Le prime donne fotografe e Caterina Unterveger - Riviste

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Le prime donne fotografe e Caterina Unterveger - Riviste
Riproduzione di stampa. Il cieco suonatore di violino.
(Stampa su carta albuminata da lastra alla gelatina-sali d’argento)
Una pioniera nella storia
di un’arte che nell’800
muoveva i primi passi.
Uno sguardo
ad una professione
che fu anche veicolo
di emancipazione
personaggi
S
Si è spesso sottolineato giustamente che negli anni in cui si assistette allo sviluppo della fotografia, la
situazione culturale e sociale delle
donne era tale da rendere loro difficile l’accesso alle principali attività artistiche professionali. Poche
artiste riusciranno a emergere nella seconda metà dell’Ottocento, e
ancora meno saranno le fotografe.
Oltre alla condizione culturalmente svantaggiata delle donne, occorre tenere presente che la fotografia, negli anni del collodio umido, richiedeva precise competenze
non solo artistiche ma soprattutto
chimiche. Le macchine erano pesanti, le attrezzature complesse, i
il Trentino
Le prime donne fotografe
e Caterina Unterveger
di Gigliola Foschi
solventi chimici per lo sviluppo pericolosi e difficili da maneggiare.
Per di più occorreva spostarsi sempre con un’ingombrante camera
oscura portatile (quale, ad esempio, quella perfezionata da Giovanni Battista Unterveger). Solo a
partire dal 1871 le nuove lastre alla
gelatina-bromuro d’argento, grazie
alla loro praticità, soppiantarono il
collodio con tutta la sua complessità d’uso: un’innovazione che in teoria avrebbe potuto permettere alle donne un più facile accesso alla
professione. Ma all’epoca tale professione richiedeva anche l’apertura di uno studio, con quel che ne
conseguiva: capacità imprendito-
riale, possibilità di investimento
economico… Tutte condizioni che
inevitabilmente rendevano difficile, per non dire impossibile l’emergere di donne fotografe come professioniste dotate di una loro visibilità e autonomia.
Oltretutto bisogna ricordare che,
nella seconda metà dell’Ottocento, lo statuto della fotografia non
era ancora ben definito, tanto da
rendere difficile la sua collocazione: fra le arti o fra le tecniche? Ebbene, la propensione generale era
quella di vedere in essa una pratica non tanto artistica, quanto industriale o artigianale. Non tutti ovviamente erano d’accordo. E infat59
Cane accucciato. (Stampa su carta ad emulsione da lastra alla gelatina-sali d’argento)
ti, già nel 1852 Gustave Le Gray
protestava: “Mi auguro che la fotografia invece di ricadere nell’ambito industriale o del commercio,
rientri piuttosto in quello artistico. Qui è il suo unico vero posto.”
Ma Le Gray rappresenta un’eccezione. E in ogni caso lui operava in Francia, dove la situazione
artistica e sociale era decisamente più avanzata rispetto all’Italia o
all’Impero austro-ungarico. Infatti in questi due Paesi – vale a dire
quelli in cui si trovò a vivere e lavorare la nostra Caterina Unterveger – la fotografia continuava a essere sostanzialmente intesa come
un medium artigianale, adatto per
documentare la realtà e riprodurre in modo efficace le opere d’arte. Poco propensi a lanciarsi in originali avventure creative e stilistiche, i fotografi italiani e austro-un60
garici erano in larga maggioranza
impegnati a svolgere con perizia
il loro mestiere. Più che seguire le
correnti artistiche europee cercavano di tenersi sempre aggiornati
in merito alle innovazioni tecniche
che si susseguivano con grande rapidità. Invece di affannarsi a creare immagini originali e quindi ben
riconoscibili grazie a particolari cifre stilistiche autoriali, apparivano
più prosaicamente dediti a costruire un archivio di buone fotografie
adatte per la vendita, come dimostrano i grandi atelier fotografici
che si aprirono in tutta la Penisola, compreso quello degli Unterveger di Trento. In tali atelier lavoravano allievi e dipendenti abituati a
seguire i precetti tecnici ed estetici
del fondatore con una cura tale da
rendere spesso difficile una chiara distinzione dei diversi contribu-
ti. In sintonia con la cultura positivista dell’Ottocento, la fotografia
veniva utilizzata e apprezzata come uno strumento capace di documentare opere d’arte, monumenti, paesaggi naturali, con maggior
veridicità e minor costo e rispetto all’opera dei pittori e degli incisori che in precedenza si erano cimentati su quegli stessi temi. Queste fotografie documentarie richiedevano, di conseguenza, l’adozione di precise regole visive, così da
evitare deformazioni prospettiche
o “bizzarrie” estetiche o espressive: la distanza tra il fotografo e il
monumento doveva risultare all’incirca il doppio dell’altezza dello
stesso; le linee non dovevano essere oblique o cadenti; le vedute panoramiche mai troppo elevate, così
da mantenersi in sintonia con i codici rappresentativi dell’epoca. E
il Trentino
Riproduzione di stampa. Caino e Abele.
