QUI - Control Mastery Theory Italian Group

Transcript

QUI - Control Mastery Theory Italian Group
La centralità dell'adattamento: emozioni primarie, funzionamento
motivazionale e moralità tra neuroscienze, psicologia evoluzionistica e ControlMastery Theory
di Emma De Luca, Cristina Mazza, Francesco Gazzillo ©
La Control-Mastery Theory (CMT) è una teoria psicodinamica-cognitiva di natura relazionale
(Silberschatz, 2005) del funzionamento mentale, della psicopatologia e della psicoterapia sviluppata
da Joseph Weiss (1993) e Harold Sampson e studiata empiricamente dal Mount Zion (ora San
Francisco) Psychotherapy Research Group (Weiss, Sampson, & The Mount Zion Psychotherapy
Research Group, 1986).
Tra i fondamenti teorici della CMT si possono rintracciare la centralità della motivazione
all'adattamento e l'ipotesi di un funzionamento mentale inconscio di livello superiore. Entrambe
queste ipotesi godono ormai di un solido sostegno empirico proveniente dagli studi neuroscientifici
e di psicologia evoluzionista e cognitivista. Scopo di questo lavoro è fornire una panoramica
generale, quanto più aggiornata possibile, di alcune di queste ricerche.
1. La selezione multilivello
I teorici dell’evoluzione naturale si sono da sempre interessati ai processi che consentono
all’individuo di adattarsi al proprio ambiente. Possiamo immaginare la teoria della selezione
naturale di Darwin (1859) come fondata su tre assunti (Wilson, 2007): a differenze o variazioni
individuali corrispondono delle conseguenze nella possibilità di sopravvivere e riprodursi in un dato
ambiente. I tratti, influenzati dai geni, che nel tempo si sono mostrati più adattivi vengono poi
trasmessi attraverso un meccanismo ereditario, garante di sopravvivenza e riproduzione. In altre
parole, all’interno di una popolazione gli individui si distinguono per la composizione genetica e
per l'abilità di sopravvivere e riprodursi. Coloro che hanno più successo nella sopravvivenza e
riproduzione trasmettono più materiale genetico alla generazione successiva permettendo così
l’adattamento di una data specie al proprio ambiente, se i cambiamenti di questo ambiente non sono
troppo rilevanti.
Una caratteristica fondamentale dell’evoluzione umana è poi rappresentata dall’eusocialità, cioè da
un’elevata organizzazione sociale acquisita solo da alcune specie animali e che permette agli
individui di riunirsi in gruppo e ricavare una maggiore quantità di risorse dall’ambiente che li
circonda, cosa che garantisce una migliore difesa da predatori o invasori esterni.
Fino a qualche decennio fa, la biologia evoluzionista ha cercato di spiegare l’evoluzione umana,
compresa l’eusocialità, attraverso le leggi della selezione di parentela detta anche fitness
inclusiva (Hamilton, 1966). In base a questa teoria, individui legati dagli stessi geni cooperano tra
1
loro in maniera disinteressata in quanto, favorendo la sopravvivenza di individui legati da un stretto
grado di parentela, garantiscono la trasmissione dei propri geni alla generazione successiva. Negli
ultimi anni, tuttavia, una nuova teoria si è aggiunta alla teoria della fitness, quella della selezione
multilivello (Wilson, 1978; Wilson, Wilson, 2008). Secondo questa teoria, esistono più spinte
selettive che procedono parallelamente – genetica, individuale, gruppale. La selezione multilivello
prevede un’interazione tra la selezione dei tratti che favoriscono i singoli individui e la selezione dei
tratti che favoriscono invece la sopravvivenza del gruppo.
La selezione dei tratti che favoriscono il gruppo evolve insieme a quella che favorisce il singolo
poiché, in determinate circostanze, la cooperazione e il sostegno reciproco permettono ai
gruppi, e ai singoli che ne fanno parte, di sopravvivere e di avere più successo riproduttivo
degli individui isolati. La fitness genetica di ogni individuo, ossia il numero di discendenti
fertili, dipende quindi tanto dalla selezione individuale quanto da quella gruppale. Dunque,
anziché parlare di contrapposizione tra selezione individuale e selezione gruppale sarebbe più
opportuno pensare all’interazione complessa tra due processi di selezione distinti che si sono evoluti
perché entrambi, nel tempo, hanno permesso agli individui di sopravvivere e trasmettere più
efficacemente i propri geni. Anche se all’interno di un gruppo un individuo egoista può avere più
successo di quello altruista, un gruppo con più individui altruisti cresce di dimensioni più di un
gruppo composto da individui per lo più egoisti, contribuendo così ad accrescere il numero di
individui altruisti all’interno della specie.
