QUI - Control Mastery Theory Italian Group
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La centralità dell'adattamento: emozioni primarie, funzionamento motivazionale e moralità tra neuroscienze, psicologia evoluzionistica e ControlMastery Theory di Emma De Luca, Cristina Mazza, Francesco Gazzillo © La Control-Mastery Theory (CMT) è una teoria psicodinamica-cognitiva di natura relazionale (Silberschatz, 2005) del funzionamento mentale, della psicopatologia e della psicoterapia sviluppata da Joseph Weiss (1993) e Harold Sampson e studiata empiricamente dal Mount Zion (ora San Francisco) Psychotherapy Research Group (Weiss, Sampson, & The Mount Zion Psychotherapy Research Group, 1986). Tra i fondamenti teorici della CMT si possono rintracciare la centralità della motivazione all'adattamento e l'ipotesi di un funzionamento mentale inconscio di livello superiore. Entrambe queste ipotesi godono ormai di un solido sostegno empirico proveniente dagli studi neuroscientifici e di psicologia evoluzionista e cognitivista. Scopo di questo lavoro è fornire una panoramica generale, quanto più aggiornata possibile, di alcune di queste ricerche. 1. La selezione multilivello I teorici dell’evoluzione naturale si sono da sempre interessati ai processi che consentono all’individuo di adattarsi al proprio ambiente. Possiamo immaginare la teoria della selezione naturale di Darwin (1859) come fondata su tre assunti (Wilson, 2007): a differenze o variazioni individuali corrispondono delle conseguenze nella possibilità di sopravvivere e riprodursi in un dato ambiente. I tratti, influenzati dai geni, che nel tempo si sono mostrati più adattivi vengono poi trasmessi attraverso un meccanismo ereditario, garante di sopravvivenza e riproduzione. In altre parole, all’interno di una popolazione gli individui si distinguono per la composizione genetica e per l'abilità di sopravvivere e riprodursi. Coloro che hanno più successo nella sopravvivenza e riproduzione trasmettono più materiale genetico alla generazione successiva permettendo così l’adattamento di una data specie al proprio ambiente, se i cambiamenti di questo ambiente non sono troppo rilevanti. Una caratteristica fondamentale dell’evoluzione umana è poi rappresentata dall’eusocialità, cioè da un’elevata organizzazione sociale acquisita solo da alcune specie animali e che permette agli individui di riunirsi in gruppo e ricavare una maggiore quantità di risorse dall’ambiente che li circonda, cosa che garantisce una migliore difesa da predatori o invasori esterni. Fino a qualche decennio fa, la biologia evoluzionista ha cercato di spiegare l’evoluzione umana, compresa l’eusocialità, attraverso le leggi della selezione di parentela detta anche fitness inclusiva (Hamilton, 1966). In base a questa teoria, individui legati dagli stessi geni cooperano tra 1 loro in maniera disinteressata in quanto, favorendo la sopravvivenza di individui legati da un stretto grado di parentela, garantiscono la trasmissione dei propri geni alla generazione successiva. Negli ultimi anni, tuttavia, una nuova teoria si è aggiunta alla teoria della fitness, quella della selezione multilivello (Wilson, 1978; Wilson, Wilson, 2008). Secondo questa teoria, esistono più spinte selettive che procedono parallelamente – genetica, individuale, gruppale. La selezione multilivello prevede un’interazione tra la selezione dei tratti che favoriscono i singoli individui e la selezione dei tratti che favoriscono invece la sopravvivenza del gruppo. La selezione dei tratti che favoriscono il gruppo evolve insieme a quella che favorisce il singolo poiché, in determinate circostanze, la cooperazione e il sostegno reciproco permettono ai gruppi, e ai singoli che ne fanno parte, di sopravvivere e di avere più successo riproduttivo degli individui isolati. La fitness genetica di ogni individuo, ossia il numero di discendenti fertili, dipende quindi tanto dalla selezione individuale quanto da quella gruppale. Dunque, anziché parlare di contrapposizione tra selezione individuale e selezione gruppale sarebbe più opportuno pensare all’interazione complessa tra due processi di selezione distinti che si sono evoluti perché entrambi, nel tempo, hanno permesso agli individui di sopravvivere e trasmettere più efficacemente i propri geni. Anche se all’interno di un gruppo un individuo egoista può avere più successo di quello altruista, un gruppo con più individui altruisti cresce di dimensioni più di un gruppo composto da individui per lo più egoisti, contribuendo così ad accrescere il numero di individui altruisti all’interno della specie. L’ipotesi a favore di un tipo di selezione che, parallelamente a quella individuale, favorisca quei tratti che permettono all’individuo di cooperare all’interno di un gruppo viene illustrata in maniera piuttosto chiara da un esperimento di William Muir (2013) sulla produttività delle galline in gabbia. Con l’obiettivo di aumentare la produttività delle galline da allevamento, Muir seleziona due tipi di gabbie, ognuna contenente dodici galline. Da una parte seleziona le galline che singolarmente si erano mostrate più produttive per riunirle in unica gabbia, dall’altra seleziona il gruppo di galline che, nel suo insieme, aveva mostrato di essere più produttivo. Dopo alcune generazioni, delle dodici galline iniziali nella prima gabbia ne rimanevano solo tre, mentre la numerosità della seconda era rimasta intatta. L’“egoismo” individuale, anziché condurre a un successo evolutivo del gruppo, si era mostrato disadattivo: le galline sembravano molto competenti nella riproduzione, ma il successo di una poteva avvenire solo attraverso la competizione con le altre. E la lotta tra le “galline eccellenti”, alla lunga, aveva portato alla moria del gruppo. Al contrario, la seconda gabbia conteneva le galline che fin dall’inizio avevano mostrato di sapere convivere in gruppo grazie a tratti che erano stati ereditati dalle generazioni precedenti. Un esperimento simile è stato condotto da Wilson e colleghi (2007) su un gruppo di studenti ai quali venne chiesto di risolvere un compito, prima in gruppo e poi singolarmente o viceversa. In generale, la performance del gruppo risultava migliore quando si aumentava la difficoltà, ma un dato interessante proveniva dai migliori giocatori solitari. Questi, infatti, sebbene quando competevano da soli avessero performance decisamente al di sopra della media, nel momento in cui si trovavano a far parte del gruppo si ponevano come leader autoritari abbassando di molto la performance del gruppo stesso. Proprio come 2 nell’esperimento delle galline, all’interno di un gruppo il singolo “egoista” può prevalere su gli altri solo a discapito del resto del gruppo, mentre un gruppo formato da individui che collaborano meglio tra loro ha più possibilità di successo. Questa interazione tra la selezione dei tratti che favoriscono il singolo individuo e la selezione dei tratti che favoriscono il gruppo è stata peraltro piuttosto rara nella storia della vita sulla terra in quanto i vantaggi dati dalla selezione gruppale devono essere estremamente potenti per allentare la forza dei tratti che favoriscono il singolo. La selezione di gruppo può avere la meglio sulla selezione individuale, infatti, solo quando il tasso di crescita dei gruppi con membri “altruisti” (che cooperano) supera il tasso di crescita degli individui “egoisti” (che non cooperano) (Wilson, 2012). La selezione individuale è funzione della “lotta per la sopravvivenza e la riproduzione” di individui appartenenti a uno stesso gruppo, quella di gruppo della “lotta tra gruppi diversi”, intesi come unità. “Gli individui competono tra loro e questa competizione premia l‘egoismo, che comprende alcune forme di cooperazione strategica (…) ma al tempo stesso anche i gruppi competono tra loro, e questa competizione favorisce quelli composti da individui con un’autentica attitudine al lavoro di squadra, disposti a collaborare e ad adoperarsi per il bene degli altri membri, (…) questi due processi hanno spinto la natura umana in direzioni differenti e ci hanno dotati della curiosa mescolanza di egoismo e altruismo che conosciamo oggi” (Haidt, 2012, pp. 240-241). La selezione multilivello permette di alleggerire la competizione tra individui che fanno parte di uno stesso gruppo spostandola all’esterno, creando una forte contrapposizione tra in-group e out-group e una competizione spesso feroce tra gruppi rivali. Studi di Social Cognition mettono in evidenza come nelle relazioni tra gruppi sociali si registri la tendenza a spiegare i comportamenti delle persone in modo da favorire il proprio gruppo, che viene descritto sotto una luce migliore. Per lo più, i successi dei membri del proprio gruppo sono attribuiti a cause interne stabili (es. bravura, intelligenza) mentre la riuscita di un altro gruppo viene prevalentemente spiegata attraverso cause esterne (es. fortuna). L'inverso accade per i fallimenti. Questo processo di attribuzione causale è noto come group-serving bias (Bianchi, Di Giovanni, 2000). 2. L’uomo come primate sociale Tre capacità psicologiche sono risultate essenziali nell’evoluzione della specie umana come specie eusociale: la capacità di attenzione condivisa, la consapevolezza della necessità di cooperare per raggiungere un obiettivo comune e lo sviluppo della capacità empatica. La capacità di leggere le emozioni altrui, cooperare in vista di un obiettivo comune e prevedere le azioni altrui favorisce infatti una cooperazione più efficace tra i membri di un gruppo e stabilisce un vantaggio enorme sugli altri gruppi. La selezione gruppale ha quindi favorito una serie di capacità e motivazioni pro-sociali che favoriscono il gruppo nel suo insieme e tendono a favorire comportamenti di cura e sostegno reciproco. 3 Per quanto riguarda la condivisione delle intenzioni risulta molto interessante l’ipotesi dell’occhio cooperativo sviluppata presso il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Tomasello, Hare, Lehmann, Call, 2007). Una serie di esperimenti mostra la differenza tra primati e bambini nel seguire lo sguardo altrui. Mentre i primi sembrano più interessati a seguire lo sguardo altrui quando è la testa a compiere un movimento, i bambini sono portati fin da subito a seguire lo sguardo quando è l’occhio a muoversi. Secondo gli autori, tale differenza deriverebbe fondamentalmente da una diversità nell’organizzazione sociale dei primati e degli uomini. I primi costruiscono infatti sistemi sociali in cui gli individui dominanti sottomettono e puniscono i loro subordinati, mentre le società umane si fondano fondamentalmente sulla cooperazione e condivisione delle intenzioni in vista di uno scopo comune. Se, dunque, fissare lo sguardo di un primate non umano può rappresentare una sfida che può sfociare in una contesa, e quindi in una perdita per uno dei due contendenti, possiamo invece ipotizzare che gli uomini abbiano dovuto affinare la capacità di seguire con lo sguardo i propri simili per poter condividere informazioni e comunicare la propria intenzionalità. Tomasello (2007) attribuisce una funzione analoga alla capacità, tipica della specie umana e non degli altri primati, di indicare un oggetto a un’altra persona. Numerosi esperimenti evidenziano come la condivisione dell’intenzionalità sia già presente all’età di dodici mesi. In uno dei più celebri esperimenti al riguardo (Liszkowski et al., 2004), un bambino è portato a richiamare l’attenzione di un adulto su un oggetto. L’adulto risponde in quattro modi: 1) guardando l’oggetto 