(Stampa su carta albuminata da lastra alla gelatina-sali d’argento)
così via. In un simile contesto – dove il nome di un fotografo emergeva soprattutto grazie alla sua capacità tecnica e al numero di immagini ben eseguite che arricchivano
il suo catalogo – quale poteva essere dunque il ruolo delle donne?
Se, come ricordavamo prima, risultava praticamente impossibile per
una donna l’apertura di un proprio autonomo atelier fotografico,
il Trentino
questo non significava però che le
fosse precluso l’accesso alla pratica della fotografia. Tutt’altro. La situazione artigianale e da piccola
impresa famigliare degli atelier risultava infatti perfetta per l’inserimento delle donne in vesti di comprimarie, come appunto accadrà
anche a Caterina Unterveger, sorella del celebre Giovanni Battista, pioniere della fotografia tren-
tina. E il suo non è certo un caso
isolato. Ecco solo qualche esempio
al riguardo.
Fox Talbot – lo studioso e scienziato inglese che mise a punto il processo fotografico positivo-negativo, e pubblicò il celebre libro The
Pencil of Nature – stampava e faceva riprese fotografiche assieme
alla moglie Constance. Mentre Disdéri, il famoso inventore della carte de visite, lavorò sempre in stretta collaborazione con la moglie Elisabeth.
In Trentino, come sottolinea Katia
Malatesta (1), troviamo tra le prime donne impegnate nell’arte del
dagherrotipo, Elisabetta Brosy, moglie di Ferdinand Brosy, che fu maestro di Giovanni Battista Unterveger. L’attività del fotografo roveretano Luigi Chiesura (1864-1913)
fu, dopo la sua morte, proseguita dalla vedova. Mentre Giuseppe
Brunner (1871-1951), già apprendista dello studio Unterveger, venne affiancato dalla figliastra Alice.
A Milano, Carlotta Rovelli – moglie di Giovan Battista Garzini,
proprietario dal 1863 di uno dei
più promettenti studi fotografici
milanesi – dirigeva lo studio, teneva i contatti con i clienti, preparava sviluppatori, viraggi, emulsioni e soprattutto eseguiva lei stessa
le operazioni di ripresa durante le
prolungate assenze del marito (2).
Rimasta vedova a soli trentacinque anni, invece di perdersi d’animo, fronteggiò con tenacia la concorrenza di almeno altri trenta studi fotografici, fino a venire invitata
a riprendere la Famiglia reale durante il suo soggiorno alla Villa di
Monza.
All’Esposizione Internazionale
dell’Industria di Parigi del 1886 ricevette la medaglia d’argento per
il suo lavoro, e addirittura quella d’oro all’Esposizione di Colonia
del 1889. Celebre per i suoi ritratti, realizzò anche numerose immagini di riproduzioni d’arte, di qua61
dri e architetture (come la trentina
Caterina Unterveger) così da costituire un archivio di fotografie utili
per studiosi e critici d’arte.
Certo, la maggior parte delle donne dell’Ottocento impegnate nella fotografia professionale erano le mogli, le figlie, le sorelle dei
proprietari degli studi fotografici,
e i loro nomi di conseguenza non
compaiono nel gotha della fotografia dell’epoca, così come, per altro,
non vi sono entrati neanche quelli di molti altri collaboratori degli
studi, per quanto di sesso maschile. E quand’anche i nomi di queste donne fossero emersi, probabilmente le loro immagini non avrebbero espresso un originale punto di vista femminile: le regole e i
dettami della professione fotografica dell’epoca erano infatti troppo forti – ricordiamolo – per lasciare spazio a creazioni marcatamente individuali.
