) all’interazione fra individuo e ambiente. Queste significazioni o interpretazioni, a partire dalle più antiche, fungono come un graduale processo di
astrazione che permette di decontestualizzare le parole dal contesto a cui sono state originariamente rivolte e da cui hanno avuto origine. Forse dimentichiamo che le parole, e le loro
forme, hanno il loro senso originario a partire dal corpo, cioè dalle sensazioni e dalle percezioni corporee, e che la radice anche della più elaborata forma retorica del linguaggio è alla
fine un dato somato-psichico, perché la parola, ogni parola, è pur sempre la mediazione del
contatto; meglio, di un non contatto immediato, allo stesso modo per cui un bambino quando chiama “mamma” deve fare i conti con la sua assenza. Questo solo per ricordare che nel
processo di psichicizzazione che giunge fino a noi dai nostri genitori, ma anche dai nostri
progenitori, in un rimando trans-generazionale, il rapporto fra corpo e linguaggio è sempre
importante. E che pure le forme delle parole risentono di questo rapporto, se il linguaggio
verbale si struttura come tentativo di integrazione, come ponte verbale appunto, fra dati della realtà interna e quelli della realtà esterna, ma anche fra i processi primari propri di uno
psichismo che si basa sui bisogni corporali, che non conosce il principio di contraddizione,
che ignora sia i nessi fra causa ed effetto sia quelli logici, e i processi secondari che si fondano sulla costituzione delle coordinate spazio-temporali e delle regole del pensiero logicorazionale. Con le forme retoriche delle parole, si dice nel testo, si cerca “di conciliare il contatto con la realtà nelle sue contraddizioni”. Come per i meccanismi di difesa, queste forme
retoriche rivelano dei collegamenti con dei meccanismi psichici, quali identificazioni, proie-
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zioni, negazioni, e così via, funzionali al nostro operare psichico e alla nostra vita di relazione. Ma a differenza dei meccanismi di difesa in senso stretto che sono sempre in un certo
senso un ‘poi’ rispetto all’originaria angoscia o conflitto da cui difendersi, le forme linguistiche di cui stiamo parlando noi rimandano anche, a mio avviso, a un originario, cioè a un
“prima”, a una sorgente. All’originario che sta a monte della parola, come le caratteristiche
di un frutto possono essere fatte risalire al fiore che l’ha preceduto. La forma delle parole
potrebbe dirci infatti, indirettamente, quale possibile azione c’è - almeno fantasmaticamente
- dietro quelle parole. Per esempio la metonimia potrebbe star bene per indicare il controllo
ossessivo (rispetto alla paura del vuoto, della passività, dell’aggressività) e il suo impegno
motorio; nel depresso può esserci una forma ripetitiva e monotona per la difficoltà a legare
le rappresentazioni, o le rappresentazioni agli affetti, con una ricaduta sul corpo; nello schizofrenico un eccesso di neologismi come agiti finalizzati a rompere psicoticamente con la
lingua madre; nell’adolescente un uso gergale della parola per fare gruppo e per tagliare i
ponti, spesso agendo, con la lingua dell’infanzia. E fin qui d’accordo con i meccanismi di
difesa; ma in ogni caso, ben aldilà dell’aspetto difensivo, la parola della coscienza rivela
inoltre la sua originaria matrice inconscia, ancora sottratta alle modifiche del compromesso
psichico. Con Freud (1895) - Progetto di una psicologia - si potrebbe dire che è importante
il ‘momento’ in cui l’immagine motoria verbale è investita al posto dell’immagine motoria
della soddisfazione, cioè diventa significativo quell’ambito cruciale in cui il linguaggio verbale può sostituirsi all’azione; in altre parole, si potrebbe pensare che ognuno di noi investe
la parola, e la sua particolare, personale “forma”, come risposta a un segnale d’allarme rispetto all’impossibile “soddisfazione”. D’altronde Freud (1892 -95) in Studi sull’isteria sostiene che “nella parola l’uomo trova un surrogato dell’azione, e con l’aiuto della parola
l’affetto può essere ‘abreagito’ in misura quasi uguale” (p. 180) . Il che testimonia del legame della parola con il corpo, con le “azioni” motorie, ma anche con le immagini. Non a caso
Gallese (in Napolitano, 2002) parla di “neuroni speculari” implicati in una risposta visiva
speculare rispetto a un’azione altrui; sembrerebbe che possa esserci una sorta di identificazione all’altro, in una dinamica psichica, dice Napolitano (2002), in cui “l’impianto del linguaggio nel piccolo dell’uomo” avviene “mediante un singolare specchio magico, lo spec-
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chio delle parole, attraverso cui l’altro parla mentre i nostri neuroni speculari scaricano esattamente come farebbero se fossimo noi stessi a parlare” (63, Lo specchio delle parole, Bollati Boringhieri). Se ne deduce che la nostra storia dipende anche dall’altro, è intrinsecamente legata a relazioni, in un ambito in cui la dinamica della dialettica soggetto - oggetto è
decisiva.
Nel capitolo “Una storia della retorica” si conclude, dopo un’attenta disamina storica,
che l’uso della retorica oggigiorno non può essere definito “intrinsecamente buono o cattivo”, ma varia in base all’uso che ne fa il soggetto e in base alla “consapevolezza critica” che
si può attivare nel destinatario del messaggio. E ciò vale non solo per le parole, ma anche
per le immagini che in maniera imponente caratterizzano le comunicazioni del nostro tempo. Si potrebbe sottolineare in proposito che le parole hanno la loro pregnanza in quanto
evocatrici di immagini e che in fondo si “vede” ciò che le parole designano come oggetto
specifico; e, andando oltre, che, se è facile ricordare che le immagini nascono da una percezione (appunto quella visiva), cioè dal corpo, è forse più difficile tenere vivo un pensiero
che sappia che anche le parole nascono dalla carne. E ciò non solo per ricordare le comuni
radici, l’origine in comune che le parole e le immagini hanno, come implicitamente il libro che le ha accostate - riconosce, ma anche per mettere in rilievo la potenzialità simbolica della parola nell’essere un ponte fra corpo e mente e anche fra soggetto e oggetto, oltre che tra
persona e persona. Certo la raffinatezza della parola, il vigore argomentativo possono parlare della forza della ragione e del sapere, ma nessuna scissione mente-corpo potrà mai fare
ignorare che le parole recano con loro e comunicano tanta più viva emozione e vita libidica
quanto più restano in contatto con l’originaria matrice affettiva (il famoso “quantum
d’affetto” freudiano) che le ha permeate. Le qualità “verbali” dell’oratore, la sua simpatia, la
sua capacità di adeguarsi a chi si rivolge, si articolano con le emozioni e i sentimenti suscitati e trasmessi, e si fondano sul contenuto e sulle ragioni del discorso. Potrebbe valere in
questo senso, nel bene e nel male, la seguente citazione, certo ben articolata nel contesto del
discorso del libro, che gli autori fanno: “quando l’ethos e il pathos sono efficacemente impiegati, il logos costituisce la carta vincente in mano al persuasore” (Adler, 1983).
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Insomma, chi formula rappresentazioni, utili a costituire un discorso, nel proprio lavoro
(psicologico, clinico, ma anche politico, d’insegnamento, di comunicazione) non può non
fare i conti con il buon uso del vocabolario, ma neanche ignorare che l’efficacia delle parole
non può prescindere dagli affetti, né illudersi che le sue caratteristiche personali non siano
svelate dal suo modo di parlare e di scrivere. Senza arrivare all’estremizzazione di Buffon
(“le stile c’est l’homme”) si può però essere certi che le forme che ognuno di noi - consciamente o inconsciamente - sceglie per comunicare lo configurano, e diventano una attendibile sua carta d’identità.
