Il disaccordo delle immagini: fotografia/politica

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Il disaccordo delle immagini: fotografia/politica
Il disaccordo delle immagini:
fotografia/politica
Marcello Walter Bruno
La politica non è fatta di rapporti di potere,
è fatta di rapporti di mondi
Jacques Rancière
Non fare mai miei i compiti
o le dichiarazioni del governo […]
NIENTE POLITICA, di nessun tipo
Walker Evans
Le immagini sono un antagonista politico popolare
perché si può fare una dura opposizione contro di loro,
ma a fine giornata tutto è rimasto più o meno come prima
William J.T. Mitchell
Il regime post-estetico delle immagini è caratterizzato per Jacques
Rancière da tre forme espositive di immaginità: la nuda immagine, da
intendere come una rappresentazione della realtà spogliata di intenti artistici, e dunque destinata a una fruizione “muta”, eticamente impossibilitata
all’esegesi; l’ostensione, da intendersi come operazione in cui l’oggetto
d’arte è esibito come merce storicamente etichettata, dunque in qualche
modo incontrovertibile, non (più) negoziabile; la metamorfosi, da intendersi
come l’operazione produttiva/critica in cui l’oggetto d’arte è interscambiabile con l’oggetto d’uso comune, la cultura alta diventa indistinguibile
dalla cultura di massa pur nella presupposizione di una distanza etica/
estetica. Essendo queste tre forme suscettibili d’incroci e collisioni, il
giudizio politico sulle singole opere non potrà prescindere dalla specifica
operazione concettuale: ad esempio Godard, smontando e rimontando la
storia/le storie del cinema in base al principio barthesiano del punctum,
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opera la metamorfosi di immagini ostensive, aprendo il repertorio cinematografico a nuove (rivoluzionarie?) possibilità di frasi-immagini. Resta il
fatto che la “nuda immagine”, per quel certo suo carattere di oggettività
implicitamente anonima (anche in presenza di firme prestigiose), sembra
darsi come forma non mediata, per ciò stesso immediatamente votata alle
reazioni politiche più veloci. È possibile mettere in discussione l’ideologia
dell’arte ostentata o metamorfizzata nelle installazioni museali, ma come
contestare il valore storico – per ciò stesso politico – del puro documento visivo votato all’assoluta referenzialità? Questo significa innanzitutto
accettare una premessa semiologica: la nuda immagine non è un’icona,
è un indice. L’immaginità politica è la fotografia.
L’inimmaginato viene fotografato per la prima volta il 6 aprile 1945. È
quella la data in cui l’ebreo francese Éric Schwab – fotografo di moda prima
della guerra – entra nel campo di concentramento di Ohrdruf, dando l’avvio
alla documentazione visiva (incontrovertibile, benché residuale) dell’atroce
realtà del genocidio nazista. Le sue immagini – così come quelle dei reporter
embedded nelle truppe americane – chiariscono il tragico rapporto che lega le
“nude immagini” alla “nuda vita” dei lager. Rancière, in effetti, ha in mente
e negli occhi la mostra del 2001 Memoria dei campi, il cui visitatore non può
certo ricondurre lo sguardo verso coordinate estetiche: la nudità metafisica
dei corpi, spogliati di vestiti e di vita ma programmaticamente anche di nome
e dignità umana, è davvero «bruta presenza priva di significazione»1, orrore
che esclude qualunque gratificazione artistica. Eppure, il governo americano
ha deciso d’inviare per la documentazione non degli onesti professionisti
qualsiasi, ma il fior fiore della fotografia artistica: all’epoca Lee Miller, già
musa di Man Ray, è una delle firme di “Vogue” (che pubblicherà il reportage
da Buchenwald sotto il titolo Believe it); Margaret Bourke-White, redattore
capo della rivista “Fortune”, ha firmato la copertina del primo numero di
“Life” (1936) e cofirmato col marito Erskine Caldwell l’importante volume You have seen their faces (1937); George Rodger è corrispondente di
“Life”. Davvero queste persone producono immagini prive d’intenzione
artistica, magari inconscia? George Rodger, autore della famosa foto in cui
il ragazzino sopravvissuto cammina lungo una strada alberata di BergenBelsen costeggiata dai cadaveri, dichiarerà in seguito (quando, dopo la
creazione della Magnum, preferirà l’Africa all’Europa): «Quando mi sono
accorto che guardando l’orrore di Belsen – 4.000 morti e affamati stesi
un po’ ovunque – non pensavo ad altro che a una buona inquadratura, ho
capito che mi era successo qualcosa e che questa cosa doveva finire. Avevo
1
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J. Rancière, Il destino delle immagini, tr. it., Pellegrini, Cosenza 2007, p. 54.