Gli acquirenti delle fotografie pretendevano immagini concepite secondo un canone preciso, e non invenzioni originali che da quel canone si scostassero o peggio ancora lo contestassero. Per trovare
donne libere di esprimersi con la
macchina fotografica si deve dunque guardare altrove, e cioè al
mondo del non-professionismo, là
dove la fotografia non rappresenta
più un lavoro per procacciarsi i soldi di cui vivere, ma una passione
e un’occasione espressiva vissuta
certo con grande impegno, ma innanzitutto senza assilli economici.
Non è un caso, dunque, se le prime
due donne fotografe che entreranno a pieno titolo nella storia della
fotografia saranno due aristocratiche signore delle classi abbienti dell’Inghilterra vittoriana: Julia
Margaret Cameron (1815, 1879) e
Lady Clementina Hawarden (1822,
1865). Entrambe, seppur con grandi differenze, trasformano la realtà familiare che le circonda in un
mondo in cui proiettare sentimenti
ed emozioni intime (3).
Invece di documentare la realtà
adeguandosi a precise regole prospettiche, creano liberamente dei
tableaux-vivants, e per farlo utilizzano come soggetti figlie, amici o
parenti. “La carbonaia fu trasformata in camera oscura, il pollaio
in atelier, i barcaioli in altrettanti Re Artù, le ragazze del villaggio
in altrettante regine Ginevra, Tennyson fu ammantato di coperte e il
capo di Sir Henry Taylor fu cinto di
orpelli, mentre la cameriera posava per il suo ritratto e gli ospiti rispondevano al campanello” – racconta Virginia Woolf (4), nel descrivere il lavoro di Julia Margaret
Cameron.
Ed ecco quindi riemergere prepotente in queste opere proprio
quell’espressività, quell’inventiva, che non poteva trovare posto
nel mondo prosaico della professione fotografica. Lady Hawarden,
ad esempio, troverà nella fotografia lo strumento perfetto per sovvertire il modo di guardare il corpo femminile tramandato dall’arte
occidentale. Al punto di anticipare
le riflessioni sull’identità femminile
che furono proprie di molte autrici successive (da Claude Cahun a
Germaine Krull, fino a Cindy Sherman e alle molte autrici contemporanee).
È in ambito amatoriale, dunque,
che emergono le prime vere “firme” di donne fotografe, i primi nomi da inserire nella storia della fotografia. Ma il criterio che pretende di verificare il “peso” della presenza femminile nell’ambito fotografico sulla base dell’emergere
di un nome preciso, di una firma,
non sempre si dimostra adeguato.
Per comprendere il mondo professionale degli atelier fotografici ottocenteschi, infatti, occorre abbandonare proprio questa logica autoriale del nome che deve risultare
a tutti i costi. Solo così potremo valutare a pieno la presenza femminile negli studi fotografici dell’Ottocento, rimanendo stupiti e ammirati per come fosse ampia e ramificata. E in questo modo riusciremo
anche ad apprezzare l’importanza
e il ruolo di una figura come Caterina Unterveger.
(1) Katia Malatesta, Caterina Unterveger e la presenza femminile nella storia
della fotografia trentina. In: Album 5, Caterina Unterveger (1830-1898).
Una donna nella storia della fotografia trentina, Archivio Fotografico
Storico, Provincia Autonoma di Trento, p.10-11.
(2) Cfr. il saggio di G. Ginex e C. Cerchioli, I Nostri Antenati: Carlotta, Udina
e Carla: Milano 1863-1956; in: AFT-Semestrale dell’archivio fotografico
toscano, Anno II, Numero 4, Dicembre 1986.
(3) Per maggiori approfondimenti sull’opera di Clementina Hawarden, cfr. il
saggio di Federica Muzzarelli dedicato a questa autrice sul n. 11, anno IV,
delle rivista Around Photography.
(4) Virginia Woolf, Immagini, Liguori Editore, Napoli, 2002, p.135.
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il Trentino