2) mostrando un’attivazione emotiva senza però guardare l’oggetto 3) non mostrando alcun tipo di reazione 4) guardando alternativamente bambino e oggetto e mostrando un’attivazione emotiva. I bambini di un anno di età appaiono soddisfatti solo dalla quarta risposta, mostrando dunque un desiderio di condividere sia l’interesse sia l’attenzione verso uno stesso oggetto con l’adulto. Quando gli uomini hanno cominciato a fare affidamento l’uno sull’altro per la propria sopravvivenza è diventato sempre più importante non solo condividere gli uni con gli altri le intenzioni, ma anche i sentimenti. Recenti studi sull’empatia (Decety, 2011) mostrano come gli uomini condividano con gli altri mammiferi alcune aree cerebrali subcorticali che hanno a che vedere con i comportamenti di attaccamento e accudimento e la cui stimolazione produce un’attivazione empatica. Tuttavia, a differenza degli altri mammiferi l’uomo è in grado di empatizzare non solo con parenti o conoscenti stretti, ma anche con perfetti sconosciuti. Questa evoluzione della capacità empatica sarebbe frutto dell’interazione delle aree subcorticali che hanno a che vedere con l’accudimento e alcune aree della neo-corteccia che contribuiscono a creare forme flessibili e generalizzate di empatia verso altri individui. Recentemente, la scoperta dei neuroni specchio ha contribuito a consolidare l’ipotesi di una base biologica della capacità empatica: i neuroni specchio sono infatti una classe particolare di neuroni visuomotori originariamente scoperti nella corteccia prefrontale che si attivano sia quando l'animale compie un'azione finalizzata sia quando osserva un altro animale compiere la stessa azione (Rizzolatti, Craighero, 2004). Lo sviluppo della capacità empatica ha dunque contribuito ai processi di selezione gruppale che si basano su forme di cooperazione e altruismo reciproco. 4 Anche l'imitazione inconscia, cioè la naturale tendenza ad adottare la postura o il comportamento dell'altro con cui siamo in interazione, anche se estraneo e completamente sconosciuto, sembra avere la funzione adattiva di facilitare le interazioni sociali e di incrementare la propensione (simpatia) e la comprensione dell'altro. Questa imitazione incrementa la possibilità di stabilire relazioni piacevoli e armoniose all’interno del gruppo. Molti sono i comportamenti sociali che vengono messi in atto senza che vi sia un'intenzionalità e una scelta consapevole, movimenti e postura del corpo compresi. In un esperimento, ad esempio, Chartrand e Bargh (1996) hanno disposto i partecipanti a coppie con dei complici degli sperimentatori al fine di lavorare su un compito legato alla realizzazione di un progetto fotografico che minimizzasse il contatto oculare o lo scambio verbale tra loro. Le sessioni erano videoregistrate. I risultati hanno mostrato che quando il complice dello sperimentatore muoveva la testa, anche il suo partner eseguiva lo stesso movimento, mentre un altro complice in un'altra coppia eseguiva un movimento differente, per esempio muoveva il piede. I soggetti eseguivano lo stesso comportamento motorio del proprio partner e non quello messo in atto da complici assegnati ad altre coppie. Tutte queste capacità sono svolte, in larga misura, senza che ne siamo consapevoli; detto in altre parole, la nostra menta è pre-programmata ad adattarsi alla realtà, soprattutto a quella interpersonale, a livello inconscio prima ancora che a livello cosciente. La specie umana, nonostante la sua evoluzione, resta un mammifero e un primate con una serie di affetti e motivazioni di base che si sono evolute grazie alla selezione naturale; la coscienza e le capacità cognitive superiori si sono aggiunte a questo bagaglio ma non lo hanno sostituito. In generale, la selezione multilivello, individuale e gruppale, prevede che ogni persona, nelle proprie azioni, sia guidata da una serie di motivazioni e propensioni interne che nel tempo hanno favorito la sopravvivenza e la riproduzione tanto del singolo quanto del gruppo. Siamo istintivamente portati a non toccare quello che sembra essere poco sano, a rifuggire gli spazi stretti e bui dai quali risulta difficile scappare e a preferire panorami ampi, con una vista sul verde e su fonti di acqua. Siamo spinti, in maniera “istintiva”, a prenderci cura degli altri, soprattutto se sono cuccioli e bisognosi di protezione, e a reagire con violenza quando vediamo frustrato un nostro bisogno fondamentale. Queste propensioni sono fondamentalmente inconsce, e possono portare a scelte a prima vista irrazionali, ma la cui causa ultima è sempre rappresentata dal bisogno dell’individuo e del gruppo di sopravvivere e riprodursi in un dato ambiente. Viviamo però in un ambiente variabile e siamo in grado, in larga misura, di plasmare le nostre propensioni innate a seconda delle condizioni in cui ci troviamo ad agire e delle nostre esperienze passate, in particolare dei primi anni di vita. Una capacità presente, in una certa misura, anche in altri primati superiori, come evidenziato brillantemente dagli studi di Steve Suomi (2006) sulle scimmie rhesus. Queste scimmie, fondamentalmente sociali, trascorrono i primi anni con la madre per poi cominciare gradualmente a socializzare con gli altri membri. Tra queste scimmie, ogni generazione presenta una piccola frazione di scimmie maschio, soprannominate “mad monkeys”, che presenta comportamenti “fuori controllo” e “antisociali”. Inizialmente 5 scacciati dalla madre, questi esemplari non trovano accoglienza neppure tra i pari. Gli studi di Suomi individuano alla base di questo comportamento una particolare deviazione genetica che sembra aumentare nel tempo in quanto, nelle femmine, produce caratteristiche positive che garantiscono il raggiungimento di uno status elevato. Ad ogni modo, Suomi sottolinea che non tutti i maschi di scimmie rhesus dotate di questo gene presentano dei comportamenti antisociali. Quale elemento permette ad alcuni esemplari di sviluppare determinate caratteristiche e ad altri no? Studi approfonditi rivelano che le differenze riguardano esclusivamente l’ambiente di accudimento primario. Alcune madri sembrano infatti capaci di promuovere nel figlio comportamenti adeguati, mentre altre falliscono in questo compito lasciando che i figli sviluppino le caratteristiche antisociali favorite dal loro patrimonio genetico. Per concludere, gli studi di Suomi appena citati sono un esempio lampante dell’“interaction effect” (Wilson, 2007), in cui un dato comportamento risulta causato da un particolare gene che interagisce con un determinato ambiente. E le nostre esperienze infantili, in particolare quelle con le figure di accudimento primario, plasmano il nostro comportamento e danno vita ai molteplici aspetti della personalità umana. Le figure di accudimento primario sono quelle che, quando ancora siamo immaturi e privi di esperienza, ci insegnano chi siamo, come funziona il mondo, quello che possiamo aspettarci e come dobbiamo comportarci. Ci insegnano cosa sia la realtà e la “moralità”. E i loro insegnamenti assieme al loro esempio plasmano le manifestazioni dei nostri “istinti” e del nostro “temperamento”. 3. I sette sistemi emotivo-motivazionali di Jaak Panksepp Le ricerche neuroscientifiche di Jaak Panksepp e del suo gruppo di ricerca (Panksepp, Biven, 2012) possono aiutarci a chiarire come, a partire da una serie di emozioni e comportamenti innati, frutto dell’evoluzione della specie, prendano forma i diversi comportamenti e le varie sfaccettature della personalità umana (Panksepp, 2006). Panksepp e collaboratori hanno infatti indagato gli effetti dell’attivazione di una serie di aree subcorticali comuni agli uomini e alle altre specie di mammiferi, in particolare il giro periacquedottale, l'ipotalamo e il talamo mediale. Queste regioni del cervello, se stimolate, producono affetti molto intensi, di carattere positivo o negativo, ed è all'attivazione di queste aree che Panksepp riconduce le emozioni di base che, con lo sviluppo, vanno a costituire i diversi sistemi motivazionali. A questo livello, la valenza positiva o negativa delle emozioni promuove comportamenti istintuali dal valore adattivo. “Le interazioni che evocano affetti piacevoli aiutano gli animali a sopravvivere e riprodursi, (...) le esperienze della vita che evocano affetti dolorosi mettono in pericolo la capacità di sopravvivere e riprodursi” (Panksepp, Biven 2012, p. 23). 6 Panksepp descrive tre tipi di processi emotivo-motivazionali. I processi primari, istintivi, corrispondono a questi stati emotivi di base, comuni ai diversi mammiferi, che orientano il comportamento nel qui ed ora sulla base della ricerca di emozioni piacevoli e dell'evitamento degli stati emotivi spiacevoli. Tali processi primari vengono collocati a livello delle aree subcorticali sopracitate. I processi secondari, localizzati principalmente a livello del sistema limbico, sono invece frutto delle connessioni che si creano a partire da queste emozioni di base e che permettono di costruire delle memorie e apprendere dalle nostre esperienze per mezzo dei processi di condizionamento. Il tipo di apprendimento che permette di operare tale passaggio avviene, il più delle volte, al di fuori della consapevolezza. I processi terziari, infine, specifici della mente umana poiché frutto dell'evoluzione e maturazione delle aree corticali del cervello, riguardano la possibilità di riflettere su sentimenti ed esperienze, in modo da agire tenendo a mente, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, il nostro bagaglio di esperienze, idee, conoscenze, ecc. Sulla base di numerosi studi, Panksepp e colleghi sostengono che esistano almeno sette sistemi emotivo/motivazionali di base: ricerca, collera, desiderio sessuale, cura, panico/sofferenza (o attaccamento), paura e gioco (Fig. 1). Il sistema della ricerca contribuisce alla ricerca del cibo, del partner sessuale, di un figlio che si è allontanato in modo imprudente, di un buon partner di gioco ecc., ragion per cui si attiva ogni volta che ricerchiamo qualcosa di cui abbiamo bisogno. Gli stimoli incondizionati che abitualmente attivano questo sistema sono tutti gli eventi nuovi e inattesi, i cambiamenti che si verificano nella vita del soggetto, gli squilibri omeostatici come la fame, il sonno, la sete o il freddo e ogni volta che sentimenti spiacevoli connessi agli altri sistemi possono essere risolti modificando la propria situazione reale. Il sistema della ricerca riguarda l'aspettativa di un benessere futuro e, per questo, l’emozione connessa alla sua attivazione risulta estremamente piacevole e attraente. Dal punto di vista anatomico, a partire dall'area tegmentale ventrale questo sistema procede lungo tre vie: il fascio mediale dell'encefalo e l'ipotalamo laterale, il nucleo accumbens, e le vie mesolimbiche e mesocorticali dopaminergiche della corteccia prefrontale. Tra i neurotrasmettitori implicati nel sistema della ricerca troviamo che, oltre alla dopamina, anche il glutammato gioca un ruolo importante. Il sistema emotivo-motivazionale della collera è la base dell'emozione primaria della collera, estremamente spiacevole, origina in aree subcorticali del cervello ed è attivato dalla frustrazione dei propri desideri, o quando i comportamenti e le strategie messe in atto dai diversi sistemi emotivo/motivazionali non hanno prodotto un cambiamento soddisfacente nell'organismo e ci si ritrova impotenti. Procedendo dal basso verso l'alto questo sistema ha la sua origine nella zona grigia periacquedottale (PAG), passando per l'ipotalamo