Oggigiorno che le comunicazioni sono diventate di grande impatto, costituendo uno dei
vettori - se non il più importante - dello sviluppo umano, poter usufruire di un libro come
“La forma delle parole” assume un connotato prezioso. In primo luogo perché fornisce elementi utile al lettore che desideri arricchire la propria capacità di ‘leggere’ il discorso altrui,
e questo può risultare utile in un colloquio clinico, in un’intervista psicologica, in una semplice conversazione di cui si voglia un po’ decodificare il senso del discorso
dell’interlocutore, in fondo anche nella lettura di fatti sociali o politici; in secondo luogo
perché la lettura del testo è divertente, e in un’epoca in cui la dimensione ludica
dell’esperienza purtroppo spesso latita, riuscire a trovare una tale opportunità costituisce
un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Nell’introduzione al testo A.A. Semi confessa infatti
di “avere giocato un po’”, augurandosi che possano farlo anche i lettori. Io l’ho fatto in
quanto lettore, mi è piaciuto scrivere anche queste piccole note che sono parole scritte, e che
avranno anche loro una “forma” con cui il soggetto si espone. Presumo che questo possa accadere quando uno stimolo che permette di “giocare”, da bambini, da adolescenti, da adulti,
stimoli, come in questo caso il libro, la nostra psiche e la inviti ancora una volta a ritrovare
il piacere di pensare. Quel pensare che per quanto ci sforziamo di tradurre in parole, anche
le più appropriate, le più chiare, le più puntuali, è sempre in origine un’altra cosa rispetto a
ciò che riusciamo a dire o a scrivere. Come se il pensiero a cui facciamo riferimento sia irriducibile nella sua essenza al Logos, pur essendo la fonte della parola che noi scegliamo di
adoperare e che fa parte della nostra storia e dello stesso modo di essere. Un pensiero in fieri, prima della parola, il grido di ingresso nella nostra vita, ogni esperienza che è impossibile
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Le parole e gli affetti tra Logos e Eros
mettere subito in parole, le “prime volte” delle nostre esistenze, la meravigliosa spontaneità
del bambino al di là dell’educazione, la stupita, trepidante, talvolta impaurita, meraviglia
dell’adolescente di fronte al cambiamento e alla sessualità, l’ineffabile imprevisto rapimento
affettivo (per una persona, per un’idea, per una situazione) che può arrivare anche inaspettato fino alla fine dei nostri giorni. Pontalis (1997), in Questo tempo che non passa (Borla,
1999), chiamerebbe la “quinta stagione” questa sorta di infantile senza tempo che sta alla
base della nostra vita libidica e affettiva e che non è da confondere con un arcaico, un primitivo, ma con quella spinta vitale che attraversa il tempo di Cronos e che quindi è la “quinta
stagione”, una stagione che non ha un inizio e una fine, come invece hanno la primavera,
l’estate, l’autunno e l’inverno, fino all’arrivo del nuovo anno: una stagione, un tempo appunto che non passa e che allo stesso tempo non è l’eternità, fondata sulla spinta inesauribile
alla vita propria degli esseri umani, capace di sconfinare oltre i limiti scanditi
dall’ineluttabilità del tempo che scorre inesorabile.
Ho scomodato qui Pontalis per un motivo molto personale. Un motivo che attiene alle
impressioni e ai pensieri suscitatimi dal libro “La forma delle parole”. Quello per cui, in un
apparente paradosso, la lettura di un libro curato, ben scritto, che argomenta con precisione,
che richiede quindi confini netti entro cui porre efficacemente i messaggi contenuti, ha fatto
si che io mi sia potuto tuttavia perdere, abbia potuto sconfinare. Non vi chiedo perciò di
leggere a scatola chiusa e quindi di credere in questo libro, ma di lasciarvi trasportare, di
permettervi un’apertura verso... Così è successo a me nella sua lettura, tanto che credo non
di avere riportato del libro i tratti salienti, il suo “sapere”, ma di aver cercato di comunicare
- certo impropriamente o troppo soggettivamente - il trasporto che mi ha provocato... Quel
trasporto che, orientando si può dire l’apprendimento, permette che la cognizione sia un fatto non solo culturale ma anche naturale, cioè una risposta al proprio desiderio di conoscere,
in una integrazione fra Eros e Logos.
Non mi resta che consigliarvi questo libro, perché dare credito alle parole e alla loro
forma, affettivamente investite, forse può permettere di uscire dal rigore del linguaggio come processo appropriato di astrazione che rischia però di freddare l’affetto... Diceva Thom
(1991) in In guisa di conclusione (piccolo saggio presente nel testo curato da K. Pomian,
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Le parole e gli affetti tra Logos e Eros
Sul determinismo, il Saggiatore): “tutto ciò che è rigoroso è insignificante...”. Per me il libro, pur preciso e puntuale nella sua esposizione, nella sua successione e nella sua procedura d’esposizione, non è rigoroso ... È un grande complimento.
AGOSTINO RACALBUTO
via San Nicolò, 2
35100 Padova
[email protected]
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LETTURE
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Letture
GILDA BERTAN
Il labirinto, Arianna e il filo
Borla, Roma 2002, pp. 160, euro 16,00.
Mi sembra molto efficace l’immagine del labirinto che Gilda Bertan utilizza in questo
libro per descrivere la complessa e travagliata esperienza analitica con bambini affetti da patologie gravi.
Il labirinto, sappiamo, è l’antico simbolo dei tortuosi cammini dell’iniziazione; è strumento di difesa delle città, delle tombe, dei tesori; è luogo dove ci si perde e insieme ci si
può rifugiare, o dove si possono rinchiudere le vittime sacrificali che devono placare e propiziare il mostro.
Freud ne parla come simbolo del corpo della madre, il cui centro, l’ombelico, è cicatrice
indelebile dell’unione-separazione tra madre e figlio.
Nell’ottica in cui lo utilizza Gilda Bertan a proposito delle patologie gravi, ben si presta
dunque ad esprimere la situazione di prigionia-rifugio di un bambino dentro il mondo della
madre, ma anche la difficoltà e l’arditezza del cercare e dell’usare un filo che possa condurre fuori.
Chi può essere sicuro, infatti, che per un bambino sia preferibile affrontare la paura e il
rischio di “cadere” nell’abisso rappresentato dal mondo esterno, piuttosto che restare nella
prigionia ma anche nella sicurezza costituita dalle simmetrie magiche ed ossessive del labirinto? Tant’è che molti pazienti gravi sembrano restarvi perennemente dentro.
Dire labirinto, comunque, è usare un simbolo che condensa tante conformazioni possibili. L’autrice ci conduce in labirinti molto diversi, tanti quanti sono i bambini con i quali descrive la sua esperienza terapeutica. Anna, Stefano, Allegra, Tommaso, Elena; e poi Davide,
Azzurra, Pino, bambini difficili ormai adolescenti, ciascuno ha il proprio personale labirinto
e per ciascuno va trovato un filo di Arianna tessuto di diversa sostanza e colore.
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Letture
C’è chi, come Anna, può seguire solo fili fatti di suoni ripetitivi e metallici, suoni di calamite che si attaccano alla lavagna magnetica in modo secco e repentino. Stefano, esile, delicato, quasi immateriale, segue solo fili fatti di odori e sensazioni olfattive; Allegra procede
con frasi-fatte ecolaliche; Tommaso ed Elena spargono ovunque pezzi rotti di storie rotte da
ricomporre e infilare con infinita pazienza.
Cosa sia accaduto a questi bambini G. Bertan, pur attenta agli studi attuali in campo psicologico e neurobiologico, cerca di pensarlo e di proporlo in un’ottica psicoanalitica, soprattutto alla luce degli studi inerenti ai processi di acquisizione dell’identità e dei costrutti empatici. Propone così una visione dell’autismo, inteso come un “gruppo” variegato di patologie più che un’unica patologia, come un deficit grave delle capacità di relazione con l’altro.
Capacità che ordinariamente si maturano nel complesso gioco di relazioni affettive date
dall’holding della madre, dalla sua capacità di sognare e fantasticare insieme al bambino
grazie alle quali può nascere la soggettività, lo spazio mentale, la capacità di simbolizzare.
Sono le stesse funzioni che l’autrice tenta di rimettere in moto attraverso l’esperienza
analitica con i bambini, nella convinzione che, al di là delle intenzioni coscienti e della dedizione generosa dei genitori, qualcosa si sia inceppato proprio nella relazione affettiva nei
primi tempi della vita.