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l’impressione di essere come uno di quelli che dirigevano il campo – e non
aveva nessun senso»2.
Il problema di Rancière, però, non è l’origine delle immagini – quello
che W.J.T. Mitchell chiama il loro desiderio – bensì il loro destino pubblico,
il loro rendiconto all’interno del discorso sociale, della logosfera politica.
In questo contesto, nessuna forma d’immaginità può rinchiudersi nella
propria logica, tanto meno la “nuda immagine” il cui valore testimoniale
voglia assurgere alla trascendenza dell’esemplarità. Se la foto di Rodger3
in cui una guardia delle SS di Bergen-Belsen trasporta il cadavere di un
detenuto verso una fossa comune – una composizione in cui la testa del
nazista sembra quasi appartenere al corpo acefalo dell’ebreo – è un’immagine esemplare della comune disumanizzazione della vittima e del boia, lo
è perché «noi la vediamo con lo sguardo che ha contemplato il vitello sgozzato di Rembrandt»4. Del resto, già l’“Illustred London News” del 28 aprile
1945, pubblicando le fotografie di Bergen-Belsen realizzate dall’esercito
britannico, usava un titolo che era esplicitamente un’interpretazione estetica:
Like a Doré drawing of Dante’s Inferno5. Anche l’orrore ha bisogno di una
chiave di lettura, appiattendo l’immagine nuda sull’immagine ostensiva.
Anche l’Olocausto non sfugge all’intertesto.
Ora, che rapporto c’è fra nuda immagine e politica, fra inimmaginato e
inimmaginabile? W.J.T. Mitchell, in un saggio del 2005 dedicato al “terrorismo clonazionale” (cloning terror), nota come «la logica dell’inimmaginabile
e dell’inenarrabile, rinsaldata dalla censura e dal diniego, consiste semplicemente nel clonare immagini vietate e nell’amplificare il discorso offensivo»6:
la politica terrorista delle decapitazioni su Internet tende ad ammutolire l’Occidente col raccapriccio, ma solletica una curiosità che prima era soddisfatta
solo dagli snuff movie; la politica statunitense della censura su episodi come
quelli di Abu Ghraib tenta di non far diffondere immagini “emblematiche” (dicibili), ma un’icona come quella dell’incappucciato (hooded man) si diffonde
in varie versioni, che finiscono col trasformare quel personaggio anonimo in
una versione musulmana del Cristo torturato (ecce homo). Anche qui, come
si vede, l’immagine pretesa “nuda” è presto preda di narrazioni infinite – e
proprio lungo la linea associativa delle “ostensioni” intertestuali.
2
Citato in AA.VV., Memoria dei campi, tr. it., Contrasto, Roma 2001, p. 140.
Riprodotta a p. 123 del catalogo Memoria dei campi, cit.
4
J. Rancière, Il destino delle immagini, cit., p. 59.
5
Riproduzione alle pp. 120-121 di Memoria dei campi, cit.
6
W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, tr. it., :duepunti, Palermo 2008,
p. 179.
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Che l’immagine orrorifica parli da sé è esattamente l’assioma di tutta
una politica dello svelamento della retorica verbale (ad esempio patriottica)
mediante la presa-visione della realtà (ad esempio quella della guerra e dei
suoi effetti). Un esempio storicamente importante è quello del volume Krieg
dem Kriege!, pubblicato nel 1924 in versione internazionale (testo in tedesco, inglese, francese e italiano) dal pacifista spartachista Ernst Friedrich7.