e giungendo, infine, all'amigdala, responsabile dell'attribuzione di significati agli stati emotivi. Connessi all'attivazione di questo sistema vi sono alcuni neurotrasmettitori specifici come il glutammato, la noradrenalina, l'acetilcolina e l'acido nitrico, oltre alla sostanza P tra i neuropeptidi. Tuttavia, ciò che sembra maggiormente correlato con l'espressione della rabbia da parte dei mammiferi è la presenza del testosterone, ormone largamente associato allo sviluppo della sessualità maschile. Data la maggiore 7 quantità di testosterone nei maschi di tutte le specie dei mammiferi, non stupisce che tali soggetti presentino un'espressione della rabbia molto più pronunciata rispetto alle femmine. D'altra parte, la finalità evolutiva di questo squilibrio si può comprendere in quanto un eccessivo sviluppo della rabbia ostacolerebbe probabilmente le madri nel compito di accudire i propri piccoli. Panksepp distingue l'aggressività come elaborazione a livello del processo secondario del sistema della rabbia, dai comportamenti aggressivi di tipo predatorio che si manifestano quando gli animali lottano per sfamarsi. Le ricerche indicano, infatti, che quando gli animali cacciano e uccidono una preda sperimentano un intenso stato eccitatorio piacevole che è ben diverso dai sentimenti suscitati dall'attivazione del sistema della rabbia. Secondo l'autore, questo tipo di comportamento è espressione del sistema della ricerca attivato dalla necessità di regolare l'omeostasi turbata dalla sensazione di fame. O ancora, comportamenti di dominanza sociale per la supremazia territoriale e sessuale, facilmente osservabili negli animali ma presenti anche negli uomini, non si possono attribuire a un singolo sistema emotivo/motivazionale, quanto invece all'associazione di più sistemi, ad esempio, del piacere sessuale, della ricerca, della paura e della rabbia. Wilson (1978) identifica a sua volta sette tipologie di comportamenti aggressivi, tutte diverse tra loro: la difesa e la conquista di un territorio, i comportamenti di dominanza all’interno del gruppo, le azioni ostili attraverso le quali si pone termine allo svezzamento, le aggressioni dirette a una preda, la difesa contro i predatori e l’aggressività moralistica con la quale si mantiene l’ordine all’interno dei gruppi. Ognuno di questi comportamenti può essere considerato espressione dell’attivazione a livello secondario e terziario di più sistemi emotivo-motivazionali. Il terzo sistema identificato da Panksepp e colleghi è quello del desiderio sessuale, che permette agli individui di riprodursi. Sebbene circuiti sessuali maschili e femminili siano presenti nei membri di entrambi i sessi, l'attivazione di questo sistema presenta notevoli differenze di genere. Strutturalmente, infatti, l'urgenza motivazionale viene fatta risalire ad aree subcorticali diverse nei maschi e nelle femmine, e tali aree tendono a loro volta ad attivare ormoni differenti responsabili dello sviluppo sessuale tanto dal punto di vista fisico quanto da quello psicologico. Negli individui di sesso maschile, l'attivazione primaria di questo sistema avviene a livello delle regioni mediali dell'ipotalamo anteriore. Se queste vengono stimolate, l'individuo sperimenta un'emozione intensa di natura estremamente piacevole che spinge l'organismo ad agire. Queste aree sono responsabili della secrezione del testosterone, un ormone che viene prodotto già prima della nascita e che permetterà, in seguito, lo sviluppo delle caratteristiche prettamente maschili. Il testosterone è a sua volta responsabile dell'attivazione di alcuni neurotrasmettitori come la vasopressina e l'ossido nitrico. Le ricerche sugli animali hanno dimostrato che entrambi questi neurotrasmettitori sono implicati in alcuni dei comportamenti associati alla sfera della sessualità maschile. La vasopressina, ad esempio, stimola il corteggiamento e la rivalità intraspecifica per la conquista sessuale. L'ossido nitrico, da parte sua, aumenterebbe l'aggressività e l'avidità sessuale. Al contrario, per quanto riguarda i mammiferi di sesso femminile, Panksepp e colleghi individuano nell'ipotalamo ventromediale il centro dell'attivazione di tale sistema emotivo-motivazionale. Gli ormoni responsabili della sessualità femminile sono prima di tutto il progesterone e gli estrogeni. Questi ormoni svolgono un ruolo fondamentale da un punto di vista fisico e psichico. Se infatti da una parte sono 8 responsabili dello sviluppo fisico delle caratteristiche prettamente femminili, dall’altra influenzano profondamente la stessa attività sessuale. Alti livelli di questi ormoni corrispondono a un aumento delle fantasie erotiche, e dunque a una maggiore predisposizione all'attività sessuale (corrispondente con il periodo di fertilità). Estrogeni e progesterone hanno inoltre un ruolo importantissimo nella produzione di ossitocina. L'ossitocina è un ormone strettamente connesso al genere femminile, e non ne regola solo l'attività sessuale, come vedremo più avanti, ma è connesso anche al sistema dell'attaccamento e dell'accudimento e, in generale, a qualsiasi interazione sociale positiva. Nel sistema sessuale, l'ossitocina aumenta l'intensità dell'orgasmo femminile, promuove lo sviluppo di un legame affettivo e, in generale, grazie alla “collaborazione” con il sistema degli oppioidi, è connessa a tutte le emozioni positive legate all'attivazione di questo sistema. Si può ipotizzare che il piacere legato all'atto sessuale si associ a una disposizione maggiore all'attività sessuale e, quindi, a una stabilizzazione del legame con il partner. Per concludere, rispetto al ruolo giocato dagli ormoni, risulta interessante come tanto l'ossitocina quanto la vasopressina siano presenti in entrambi i sessi, sebbene in quantità relative diverse. L'ossitocina è collegata tanto all'erezione quanto all'eiaculazione maschile e ha quindi, anche nell'uomo, la funzione di rafforzare il rapporto con il partner sessuale. Curiosamente, invece, alti livelli di vasopressina sembrano inibire il desiderio sessuale negli individui di sesso femminile. L'attivazione del sistema della cura garantisce ai membri più indifesi (in particolare i cuccioli delle varie specie) la protezione dai predatori e permette di completare lo sviluppo in un ambiente sicuro. Non a caso l'ossitocina, l'ormone più importante per l'attivazione di questo sistema, viene prodotto in maggiori quantità dal cervello femminile. Estrogeni e progesterone sono responsabile della produzione di ossitocina all'interno dell'ipotalamo anteriore e dell'area preottica dorsale (dPOA). Una lesione di una di queste zone comporta danni irreversibili nella capacità di prendersi cura dell'altro. Durante la gravidanza si osservano alti livelli di progesterone e estrogeni con conseguenti alti livelli di ossitocina, che a sua volta favorisce le contrazioni uterine durante il parto. Con la nascita si assiste a un nuovo equilibrio che predispone la neo-madre a interagire con il piccolo. Calano i livelli di progesterone – che a dosi elevate hanno un effetto sedativo – per rendere la madre più vigile e attenta, aumentano i livelli di prolattina responsabile della produzione di latte materno e continuano a essere alti i livelli di ossitocina, che favorisce la fuoriuscita di latte e lo stabilizzarsi di un legame affettivo tra madre e bambino. L'ossitocina non è però la sola sostanza che alimenta il sistema dell'accudimento. All'attivazione di tale sistema corrisponde infatti un aumento degli oppioidi endogeni, che contribuiscono allo stabilizzarsi di un umore positivo e al calo dell'aggressività e dell'irritabilità. É interessante notare come le madri che hanno a che fare con i loro bambini possiedano una serie di comportamenti innati che le aiutano a interagire piacevolmente con i figli. Ad esempio, avvicinano il loro viso a quello del lattante a una distanza di circa trenta centimetri senza alcuna istruzione, e questa distanza coincide esattamente con quella che permette al bambino di vedere il loro volto nel modo migliore (van Hofsten et al., 2014). Dunque, se molto si è parlato di una motivazione innata all'attaccamento e dei comportamenti del bambino, si può dire che anche i comportamenti di accudimento hanno una base innata e sono intrinsecamente piacevoli. Allo stesso modo, non bisogna ignorare che, sebbene nell'uomo il 9 sistema della cura risulti meno attivo in quanto evolutivamente più recente, tanto l'ossitocina quanto gli oppioidi sono in grado di attivare le stesse zone cerebrali anche negli individui di sesso maschile. In realtà, la capacità di suscitare emozioni positive è una prerogativa di qualsiasi sistema emotivo-motivazionale che porti l'individuo a stabilire un contatto umano: senza tale feedback positivo, l'uomo non sarebbe portato, fin dalla nascita, a stabilire legami sociali che, come abbiano visto, risultano necessari per la sopravvivenza del gruppo e, dunque, dell’individuo stesso. Alla base del sistema di panico/sofferenza – ossia il correlato biologico del sistema motivazionale dell'attaccamento individuato da Bowlby (1969) - Panksepp e colleghi individuano le aree subcorticali del grigio periacquedottale (PAG), del talamo dorso mediale, del setto ventrale, dell'area pre-ottica dorsale e del letto della stria terminale, le cui diramazioni giungono fino alla neo-corteccia. Gli autori osservano che, in tutti i mammiferi studiati, la stimolazione elettrica di queste zone genera nel bambino intense reazioni di panico e nell'adulto forti sentimenti dolorosi. Con lo sviluppo puberale la sensibilità di tali aree tende a diminuire, in particolar modo nei soggetti di sesso maschile. L'attivazione di questo sistema sembrerebbe quindi essere ormone-dipendente; ad ogni modo, aumentando la scarica, le suddette zone mantengono la loro sensibilità e i soggetti manifestano queste risposte tipiche. La particolarità di questo sistema emotivo-motivazionale consiste nei due differenti tipi di emozioni che il soggetto sperimenta. Se, infatti, l'attivazione di tale sistema è chiaramente associata a emozioni estremamente spiacevoli - disperazione, senso di solitudine, impotenza - proprio il tentativo di superare questo stato emotivo porta il bambino (ma anche l'adulto) ad attivare un comportamento di attaccamento che ha il compito di ristabilire la vicinanza con il proprio caregiver (o con un'altra persona cara) promuovendo un senso di benessere e sicurezza. Notiamo come l'azione di tale sistema sia fortemente legata a diversi tipi di sostanze chimiche. Un ruolo di prim'ordine giocano, senza dubbio, gli oppioidi endogeni. Alti livelli di oppioidi tendono a disattivare il sistema del lutto/panico producendo un senso di quiete e appagamento. Il rilascio di questi neurotrasmettitori è, a sua volta, associato ad alcuni stimoli esterni collegati al sistema dell'accudimento, come il calore corporeo, l'odore materno, alcune voci familiari e l'allattamento. Oppioidi e legami sociali positivi appaiono dunque strettamente connessi, tanto da ipotizzare un'associazione tra la mancanza di contatto affettivo e la ricerca di sostanze d’abuso, cosa perfettamente in linea con le ricerche condotte da Bruce Alexander (1981) negli anni settanta e ottanta. L'importanza dell'accudimento genitoriale nel rispondere prontamente all'attivazione del sistema di panico/sofferenza del bambino è sottolineata dagli studi sull'asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Tale sistema è ormai comunemente associato alla risposta allo stress da parte dell'individuo. In particolare, in