L’ipotesi a favore di un tipo di selezione che, parallelamente a quella individuale, favorisca quei
tratti che permettono all’individuo di cooperare all’interno di un gruppo viene illustrata in maniera
piuttosto chiara da un esperimento di William Muir (2013) sulla produttività delle galline in gabbia.
Con l’obiettivo di aumentare la produttività delle galline da allevamento, Muir seleziona due tipi di
gabbie, ognuna contenente dodici galline. Da una parte seleziona le galline che singolarmente si
erano mostrate più produttive per riunirle in unica gabbia, dall’altra seleziona il gruppo di galline
che, nel suo insieme, aveva mostrato di essere più produttivo. Dopo alcune generazioni, delle dodici
galline iniziali nella prima gabbia ne rimanevano solo tre, mentre la numerosità della seconda era
rimasta intatta. L’“egoismo” individuale, anziché condurre a un successo evolutivo del gruppo, si
era mostrato disadattivo: le galline sembravano molto competenti nella riproduzione, ma il successo
di una poteva avvenire solo attraverso la competizione con le altre. E la lotta tra le “galline
eccellenti”, alla lunga, aveva portato alla moria del gruppo. Al contrario, la seconda gabbia
conteneva le galline che fin dall’inizio avevano mostrato di sapere convivere in gruppo grazie a
tratti che erano stati ereditati dalle generazioni precedenti. Un esperimento simile è stato condotto
da Wilson e colleghi (2007) su un gruppo di studenti ai quali venne chiesto di risolvere un compito,
prima in gruppo e poi singolarmente o viceversa. In generale, la performance del gruppo risultava
migliore quando si aumentava la difficoltà, ma un dato interessante proveniva dai migliori giocatori
solitari. Questi, infatti, sebbene quando competevano da soli avessero performance decisamente al
di sopra della media, nel momento in cui si trovavano a far parte del gruppo si ponevano come
leader autoritari abbassando di molto la performance del gruppo stesso. Proprio come
2
nell’esperimento delle galline, all’interno di un gruppo il singolo “egoista” può prevalere su gli altri
solo a discapito del resto del gruppo, mentre un gruppo formato da individui che collaborano meglio
tra loro ha più possibilità di successo.
Questa interazione tra la selezione dei tratti che favoriscono il singolo individuo e la selezione dei
tratti che favoriscono il gruppo è stata peraltro piuttosto rara nella storia della vita sulla terra in
quanto i vantaggi dati dalla selezione gruppale devono essere estremamente potenti per allentare la
forza dei tratti che favoriscono il singolo. La selezione di gruppo può avere la meglio sulla
selezione individuale, infatti, solo quando il tasso di crescita dei gruppi con membri “altruisti” (che
cooperano) supera il tasso di crescita degli individui “egoisti” (che non cooperano) (Wilson, 2012).
La selezione individuale è funzione della “lotta per la sopravvivenza e la riproduzione” di individui
appartenenti a uno stesso gruppo, quella di gruppo della “lotta tra gruppi diversi”, intesi come unità.
“Gli individui competono tra loro e questa competizione premia l‘egoismo, che comprende alcune
forme di cooperazione strategica (…) ma al tempo stesso anche i gruppi competono tra loro, e
questa competizione favorisce quelli composti da individui con un’autentica attitudine al lavoro di
squadra, disposti a collaborare e ad adoperarsi per il bene degli altri membri, (…) questi due
processi hanno spinto la natura umana in direzioni differenti e ci hanno dotati della curiosa
mescolanza di egoismo e altruismo che conosciamo oggi” (Haidt, 2012, pp. 240-241). La selezione
multilivello permette di alleggerire la competizione tra individui che fanno parte di uno stesso
gruppo spostandola all’esterno, creando una forte contrapposizione tra in-group e out-group
e una competizione spesso feroce tra gruppi rivali. Studi di Social Cognition mettono in evidenza
come nelle relazioni tra gruppi sociali si registri la tendenza a spiegare i comportamenti delle
persone in modo da favorire il proprio gruppo, che viene descritto sotto una luce migliore. Per lo
più, i successi dei membri del proprio gruppo sono attribuiti a cause interne stabili (es. bravura,
intelligenza) mentre la riuscita di un altro gruppo viene prevalentemente spiegata attraverso cause
esterne (es. fortuna). L'inverso accade per i fallimenti. Questo processo di attribuzione causale è
noto come group-serving bias (Bianchi, Di Giovanni, 2000).