Le foto della prima guerra mondiale, che andranno a costituire il primo
museo politico dell’epoca moderna (l’Anti-Kriegs-Museum di Berlino, poi
chiuso dai nazisti), sono rigorosamente anonime, perdipiù prive dell’indicazione di data e di luogo: sono davvero nude immagini che parlano da sole,
“espressive” nel senso di Mitchell; senonché l’inenarrabile è narrato non
solo dal montaggio concettuale cronologico (dalla partenza per il fronte
alle trincee, dalle prime linee alle città bombardate, dai campi lunghi ai
primi piani – quei volti devastati che ispireranno i ritratti di Francis Bacon
del secondo dopoguerra) ma anche e soprattutto dalle didascalie, evidente
riappropriazione ideologica delle nude immagini, ermeneutica politica
della “muta” verità fotografica. L’impaginazione oppone spesso la foto di
sinistra a quella di destra: da un lato la parata militare, dall’altra i cadaveri
sul fondo della trincea; i riservisti in treno vs il treno distrutto; il soldato in
posa nello studio fotografico vs il soldato ucciso trascinato dai commilitoni.
L’opposizione non è solo cronologica, fra un prima trionfalistico e un dopo
segnato dalla morte e dalla disumanizzazione: alle volte gli accostamenti
sono più direttamente politici, mettendo in relazione la bella vita delle alte
gerarchie (il kaiser che ispeziona il fronte, il principe ereditario che passeggia
coi suoi levrieri, ufficiali che pasteggiano in terrazza o brindano sorridenti)
con l’orrore dei campi di battaglia (corpi dilaniati, scomposti, ammucchiati).
Siamo in pieno montaggio delle attrazioni: in un colpo d’occhio, il lettore
è costretto alla connessione fra l’élite che pensa la guerra e le masse che la
devono fare subendone le conseguenze mortali. Ogni doppia pagina è un
sintagma parallelo, concepito non alla Griffith ma alla Ejzenštejn (o alla
Kubrick di Orizzonti di gloria, 1957). Ovviamente, un ulteriore montaggio
è quello logo/visivo: le didascalie non sono puramente informative, ma
instaurano con le foto una dialettica esplicitamente ideologica, tra l’humor
noir (spesso ottenuto con l’uso di citazioni dalla propaganda bellica) e l’informazione scientifica (esempio: la definizione del rigor mortis per spiegare
la posa di un soldato con le braccia irrigidite verso l’alto).
Krieg dem Kriege! è forse il primo libro fotografico firmato non dall’autore
delle immagini ma dal progettista dell’impaginato, che è anche il seleziona-
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E. Friedrich, Guerra alla guerra, tr. it., Mondadori, Milano 2004.
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tore delle foto e lo scrittore delle didascalie: l’immagine è una materia prima
che rimanda direttamente al referente rappresentato – e proprio in questo
consiste la sua “nudità”, la sua fuoriuscita dal campo estetico come campo
extrapolitico. Curiosamente, il libro di Friedrich è contemporaneo al Mein
Kampf di Hitler, testo di un oratore che è affascinato più dalle parole che
dalle immagini, più dalla radio che dal cinema, e dal cinema solo a partire dal
sonoro (in Trionfo della volontà, 1936, si può dire che le immagini sono “di”
Leni Riefenstahl ma le parole sono “di” Hitler): la sinistra internazionalista
crede nel linguaggio senza langue della cine/fotografia, la destra nazionalista
crede nella lingua come radice della comunità. Diremo dunque che la verità
fotografica è sempre rivoluzionaria e invece – accettando la lezione di Barthes
– la lingua è fascista? Diremo che la retorica verbale vela necessariamente
la realtà mentre il documento iconico la s-vela nella sua nudità?