Non mi sembra che questo libro voglia proporre nuove teorie sull’autismo - l’autrice utilizza come punto di riferimento gli studi già noti e più significativi - ma piuttosto mostrarci
l’uso creativo che si può fare degli strumenti analitici nelle situazioni gravi e l’importanza
della qualità della relazione terapeuta bambino. Qualità che, secondo l’autrice, al di là delle
differenze teoriche di impostazione, è probabilmente il fattore decisivo del successo anche
nelle terapie di orientamento differente da quello analitico.
Come trovare con ciascun bambino, immerso nella sensorialità e tenuto coeso da essa,
quel suo filo che permetta a poco a poco un percorso condiviso: questa è la sfida iniziale
dell’esperienza psicoterapica, di cui a poco a poco l’analista diventa “voce narrante”. “Sottolineo voce narrante, scrive G. Bertan, che non è rispecchiamento, ma interpretazione al
posto del bambino dei dati derivanti dal mondo.
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Letture
Cerco di essere legame, ordito per una trama che altrimenti si sfilaccerebbe, melodia che
dona senso ai suoi ritmi senza fine e alle sue stesse risposte e azioni nei confronti del mondo... Il bambino autistico ha bisogno non tanto di ricevere interpretazioni psicoanalitiche,
ma di essere aiutato a interpretare il mondo...”
E contemporaneamente, come favorire che la relazione significante e significativa che il
bambino vive all’interno della psicoterapia, diventi via via patrimonio ed esperienza condivisa con i genitori ... questo è l’altro aspetto interessante e centrale del volume.
L’autrice ci mostra così l’uso personale degli apporti di vari autori della psicoanalisi italiana e straniera, A. Ferro, S. Resnick, Dina Vallino, M. Pagliarani, S.Nissim, L. Boccanegra.
Commenta Ferro nella sua introduzione: “Questo libro ... è animato in ogni sua riga da
una passione per la clinica, da un rispetto per la sofferenza, da una rara attitudine competente a farsene carico ... da un profondo desiderio di conoscenza e da un metodo rigoroso per
procedere in essa” .
Certo, nel labirinto ci si può anche perdere o perdere i bambini. G. Bertan ci mette a
contatto anche con queste possibilità. Non è una vicenda senza rischi quella di stare nel labirinto delle patologie gravi, pur con un bagaglio ben fornito di strumenti.
Penso a Borges, che descrive il Minotauro come un “cannibale melanconico” che gioca
con il suo doppio, il labirinto, in attesa del Redentore.
Entrando nei meandri dei labirinti “gravi”, si sa di dover mettere in conto il rischio di
soccombere ad angosce senza nome. A spingere avanti e a sostenere può essere solo la speranza di trovare, come nel racconto di Borges, un divoratore in attesa di essere liberato da se
stesso.
“Lo crederesti Arianna? Il mostro non si è quasi difeso”.
Maria Luisa Algini
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Letture
PAOLO DI BENEDETTO, RUTILIA COLLESI, LELLA CITTERIO, MARINA CAMPANINI, MARIELLA PAGANONI, ROSETIA BOLLETTI, NICOLAS CONTISAS, MARILENA MORELLO
La creatività nella stanza d’analisi. Marion Milner (1900-1998)
CLUEB, Bologna 2003, pp. 127, euro 10,00.
M. Milner è conosciuta soprattutto per Le mani del dio vivente, ma la sua figura emerge
da questi saggi con una complessità e ricchezza davvero straordinaria. Nel mondo psicoanalitico di lingua inglese essa era riconosciuta e apprezzata da M. KIein, D. W. Winnicott, M.
Khan, M. Little, P. Heimann, C. Rycroff, H. Searles. È sul tema del rapporto mente-corpo
che la Milner ha sviluppato in modo davvero originale il pensiero di C. Scott, P. Schilder,
W. Reich e A Lowen: era implicata direttamente in questa ricerca che la portava a «mettere
carne e sangue sopra le ossa della teoria» (R. Gordon). È indubbio che nel suo lavoro con
bambini e adulti abbia esplorato aree cliniche di grande rilievo, e che le sue scoperte la collochino molto vicino a Winnicott. Ma sono del tutto particolari la libertà di pensiero e lo stile con cui l’Autrice conduce la sua ricerca. Predominante è una concezione
dell’immersione, da parte del terapeuta, nel corpo come ricorrente abbandono del pensiero
razionale, e una attenzione ai processi di simbolizzazione e creatività ben diversi da quelli
classici della riparazione kleiniana.
È il suo percorso formativo che ci spiega come Marion Milner si avvicinò progressivamente a questi temi, per poi dedicarvisi con un’energia inesauribile e uno stile inimitabile.
Nata a Londra il 1 febbraio 1900, era entrata a contatto con i libri di Maria Montessori a 11
anni, e aveva deciso di diventare una naturalista, cominciando a tenere un diario su qualsiasi
cosa attirasse la sua attenzione. Leggendo Montaigne, era rimasta colpita dalla sua insistenza sul fatto che ciò che si chiama spirito è totalmente diverso da ciò che ci si aspetterebbe.
Cominciò a interessarsi alle idee del buddismo zen e alle tradizioni mistiche orientali e occidentali e ai metodi per attuare mutamenti di coscienza attraverso il controllo
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Letture
dell’attenzione. Voleva approfondire la relazione tra misticismo e follia, fu in quel periodo
che conobbe il libro di Santayana (1920), Little Essays, che conteneva un saggio intitolato
“La follia rimossa delle persone sane” che così lungamente e profondamente doveva influenzarla. Tramite quella lettura cominciò a comprendere come la percezione non è, semplicemente, una delle fasi primarie della coscienza, ma una funzione secondaria molto complessa, permeata di fantasie e simbolizzazioni, temi che fanno da sfondo al libro del 1950
On not to be able to paint. Già nel secondo libro An experiment in leisure del 1937 aveva
espresso il tema che sarebbe poi divenuto per lei dominante; il potersi fidare dell’inconscio,
dell’indeterminatezza, di ciò che sembra non esserci; un atteggiamento di sottomissione
all’inconscio che A. Ehrenzweig chiamò “resa creativa”. Attraverso S. Isaacs venne a contatto con il lavoro della Klein; nel 1938 conobbe Winnicott a una conferenza. Poco dopo decise di intraprendere un’ analisi con Payne e l’anno dopo fece domanda per essere ammessa
al training della British Psychoanalitical Association; nel 1942 divenne membro associato e
un anno e mezzo dopo (1943) scrisse la sua relazione per qualificarsi come didatta. Nel
1945 Winnicott le inviò la paziente Susan, la cui analisi è raccontata nel libro Le mani del
dio vivente. Fece parte del gruppo di psicoanalisti London Imago Group interessato all’arte,
e per tutta la vita coltivò l’attività di pittrice. Morì, ancora lucida e attiva, a 97 anni.
Il nucleo profondo della sua ricerca ha radici nei tre libri da lei rielaborati dai suoi diari,
A life of one’s own, 1934, An experiment in leisure, 1937, e Eternity’s Sunrise, 1958 (di cui
solo l’ultimo tradotto), che hanno come centro la continua riflessione sul percepire con interezza il proprio corpo, condizione questa capace di alterare la percezione stessa delle cose. È
con stupore che la Milner, come ci racconta, scopre fin da giovane l’esistenza e il potere di
tutto un settore della mente assolutamente sconosciuto, che lei chiamerà ‘la mente automatica’. Ma apprende anche a controllarne le diverse modalità percettive con quello che descrive
come “un interno gesto della mente”. Questo gesto opera “come se la consapevolezza di sé
avesse un punto centrale del proprio più intenso essere”: tale centro, usualmente tenuto nella
propria testa, può invece essere collocato in differenti luoghi, fuori di sé, o in differenti parti
del corpo. A questi vissuti la Milner dà il nome “the fat feeling”, e l’importante valore del
lasciarsi andare “I simply let go”.