2. L’uomo come primate sociale
Tre capacità psicologiche sono risultate essenziali nell’evoluzione della specie umana come specie
eusociale: la capacità di attenzione condivisa, la consapevolezza della necessità di cooperare per
raggiungere un obiettivo comune e lo sviluppo della capacità empatica. La capacità di leggere le
emozioni altrui, cooperare in vista di un obiettivo comune e prevedere le azioni altrui favorisce
infatti una cooperazione più efficace tra i membri di un gruppo e stabilisce un vantaggio enorme
sugli altri gruppi. La selezione gruppale ha quindi favorito una serie di capacità e motivazioni
pro-sociali che favoriscono il gruppo nel suo insieme e tendono a favorire comportamenti di
cura e sostegno reciproco.
3
Per quanto riguarda la condivisione delle intenzioni risulta molto interessante l’ipotesi dell’occhio
cooperativo sviluppata presso il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Tomasello,
Hare, Lehmann, Call, 2007). Una serie di esperimenti mostra la differenza tra primati e bambini nel
seguire lo sguardo altrui. Mentre i primi sembrano più interessati a seguire lo sguardo altrui quando
è la testa a compiere un movimento, i bambini sono portati fin da subito a seguire lo sguardo
quando è l’occhio a muoversi. Secondo gli autori, tale differenza deriverebbe fondamentalmente da
una diversità nell’organizzazione sociale dei primati e degli uomini. I primi costruiscono infatti
sistemi sociali in cui gli individui dominanti sottomettono e puniscono i loro subordinati, mentre le
società umane si fondano fondamentalmente sulla cooperazione e condivisione delle intenzioni in
vista di uno scopo comune. Se, dunque, fissare lo sguardo di un primate non umano può
rappresentare una sfida che può sfociare in una contesa, e quindi in una perdita per uno dei due
contendenti, possiamo invece ipotizzare che gli uomini abbiano dovuto affinare la capacità di
seguire con lo sguardo i propri simili per poter condividere informazioni e comunicare la propria
intenzionalità. Tomasello (2007) attribuisce una funzione analoga alla capacità, tipica della specie
umana e non degli altri primati, di indicare un oggetto a un’altra persona. Numerosi esperimenti
evidenziano come la condivisione dell’intenzionalità sia già presente all’età di dodici mesi. In uno
dei più celebri esperimenti al riguardo (Liszkowski et al., 2004), un bambino è portato a richiamare
l’attenzione di un adulto su un oggetto. L’adulto risponde in quattro modi: 1) guardando l’oggetto
2) mostrando un’attivazione emotiva senza però guardare l’oggetto 3) non mostrando alcun tipo di
reazione 4) guardando alternativamente bambino e oggetto e mostrando un’attivazione emotiva. I
bambini di un anno di età appaiono soddisfatti solo dalla quarta risposta, mostrando dunque un
desiderio di condividere sia l’interesse sia l’attenzione verso uno stesso oggetto con l’adulto.
Quando gli uomini hanno cominciato a fare affidamento l’uno sull’altro per la propria
sopravvivenza è diventato sempre più importante non solo condividere gli uni con gli altri le
intenzioni, ma anche i sentimenti. Recenti studi sull’empatia (Decety, 2011) mostrano come gli
uomini condividano con gli altri mammiferi alcune aree cerebrali subcorticali che hanno a che
vedere con i comportamenti di attaccamento e accudimento e la cui stimolazione produce
un’attivazione empatica. Tuttavia, a differenza degli altri mammiferi l’uomo è in grado di
empatizzare non solo con parenti o conoscenti stretti, ma anche con perfetti sconosciuti. Questa
evoluzione della capacità empatica sarebbe frutto dell’interazione delle aree subcorticali che hanno
a che vedere con l’accudimento e alcune aree della neo-corteccia che contribuiscono a creare forme
flessibili e generalizzate di empatia verso altri individui. Recentemente, la scoperta dei neuroni
specchio ha contribuito a consolidare l’ipotesi di una base biologica della capacità empatica: i
neuroni specchio sono infatti una classe particolare di neuroni visuomotori originariamente scoperti
nella corteccia prefrontale che si attivano sia quando l'animale compie un'azione finalizzata sia
quando osserva un altro animale compiere la stessa azione (Rizzolatti, Craighero, 2004). Lo
sviluppo della capacità empatica ha dunque contribuito ai processi di selezione gruppale che si
basano su forme di cooperazione e altruismo reciproco.