Detto il debito del libro di Friedrich con il montaggio cinematografico
(sia “orizzontale”, per la sua escalation d’orrore dall’immagine-percezione
all’immagine-azione all’immagine-affezione, sia “verticale” per il mix
scrittura/fotografia), bisogna aggiungere che il concetto stesso di “documentario” (documentary come sostantivo e non più solo aggettivo) nasce
in ambito cinematografico: la leggenda vuole che il termine compaia per la
prima volta nel 1926, in una recensione di John Grierson a L’ultimo Eden
di Flaherty. Ben presto il termine viene acquisito dal dibattito fotografico,
in un’epoca in cui la critica al pittorialismo sembra ribaltare i valori della
artisticità come manipolazione (ritocchi, fotomontaggi, flou, uso della gomma bicromata ecc.) nella ricerca della pura meccanicità: la “nudità” della
straight photography sarebbe innanzitutto rinuncia all’extra-fotografico, a
ciò che poi si sarebbe chiamato “elaborazione dell’immagine” (image processing). Non si tratta qui di discutere il carattere ossimorico dell’espressione
“arte documentaria” (o, come preferisce Walker Evans, documentary style)
ma piuttosto di accennare allo slittamento politico della nozione: le stesse
caratteristiche formali sembrano infatti applicarsi tanto alle catalogazioni
scientifiche (Albert Renger-Patzsch, Karl Blossfeldt) quanto al reportage
sociologico (da Jakob Riis e Lewis Hine fino agli archivi della Farm Security Administration). Certo, è curioso pensare che nell’Unione Sovietica
di Ejzenštejn, Vertov e Rodčenko non esista una “corrente documentaria”
degna di essere menzionata nelle storie della fotografia:
Principalmente, il documento in Unione Sovietica ritrova il suo
senso di assoluta negazione dell’arte, con la sola differenza che questa
posizione extra artistica, anziché essere condannata, viene celebrata
come istanza rivoluzionaria. Nella dottrina sovietica il concetto di
documento significa soprattutto un duplice superamento della conFATA MORGANA
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cezione borghese dell’immagine. Da una parte perché sostituisce
l’opera unica e individuale, e la sua pretesa di sintesi, con una raccolta
di informazioni visive semplice e generalizzata, di natura collettiva;
dall’altra perché trasforma la pura ricerca estetica nella produzione
di immagini utili alla costruzione di una nuova società […]8.
La patria del reportage “umanistico” sarebbero dunque i democratici
Stati Uniti della crisi post ’29 e del New Deal: il documento è qui commissionato dal governo e ha dunque già da subito un alone propagandistico (da
ciò probabilmente il “NIENTE POLITICA” di Walker Evans, da intendere
come rivendicazione d’indipendenza dell’artista rispetto a qualunque forma
di embedding). La forma documentaria, con le sue caratteristiche di straight
photography in opposizione al pittorialismo, è comunque dissociata dall’idea
dei temi sociali, tant’è che Stieglitz – trovandosi nella prima classe di un
piroscafo e guardando la scena dei poveri immigrati respinti da Ellis Island
– vede non l’ingiustizia sociale (come avrebbe visto un Lewis Hine) bensì
un quadro di forme:
un cappello di paglia rotondo, il fumaiolo inclinato verso sinistra,
la scala inclinata verso destra, il ponte mobile con i corrimano di
catena arrotondata, le bretelle bianche incrociate sulla schiena di un
uomo sul ponte di terza classe in basso, forme circolari di macchinari
di ferro, un albero [della nave] che si stagliava nel cielo ritagliando
una forma triangolare9.
Ecco perché la celebre foto Ponte di terza classe (1907) rimane a suo
modo un’eccezione nell’opera di Stieglitz10: il puro formalismo dell’Arte
resta lontano da un genere inquisitorio come il documento di “denuncia”,
buono per poliziotti e sociologi: per l’artista “puro” l’umanità conta meno
della Natura, che per Stieglitz comprenderà i cieli nuvolosi degli Equivalenti
ma anche il corpo nudo di Georgia O’Keefe. Eppure, se solo si mettesse
fra parentesi il paratesto costituito dal nome dell’autore e dalle sue dichiarazioni a margine, questa fotografia che spazializza i rapporti di classe e li
comprime in un unico colpo d’occhio, non figurerebbe in un’esposizione di
8
O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia, tr. it., Electa, Milano 2008, p. 29.
Citato in G. Clarke, La fotografia. Una storia culturale e visuale, tr. it., Einaudi, Torino
2009, p. 193.
10
Per una lettura “barocca” di questa foto cfr. J.-M. Floch, Forme dell’impronta, tr. it.,
Meltemi, Roma 2003.