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Letture
È proprio questa particolare attenzione al suo mondo interno che spiega il suo modo di
lavorare, inusuale in quell’epoca: nessun cambiamento poteva avvenire in un paziente, pensava la Milner, se, prima, non si formava un cambiamento in lei. Era per lei chiaro, nel rapporto con il paziente, quanto la negazione dell’inconscio, della propria distruttività,
l’incapacità di immergersi nei livelli più profondi della realtà e di se stessi impediscono il
lavoro terapeutico. Era importante, in questi drammatici casi, favorire l’incontro totale tra
corpo e anima, lasciarsi andare, deliberatamente, per contenere l’immobilità e la perdita che
sottostanno a questa evenienza traumatica. Sono profonde esperienze di fusione ed unità,
che possiamo osservare così bene nei bambini che giocano e negli artisti, che la Milner considera necessarie alla crescita del senso di dualità, di cui il paziente ha bisogno. Se il terapeuta non pone resistenza e diventa oggetto malleabile nelle mani del paziente, diviene un
ponte tra esterno e interno e fornisce così un’esperienza di illusione, per tutto il tempo necessario. In seguito, il passaggio alla disillusione è possibile perché dà sollievo e libera da
responsabilità infinite. L’identità di vedute con Winnicott è palese: ma se questi ha parlato
del bisogno nel bambino dell’illusione di creare il mondo, la Milner insiste sul modo in cui
questo bisogno permane nella vita dell’individuo.
Ciò spiega il suo approccio terapeutico alla creatività, in modo da non interferire con le
doti artistiche del paziente. Il quale infatti le sente scaturire da quello stesso abisso inconscio da cui provengono anche i suoi conflitti, le sue angosce, le sue paure. La tendenza della
psicoanalisi a mettere sullo stesso piano i sintomi delle malattie mentali, i sogni, la mente
primitiva e l’arte, può in questo caso essere fuorviante e riduttiva. Ad esempio, Eissler nel
suoi studi su Leonardo e su Goethe ritiene la psicopatologia una pre-condizione necessaria
per lo sviluppo della creatività. Weissman definisce addirittura lo stato creativo come una
psicosi transitoria, una regressione dell’io. Per la Segal il sentimento intenso di perdita e di
colpa, originato dagli attacchi all’oggetto amato, diviene la base della successiva sublimazione e creatività. Ma la Milner non considera la creatività artistica come una qualità
dell’individuo eccezionale, ma la concepisce, precorrendo addirittura Winnicott, come dimensione naturale della mente umana, legata alla capacità specificamente umana di creare
simboli. Quest’esperienza, tuttavia, appare molto vicina a quella di un “tuffo pericoloso”
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nell’indifferenziato, in cui i confini del sé diventano così labili e incerti da determinare confusione tra il sé e il non-sé.
È su questo confine difficile che la Milner, con la sua particolare attenzione ai propri
vissuti corporei, sa invece muoversi con una perizia e sensibilità sconosciute ai suoi tempi.
Charles Rycroft confessa di essersi rivolto a Marion Milner come terapeuta, in un momento
in cui percepiva dei blocchi nella sua creatività, ritenendola l’unica analista veramente creativa che conoscesse. La sua concezione dell’inconscio appare davvero diversa da quella di
Freud. La mente inconscia per lei non è soltanto il luogo del rimosso, di ciò che non si può
accettare. È un elemento positivo, in cui è indispensabile immergersi temporaneamente, ma
sistematicamente. Non tutti sono capaci di questo sforzo, né di lasciarsi andare con fiducia
all’irrazionale, di sospendere l’intenzionalità. Per la Milner l’atto creativo si dispiega in
un’area analoga a quella “transizionale” di Winnicott, che appartiene sia al sé che al non-sé,
che si situa tra il pensiero primario e quello secondario: ciò che caratterizza l’autentica e sana creatività è “l’oscillazione o la reciprocità tra i due opposti, tra la fusionalità e la differenziazione, il sé e l’oggetto”.
Tale concezione è però ben più estesa di quelle sulla sola creatività. A differenza di ciò
che gli psicoanalisti definiscono come stati autoerotici e narcisistici, considerandoli patologici, per la Milner esiste un tipo benigno di narcisismo, un autogodimento primario che è in
realtà un investimento di tutto il corpo (non una concentrazione negli organi sessuali). Questo tipo di narcisismo, se giustamente inteso, non è un rifiuto del mondo esterno ma un passo verso un rapporto innovato e rivitalizzato con la realtà. La creatività ha questo fondamento, un rapporto con il proprio corpo che ne alimenta i vissuti stessi, primari, che mettono in
contatto con il mondo.
Possiamo concludere con questo straordinario aforisma il senso della sua intensa ricerca
“Conquista il bene del vuoto assoluto”: questa breve frase, simile, per certi aspetti, al “senza
memoria e senza desiderio” di Bion, esprime il valore positivo di quel volontario svuotamento della mente dalle immagini visive e dai pensieri, necessario per rendere percepibile la
propria ricchezza interiore, e le sue radici nel corpo. Questo insegnamento creativo della
Milner è il suo lascito profondo, e giustamente questo libro ce ne consegna l’aspetto più
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umanamente vero, quale traspare dai diversi saggi che, con affetto e ammirazione, ne mostrano il lungo percorso di vita e di studio.
Giampaolo Sasso
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Letture
GIUSEPPE RIEFOLO
Psichiatria prossima. La psichiatria territoriale in un’epoca di crisi
Nota introduttiva di Paolo Sylos Labini
Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 154, euro 15,49.
Il volume rappresenta il risultato di un lungo lavoro di studio e ricerca dell’Autore che,
pur prendendo le mosse forse sin dagli anni della sua formazione medica, nasce soprattutto
dall’esperienza di oltre un decennio di direzione di un Centro di salute mentale a Roma.
Riefolo scrive una serie di saggi che toccano i temi essenziali della pratica clinica di un servizio psichiatrico territoriale o - come dicono alcuni autori - di comunità. Alcuni sono diretti
più specificamente all’analisi di situazioni cliniche, come nel caso del problema dei pazienti
non-collaborativi; altri ad una riconsiderazione di ambiti da molto tempo cristallizzati in un
linguaggio spesso confuso o svuotato di significato, come il campo dell’urgenza e
dell’emergenza; altri ancora hanno come obiettivo la riflessione su alcune funzioni istituzionali, come quella dell’accoglienza. Lungo tale impegnativo percorso rimangono ferme
due posizioni fondamentali: il punto di vista psicoanalitico e la considerazione di non poter
mai prescindere dal “campo” istituzionale entro cui si svolgono i processi analizzati. Riefolo
intende così delineare la specifica originalità del campo istituzionale - in particolare quello
di un Centro di salute mentale - al di là di una semplicistica connotazione di centro erogatore di prestazioni, e si propone di descriverne le competenze.
Il capitolo dedicato al problema della “saturazione” (espressione della difficoltà di far
fronte alla domanda dell’utenza, nella quale quasi tutti i servizi sanitari finiscono prima o
poi per imbattersi) fa emergere una chiara definizione del centro di salute mentale come “sistema dinamico”, così come lo avevano teorizzato Maturana e Varela (‘80). Un sistema dinamico si caratterizzerebbe per “la capacità di affrontare continuamente la precarietà e
l’instabilità con soluzioni contingenti e non generalizzabili”, definita sinteticamente come
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Letture
“capacità autopoietica”. Essere sempre in uno stato di “sufficiente crisi” diviene così per
Riefolo quasi un requisito essenziale di un servizio, il segno della sua vitalità nell’affrontare
sia le sfide del cambiamento imposte dalle trasformazioni economiche (come nel caso della
recente aziendalizzazione dei sistemi sanitari), sia problemi sul versante dell’utenza, legati
alla domanda di prestazioni o a certe situazioni della clinica.
Ne deriva che qualunque funzione terapeutica un servizio pubblico metta in atto dall’accoglienza alle psicoterapie - essa si caratterizzerà prima di tutto per la qualità del sistema nel quale si svolge. La cornice istituzionale, nella sua stabilità, svolge comunque un
suo ruolo di fondo al quale contribuiscono tutti i soggetti (gli operatori) coinvolti sulla scena, ma da cui essi stessi non possono prescindere. Ciò coinvolge anche i loro modelli scientifici e culturali, sia che si tratti di precisi indirizzi scientifici letture che di “teorie implicite”
dell’operatore.