4
Anche l'imitazione inconscia, cioè la naturale tendenza ad adottare la postura o il comportamento
dell'altro con cui siamo in interazione, anche se estraneo e completamente sconosciuto, sembra
avere la funzione adattiva di facilitare le interazioni sociali e di incrementare la propensione
(simpatia) e la comprensione dell'altro. Questa imitazione incrementa la possibilità di stabilire
relazioni piacevoli e armoniose all’interno del gruppo. Molti sono i comportamenti sociali che
vengono messi in atto senza che vi sia un'intenzionalità e una scelta consapevole, movimenti e
postura del corpo compresi. In un esperimento, ad esempio, Chartrand e Bargh (1996) hanno
disposto i partecipanti a coppie con dei complici degli sperimentatori al fine di lavorare su un
compito legato alla realizzazione di un progetto fotografico che minimizzasse il contatto oculare o
lo scambio verbale tra loro. Le sessioni erano videoregistrate. I risultati hanno mostrato che quando
il complice dello sperimentatore muoveva la testa, anche il suo partner eseguiva lo stesso
movimento, mentre un altro complice in un'altra coppia eseguiva un movimento differente, per
esempio muoveva il piede. I soggetti eseguivano lo stesso comportamento motorio del proprio
partner e non quello messo in atto da complici assegnati ad altre coppie.
Tutte queste capacità sono svolte, in larga misura, senza che ne siamo consapevoli; detto in altre
parole, la nostra menta è pre-programmata ad adattarsi alla realtà, soprattutto a quella
interpersonale, a livello inconscio prima ancora che a livello cosciente.
La specie umana, nonostante la sua evoluzione, resta un mammifero e un primate con una serie di
affetti e motivazioni di base che si sono evolute grazie alla selezione naturale; la coscienza e le
capacità cognitive superiori si sono aggiunte a questo bagaglio ma non lo hanno sostituito. In
generale, la selezione multilivello, individuale e gruppale, prevede che ogni persona, nelle proprie
azioni, sia guidata da una serie di motivazioni e propensioni interne che nel tempo hanno favorito la
sopravvivenza e la riproduzione tanto del singolo quanto del gruppo. Siamo istintivamente portati a
non toccare quello che sembra essere poco sano, a rifuggire gli spazi stretti e bui dai quali risulta
difficile scappare e a preferire panorami ampi, con una vista sul verde e su fonti di acqua. Siamo
spinti, in maniera “istintiva”, a prenderci cura degli altri, soprattutto se sono cuccioli e bisognosi di
protezione, e a reagire con violenza quando vediamo frustrato un nostro bisogno fondamentale.
Queste propensioni sono fondamentalmente inconsce, e possono portare a scelte a prima vista
irrazionali, ma la cui causa ultima è sempre rappresentata dal bisogno dell’individuo e del gruppo di
sopravvivere e riprodursi in un dato ambiente.