situazioni di emergenza si attiva il sistema nervoso simpatico che, attraverso due vie, una lenta – ormonale - e una veloce basata su sinapsi, permette una risposta allo stress da parte dell'individuo. Nella via lenta, l'ipotalamo invia il fattore di rilascio della corticotropina (corticotropin releasing factor; CRF) all'ipofisi che produce, a sua volta, l'ormone corticotropina (ACTH) il cui compito è quello di stimolare le ghiandole surrenali che cominceranno a produrre glucocorticoidi e mineralcorticoidi. Questi, una volta giunti al cervello, in particolare all'amigdala e all'ippocampo, inibiscono la sintesi e il rilascio di CRF e ACTH, ossia l'intera attivazione simpatica. Nel caso in cui ci siano pochi recettori di glucocorticoidi nel cervello, 10 risulterà più difficile inibire la condizione di stress. Diversi studi dimostrano come una deprivazione materna di lunga durata porti a una riduzione di recettori dei glucocorticoidi nell'ippocampo protraendo una condizione di allarme anche quando il momento di stress viene superato (van Hasselt et al., 2012). Panksepp e colleghi localizzano il sistema della paura in alcune aree cerebrali la cui attivazione produce sensazioni estremamente spiacevoli. Procedendo dal basso verso l'alto, il sistema ha origine dalle aree subcorticali del PAG passando per l'ipotalamo anteriore e mediale fino ad arrivare alle zone centrali dell'amigdala. Risulta particolarmente interessante come la stimolazione di queste aree produca due diversi tipi di risposta a seconda dell'intensità. Una stimolazione moderata produce una risposta modesta con occasionali episodi di immobilità, mentre una stimolazione intensa produce comportamenti di fuga da parte dell'individuo. Le due risposte sono state associate ai due tipi di comportamento in presenza di un predatore che si trovi ancora lontano nel primo caso, o che, viceversa, si trovi in prossimità della vittima. Sentimenti di paura sono sempre accompagnati dall'attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico le cui sensazioni – vasocostrizione dei grandi vasi, aumento del sangue al cuore e al cervello, aumento del battito cardiaco, sudorazione, disturbi gastrointestinali – risultano estremamente spiacevoli. Fin dalla nascita, esistono una serie di stimoli incondizionati ai quali l'uomo, come gli animali, risponde attivando istintivamente tale sistema. Spazi aperti, movimenti improvvisi, rumori forti attivano uno stato di allerta che predispone l'individuo all'azione. Gli spazi aperti impediscono all'animale di nascondersi e lo espongono alla vista dei predatori, i movimenti improvvisi così come i rumori forti rimandano ai rapidi attacchi dei predatori. Risulta interessante, inoltre, come nelle diverse specie tale sistema venga attivato da indicatori tipici dei propri predatori. Ad esempio, i ratti sono portati a reagire fin da subito all'odore dei gatti pur non essendo consapevoli del potenziale pericolo che essi rappresentano. L'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il cui funzionamento è stato precedentemente spiegato parlando del sistema panico/sofferenza, è attivamente coinvolto anche nel sistema della paura. Una disfunzione di tale asse promuove un'iper-attivazione della risposta allo stress e un'eccessiva vigilanza da parte dell'individuo. Infine, Panksepp e colleghi individuano le basi del sistema emotivo-motivazionale del gioco in alcune aree subcorticali del talamo, in particolar modo nei nuclei parafascicolari e in quelli dorsomediali posteriori, in seguito alla cui stimolazione si osserva l'attivazione del comportamento di gioco. Grazie ad alcuni esperimenti sui topi, gli autori hanno osservato che durante il gioco, così come a seguito della stimolazione di queste aree, questi animali emettono un particolare tipo di suono che possiede una frequenza di 50Hz e si differenzia dai suoni emessi durante altri tipi di attività. Potremmo dire che nell'uomo la risata in qualche modo sia il corrispondente del suono a 50Hz dei topi. La risata, infatti, risulta una caratteristica innata in tutti gli individui e viene prodotta in interazioni giocose. Per quanto riguarda le sostanze collegate all'attivazione del sistema emotivomotivazionale del gioco, non risulta ancora chiaro se esista una sostanza in grado determinarne l'attivazione. Sicuramente, durante le attività ludiche vi è un rilascio maggiore di oppioidi che, come sappiamo, contribuiscono a determinare l'estrema piacevolezza dell'esperienza. Al contrario, gli 11 psicostimolanti – la cui azione mira ad aumentare il livello delle ammine biogene - tendono a ridurre notevolmente, se non a inibire, il gioco. Quella del gioco è una motivazione “tanto fragile quanto robusta” (Panksepp, Biven 2012, p. 355). Fragile poiché si è disposti a giocare esclusivamente in assenza di uno stato di attivazione emotiva negativo (insicurezza): un animale ferito, arrabbiato o in pericolo, ad esempio, interromperà immediatamente il gioco per recuperare una situazione di maggiore sicurezza. Allo stesso modo, però, risulta estremamente “robusto” in quanto, non appena questa situazione di sicurezza viene ristabilita, il gioco verrà ripreso. Le caratteristiche specifiche dei giochi osservati nelle diverse specie sembrano sottolinearne la valenza adattiva. Vediamo, ad esempio, come i gatti tendano a preferire il gioco con piccoli oggetti che svilupperebbero così le loro doti come predatori; al contrario, animali come le antilopi privilegiano giochi caratterizzati da salti e corse utili, in futuro, per sfuggire ai propri predatori. Oltre alle attività in cui il gioco risulta utile per sviluppare le proprie abilità fisiche e cognitive, gli autori sottolineano come quest'esperienza abbia un ulteriore valore adattivo per lo sviluppo delle abilità sociali. Giocando con i propri pari, infatti, non solo l'individuo sviluppa un primo senso di autonomia dai propri genitori, ma può anche cominciare a formarsi un'idea di quelle che sono le normali regole interattive tra coetanei e dei diversi ruoli sociali. Un esperimento di Panksepp e colleghi (ricerca non pubblicata) evidenzia come la possibilità di giocare nell'infanzia sia connessa anche alle strategie utilizzate nell'incontro con un possibile partner sessuale. Osservando tre animali tra cui una femmina e due maschi di cui uno aveva avuto esperienze di gioco e l'altro no, l'animale con esperienza del gioco era risultato di gran lunga più efficace del suo compagno nella conquista della femmina. Gli studi di Panksepp evidenziano come ogni sistema emotivo/motivazionale primario sia centrato su un’emozione, piacevole o spiacevole, suscitata a livello delle specifiche aree subcorticali e sia regolato da diversi ormoni e neurotrasmettitori. A partire da questo livello primario, frutto dell’evoluzione, ogni sistema va poi strutturandosi con gradi di sempre maggior complessità grazie alle connessioni che si creano a livello del sistema limbico e della neocorteccia e grazie alle esperienze che l’individuo fa all’interno del proprio ambiente familiare, sociale e culturale più ampio. La continua interazione tra mente e cervello, ossia tra il funzionamento delle aree più ancestrali del cervello e quello delle aree più evolute della neocorteccia, darà vita alla complessità di stati affettivi e cognitivi propri dell'individuo adulto. I sistemi di influenza corticale e di significazione sociale che possono attivare le nostre attività e le nostre motivazioni sono quindi molteplici e complessi, e altrettanto molteplici e complesse sono le soluzioni (consce e inconsce) che ne derivano. Il temperamento, le esperienze precoci, le esperienze fatte nel contesto sociale più ampio, i conflitti che si tramandano a livello generazionale e il contesto politico e culturale concorrono continuamente a influenzare ciò che siamo. Si vengono così a configurare due processi (Panksepp, 2014): il primo, bottom-up, in cui, attraverso lo sviluppo e l'apprendimento, le emozioni primarie generatesi a livello subcorticale si strutturano e influenzano continuamente i processi limbici e neocorticali. Il secondo, top-down, permette invece un controllo 12 dall'alto, dove gli apprendimenti precoci e la capacità di ragionare e riflettere sui nostri stati d'animo influenza e regola a sua volta questi stati emotivi di base. Per riassumere, le sfide adattive che la specie umana ha incontrato nel corso della sua evoluzione hanno condotto l’uomo, come altri mammiferi, a reagire in maniera “automatica” a una serie di caratteristiche ambientali, con sentimenti piacevoli e spiacevoli. L’evoluzione di questi sistemi emotivo-motivazionali a livello secondario e terziario dipende invece dalla necessità di tutti gli esseri viventi di valutare la scelta più adattiva nel proprio ambiente di riferimento. Alcuni comportamenti sono razionali e consapevoli, altri sembrano irrazionali e sono spesso inconsci, frutto dell’evoluzione della specie umana da una parte e del tentativo di adattarci al nostro specifico ambiente di vita dall’altra (Wilson, 2007). Il modo in cui reagiamo alle diverse sfide del nostro ambiente dipende quindi da una serie di affetti, motivazioni e propensioni primarie che si sono selezionate nel corso dell’evoluzione della specie poiché hanno permesso la sopravvivenza dell’individuo e del gruppo, ma anche dalla plasticità di questi “istinti”, frutto dell’imperativo all’adattamento che porta ogni individuo a cercare il modo migliore di adattarsi al proprio specifico ambiente di sviluppo e poi al proprio specifico ambiente di vita. Figura 1. I sette sistemi motivazionali di Panksepp, le aree subcorticali e le sostanze chimiche collegate 13 4. Il modello dell’obiettivo egoista Il modello dell’obiettivo egoista, ipotizzato da Huang e Bargh (2014), illustra bene come gli esseri umani siano in grado di perseguire i propri obiettivi, evoluzionisticamente fondati e adattivi, anche senza che siano consapevoli di farlo. A partire da questi obiettivi inconsci il soggetto sviluppa una serie di obiettivi consapevoli che possono essere simmetrici o antitetici rispetto a quelli inconsci e che sono influenzati tanto dalla sua storia quanto dalla realtà in cui si trova ad agire. Le incongruenze nei comportamenti e nei giudizi possono essere quindi spiegate, almeno in alcuni casi, come la risultante di obiettivi inconsci multipli e in alcuni casi in contrapposizione tra loro. Secondo gli autori, infatti, ogni individuo ha diversi obiettivi, spesso in conflitto tra loro, ciascuno dei quali influenza e dirige il comportamento in un modo solipsistico. Proprio come per i geni di cui parla Dawkins (1976), gli obiettivi veicolano il processamento delle informazioni e programmano una serie di comportamenti finalizzati a massimizzare le probabilità che essi possano essere portati a compimento anche in assenza di consapevolezza. Durante l’ovulazione, ad esempio, le donne sono portate a comprare vestiti più corti e scoperti, un abbigliamento che le rende più attraenti agli occhi degli uomini, anche se non sanno di stare ovulando e coscientemente non vogliano essere più seducenti (Kenrick, Griskevicius, 2013). Allo stesso modo, uno studio di Miller e collaboratori (2007) mostra come il ciclo ovulatorio femminile influenzi anche il modo in cui gli uomini reagiscono alle donne. Le diciotto spogliarelliste di questo particolare campione risultavano infatti ottenere una mancia media pari a 335 dollari nel periodo di ovulazione, contro i 185 dollari che i registravano durante le altre settimane. E in presenza di donne in fase di ovulazione o comunque viste come più attraenti, anche in assenza di consapevolezza gli uomini tendono ad assumere più comportamenti rischiosi, uno dei segni più forti di status e dunque uno dei mezzi più importanti di seduzione. L’importanza fondamentale del periodo di ovulazione per la riproduzione e, quindi, per la possibilità di trasmettere i propri geni, influenza dunque in modo inconsapevole le scelte e i comportamenti di uomini e donne con l’obiettivo di rendere le donne più attraenti per il partner e più predisposte all’accoppiamento, e gli uomini più sensibili al fascino femminile e più coinvolti nel compito della conquista. Gli obiettivi influenzano quindi il giudizio, la percezione e i comportamenti di una persona in maniera “egoista” in modo da ottenere il risultato desiderato anche senza che la persona in questione intenda raggiungere quell’obiettivo in modo cosciente. La percezione[1] è il meccanismo basilare attraverso cui ogni obiettivo cerca inconsapevolmente la propria soddisfazione; si tratta di un processo principalmente automatico e inconscio mediante il quale l'ambiente favorisce l'attivazione automatica di rappresentazioni interne del mondo esterno che, a loro volta, influenzano il comportamento sia mediante un'attività percettiva inconsapevole sia attraverso la successiva creazione automatica di un link tra percezione e comportamento. L'intera sequenza, stimolo ambientale – percezione – comportamento può diventare così automatica (Bargh, Chatrand, 1999). 