Il capitolo dedicato all’intervento psicologico nei contesti urbani disagiati si distingue
per l’originalità di un’esperienza clinica condotta in una borgata della periferia nord est di
Roma. Si tratta di situazioni in cui la pressione dei bisogni concreti dei pazienti è tale da
spingere potentemente l’operatore dei servizi di salute mentale ad una facile identificazione
con l’utente. Il risultato paradossale in questo caso potrebbe essere quello che il paziente
debba farsi carico, oltre ai suoi problemi, anche dell’impotenza dell’operatore. Invece viene
rilevato che, anche in contesti estremamente precari, sono presenti “dispositivi capaci di
produrre contenimento affettivo e coesione del sé”. Su tali risorse - oltre che su quelle personali dei pazienti - si può contare, se si riesce a “sintonizzarsi sul livello comunicativo” del
contesto sociale, mantenendo costantemente attivo un registro di attenzione psicologica che
permetta di cogliere i significati di certi accadimenti e le rappresentazioni ad essi collegate.
Campo dell’emergenza e campo dell’urgenza costituiscono un tema di grande impatto
nella pratica dei servizi psichiatrici e uno dei più soggetti a distorsioni ideologiche. È anche
il capitolo (insieme a quello delle conclusioni) in cui Riefolo mette maggiormente in luce la
sua familiarità con la storia della psichiatria. È l’area di studio che nei primi anni della sua
formazione - sotto la guida di Filippo M. Ferro - ha fatto da porta di ingresso ai problemi
della psichiatria. In questo percorso egli svolse la sua tesi di laurea sul tema dell’isteria, cor-
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Letture
redandola di un’antologia di autori classici dell’Ottocento. Fu quello il primo nucleo di Figure dell’isteria (1996), sempre in collaborazione con F.M. Ferro, di cui si attende una nuova edizione. La storia del pensiero clinico - secondo una concezione non antiquaria, ma dinamica e critica - e la rigorosa formazione psicoanalitica costituiscono, a mio avviso, i capisaldi dell’identità culturale e scientifica dell’Autore.
In particolare il campo dell’emergenza (che letteralmente rimanda a qualcosa che emerge, che viene a galla) è visto come quell’area in cui un operatore partecipe può assistere alla
“comparsa di elementi nuovi” sulla scena della relazione di cura. È spesso un’area dai tempi
lunghi, a differenza di quanto si potrebbe pensare, nella quale serve soprattutto presenza,
capacità di osservazione, misura nell’intervento per non soffocare possibili sviluppi evolutivi. Il campo dell’urgenza è cosa diversa, caratterizzandosi soprattutto per la rapidità dei fenomeni che vi si svolgono. L’urgenza esprime, dalla parte del paziente, l’assenza di contenitori adeguati e perciò “il dilagare della sofferenza senza contenimento affettivo”. In assenza
di questo il paziente “cerca” almeno un “contenitore concreto”.
Quando affronta il problema del paziente che non collabora la riflessione clinica psicoanalitica di Riefolo esprime forse la maggiore acutezza. Della non collaborazione egli vede soprattutto il “progetto comunicativo”, usando la stessa espressione di Searles (‘63) rispetto alla distruttività psicotica. Per questi pazienti “l’unico modo di proporre la propria
collaborazione è esibire un comportamento apparentemente orientato a negare ogni collaborazione con chi si dichiara disposto a prendersi cura di lui”. Secondo l’Autore la noncollaborazione non è solo una strategia difensiva, ma esprime soprattutto la ricerca di un
contenitore adeguato. Talvolta è l’ultimo tentativo del paziente prima dell’“abdicazione”,
nella forma di “soluzioni” deficitarie psicotiche.
Nell’approccio a questi pazienti, il lavoro di Bleger (‘66) sul setting come “depositario
della simbiosi”, permette di cogliere una distinzione tra registro e contenuto della relazione.
Il registro della relazione è quello che interessa maggiormente nel rapporto con i pazienti
non-collaborativi e richiede sostanzialmente la presenza affettiva del terapeuta. Questo registro è la cornice (non processo) depositaria della simbiosi, che potrà eventualmente permet-
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tere - in un secondo tempo - l’emergenza di un contenuto (processo), l’avvio di una collaborazione.
Tutto il libro è attraversato dalla particolare tenacia con cui viene sostenuto e teorizzato
il ruolo originale e fecondo che la psicoanalisi può avere nelle attuali istituzioni della salute
mentale. Va subito chiarito che tale ruolo esclude l’applicazione della tecnica psicoanalitica,
per ragioni di setting, ma anche di compatibilità e coerenza all’interno del “sistema dinamico” costituito dal centro di salute mentale. Richiede comunque allo psicoanalista lo sforzo di
evitare un uso imitativo (Gaddini) della psicoanalisi e di fare una “pericolosa equazione tra
teoria e pratica psicoanalitica”, operazioni che esprimono solo una tenace difesa contro gli
adattamenti e le trasformazioni che la vita istituzionale impone. L’Autore ci offre la possibilità di vedere in che modo riesce ad utilizzare il modello psicoanalitico al servizio
dell’istituzione in cui lavora in svariate situazioni: per comprendere come la cornice istituzionale determini la qualità delle relazioni e dei percorsi terapeutici; per attribuire significati
di ordine simbolico ed affettivo ad atti e “cose” concrete; per mantenere una sufficiente
“asimmetria” rispetto al paziente e all’istituzione; per cogliere nei “limiti” del contesto istituzionale “elementi di specificità e non di povertà”; naturalmente, nel saper “ascoltare” il
paziente.
Le preoccupazioni essenziali di un gruppo di lavoro psichiatrico - verso il quale l’Autore
mostra la massima cura - dovrebbero consistere nel mantenimento di una capacità di pensiero clinico e nell’attenzione costante ai livelli psicologici in gioco nelle relazioni terapeutiche, con particolare riferimento ai contenuti affettivi. Se questa è la vera specificità di un
servizio psichiatrico pubblico - passando così in secondo piano tutti quegli aspetti “concreti”
che affollano la vita delle istituzioni - si può capire come sia possibile che certi limiti, imposti primariamente dai processi economici, possano rappresentare uno stimolo e, talvolta, addirittura una risorsa, se riescono a promuovere creatività ed autenticità, anziché lamentazioni e rivendicazioni.
Sul piano più strettamente clinico, sia quando affronta temi specifici come la psicoterapia, sia quando delinea la cifra distintiva dello psicoanalista al lavoro nell’istituzione,
l’Autore privilegia soprattutto l’utilizzo delle capacità “negative”, secondo la prospettiva
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Letture
teorica bioniana, ossia quell’atteggiamento terapeutico che lascia tutto lo spazio possibile
alle risorse potenziali dei pazienti e del loro contesto ambientale.
Negli anni ‘70 G. Sacerdoti, uno psicoanalista impegnato per molti anni nell’istituzione
psichiatrica manicomiale che a quell’epoca era già in fase di inesorabile declino, aveva analizzato sistematicamente “fantasmi, miti e difese” dell’assistenza modellata sull’idea del
controllo e della custodia asilare. Mi piace pensare che il libro di Riefolo rappresenti una riflessione sui modelli attuali dell’assistenza territoriale, quando ormai si impone - secondo il
parere di molti - un consolidamento di quanto di buono la riforma psichiatrica italiana ha attuato negli ultimi vent’anni. Tale consolidamento, lontano da tentazioni regressive di spostare all’indietro la lancetta del tempo, può trovare una delle vie migliori attraverso lavori di
autentico spessore culturale e scientifico.
Va detto che questo libro, per il tipo di linguaggio che utilizza, pur nascendo profondamente dentro il lavoro istituzionale, è diretto soprattutto a chi si occupa di psicoanalisi ed
abbia a cuore la presenza di quest’ultima nel lavoro psichiatrico. Lo psicoanalista però - e
questa a mio avviso è una felice sorpresa - vi troverà elementi utili al suo lavoro nella stanza
d’analisi. Forse per la semplice ragione che se i pazienti rappresentano la fonte più preziosa
del nostro arricchimento teorico, quando le procedure di indagine condotte nel campo della
psichiatria sono condotte con passione, rigore e autenticità possono portare un contributo
estremamente originale sul piano clinico. A questo proposito segnalo il già citato capitolo
sui pazienti cosiddetti non-collaborativi, che pongono una sfida estrema a chi si occupa della loro cura, anche magari non riconosciuti - sul lettino analitico.