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“immagini nude”? Diverso è il caso della Neue Sachlichkeit – rappresentata
esemplarmente dal libro di Renger-Patzsch Die Welt ist schön (1928, solo
quattro anni dopo lo sconvolgente volume anti-guerra di Friedrich, e contemporaneo a Urformen der Kunst di Blossfeldt) – che la rivista comunista
“Der Arbeiter-Fotograf” attacca poco prima che il nuovo clima nazista
seppellisca tutte le avventure moderniste:
“Il mondo è bello [die Welt ist schön]”, o perlomeno la fotografia
borghese moderna, con il suo immenso dispiegamento di raffinati
mezzi tecnici, tenta di persuaderci che su questa terra regnino la pace
e l’armonia. Si è scoperto “l’Oggetto”. Si “fa esperienza visiva” di
puntine di grammofono, specchi concavi, ammassi di pietrisco, cime
di cavolo tagliate, tastiere di macchine per scrivere, e si chiama tutto
ciò “Nuova Oggettività”. Sfortunatamente però questi artisti fotografi
“oggettivi” della borghesia hanno dimenticato l’uomo, l’uomo che
soffre, l’uomo oppresso che lotta […]. Questa “Nuova Oggettività”
fugge la realtà preferendole un gioco astratto e formale, un mondo
idilliaco dell’oggetto che, in realtà, non ha niente di obiettivo se porta
a credere che un minuscolo e insignificante frammento di immagine
del mondo sia “l’immagine del Mondo” […]. Si gettano alle masse,
cui è precluso l’accesso alla bellezza del mondo, immagini di tale
bellezza come succedaneo perché tacciano […]. No! Il mondo non è
affatto bello! Sarà brutto e ripugnante finché esisteranno oppressori
e oppressi11.
La foto politica è allora quella brutta? O, perlomeno, quella in cui si
rappresenta la dialettica fra oppressori e oppressi? E come si presenterebbe una tale foto? Prendiamo il ritratto Joe Henry. Un servitore benvoluto
di Matthew Brady (1865): questo soldato negro, isolato in una zona del
campo militare in cui risalta la spazzatura sull’erba, denuncia in qualche
modo la segregazione razziale all’interno dell’istituzione militare? Oppure
pensiamo agli archivi di August Sander distrutti dai nazisti: insisteremo
sul fatto che quel repertorio di donne e uomini tedeschi sono anti-hitleriani
per il fatto stesso di non conformarsi allo stereotipo della razza ariana, o ci
accontenteremo della versione per cui la persecuzione di Sander era dovuta
alla militanza comunista del figlio? L’emblema stesso della guerra di Spagna
vista da occhi antifranchisti, ovvero il miliziano morente di Capa, quali valori
perde e quali acquisisce qualora la foto venga giudicata da un fascista? Se il
11
Citato in O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia, cit., pp. 59-61.
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genere documentario oscilla fra stile e temi, cosa dire del genere “fotografia
politica”? Gisèle Freund, la fotografa Magnum allieva di Adorno e amica
di Benjamin, distingue la fotografia giornalistica (categoria in cui inserisce
i reportage di guerra di Fenton e Brady ma anche quelli sociologici di Riis
e Hine, il lavoro collettivo della Farm Security Administration e l’ italianissima specializzazione “scandalistica” dei paparazzi) dalla “fotografia come
strumento politico”: le manipolazioni possibili in fase di preproduzione,
produzione e postproduzione rendono difficile la distinzione informazione/
propaganda, portando alla conclusione che «l’obiettività dell’immagine è
solo un’illusione»12.
Se l’immagine-supposta-sapere soggiace alla fallacia referenziale di qualunque segno che si tiri fuori dalla logosfera umana, allora valore documentale
e denuncia politica si scindono internamente (creando per esempio uno “stile
documentario” non necessariamente umanistico e un “intento propagandistico” non necessariamente progressista) e si distaccano reciprocamente.
Se la politicità non ha nulla a che vedere con la cogenza extraestetica della
“nuda immagine”, dove collocare questa possibilità d’intervento? Evidentemente abbiamo bisogno di una definizione filosofica della politicità stessa.
Se intendiamo la comunità politica come la comunità divisa sulla base di
un disaccordo costitutivo, se «vi è politica solo grazie all’interruzione e
all’originario movimento che istituisce la politica come il dispiegamento di
un torto o di un litigio fondamentale»13, allora la fotografia accede al livello
dell’intervento politico quando rappresenta visivamente questo disaccordo.