14 Diversi studi (Dijksterhuis, Chartrand, Aarts, 2007) hanno mostrato come la sola esposizione ad alcuni stimoli ambientali sia sufficiente a produrre l’attivazione di una serie di processi mentali superiori che agiscono al di fuori della consapevolezza. Questi processi inconsci sono in grado di attivare stereotipi, atteggiamenti e giudizi (Ferguson, 2008) e di produrre comportamenti volti al raggiungimento di un determinato obiettivo (Marien et al., 2012) senza che il soggetto ne sia consapevole. In linea con gli assunti proposti dalla biologia evoluzionista, studi di Social-Cognition sugli effetti di priming e sugli automatismi hanno infatti dimostrato come numerosi processi mentali superiori (percezione, categorizzazione, scelta di un obiettivo e perseguimento dello stesso) che sottendono il comportamento sociale possano essere innescati per poi continuare a operare anche in assenza di un’intenzionalità conscia. Gli esperimenti sugli effetti dell'attivazione automatica di stereotipi ne sono una prova. In un esperimento di Bargh, Chen, & Burrows (1996), ai partecipanti veniva presentato a livello subliminale un volto di un giovane uomo dai tratti afro-americani e gli autori hanno riscontrato che i partecipanti, rispetto al gruppo di controllo a cui non era stato mostrato il volto, reagivano con grande ostilità a provocazioni moderate che venivano fatte loro in un secondo momento. L'attivazione automatica dello stereotipo relativo all'etnia di appartenenza aveva fatto sì che i partecipanti rispondessero con grande ostilità. Ed è bene ricordare che, benché gli stereotipi siano categorie spesso molto imperfette in quanto il loro contenuto non permette di dialogare con le caratteristiche specifiche delle persone e degli oggetti reali, la loro funzione è fondamentalmente adattiva perché permette di semplificare le numerose informazioni provenienti dall'ambiente. Quindi, nonostante gli effetti automatici degli stereotipi sul comportamento possano creare problemi nell'interazione sociale, il link implicito e automatico tra percezionecategorizzazione (attivazione implicita e inconsapevole di rappresentazioni mentali) e comportamento esiste per una ragione adattiva, fare sì che gli individui agiscano in maniera adeguata anche in assenza di un controllo e di un monitoraggio consapevole. Gli autori (Huang, Bargh, 2014) hanno messo in evidenza quattro principi alla base del modello dell’obiettivo egoista: automaticità, riconfigurazione, similarità e incoerenza. • Il principio dell’automaticità propone l’esistenza di un processamento inconscio che produce giudizi e comportamenti. La dissociazione tra questo sistema di processamento inconscio e i processi consapevoli è stata confermata anche da alcuni studi neuroscientifici (Bogen, 1995) che mostrano come pazienti con lesioni ai lobi pre-frontali siano guidati nel loro comportamento quasi esclusivamente da eventi situazionali, con una totale mancanza di consapevolezza rispetto alla stranezza o irrazionalità di alcuni di questi comportamenti. Questo stesso principio spiega come spesso i comportamenti di una persona siano guidati da più obiettivi in conflitto tra loro, conflitto che viene agito al di fuori della consapevolezza. L'attività di giudizio e decision-making può infatti procedere inconsciamente. Gladwell (2005) racconta a tal proposito di un esperimento condotto da ricercatori dell'Università dell'Iowa (Bechara, Damasio, Tranel, Damasio, 1997). Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere una carta alla volta tra quattro mazzi, due rossi e due blu, al fine di massimizzare le vincite. I soggetti non erano a conoscenza che i mazzi di carte rosse facevano guadagnare 15 • • • molto ma perdere altrettanto. Più modeste erano, invece, le vincite e le perdite che si potevano ottenere scegliendo le carte blu. I partecipanti riuscivano a spiegare le ragioni per cui le carte rosse erano da evitare dopo aver scelto circa un'ottantina di carte. Il risultato più interessante è stato però rilevato mediante degli elettrodi disposti sul palmo della mano di ogni giocatore al fine di misurarne l'attività delle ghiandole sudoripare. Già dopo la decima carta, le mani dei partecipanti cominciavano a sudare quando ci si avvicinava alle carte rosse, come se avessero capito che quelle carte erano più “rischiose” ben prima di prenderne consapevolezza. Il principio della riconfigurazione prevede che i cambiamenti nei giudizi e nei comportamenti di una persona possano essere vincolati a una riconfigurazione cognitiva e comportamentale che ha lo scopo di facilitare il raggiungimento dell’obiettivo da parte dell’individuo. Una volta attivato, questo processamento inconscio dirige la nostra attenzione su alcuni stimoli escludendone altri, e influenza la nostra capacità di giudizio e valutazione di persone e oggetti. Il principio di similarità prevede che se gli obiettivi consci e inconsci sono mossi dalla stessa motivazione di fondo ci si può aspettare un alto grado di somiglianza rispetto al tipo di processi necessari per perseguirli. Detto in altri termini, non fa molta differenza se un obiettivo sia consapevole o meno per i piani che elaboriamo e le azioni che compiamo al fine di perseguirlo. Il principio di incoerenza, infine, illustra come, poiché ogni persona è guidata contemporaneamente da più obiettivi inconsci che prevedono una diversa modalità di pensiero, giudizio e comportamento, che varia a seconda di quella che è la motivazione più forte al momento, l’esito di questa attivazione multipla possa condurre a comportamenti incoerenti o apparentemente irrazionali. Per riassumere, gli obiettivi sono immagazzinati come rappresentazioni mentali che possono essere attivate in maniera automatica da caratteristiche dell'ambiente, alla pari di quanto accade per gli stereotipi o altre strutture percettive. Gli obiettivi che gli individui si prefissano influenzano significativamente il giudizio e il modo in cui gli individui agiscono e si comportano nella realtà. 5. Le sfide adattive e la mente razionale Per quegli animali che non sono dotati della plasticità cerebrale che caratterizza il cervello umano, i comportamenti utili a perseguire obiettivi inconsci evoluzionisticamente fondati e adattivi possono 16 rivelarsi altamente disfunzionali quando l’ambiente si modifica in modo rilevante. Quando, infatti, l’ambiente attuale si differenzia notevolmente dall’ambiente ancestrale, o quando i cambiamenti sono talmente rapidi da non permettere un’evoluzione graduale della specie, questa, mentre lavora inconsapevolmente in vista di obiettivi adattivi, finisce per mettere in crisi la sua stessa sopravvivenza. In natura si possono trovare diversi esempi di questa evenienza (Wilson, 2007). Le tartarughe marine appena nate, ad esempio, nascono normalmente durante la notte e sono naturalmente predisposte a dirigersi verso la luce. Questa, infatti, riflettendosi sul mare, ha permesso per millenni alle tartarughe di raggiungerlo in modo automatico. La costruzione di case sulla spiaggia dotate di luce elettrica ha però reso questo comportamento innato, un tempo adattivo, causa di morte certa per le piccole tartarughe. In maniera analoga, alcuni uccelli originari delle Galàpagos, avendo vissuto per millenni in ambienti privi di predatori, all’arrivo dei primi esploratori erano completamente impreparati a difendersi. Questi uccelli accolsero così l’arrivo dei conquistadores come se fossero alberi: appoggiandosi ai cacciatori come fossero rami, andarono direttamente incontro alla morte. Ma un elemento fondamentale dell’evoluzione umana è la plasticità con cui può adeguare il suo repertorio di abilità al mutare delle circostanze. Possiamo quindi ipotizzare che, a partire dalle proprie esperienze infantili, lo sviluppo a livello secondario e terziario dei sistemi emotivo-motivazionali individuati da Panksepp dia vita a un repertorio comportamentale, spesso automatico, finalizzato all’adattamento allo specifico ambiente di riferimento. E possiamo immaginare la psicopatologia come un fallimento in questo processo di adattamento al mutare delle circostanze. Alcuni autori (Kenrick, 2011; Kenrick, Griskevicius, 2013) hanno elaborato il concetto di mente modulare per descrivere i repertori emotivo-motivazionali specie-specifici che permettono agli esseri umani di perseguire i propri obiettivi di base: i moduli possono essere rappresentati come piccoli interruttori interni al cervello ognuno dei quali dà vita a un pattern specifico necessario per la sopravvivenza in un determinato ambiente. Una volta che un dato modulo individua la specifica situazione di attivazione, emette un segnale che produce nell’uomo comportamenti adattivi specifici. Alcuni eventi funzionano da “situazione segnale” in modo innato ed elicitano emozioni e comportamenti che nel corso dell’evoluzione hanno permesso l’adattamento a eventi che nell’ambiente ancestrale della specie hanno rappresentato un pericolo o un’opportunità (Sperber, Hirschfeld, 2004); altri vengono appresi nel corso dei primi anni di vita e con il tempo danno vita a una serie di comportamenti ugualmente automatici e più o meno flessibili. La visione modulare ha in realtà subìto diverse critiche. Pievani (2014), ad esempio, considera inaccettabile l’esistenza di moduli specializzati per reagire a specifiche situazioni ancestrali le cui manifestazioni diventano adattive o disadattive a seconda dell’ambiente in cui si esplicano in quanto quest’idea presuppone una visione passiva e immutabile della mente. Più che di moduli, dunque, l’autore ritiene che sarebbe opportuno parlare di “precursori naturali” di certe reazioni (ibidem, p.160), precursori evoluzionisticamente fondati ma ambientalmente labili. “Le competenze, le preferenze, le predisposizioni e le attitudini che hanno un’origine evolutiva sono vincoli che il passato ci restituisce. Come tali, influenzano i nostri modi di pensare e agire” (ibidem, p. 161). 