Quando, raramente, si incontrano psichiatria e psicoanalisi - almeno in Italia - è difficile
evitare due situazioni, quasi paradigmatiche. La prima è la riconferma del loro sostanziale
divorzio. La seconda è la visione sconsolata, da parte degli psicoanalisti che operano nei
servizi psichiatrici, dello stato di questi ultimi, per quanti sforzi possono da loro essere fatti
per introdurvi l’“oro” della propria disciplina. Leggendo il libro di Riefolo ci sono buoni
motivi per pensare che questa duplice trappola possa essere evitata e di confermare le ragioni di un’utile compenetrazione.
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Letture
Non marginalmente va segnalata la ricerca che l’Autore sta realizzando da alcuni anni
su nuovi linguaggi, che consentano un miglioramento delle possibilità di comunicazione e
di scambio nel campo clinico e teorico. E ognuno di noi sa bene quanto ce ne sia bisogno, se
consideriamo la stanca ripetizione che caratterizza molto spesso riunioni, seminari e convegni. In particolare attraverso lo strumento cinematografico - realizzando cortometraggi originali o rielaborando sequenze di film più o meno noti - vengono analizzate certe situazioni
o temi clinici, anche nel tentativo di stimolare affetti e pensiero di chi guarda e partecipa.
Puntualmente nelle note di quasi ogni capitolo il lettore troverà un rimando a questi lavori
“per immagini”, a completamento di quanto viene descritto nel testo. Anche questa operazione è condotta, a mio avviso, con autentico spirito psicoanalitico. È come se i film servissero al rifornimento simbolico di chi vi assiste, permettendo nuove conoscenze e accesso a
risorse emotive utilizzabili nel lavoro clinico. Qualcosa di simile a quanto accade in analisi
prima che il paziente sia in grado di sviluppare le sue metafore e di rappresentare anche oniricamente, anziché agire, i contenuti del suo mondo interno.
Un’ultima notazione riguarda il saggio dell’economista Paolo Sylos Labini che fa da introduzione al libro. Esso realizza un’altra felice “contaminazione”, nella quale ognuno si
mantiene fedele alle regole della propria disciplina, essendo accomunati soprattutto dalla
medesima tensione etica.
Luigi Ippedico
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Letture
LUIGI RINALDI (A CURA DI)
Stati caotici della mente. Psicosi, disturbi borderline, disturbi psicosomatici,
dipendenze
Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 349, euro 27,00.
Verso la fine del secolo scorso, scienziati come Hadamard e Poincaré incominciarono a
mettere in discussione gli ideali di previsione e completezza che avevano dominato i secoli
precedenti in relazione alle dinamiche celesti; ideali che con le rivoluzioni relativista e
quantistica vennero definitivamente accantonati, se non per piccole porzioni d’universo. Attualmente, le scienze fisiche si confrontano con sistemi dinamici che risultano estremamente
sensibili alle fluttuazioni infinitesimali - l’ormai ben noto effetto-farfalla - e tutto ciò ha
condotto alla nascita di un nuovo ramo della fisica: la dinamica del caos, dinamica che ha
contribuito a evidenziare come il cosmo stesso, lungi dall’essere definito, sia in realtà in
continuo farsi.
Uscita ormai dai confini della fisica, la dinamica del caos ha contribuito a modificare i
termini della spiegazione e della previsione anche in altri ambiti, ricercando regolarità e invarianze, discontinuità e instabilità, irreversibilità ed emergenze, che, lungi dall’essere segno dell’incertezza, mostrano invece la necessità di un confronto costante con il possibile ed
il divenire, in un universo dove la complessità è ormai un dato acquisito.
È in questo scenario che si inserisce Stati caotici della mente, il lavoro curato da Luigi
Rinaldi, che intende riportare “nel cuore stesso della psicoanalisi” sia privata che istituzionale, una riflessione nata negli anni ‘90 sotto gli auspici della SPI; riflessione che aveva
prodotto nel ‘97 Quale psicoanalisi per le psicosi? e nel ‘99 Psicoanalisi e Psichiatria, e
che qui, ancora una volta, intende confrontarsi con le aree più primitive della mente, quelle
aree in cui l’elaborazione simbolica non è ancora attiva.
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Nelle intenzioni del curatore, ricondurre la ricerca “nel cuore stesso della psicoanalisi” è
un atto dovuto contro la tendenza culturale contemporanea che, se da un lato si affida sempre di più all’intervento farmacologico, che soffoca la comprensione del disagio in nome
della rapidità del trattamento richiesta dalle compagnie assicurative, dall’altro si riflette sulla stessa psicoanalisi quando, nel tentativo di essere “attuale” ad ogni costo, liquida i suoi
propri fondamenti in favore di un processo “totalmente affidato alle capacità empatiche e
narratologiche dell’analista” (XVII). Per non parlare, poi, delle critiche che la evidence based medecine rivolge alla psicoanalisi rispetto alla scarsa verificabilità della sua efficacia,
qualora questa venga indagata con i metodi della scienza classica: critiche che rischiano di
favorire un’indebita estensione dei modelli fisico-matematici alla mente umana, proprio nel
tentativo di trovar riparo dalle accuse di non-scientificità.
Sono questi i motivi che, secondo Rinaldi, devono spingere ad aumentare la potenza
esplicativa dei modelli psicoanalitici, riducendone le differenze e facendoli “convergere, se
possibile, in un’unica grande teoria” (XVII), capace di dialogo con altre discipline e orientamenti, ma determinata a mantenere la specificità del proprio oggetto d’indagine: ed è a
questo obiettivo che i lavori raccolti nel testo tendono, aprendosi sì alle suggestioni provenienti dalla ricerca fisica, biologica, neuroscientifica, ma non perdendo mai di vista
l’estrema complessità, appunto, dell’essere umano.
Il volume si divide così in tre parti. La prima parte reca il titolo di Modelli di comprensione ed è aperta dal lavoro dello stesso Rinaldi: “Dal caos alla significazione”, nel quale il
curatore, identificando caos e spinte pulsionali, ordine e difese dell’Io, attribuisce
all’interpretazione psicoanalitica il compito non semplice di destrutturare le difese per favorire il processo di spontanea ri-strutturazione dello psichico. Ricerca poi proprio nell’effetto
farfalla il sostegno all’idea, da molti osteggiata, secondo la quale gli accadimenti dei primi
anni di vita influenzano l’evoluzione tutta dell’individuo, anche al punto di minare alla base
la formazione stessa del simbolo. È invece il setting, come analogon delle cure materne da
un lato, del divieto edipico dall’altro, a rendere possibile il passaggio al registro simbolico,
in questo caso deficitario a causa di un maternage inadeguato che ha finito per fissare il
soggetto in una modalità a “dominanza sensoriale”, magicamente autosufficiente.
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Letture
L’idea del setting come analogon della rêverie materna ritorna anche nel saggio di
Francesco Conrotto, per il quale è proprio la capacità di regressione simil-onirica
dell’analista a consentire il recupero di quel deficit di simbolizzazione che sempre accompagna il paziente psicotico, e la cui espulsione delle spinte pulsionali dall’Io, finisce per obbligarlo a vivere nell’immaginario, sotto la costante minaccia del ritorno persecutorio dei
significanti estromessi nel reale.
É in questo senso che, secondo Mina Arrigoni Scortecci, è opportuna, all’interno della
stanza analitica, una continua oscillazione tra progressione e regressione, intesa quest’ultima
non tanto come il recupero di antichi punti di fissazione, quanto, in senso biologico lato,
come un modo di riorganizzazione del Sé che si rende necessario dopo l’esperienza di eventi logoranti e di traumi cumulativi.