Prendiamo in esame la foto di Margaret Bourke-White14 che rappresenta la
fila per il pane durante le alluvioni di Louisville nel Kentucky (1937): l’immagine, in formato panoramico, è subito scindibile in una parte inferiore
“indexicale” (una fila di donne e uomini negri, con in mano borse o secchielli,
che procede dal fuoricampo di sinistra verso il fuoricampo di destra) e una
parte superiore “iconica” (un billdoard tipico delle propagande governative
degli anni Trenta, che da sfondo murale della fila). L’immagine è dunque
una meta-immagine, e solo a questo titolo è pienamente politica: ciò che è in
gioco è infatti il disaccordo fra l’ideologia governativa (dichiarata nello slogan
«There’s no way like the American Way» ovvero «WORLD’S HIGHEST
STANDARD OF LIVING») e il documento giornalistico. Il cartellone pubblicitario presenta una famigliola bianca tutta unita (padre sorridente con
12
13
14
G. Freund, Fotografia e società, tr. it., Einaudi, Torino 2007, p. 137.
J. Rancière, Il disaccordo, tr. it., Meltemi, Roma 2007, p. 34.
Riprodotta alle pp. 136-137 di M. Bourke-White, Il mio ritratto, tr. it., Contrasto, Roma
2003.
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cappello, madre sorridente con cappellino, figlia sorridente con cappellino,
figlio sorridente e cagnolino) all’interno di un’auto di media cilindrata che
viaggia in un paesaggio collinare, dunque in direzione di una vacanza; l’indice
fotografico presenta gente di colore raggruppata casualmente come massa
afflitta da una necessità. Il genio della foto consiste nella composizione dei
due gruppi economico-razziali: i negri sfilano in primo piano come pedoni
che stanno per essere investiti dalla grande automobile borghese della famiglia wasp; l’american way si rivela una strada a doppia velocità, in cui un
gruppo sociale fa investimenti e un altro li subisce.
Se il potere ha a che fare con la visibilità, ovvero con una distribuzione
simbolica dei corpi che li divide nelle due categorie di coloro che vediamo e coloro che non vediamo; se «la politica è in primo luogo il conflitto
intorno all’esistenza di una scena comune, sull’esistenza e sulla qualità di
coloro che sono presenti su questa scena»15; se, più precisamente, chiamiamo “polizia” un ordine del visibile e del dicibile che fa sì che un’attività
sia visibile e un’altra non lo sia16 mentre chiamiamo “politica” dei modi
di soggettivazione che creano soggetti del torto «trasformando identità
definite nell’ordine naturale della ripartizione delle funzioni e dei ruoli
in istanze di esperienza conflittuale»17; allora vediamo che una fotografia
“poliziesca” è segnaletica di un preteso disordine, mentre una fotografia
“politica” tende a essere una carta di dis-identità. Prendiamo ancora una
volta una foto di Margaret Bourke-White, quella scattata nel 1950 in un
campo di squatters neri a Johannesburg, nel Sudafrica dell’apartheid e
dello sfruttamento imperialista: non solo quei bambini neri aggrappati al
filo spinato guardano nel controcampo assoluto in cui siamo collocati noi
(gli spettatori-modello: bianchi occidentali, dunque complici); ma noi, che
confrontiamo intertestualmente questa immagine con l’altra famosa degli
ebrei dietro il filo spinato (scattata dalla stessa autrice a Buchenwald solo
cinque anni prima), siamo costretti a percepire un’analogia politica dietro
l’autocitazione artistica. Nonostante tutto, sembra che Bourke-White sia
riuscita a rispondere alla sua stessa domanda: «Come devi comportarti
quando disapprovi totalmente lo stato di cose che stai fotografando?»18.
Una foto politica è una foto in disaccordo.
15
J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 46.
«La polizia non è tanto un “disciplinamento” dei corpi quanto una regola del loro apparire», ivi, p. 48. «Il regime dell’opinione riconosciuta e dell’esibizione permanente della realtà
è oggi, nelle società occidentali, la forma ordinaria della polizia», ivi, pp. 49-50.
17
Ivi, p. 54.
18
M. Bourke-White, Il mio ritratto, cit., p. 290.
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Ma può la bellezza parlare del torto? Se anche Salgado può essere accusato di estetizzazione del dolore – lui che «vuole assolutamente riconciliare
estetica e informazione, estetica e impegno, estetica e politica»19 –, come
salvare l’onore politico delle immagini dall’inevitabile accusa di inevitabile mercificazione? L’eredità francofortese (le critiche di Benjamin a
Renger-Patzsch) si sviluppa fino al punto d’ispirare strategie di scomparsa
dell’immagine fotografica come prova o punto di partenza per un’effettiva
estetica politica. Primo esempio: la mostra di Alfredo Jaar Real Pictures,
organizzata al Museum of Contemporary Photography di Chicago l’anno
dopo del genocidio hutu contro i tutsi ruandesi (1994).