17 Kenrick e Griskevicius (2013) si soffermano su alcuni di questi precursori naturali (Fig. 2): alcuni ci spingono a evitare il dolore fisico e le malattie, altri a farci fare degli amici e a conquistare uno status sociale il più elevato possibile, altri ancora a conquistare e mantenere un partner e altri a prendersi cura della propria famiglia. In ogni momento, la nostra mente è impegnata nella risoluzione di uno o più di queste sfide ancestrali e attiva un comportamento volto alla risoluzione di questi problemi la cui strategia dipende, in ultima analisi, dalle nostre esperienze e dal nostro specifico ambiente di adattamento. Non sperimentiamo in modo consapevole le connessioni tra questi comportamenti e il loro obiettivo funzionale ultimo, ma ci limitiamo a fornire spiegazioni razionali a posteriori di questi comportamenti. Tuttavia, a livello funzionale tutto quello che facciamo risulta intimamente connesso (Kenrick, 2011). • • • • I comportamenti deputati all’auto-protezione si attivano in risposta a pericoli reali o eventi percepiti come tali. Vengono attivati, ad esempio, da espressioni di rabbia negli sconosciuti o al pensiero di individui appartenenti ad altre razze o religioni. L’attivazione di questi processi rende le persone vigili e sospettose e le porta a compiere scelte in accordo con la maggioranza. L’appartenenza al gruppo, infatti, ci fa sentire protetti e meno vulnerabili. I comportamenti deputati all’evitamento delle malattie sono attivati dal suono di qualcuno che starnutisce o tossisce, dalla vista di ferite aperte o di odori forti. Ad esempio, uno studio di Tybur e Bryan (Tybur, Bryan et al., 2011) mostra come le persone siano più predisposte a usare contraccettivi quando vengono esposte a un cattivo odore. Dato che, tendenzialmente, sono altri individui a essere portatori di malattie, un’attivazione eccessiva di questo modulo può condurre le persone a comportamenti evitanti o di isolamento sociale. Poiché è molto più probabile che in antichità le malattie verso le quali non si avevano difese venissero diffuse da estranei, anche in questo caso l’attivazione di questo modulo si associa a un atteggiamento di diffidenza verso estranei e luoghi poco conosciuti. Ad esempio, Schaller e colleghi (Schaller, Park, Mueller, 2003) hanno condotto diverse ricerche che mostrano come le persone più xenofobe si considerino anche più sensibili alle malattie. I comportamenti deputati all’affiliazione sono tra i più importanti ai fini del nostro discorso. Se è vero che gli altri individui sono potenziali portatori di malattie e minacciano quindi il nostro benessere, è anche vero che l’appartenenza al gruppo, come abbiamo visto, comporta notevoli vantaggi per l’individuo. Come detto in precedenza, infatti, non solo la cooperazione aumenta la possibilità di accedere a un numero limitato di risorse, ma protegge anche dai predatori e dalle minacce di un gruppo rivale. Il sistema dell’affiliazione viene attivato da stimoli che sollecitano o minacciano l’appartenenza al gruppo e produce, anche in questo caso, comportamenti di maggior conformismo sociale. I comportamenti deputati al raggiungimento dello status risultano essenziali ai fini del successo e della riproduzione di ogni individuo. Alcuni animali ottengono e mantengono il proprio status all’interno di un gruppo attraverso comportamenti aggressivi diretti verso altri membri del proprio gruppo. Tra gli uomini le cose possono andare diversamente. Alcuni di noi ottengono infatti uno status elevato attraverso l’acquisizione di competenze che suscitano il rispetto e l’ammirazione da parte degli altri, altri attraverso la bellezza e il 18 • • • successo, altri ancora, a seconda dell’ambiente di riferimento, non si distanziano poi tanto dai nostri fratelli mammiferi e continuano a ottenere rispetto e ammirazione attraverso l’uso della forza e della prevaricazione. Nessun comportamento, infatti, risulta adattivo in qualsiasi ambiente, così come non esiste un unico tipo di personalità selezionato dall’evoluzione, ma esistono più tipi che possono adattarsi ai diversi possibili ambienti – primari ma anche sociali più ampi – in cui l’individuo si trova vivere. In quest’ottica, i recenti studi dello psicologo Daniel Nettle (2005; 2006; 2008) mostrano come la plasticità dei tratti di personalità sia una caratteristica fondamentale dell’evoluzione umana. I comportamenti che hanno a che vedere con la conquista del partner vengono attivati dalla vista di un partner reale o potenziale. A differenza degli altri sistemi citati, questo ci induce a fare scelte uniche e anticonformiste che ci pongono in risalto rispetto agli altri (Miller, 2000). Per quanto riguarda la scelta del partner, si possono riscontrare differenze significative tra le scelte maschili e femminili. Poiché le donne forniscono alla prole dei vantaggi diretti – più sono fertili e in salute più daranno alla luce bambini sani – gli uomini sono generalmente attratti da donne più giovani che mostrano chiari segni di salute fisica. Al contrario, poiché gli uomini forniscono un vantaggio indiretto alla prole – in termini di protezione e risorse – le donne sono generalmente attratte da uomini più anziani che presumibilmente hanno conquistato uno status sociale più elevato (Kenrick, 2011). Alcuni esperimenti (Kenrick, 2011) mostrano inoltre come le donne siano portate a giudicare gli uomini come attraenti quando questi vengono descritti come dominanti, mentre gli uomini sembrano essere attratti da donne che mostrano caratteristiche accudenti. Una volta conquistato il giusto partner, un altro sistema comportamentale è deputato al mantenimento del legame. È probabile che lo sviluppo di questo sistema – che abbiamo in comune con ben poche specie – derivi dall’immaturità fisica e cognitiva con cui vengono al mondo i bambini, che rende necessarie le cure dei genitori ben oltre la nascita. Questo sistema viene attivato da segnali che indicano tristezza e malcontento nel partner, ma anche da possibili rivali in amore. Mentre il comportamento automatico deputato alla conquista del partner dirige la nostra attenzione verso individui attraenti del sesso opposto, questo sistema, generalmente, la dirige verso membri attraenti del nostro stesso sesso che potrebbero rappresentare una minaccia per la nostra coppia. Infine, i comportamenti deputati alla cura della prole si attivano quando ci troviamo in presenza di bambini, comportano un desiderio di protezione, in particolare diretta verso i propri figli, a cui si associa il desiderio di trasmettere loro capacità e risorse necessarie per sopravvivere e riprodursi a loro volta[2]. 19 Figura 2. Gerarchia delle motivazioni secondo Kenrick Dalla biologia proviene una teoria interessante, “life history theory” (Stearns, 1992), che aiuta a comprendere come diversi comportamenti possano essere attivati da una stessa sfida evolutiva, e apparire ugualmente adattivi a seconda dell’ambiente di riferimento. Come quella delle altre specie, così anche la vita dell’uomo potrebbe essere suddivisa in tre grandi step, ognuno caratterizzato dal prevalere di uno sforzo adattivo: somatico, di coppia e parentale. Il primo step vede tutti gli animali coinvolti nello sforzo di sopravvivere e ottenere una maturazione fisica e cognitiva adeguata. Durante questo periodo, i moduli dell’auto-protezione e dell’evitamento delle malattie sono sempre attivi: siamo particolarmente turbati dalla presenza di estranei e il nostro repertorio alimentare risulta di gran lunga più selettivo di quello di un adulto. Alcuni animali attraversano molto velocemente questa fase e in breve tempo riescono a rendersi autonomi e indipendenti. Altri, come l’uomo, necessitano di diversi anni prima di raggiungere una maturazione fisica e cognitiva adeguata e durante questi anni la loro sopravvivenza è garantita dalla vicinanza e dall’amore dei genitori che lo curano e lo proteggono. Il secondo step coinvolge gli animali nello sforzo adattivo di ricercare e conquistare un partner adeguato a trasmettere i propri geni. Nel regno animale questo sforzo risulta associato a espressioni di violenza e competizione tra rivali. Allo stesso modo, anche gli uomini, come abbiamo visto, riversano una grande quantità di energie nel mostrarsi unici e migliori degli altri. L’aumento di testosterone e adrenalina che si registra durante l’adolescenza (Kenrick, Griskevicius, 2013) porta gli individui a compiere gesti rischiosi sottovalutando le conseguenze delle proprie azioni, inibendo così i moduli deputati all’autoprotezione e all’evitamento delle malattie per sedurre i membri del sesso opposto. Il terzo e ultimo step prevede che l’animale sia coinvolto nella cura della prole. Anche questo step può variare significativamente a seconda della specie e dell’ambiente di riferimento. Normalmente, 20 durante questa fase gli uomini stabiliscono delle relazioni solide con un partner con il quale prendersi cura dei futuri figli. In questa fase diminuiscono i livelli di testosterone e adrenalina, e diminuiscono i comportamenti deputati all’affiliazione e alla conquista del partner. I comportamenti esibizionisti e rischiosi, infatti, non sono più così adattivi nel momento in cui c’è un’altra persona che fa affidamento sulle tue cure. Alcuni animali hanno una storia di vita molto rapida, in cui si susseguono velocemente i tre step, altri hanno una storia più lenta e possono utilizzare strategie differenti per adempiere alle sfide adattive. “Strategie rapide”, attraverso cui l’animale investe molto poco nello sforzo somatico per concentrare tutte le sue energie nella conquista del partner, risultano adattive all’interno di un ambiente pericoloso e imprevedibile. Se infatti l’animale spendesse un’eccessiva quantità di tempo e di energie nel primo step rischierebbe di non riprodursi affatto. Al contrario “strategie lente” risultano adattive in ambienti sicuri e prevedibili, in cui l’animale può percorrere i tre step in tutta sicurezza. Questo principio può essere utile per comprendere le notevoli differenze che si riscontrano negli ambienti sociali umani caratterizzati da alta o bassa instabilità. I primi sono più facilmente associabili all’utilizzo di “strategie lente”, come rimandare la gratificazione immediata per ottenere un maggiore vantaggio futuro. I secondi sono invece maggiormente caratterizzati da “strategie veloci” come, ad esempio, preferire un vantaggio immediato, anche se minore, anziché aspettare una maggiore gratificazione futura. E in entrambi i casi si tratta di scelte, al fondo, sensate e adattive. Nessuna strategia è di per sé migliore poiché, in ultima analisi, la sua valenza più o meno adattiva dipende dal tipo di ambiente in cui nasciamo, cresciamo e ci troviamo a vivere. Le nostre esperienze infantili, in particolare, rappresentano un’impronta fondamentale a partire dalla quale si formano le nostre aspettative, le nostre credenze e, dunque, i nostri comportamenti. Lo sviluppo mentale umano comprende quindi una serie di circuiti variabili; anziché trasmettere un singolo tratto, i nostri geni prescrivono la capacità di sviluppare una serie di tratti, più o meno variabili e adattivi a seconda dell’ambiente in cui si cresce e ci si trova a vivere (Wilson, 1978). Tutti noi, ad esempio, siamo predisposti a ricercare il legame e la vicinanza con delle figure di riferimento, ma la modalità specifica con cui ogni individuo stabilisce questo legame e ricerca la sicurezza dipenderà tanto dal temperamento quanto dalle esperienze che caratterizzano i primi anni di vita del soggetto e che plasmano le sue credenze. Un comportamento che si è rivelato adattivo nell’infanzia può non esserlo più in età adulta, ma non sempre al mutare dell’ambiente si riesce a rispondere con un adeguamento ugualmente rapido delle proprie credenze, aspettative e risposte. Per riassumere quanto detto finora, l’evoluzione della specie ha prodotto una serie di sistemi comportamentali che derivano da alcune propensioni “istintive” evoluzionisticamente fondate e che, nel loro complesso, promuovono la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo in uno specifico ambiente. Tra questi sistemi, alcuni hanno la funzione primaria di sancire e rafforzare la nostra appartenenza a un gruppo. Come abbiamo visto, infatti, la natura umana, oltre a contenere una serie 21 di meccanismi che promuovono direttamente gli interessi del singolo, è allo stesso tempo gruppale, ossia contiene una serie di meccanismi che ci permettono di promuovere gli interessi del nostro gruppo e di ostacolare quelli dei gruppi rivali. Le maggiori sfide adattive della vita umana vedono infatti l’individuo coinvolto in piccoli e grandi gruppi – dalla famiglia a gruppi sociali più ampi - che ne facilitano la sopravvivenza e aumentano le possibilità riproduttive. Per poter evolvere come specie, ma anche per poter aspirare a una realizzazione e a un benessere personale, dobbiamo poterci sentire al sicuro, sentire che siamo protetti, amati e stimati all’interno di un dato ambiente e del nostro gruppo di riferimento. 