Viviamo però in un ambiente variabile e siamo in grado, in larga misura, di plasmare le
nostre propensioni innate a seconda delle condizioni in cui ci troviamo ad agire e delle nostre
esperienze passate, in particolare dei primi anni di vita. Una capacità presente, in una certa
misura, anche in altri primati superiori, come evidenziato brillantemente dagli studi di Steve Suomi
(2006) sulle scimmie rhesus. Queste scimmie, fondamentalmente sociali, trascorrono i primi anni
con la madre per poi cominciare gradualmente a socializzare con gli altri membri. Tra queste
scimmie, ogni generazione presenta una piccola frazione di scimmie maschio, soprannominate
“mad monkeys”, che presenta comportamenti “fuori controllo” e “antisociali”. Inizialmente
5
scacciati dalla madre, questi esemplari non trovano accoglienza neppure tra i pari. Gli studi di
Suomi individuano alla base di questo comportamento una particolare deviazione genetica che
sembra aumentare nel tempo in quanto, nelle femmine, produce caratteristiche positive che
garantiscono il raggiungimento di uno status elevato. Ad ogni modo, Suomi sottolinea che non tutti
i maschi di scimmie rhesus dotate di questo gene presentano dei comportamenti antisociali. Quale
elemento permette ad alcuni esemplari di sviluppare determinate caratteristiche e ad altri no? Studi
approfonditi rivelano che le differenze riguardano esclusivamente l’ambiente di accudimento
primario. Alcune madri sembrano infatti capaci di promuovere nel figlio comportamenti adeguati,
mentre altre falliscono in questo compito lasciando che i figli sviluppino le caratteristiche
antisociali favorite dal loro patrimonio genetico.
Per concludere, gli studi di Suomi appena citati sono un esempio lampante dell’“interaction
effect” (Wilson, 2007), in cui un dato comportamento risulta causato da un particolare gene che
interagisce con un determinato ambiente. E le nostre esperienze infantili, in particolare quelle con le
figure di accudimento primario, plasmano il nostro comportamento e danno vita ai molteplici aspetti
della personalità umana.
Le figure di accudimento primario sono quelle che, quando ancora siamo immaturi e privi di
esperienza, ci insegnano chi siamo, come funziona il mondo, quello che possiamo aspettarci e come
dobbiamo comportarci. Ci insegnano cosa sia la realtà e la “moralità”. E i loro insegnamenti
assieme al loro esempio plasmano le manifestazioni dei nostri “istinti” e del nostro
“temperamento”.
3. I sette sistemi emotivo-motivazionali di Jaak Panksepp
Le ricerche neuroscientifiche di Jaak Panksepp e del suo gruppo di ricerca (Panksepp, Biven, 2012)
possono aiutarci a chiarire come, a partire da una serie di emozioni e comportamenti innati, frutto
dell’evoluzione della specie, prendano forma i diversi comportamenti e le varie sfaccettature della
personalità umana (Panksepp, 2006). Panksepp e collaboratori hanno infatti indagato gli effetti
dell’attivazione di una serie di aree subcorticali comuni agli uomini e alle altre specie di mammiferi,
in particolare il giro periacquedottale, l'ipotalamo e il talamo mediale. Queste regioni del cervello,
se stimolate, producono affetti molto intensi, di carattere positivo o negativo, ed è all'attivazione di
queste aree che Panksepp riconduce le emozioni di base che, con lo sviluppo, vanno a costituire i
diversi sistemi motivazionali. A questo livello, la valenza positiva o negativa delle emozioni
promuove comportamenti istintuali dal valore adattivo. “Le interazioni che evocano affetti piacevoli
aiutano gli animali a sopravvivere e riprodursi, (...) le esperienze della vita che evocano affetti
dolorosi mettono in pericolo la capacità di sopravvivere e riprodursi” (Panksepp, Biven 2012, p.
23).
6
Panksepp descrive tre tipi di processi emotivo-motivazionali. I processi primari, istintivi,
corrispondono a questi stati emotivi di base, comuni ai diversi mammiferi, che orientano il
comportamento nel qui ed ora sulla base della ricerca di emozioni piacevoli e dell'evitamento degli
stati emotivi spiacevoli. Tali processi primari vengono collocati a livello delle aree subcorticali
sopracitate. I processi secondari, localizzati principalmente a livello del sistema limbico, sono
invece frutto delle connessioni che si creano a partire da queste emozioni di base e che permettono
di costruire delle memorie e apprendere dalle nostre esperienze per mezzo dei processi di
condizionamento. Il tipo di apprendimento che permette di operare tale passaggio avviene, il più
delle volte, al di fuori della consapevolezza. I processi terziari, infine, specifici della mente umana
poiché frutto dell'evoluzione e maturazione delle aree corticali del cervello, riguardano la possibilità
di riflettere su sentimenti ed esperienze, in modo da agire tenendo a mente, sia consapevolmente sia
inconsapevolmente, il nostro bagaglio di esperienze, idee, conoscenze, ecc. Sulla base di numerosi
studi, Panksepp e colleghi sostengono che esistano almeno sette sistemi emotivo/motivazionali
di base: ricerca, collera, desiderio sessuale, cura, panico/sofferenza (o attaccamento), paura e
gioco (Fig. 1).