Si introduce così l’idea della coesistenza di aree diverse della mente che De Masi descrive nei termini di due tipi di inconscio, quello emotivo e quello dinamico, dai quali si sarebbero sviluppate le diverse forme di intervento psicoanalitico; e che Fiorella Petrì e Luigi
Rinaldi, fanno parallelamente risalire all’area del presimbolico e del simbolico, appartenenti
rispettivamente alle dimensioni della fusionalità e dell’Edipo: è proprio in questi casi, spiegano gli Autori, che l’introduzione di un holding di tipo sensoriale può fornire consistenza
al Sé del paziente e permettere di superare quel deficit di simbolizzazione che caratterizza le
patologie gravi. Significativamente, del resto, Racalbuto legge queste patologie - il riferimento è in particolare ai disturbi borderline - non tanto come patologie di confine tra nevrosi e psicosi, bensì come patologie del confine, vale a dire un funzionamento ai margini della
rappresentabilità e dell’elaborabilità.
Dati questi presupposti, gli Autori ci introducono alla seconda sezione del volume, che
intende occuparsi proprio di Clinica e teoria e che si apre con un inedito di Joyce McDougall, nel quale l’Autrice suggerisce che il ricorso a sostanze quali droghe, cibo, tabacco, tipiche delle forme di dipendenza, sia da considerare come una sorta di autocura che si realizza in assenza di introietti più adeguati, quegli stessi che soli potrebbero “contenere e confortare la pena psicologica o gli stati di eccitazione” (143): l’autocura diventerebbe così utile a
risolvere nell’immediatezza quelle emozioni, dalla rabbia all’angoscia all’eccitazione, che
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provocano un disagio insostenibile: è ciò che l’Autrice definisce una “soluzione psicosomatica”.
L’idea di una soluzione psicosomatica ritorna anche nei saggi successivi, di Hautmann,
Resnik, Borgogno, Thanopulos, Boccanegra, Magrini, Milella e Berti Ceroni, i quali, attraverso diverse evenienze cliniche, mostrano la necessità di riportare all’interno della riflessione psicoanalitica un corpo troppo spesso ostracizzato ed intellettualizzato, anche qualora
ciò significhi proprio “contatto fisico” tra analista e paziente.
La terza parte indaga, infine, il contributo della psicoanalisi nelle istituzioni, all’interno
delle quali, lungi dal ritagliarsi un proprio spazio operativo protetto, essa ha saputo invece
aumentare la propria potenza esplicativa, con l’obiettivo di affrontare le difficoltà che
l’incontro con le patologie gravi comporta; patologie gravi che molto efficacemente Anna
Ferruta definisce come “una resa a crescere e a sviluppare altri aspetti di fronte alle intimidazioni interne-esterne e una ricerca di rifugi irraggiungibili” (270). A questo proposito, ella
prende in considerazione alcuni elementi specifici dello strumentario psicoanalitico - setting, transfert, relazione terapeutica, formazione analitica degli operatori, ricerca teoricoclinica su aree non simboliche - nella forma che essi assumono nel contesto istituzionale.
Contesto all’interno del quale, come nota il curatore stesso nel saggio successivo, l’intera
équipe curante acquista una funzione produttrice di senso: il paziente psicotico deve cioè
poter fare esperienza nell’istituzione di un compagno vivo, capace di accogliere e nominare
emozioni indicibili, e non di una forma di intrattenimento vagamente riabilitativo, “ossia di
mantenimento del paziente e dei ‘curanti’ dentro l’autoriproduzione della malattia e della
‘cura’” (290).
Nel senso di un allargamento della portata esplicativa della psicoanalisi si muovono anche i saggi di Correale e di De Sanctis. il primo riprende alcune indicazioni di autori come
Damasio, Ricoeur e Stern sul senso del Sé, inteso come tonalità emotiva costante, per mostrare come sia possibile pensare anche ad una “psicoanalisi d’urgenza”, capace cioè di intervenire e contenere quell’emozione discreta - ossia legata alla contingenza - che in alcune
circostanze deflagra il Sé; in effetti, troppo spesso, nota successivamente De Sanctis, alla
psicoanalisi viene attribuito l’obiettivo del “comprendere”, mentre l’“intervenire” per otte-
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Letture
nere rapidamente risultati rimane in carico del più pragmatico approccio psichiatrico: quando invece proprio lo stesso intervento psichiatrico potrebbe avvantaggiarsi dell’esercizio di
lettura che la psicoanalisi può fornire. Questo è tanto più vero in un’epoca come la nostra in
cui l’aziendalizzazione delle istituzioni - e di questo tratta, in chiave di racconto-ricordo, il
lavoro di Barale che chiude il volume e che mostra in atto le possibilità della psicoanalisi
come strumento di comprensione - rischia di modificare sostanzialmente le dinamiche dei
gruppi al lavoro e far perdere di vista gli “aspetti più autentici dell’ispirazione psicoanalitica” (XXXVI).
Mariangela Villa
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Letture
Fratelli. Quaderni di psicoterapia infantile.
n. 47 a cura di MARIA LUISA ALGINI
Borla, Roma, 2003; pp. 299, euro 22,50
Questo volume frutto dell’apporto di colleghi italiani e stranieri, apre con sorprendente
ricchezza un territorio della vita psichica tanto importante quanto finora poco esplorato. Parlo di “territorio fraterno” per includere i diversi livelli e modalità di lavorare questo tema:
livello dell’esperienza concreta e specifica del rapporto fraterno così come si manifesta nella
clinica, o livello più astratto della teorizzazione sul “complesso fraterno”. A qualunque di
questi livelli gli autori si pongano, concordano nella necessità di non inglobare il complesso
fraterno nel complesso edipico e cercano di lavorare sull’articolazione tra i due.
Ponendosi il problema della strutturazione del soggetto e riconoscendo l’importanza capitale dell’Edipo come ordinatore delle differenze di sesso e di generazione, e del desiderio
in rapporto alla legge, cercano di cogliere nelle sue varie e possibili articolazioni
l’importanza della “presenza fondante di un altro, personificato in un fratello immaginario e
simbolico, di un doppio che garantisca la possibilità di disalienazione dal potere edipico e la
risignificazione dell’illusione inconscia di essere l’unico e perfetto figlio, che ha il compito
di salvare i genitori e di salvarsi dai genitori” (L. Kancyper, p. 287). Sicché, come ben sottolinea M. Luisa Algini “il legame fraterno sembrerebbe profilarsi piuttosto come un ‘passante’ tra Narciso ed Edipo, una specie di ‘binario di scambio’ tra il legame speculare e il rapporto d’oggetto” (p. 11).
Partendo da questo vertice, il volume offre una interessante rilettura dell’opera freudiana, a partire dai casi clinici di Hans, l’Uomo dei Topi e l’Uomo dei Lupi fino a Psicogenesi
di un caso di omosessualità femminile, proposta da M.L. Algini, per giungere
all’approfondimento del paradigma freudiano dell’identificazione fraterna di cui M. Macciò
e D. Vallino sottolineano quanto sia stato messo in ombra e sovrapposto al problema della
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Letture
identificazione col padre. Partendo da Psicologia delle masse e analisi dell’Io gli autori
esplorano le ramificazioni e le implicazioni che l’identificazione fraterna - orizzontale e reciproca - può avere nelle dinamiche di gruppo e istituzionali. Lavorando il pensiero di
Freud, R. Kaes torna sui primi passi della psicoanalisi e sulla sua storia, così strettamente
intrecciata a quella personale di Freud, ed al primo gruppo di psicoanalisti. Egli ci offre una
sottile e preziosa analisi degli effetti che il complesso fraterno - rimosso, scisso o incriptato
- ha prodotto nella fondazione della istituzione psicoanalitica.
A questo punto è bene ricordare con Kaes che quando diciamo complesso fraterno non
ci riferiamo semplicemente al rapporto tra fratelli ma ad una formazione inconscia; esso può
essere definito come “un insieme organizzato di rappresentazioni e di investimenti inconsci,
costituito partendo da fantasmi e rapporti intersoggettivi nei quali la persona prende il suo
posto di soggetto desiderante” (p. 15), nella complessa rete delle collocazioni che il soggetto
occupa, fantasmaticamente, insieme ai fratelli reali o immaginari, in rapporto all’oggetto del
desiderio della madre e/o del padre. Le necessità di fondazione hanno indotto Freud a porre
l’accento sulla questione del padre e ad occultare in parte la dimensione del complesso fraterno nell’elaborazione clinica e teorica della psicoanalisi, anche se, in Tolem e Tabù, si
evidenzia una oscillazione importante tra complesso di Edipo e complesso fraterno.