6. I principi morali di Haidt e il legame con i sensi di colpa interpersonali La selezione multilivello che favorisce la cooperazione all’interno dei gruppi e la rivalità tra gruppi diversi fa sì che non soltanto vi sia un piacere nella cooperazione, ma anche il desiderio di vedere puniti i membri del gruppo che non cooperano e che tradiscono. I gruppi possono essere egualitari e cooperare al loro interno non perché si compongono di sole persone virtuose, bensì perché è la stessa mentalità di gruppo che si occupa di punire i bulli e i traditori (Wilson, 2007). Questo non avviene esclusivamente nei piccoli gruppi, ma in tutte le società umane che si fondano su una serie di valori, politici e religiosi, che hanno per lo più il ruolo di sopprimere gli egoismi individuali. All’interno delle diverse società i comportamenti dei singoli ritenuti devianti rispetto alla coesione del gruppo vengono ostracizzati attraverso accuse velate – come il gossip – o attraverso critiche e esclusione dal gruppo (Boehm, Boehm, 2009). Ma quale meccanismo si trova alla base di questi comportamenti? Cosa permette a più individui appartenenti allo stesso gruppo di allearsi in vista di un obiettivo comune e di ostacolare coloro che vi si contrappongono? Abbiamo visto come all’interno dei gruppi alcuni comportamenti risultino necessari a garantire il senso di appartenenza e coesione del gruppo e a far sì che questi risultino adattivi per gli individui che ne fanno parte. A tal proposito, Haidt e collaboratori (Haidt, Joseph, 2004; 2007; Haidt, Graham, 2007; Haidt, 2012) hanno approfondito alcuni obiettivi adattivi che appaiono di grande rilevanza all’interno della vita sociale: prendersi cura di bambini vulnerabili, formare unioni con consanguinei per trarre vantaggio dalla reciprocità, formare coalizioni per competere con altre coalizioni, negoziare gerarchie di status, tenere al riparo se stessi e i propri consanguinei dai parassiti e dagli agenti patogeni (Fig. 3). Nel complesso, ognuna di queste sfide ha prodotto una serie di risposte automatiche - identificate anche da Kenrick e Griskevicius (2013) nei comportamenti di cura, affiliazione e evitamento delle malattie - che vanno a costruire le basi della moralità umana. In ultima analisi, ognuno di questi principi morali deriva dal bisogno umano di sicurezza e appartenenza a un gruppo ed è garantito da valutazioni cognitive ed emotive automatiche e inconsce. 22 Ad esempio, l’essere umano è portato a reagire con dolore, collera o disgusto quando percepisce eventi nel suo mondo sociale che riguardano: persone sofferenti (in particolare bambini) o che arrecano sofferenza a qualcuno; persone che imbrogliano o che non riescono a ripagare i favori; persone oppresse o che opprimono; persone sleali, irrispettose, che commettono attività immorali o degradanti. Questi eventi tendono a suscitare nell’uomo una serie di giudizi automatici e spontanei, basati probabilmente sull’attivazione subcorticale dei sistemi emotivo-motivazionali e, dunque, su emozioni piacevoli o spiacevoli. Zajonc (1980) sostiene che la mera presenza dell'oggetto verso il quale il soggetto ha un atteggiamento (posizione interiore favorevole o sfavorevole) sia sufficiente a causare la corrispondente valutazione. L'attribuzione di qualità come buono vs cattivo, ad esempio, può essere elicitata immediatamente dalla vista dell’oggetto. L'immediatezza e la non intenzionalità della classificazione delle esperienze come buone o cattive non dipende, peraltro, dalla forza o dall'importanza dell'atteggiamento. Le persone fanno valutazioni anche quando non sanno di farlo e valutano inconsapevolmente tutte le condizioni, dalle più alle meno importanti. La valutazione inconscia principalmente positiva o principalmente negativa influisce sul tono dell'umore della persona e assume così, a cascata, la funzione di segnalare situazioni di sicurezza o pericolo nell'ambiente circostante. Non sono solo oggetti e situazioni specifiche a essere valutate rapidamente e senza un'intenzionalità consapevole, ma anche le persone che vediamo per la prima volta: una grande quantità di informazioni è trasmessa attraverso comportamenti espressivi non intenzionali che non raggiungono il livello della consapevolezza, e la correttezza di queste valutazioni “immediate e inconsce” è piuttosto elevata (Ambady & Rosental, 1998). Vediamo, nello specifico, i sistemi proposti da Haidt (2012): • • Il principio di cura/danno deriva dal bisogno di prendersi cura delle persone in difficoltà ed è basato sulla capacità empatica di sentire il dolore e la sofferenza altrui. Questo principio morale può essere facilmente collegato all’attivazione del sistema dell’accudimento delineato da Panksepp (Panksepp, Biven, 2012) che, come abbiamo visto, permette agli individui (in misura maggiore alle donne) di reagire in modo automatico ad alcuni segnali che esprimono bisogni o sofferenza da parte di un altro individuo. Come sappiamo, una situazione di sofferenza e pericolo è il fattore scatenante originario del principio di protezione/danno, ma, grazie allo sviluppo delle capacità empatiche, la cura si estende a individui diversi, distribuiti gerarchicamente a seconda del grado di parentela e vicinanza. Il principio di correttezza/inganno deriva dalla necessità di trarre benefici da una relazione a due, corrisponde alla preoccupazione per un trattamento ingiusto e per la disuguaglianza, ed è legato al processo evolutivo di altruismo reciproco. In genere, infatti, ci mostriamo altruisti con chi incontriamo per la prima volta ma, con il passare del tempo, la nostra disponibilità diventa selettiva: collaboriamo solo con chi è si è dimostrato altruista nei nostri confronti ed evitiamo o ostacoliamo chi si è dimostrato egoista o si è approfittato di noi. Alla base di questo comportamento vi potrebbe essere l’attivazione di sistemi diversi che vengono attivati da gesti di collaborazione o di egoismo compiuti nei nostri confronti. Oltre ai sistemi 23 • • • dell’accudimento e dell’attaccamento potrebbe ad esempio essere implicato il sistema del gioco, la cui stimolazione prevede un comportamento attivo di ricerca di un’interazione reciproca, in cui si “vince” e si “perde” a turno, e quello dell’aggressività. Il principio di libertà/oppressione deriva dai sentimenti di risentimento delle persone nei confronti di coloro che li dominano e intendono limitare la loro libertà, e spinge gli individui a cooperare contro gli oppressori, i bulli e i dominatori. Dal punto di vista adattivo, può essere considerata la risposta alla sfida di vivere in piccoli gruppi in cui gli individui, se avessero avuto la possibilità, avrebbero prevaricato e oppresso i propri simili. I sistemi alla base di questo principio morale potrebbero dunque essere quello dell’attaccamento, della paura e dell’aggressività. I segnali scatenanti sono quelli che comportano un tentativo di dominanza arbitraria da parte di un individuo sul gruppo: comportamenti aggressivi e vessatori portano gli altri individui a unirsi per contrastare gli oppressori. Il principio di lealtà/tradimento deriva dal bisogno di formare coalizioni mutevoli, ma coese, all’interno delle società, coalizioni che possono aiutare i singoli soprattutto in presenza di risorse limitate. Questo principio comporta un bisogno innato di appartenenza al gruppo e avversione verso il gruppo rivale ed è alla base delle virtù del patriottismo e del sacrificio per il gruppo. Il fattore scatenante originario di questo modulo deriva dalla percezione dell’altro come appartenente al nostro gruppo o come traditore. Il bisogno di appartenenza al gruppo sembra essere collegato principalmente con l’attivazione del sistema dell’attaccamento, che potrebbe interagire con l’attivazione del sistema dell’accudimento diretto verso i compagni leali e quello dell’aggressività diretto verso i traditori o i membri di altri gruppi rivali. Un celebre esperimento di psicologia sociale condotto da Sherif (1954) mostra come, in determinate condizioni, si creino facilmente dinamiche che favoriscono la divisione in in-group e out-group. Sherif decise di portare un gruppo composto da dodici ragazzini a un campo estivo di tre settimane dove i ragazzi erano stati divisi casualmente in due gruppi da undici ragazzi ciascuno. Per i primi cinque giorni ogni gruppo era convinto di essere solo all’interno del campo. All’interno di ogni gruppo era quindi emerso un leader e avevano iniziato a formarsi regole, riti e identità distinte tra i membri. Quando al sesto giorno i due gruppi si erano accorti di non esser soli, avevano iniziato a pregare l’educatore di organizzare una sfida tra i due gruppi che si era concretizzata in un torneo basato su abilità sportive. Da quel momento in poi, il comportamento tribale aveva visto un incremento, favorendo il senso di lealtà all’interno del gruppo e la rivalità con il gruppo rivale. Il principio di autorità/sovversione deriva dalla nostra lunga storia di primati coinvolti in interazioni sociali gerarchiche che costituiscono il fondamento dell’appartenenza al gruppo, ed è alla base delle virtù di leadership e followership. Gli individui più abili riescono infatti a mantenere la protezione dei superiori e la lealtà dei subordinati. I fattori che attivano questo sistema sono tutti quegli elementi che denotano una differenza tra ranghi, più bassi e più alti, e quei comportamenti tesi a negare o sovvertire l’ordine gerarchico. Difatti, se l’autorità è in grado di tutelare il gruppo difendendolo dal caos, tutti gli individui sono istintivamente portati a tutelare questa gerarchia, a patto che questa garantisca l’ordine e 24 • l’interesse del gruppo. Anche alla base di questo modulo possiamo ipotizzare che vi sia il sistema dell’attaccamento, che promuove nell’individuo un bisogno di sicurezza interpersonale, e quello della paura. Il principio di santità/degradazione è associato a emozioni di disgusto e paura per la contaminazione, e si trova alla base di alcuni principi religiosi che inducono a vivere in modo “più virtuoso” e “meno carnale”; alla base di questo principio vi è l’idea del corpo come un tempio che può essere profanato da attività immorali e contaminanti. Sappiamo che il senso del disgusto ha permesso agli individui di proteggersi dai microbi e, dunque, di essere esposti a meno malattie potenzialmente mortali. Il sentimento di disgusto può quindi essere considerato parte del nostro “sistema immunitario comportamentale” che ci spinge a tenerci a debita distanza da oggetti o persone in grado di trasmettere infezioni e malattie. Alla base di questo principio potrebbe essere ipotizzata l’interazione il sistema della paura e della rabbia e l’emozione del disgusto. Attualmente, un esempio diretto dell’attivazione di questo sistema può essere considerata l’avversione per gli estranei, come le popolazioni di immigrati, che sembra infatti diminuire quando il rischio di contrarre malattie è minore (Thornhill, Fincher, Arran, 2009). 