Dalle migliaia di fotografie scattate in Rwanda, Jaar ne selezionò
attentamente sessanta, mostrando diversi aspetti del genocidio: i
massacri, i capi dei profughi, la distruzione delle città. Quindi “seppellì” ogni foto in una scatola di lino nero, sulla quale era serigrafata
in bianco una descrizione dell’immagine all’interno. Queste scatole
erano accatastate in “monumenti” di varie forme e misure. Il lavoro
completo consisteva di 550 fotografie a colori in altrettante scatole
di lino nero20.
Siamo al cimitero delle immagini, alla tomba dei media, alla testimonianza dell’impossibilità di presentare l’impresentabile: la performance
espositiva non si fa compensazione complementare del silenzio della tv e
della stampa internazionale, diventa invece una metacomunicazione in cui il
documento visivo conta proprio in relazione al suo occultamento rituale, in
disaccordo con la censura degli organi d’informazione21. A questa strategia
della foto che c’è-ma-non-si-vede possiamo abbinare quella della foto che
non-c’è-ma-si-vede: l’esempio è quello della scultura monumentale (datata
1999-2000 e realizzata in cera bianca, resina e rame) esposta in Lussemburgo da Pascal Convert col titolo Sans titre (inspirée de Veillée funèbre au
Kosovo, photographie de Georges Mérillon). Questo muro di cera bianca,
che si presenta quasi come il negativo di una foto ma in grandezza naturale,
non può essere considerato il raggelamento di un frame televisivo (benché
di quelle immagini della guerra in Kosovo esistano delle versioni video),
19
C. Caujolle, Alla luce della Storia, introduzione a S. Salgado, Sebastiao Salgado, tr. it.,
Contrasto, Roma 2004.
20
D. Levi Strauss, Politica della fotografia, tr. it., Postmedia, Milano 2007, p. 96.
21
Sul carattere “intollerabile” dell’opera di Jaar cfr. J. Rancière, Le spectateur émancipé,
La fabrique, Paris 2008.
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semmai la rielaborazione scultorea (e in certo modo teatrale) di una foto già
catalogabile come opera estetica (Mérillon ricevette il premio World Press
Photo 1990). Eppure il filosofo Georges Didi-Huberman, richiamando un
concetto di “destino delle immagini” che sembra ancorare le pictures ai
media e i media agli stereotipi sociologici, relega l’immagine indexicale al
destino della documentazione del contingente, riservando all’icona monumentale la possibilità dell’espressione emblematica:
L’opera di Convert e la fotografia di Mérillon appartengono indubbiamente a luoghi diversi della cultura e non esistono nemmeno
secondo un’epoca comune: è a quest’epoca, quindi, che si dovrà innanzitutto fare appello, attraverso le due regioni, all’apparenza molto
distanti, che sono le opere d’arte e le immagini di guerra22.
Indubbiamente, una mossa filosofica molto poliziesca, quella di contrapporre a un genere tematico (il reportage di guerra come filone del fotogiornalismo) una qualità estetica che sembra ontologicamente autoconsistente,
non definita jakobsonianamente da funzioni semiotiche: la politica delle
immagini è qui costituita dal torto che ripartisce destini naturali fra soggetti
ipostatizzati. Ma se «ciò che le immagini vogliono da noi […] è un’idea di
visualità appropriata alla loro ontologia»23, allora bisognerà evitare il falso
sillogismo per cui – stabilito che “nuda immagine” è solo la fotografia – ne
consegue che la fotografia è solo nuda immagine. Anche nella democrazia
delle immagini (da non confondere con i governi di partiti-immagine) il
male è il chiunque, «l’evidenza nuda dell’anarchia ultima su cui riposa ogni
gerarchia»24. Una filosofia politica dell’arte dovrebbe mostrare – anche a
Didi-Huberman, indubbiamente – che il principio dell’uguaglianza vige
anche fra le immagini, e che il torto costitutivo delle belle arti tradizionali
nei confronti dei media tecnici non fa altro che fotografare il disaccordo
nell’iconosfera contemporanea.
22
G. Didi-Huberman, Costruire la durata, in AA.VV., Del contemporaneo. Saggi su arte
e tempo, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 44.
23
W.J.T. Mitchell, Pictorial turn, cit., p. 158.
24
J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 37.
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