È per noi fondamentale lavorare su questa oscillazione e comprendere il valore di organizzatore psichico di entrambi i complessi. A tal proposito trovo molto pertinente
l’interrogativo che alcuni autori del libro si pongono, partendo dall’esperienza clinica, di
come affrontare questo problema nella dinamica del trasfert-controtranfert. Con accenti e
angolazioni differenti, a seconda che trattino problemi individuali (L. Schacht, B. Massimilla, R. Jaffè) o di gruppo (E. Di Bella) o di figli adottivi (C. Artoni Schlesinger e A. Chierici)
o di gemelli (E. Lecourt) o di problemi di clinica transculturale (M. R. Moro, Kouakou
Kouassi), gli autori mettono in luce l’importanza del controtransfert fraterno nell’attivare
“forze paritarie non antagoniste”, ridurre l’ambivalenza affettiva per costruire una “piattaforma identificatoria ... secondo movimenti puntiformi che alternano sequenze di pensiero
simmetrici a sequenze di pensiero asimmetrici” (B. Massimilla, p. 121). Immergendosi in
un legame speculare e simmetrico di tipo fraterno, l’analista può diventare efficace interpre-
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Letture
te di stati emotivi primitivi e, “purché le due identità all’interno dello spazio analitico possano riemergere... , favorire l’amplificazione della funzione simbolica” (R. Jaffè, p. 135).
Affrontando il problema della gemellarità in una prospettiva transculturale, M.R. Moro
e Kouakou Kouassi sottolineano quanto sia importante il fatto che, nei gemelli, il legame filiale (essere figlio di) e il legame fraterno (essere fratello o sorella di) si costituiscano allo
stesso tempo. Questo fatto produce conflittualità tra i due processi e spesso assicura una
maggiore importanza al legame fraterno rispetto a quello della filiazione; ciò “consente probabilmente di comprendere in parte perché i gemelli possono minacciare i genitori con la loro stessa presenza” (p. 199) tanto che, in alcune culture, essi diventano oggetto di timore reverenziale e perciò di adorazione, ma anche di paura ed angoscia che sfociano, in alcune
pratiche culturali, nell’uccisione di uno o di entrambi i bambini. Proseguendo nello studio
della gemellarità, E. Lecourt si domanda, a sua volta, come mai, dato il legame speciale che
c’è fra i gemelli, essi manifestino spesso forti inibizioni sociali. L’autrice distingue, nei gemelli, due tipi di “fraternità”: una “fraternità arcaica”, associata alla indifferenziazione e a
una comunicazione intensa fra i due psichismi che produrrebbe una sorta di telepatia, e una
fraternità marcatamente “conflittuale” che produrrebbe una forte spinta alla differenziazione
nella coppia. I fantasmi di intrusione del medesimo e di impossibilità della unicità, propri
della fraternità arcaica, produrrebbero pertanto un atteggiamento difensivo responsabile delle inibizioni sociali dei gemelli.
Particolare interesse riveste, a mio avviso, l’articolo di P. Denis sul rapporto tra relazioni fraterne e omosessualità che sottolinea l’importanza dell’omosessualità psichica (distinta
da quella agita), nella strutturazione del soggetto e il ruolo che in questo processo ha il passaggio dalla rivalità fraterna all’investimento omosessuale dei fratelli prima e dei coetanei
poi. Certamente tale processo è favorito in primo luogo dal padre, se è in grado di instaurare
con i figli un rapporto d’amore desessualizzato ma, soprattutto nel periodo di latenza,
l’esperienza di giochi sessuali fra fratelli e sorelle consente una modulazione, una ripresa, e
una ulteriore elaborazione delle fantasie inconsce che non è stato possibile elaborare nei
confronti dei genitori. Anche O. Bourguignon mostra quale può essere il ruolo del legame
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Letture
fraterno nella capacità di stabilire legami con gli altri e nella costituzione della socialità
umana.
Il volume è arricchito sia dallo stralcio autobiografico di E. Rodriguè sulla propria esperienza infantile di figlio minore tra molti fratelli e sorelle, sia dall’apporto di una insegnante,
D. Cavola, che servendosi di un’ottica psicoanalitica, mette in luce, con grande sensibilità,
come l’incontro a scuola con nuovi “fratelli di gruppo” ripropone al bambino nodi cruciali
della sua esperienza del fraterno e può aiutarlo nella elaborazione dei fantasmi ad essa connessi.
Nel volume sono anche affrontati alcuni aspetti del fraterno nella cultura sia da P. G.
Conti, che propone una rilettura molto stimolante di Fratelli di C. Samonà, sia da D. Zazzo,
che indaga l’importanza che ha avuto il rapporto col fratello nella vita di S. Weil. Infine, attraverso una rilettura dell’opera di Borges, L. Kancyper ripropone alla nostra attenzione il
problema della articolazione tra complesso edipico e complesso fraterno, investimento narcisistico e investimento d’oggetto. Questo lungo saggio, ricchissimo di sollecitazioni e di
spunti, si conclude con una disamina degli aspetti trofici e degli aspetti mortiferi del complesso fraterno: se l’alleanza fraterna può fornire il giusto contropotere per opporsi al mitico
Kronos, essa può essere ostacolata da un eccesso di rivalità e di rancore paranoide, per cui il
soggetto non riconosce l’altro come differente o somigliante, ma solo come un nemico da
combattere e distruggere ad ogni costo (Caino e Abele). Secondo questo autore, in ogni caso, il complesso fraterno rappresenta “un’altra via regia per la chiarificazione ed il superamento delle strutture edipiche e narcisistiche” (p. 288) che lungi dall’essere contrapposte
devono trovare un’articolazione il più possibile armoniosa nella vita psichica dell’uomo.
Maria Grazia Minetti
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1925, 314). Ove sia necessario evitare equivoci il cognome dell’autore sarà seguito dall’iniziale del nome:
(Freud, A. 1936).
Importante: Gli autori avranno cura di controllare che ad ogni riferimento bibliografico nel testo corrisponda
la relativa voce in bibliografia e che d’altra parte non ci siano voci bibliografiche a cui non corrisponda un rimando nel testo.
I lavori di Freud saranno citati in conformità all’edizione Boringhieri e dunque saranno seguiri in bibliografia
dalla sigla OSF, seguita dal numero del volume:
! La bibliografia generale sarà disposta per ordine alfabetico, secondo i seguenti esempi esplicativi:
Gori, C.G. (1992) Parola e interpretazione in psicoanalisi. Franco Angeli, Milano.
Se ci sono due o più autori i loro nomi saranno indicati in successione separati da una virgola:
Aliprandi, M.T., Pelanda, E., Semse, T. (1990) Psicoterapia breve di individuazione. Feltrinelli, Milano.
Se c’è un curatore:
Genovese, C. (a cura di) (1988) Setting e processo psicoanalitico. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Se il lavoro compare in un libro curato da persona diversa dall’autore:
Isaacs, S. (1952) The Nature and Function of Phantasy. In: Rivière, J. (Ed.) Developments in Psycho-Analysis.
Hogarth Press, London.
Se il lavoro è pubblicato in una rivista:
Auteri, M.C. (1994) La fusione del detto e del mostrato nell’eruzione del processo maniacale. Psicoterapia
Psicoanalitica, 1, 1, 82-93.
Le opere in lingua straniera tradotte in italiano saranno indicate secondo gli esempi seguenti:
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Winnicott, D.W. (1949) Mind and its Relation to the PsycheSoma. Brit. J Med. Psychol. 37, 1954. Tr. it.
L’intelletto ed il suo rapporto con lo psiche-soma. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze
1975.
Oppure:
Winnicott, D.W. (1949) L’intelletto ed il suo rapporto con lo psiche-soma. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975.
A ciascun autore verrà messa a disposizione una copia del numero su cui è comparso l’articolo.
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