25 Fig. 3. I sei principi morali di Haidt 26 Dunque, secondo Haidt, la morale dell’uomo possiede un carattere innato e transculturale che si esplica in sei principi morali individuabili nelle diverse culture e nelle diverse società. Questa prima “bozza morale” innata viene però modificata durante l’infanzia a seconda dell’ambiente d’appartenenza e si declina in modo diverso nelle diverse culture. Solo in seguito a questo giudizio automatico il soggetto cerca argomentazioni razionali a supporto di questo giudizio attraverso il ragionamento morale. Potenzialmente siamo dunque in grado di elaborare dei giudizi morali su diverse questioni. Alcune di queste vengono rinforzate nell’infanzia, altre rimangono invece sopite. Su alcuni aspetti ci mostriamo quindi irremovibili, rispetto ad altri diventiamo invece più elastici. Le ricerche di Shweder e collaboratori (Shweder, Mahapatra, Miller, 1987) evidenziano quanto le differenze culturali, etiche e religiose possano strutturare, in modi diversi, le idee e i comportamenti degli individui nelle diverse società a partire dai fondamenti innati della morale. In particolare, gli autori individuano tre clusters principali di tematiche morali: • • • L’etica dell’autonomia si fonda sull’idea che gli uomini siano individui isolati che hanno bisogni e desideri che devono essere liberi di soddisfare. Questo principio etico, prevalentemente presente nelle società occidentali, si fonda su i valori riguardanti i diritti e la libertà individuale. L’etica della comunità enfatizza maggiormente la visione dell’uomo come membro di gruppi e società più ampie. Questo tipo di etica si fonda sui principi del patriottismo, della lealtà e del rispetto. L’etica della divinità si fonda sull’idea dell’uomo come contenitore temporaneo di un’anima divina, sull’idea che il corpo è sacro e come tale va rispettato. Alla luce di quanto detto, possiamo ipotizzare che il prevalere di un tipo di morale sull’altra possa rappresentare motivo di tensione tra gruppi diversi. Per coloro che si rifanno all’etica della comunità, l’individualismo dell’occidente post-industriale appare egoista e pericoloso. Per coloro che si rifanno invece all’etica divina, l’ottica individualista sembra un’esaltazione degli istinti umani più bassi. Questi contrasti possono anche presentarsi all’interno dello stesso gruppo familiare, nel passaggio da una generazione all’altra ad esempio, quando il sistema di valori di riferimento cambia rapidamente provocando una frattura tra genitori e figli. Sviluppare un’idea diversa dai propri genitori può infatti comportare forti vissuti di colpa da parte dei figli che sentono che quello che gli è stato insegnato durante l’infanzia e l’adolescenza, il sistema di valori con il quale sono cresciuti, rappresenta il legame stesso con i propri genitori e distanziarsi da questi valori vuol dire quindi spezzare questo legame, mentre restare fedeli a quei valori può ostacolare il loro successo in un mondo che cambia. Un esempio attuale riguarda le seconde generazioni di immigrati, che nel passaggio da una cultura all’altra possono incontrare molte difficoltà. Se da una parte, infatti, abbracciare completamente la cultura d’origine dei genitori, le norme e i valori del paese di appartenenza può comportare per i ragazzi difficoltà di adattamento e integrazione al nuovo contesto, dall’altra il rifiuto di tali valori e l'adesione ai costumi e agli stili di vita della nuova cultura può generare profondi sensi di colpa derivanti dall'idea di aver tradito i propri genitori. 27 Per riassumere, abbiamo visto come i principi morali abbiano un carattere universale e adattivo poiché hanno contribuito, nel tempo, alla sopravvivenza del gruppo, e vanno poi strutturandosi a seconda della cultura di appartenenza. Ogni persona è istintivamente predisposta a reagire con collera e disprezzo verso quegli individui che minacciano l’identità, l’appartenenza e la cooperazione all’interno del gruppo. Allo stesso modo, tutti noi siamo istintivamente predisposti a seguire questi principi morali e, se questo non avviene, veniamo travolti da dolorosi vissuti di colpa. La Control-Mastery Theory differenzia tra sensi di colpa consci e inconsci. Mentre i primi sono legati alla consapevolezza di aver fatto qualcosa di sbagliato in base al proprio sistema culturale e morale, i secondi sono invece legati a credenze derivate da traumi da shock o da stress vissuti nel corso delle proprie relazioni primarie, in cui il bambino ha sentito che il perseguimento di un obiettivo sano – giocare con gli amichetti, dipendere, arrabbiarsi per un torto subìto, essere autonomo ecc. – era causa di dolore e sofferenza per i propri cari. Questo tipo di senso di colpa interpersonale, pur nascendo da una motivazione pro-sociale e adattiva, finisce per essere disadattivo nel momento in cui ostacola la realizzazione di obiettivi personali e relazionali sani e adattivi, provocando inibizioni e sintomi. In particolare: • • • • Il senso di colpa da separazione/slealtà deriva dalla credenza patogena secondo cui separarsi fisicamente e psicologicamente dai propri cari possa arrecare loro sofferenza. Possiamo notare come esista una somiglianza tra questo senso di colpa interpersonale e il principio di lealtà/tradimento studiato da Haidt. In entrambi i casi, infatti, lo scopo per l’individuo è quello di salvaguardare la propria appartenenza al gruppo. Il senso di colpa da responsabilità onnipotente ha a che vedere con l’idea di avere il potere e il dovere di prendersi cura degli altri significativi. Questo senso di colpa appare invece connesso al principio morale di cura/danno ipotizzato da Haidt. D’altra parte, anche in questo caso, essendo associato a credenze patogene, il soggetto finisce per mettere da parte i propri bisogni pur di rispondere a quelli altrui e si vive come cattivo ed egoista ogni qual volta non è in grado di soddisfarli o si concentra sui propri interessi. Il senso di colpa del sopravvissuto si associa invece alla credenza patogena secondo cui il proprio successo e benessere personale sia ingiusto in quanto iniquo, come se quello che il soggetto possiede, o ha raggiunto, fosse stato tolto a qualcun altro. L’idea alla base di questo senso di colpa è la stessa che possiamo rintracciare nel principio di equità/imbroglio studiato da Haidt, e in alcuni casi a quello di autorità/sovversione. Il senso di colpa da odio di sé deriva da relazioni abusanti o trascuranti in cui il soggetto, pur di non vedere i propri genitori come cattivi, si è convinto di non meritare di essere amato, accudito e protetto. Questo senso di colpa è forse il più doloroso e disfunzionale tra tutti i sensi di colpa in quanto il soggetto non riesce a tollerare di poter essere felice e avere una buona autostima e finisce per boicottare quelle situazioni o relazioni che sembrano accennare a questa possibilità. Poiché questo senso di colpa si associa spesso all’idea di essere intrinsecamente cattivo, sbagliato e sporco, è possibile ravvisare delle analogie con i 28 principi di santità/degradazione e autorità/sovversione descritti da Haidt, sebbene, ancora una volta, l’origine traumatica di questo senso di colpa lo renda profondamente disadattivo. 8. Conclusioni Le difficoltà che riportano i pazienti in terapia sono spesso profondamente radicate nelle sfide adattive che incontriamo come specie. Il bambino fin dalla nascita è profondamente motivato ad adattarsi alla sua realtà e lo fa con il bagaglio di esperienze che gli è stato tramandato dai suoi predecessori a livello filogenetico. Il bambino sa, in modo inconsapevole, che la propria sopravvivenza dipende dalla vicinanza con il proprio gruppo primario, in particolare con i propri genitori. Ha bisogno che questi lo amino, lo curino e lo proteggano. Ogni comportamento che procura loro sofferenza o dispiacere è motivo di grande sofferenza per il bambino, che sente di poter perdere la loro stima e la loro protezione e quindi è portato a giustificare i genitori e attribuirsi la responsabilità di ciò che accade. Questi vissuti di colpa che il bambino sperimenta durante i primi anni della sua vita, sebbene nascano con una motivazione pro-sociale e adattiva, se pervasivi e associati a credenze patogene derivate da esperienze traumatiche finiscono per plasmare la percezione, le risposte e i comportamenti dell’individuo al suo ambiente, producendo rimozioni, inibizioni e sintomi. Proprio come le tartarughe e gli uccelli di cui abbiamo parlato, i cui comportamenti, un tempo adattivi, si rivelano fondamentalmente disfunzionali nel nuovo ambiente di adattamento, così anche gli uomini possono mettere in atto una serie di strategie utili ad adattarsi al proprio ambiente infantile che in seguito si rivelano però disfunzionali. La psicopatologia, dunque, può essere letta come espressione di credenze e schemi patogeni che hanno favorito l’adattamento dell’individuo a un ambiente primario traumatico ma che si rivelano disadattivi al mutare delle circostanze. Se è vero infatti che, a differenza delle tartarughe e degli uccelli, siamo dotati di un funzionamento mentale che ci permette di adattare il nostro bagaglio evolutivo alle sfide di un ambiente diverso da quello ancestrale, è anche vero che le credenze e gli schemi acquisiti durante l’infanzia plasmano il nostro funzionamento mentale e la nostra personalità divenendo spesso automatici, impliciti e difficili da modificare. Non bisogna però dimenticare che l’imperativo dell’adattamento accompagna l’uomo in ogni momento della sua vita. Quando giungono in terapia, quindi, i pazienti sono fortemente motivati a disconfermare le proprie credenze patogene in quanto causa di sofferenza e non più adattive. E consciamente o inconsciamente cercheranno di raggiungere questo obiettivo per mezzo di piani più o meno articolati. Sarà compito dell’analista disconfermare le loro credenze patogene e aiutarli a realizzare il loro piano attraverso l’atteggiamento, le interpretazioni e il superamento dei test. 29 [1] Sternberg (2000) definisce la percezione come "l'insieme dei processi per mezzo dei quali riconosciamo, organizziamo e diamo senso alle sensazioni relative alla molteplicità di stimoli ambientali" (p. 132). [2] E' necessario però sottolineare che alcuni studiosi (Pievani, 2014) preferiscono procedere con cautela rispetto all’attribuzione di una paternità biologica o culturale di alcuni comportamenti. I diversi modi in cui pensiamo e ci comportiamo sono comunque il frutto dell’intreccio tra precursori naturali ed evoluzione culturale della specie. 30 Bibliografia Alexander, B. K., Beyerstein, B. L., Hadaway, P. F., Coambs, R. B. 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