Il sistema della ricerca contribuisce alla ricerca del cibo, del partner sessuale, di un figlio che si è
allontanato in modo imprudente, di un buon partner di gioco ecc., ragion per cui si attiva ogni volta
che ricerchiamo qualcosa di cui abbiamo bisogno. Gli stimoli incondizionati che abitualmente
attivano questo sistema sono tutti gli eventi nuovi e inattesi, i cambiamenti che si verificano nella
vita del soggetto, gli squilibri omeostatici come la fame, il sonno, la sete o il freddo e ogni volta che
sentimenti spiacevoli connessi agli altri sistemi possono essere risolti modificando la propria
situazione reale. Il sistema della ricerca riguarda l'aspettativa di un benessere futuro e, per questo,
l’emozione connessa alla sua attivazione risulta estremamente piacevole e attraente. Dal punto di
vista anatomico, a partire dall'area tegmentale ventrale questo sistema procede lungo tre vie: il
fascio mediale dell'encefalo e l'ipotalamo laterale, il nucleo accumbens, e le vie mesolimbiche e
mesocorticali dopaminergiche della corteccia prefrontale. Tra i neurotrasmettitori implicati nel
sistema della ricerca troviamo che, oltre alla dopamina, anche il glutammato gioca un ruolo
importante.
Il sistema emotivo-motivazionale della collera è la base dell'emozione primaria della collera,
estremamente spiacevole, origina in aree subcorticali del cervello ed è attivato dalla frustrazione dei
propri desideri, o quando i comportamenti e le strategie messe in atto dai diversi sistemi
emotivo/motivazionali non hanno prodotto un cambiamento soddisfacente nell'organismo e ci si
ritrova impotenti. Procedendo dal basso verso l'alto questo sistema ha la sua origine nella zona
grigia periacquedottale (PAG), passando per l'ipotalamo e giungendo, infine, all'amigdala,
responsabile dell'attribuzione di significati agli stati emotivi. Connessi all'attivazione di questo
sistema vi sono alcuni neurotrasmettitori specifici come il glutammato, la noradrenalina,
l'acetilcolina e l'acido nitrico, oltre alla sostanza P tra i neuropeptidi. Tuttavia, ciò che sembra
maggiormente correlato con l'espressione della rabbia da parte dei mammiferi è la presenza del
testosterone, ormone largamente associato allo sviluppo della sessualità maschile. Data la maggiore
7
quantità di testosterone nei maschi di tutte le specie dei mammiferi, non stupisce che tali soggetti
presentino un'espressione della rabbia molto più pronunciata rispetto alle femmine. D'altra parte, la
finalità evolutiva di questo squilibrio si può comprendere in quanto un eccessivo sviluppo della
rabbia ostacolerebbe probabilmente le madri nel compito di accudire i propri piccoli. Panksepp
distingue l'aggressività come elaborazione a livello del processo secondario del sistema della rabbia,
dai comportamenti aggressivi di tipo predatorio che si manifestano quando gli animali lottano per
sfamarsi. Le ricerche indicano, infatti, che quando gli animali cacciano e uccidono una preda
sperimentano un intenso stato eccitatorio piacevole che è ben diverso dai sentimenti suscitati
dall'attivazione del sistema della rabbia. Secondo l'autore, questo tipo di comportamento è
espressione del sistema della ricerca attivato dalla necessità di regolare l'omeostasi turbata dalla
sensazione di fame. O ancora, comportamenti di dominanza sociale per la supremazia territoriale e
sessuale, facilmente osservabili negli animali ma presenti anche negli uomini, non si possono
attribuire a un singolo sistema emotivo/motivazionale, quanto invece all'associazione di più sistemi,
ad esempio, del piacere sessuale, della ricerca, della paura e della rabbia. Wilson (1978) identifica a
sua volta sette tipologie di comportamenti aggressivi, tutte diverse tra loro: la difesa e la conquista
di un territorio, i comportamenti di dominanza all’interno del gruppo, le azioni ostili attraverso le
quali si pone termine allo svezzamento, le aggressioni dirette a una preda, la difesa contro i
predatori e l’aggressività moralistica con la quale si mantiene l’ordine all’interno dei gruppi.
Ognuno di questi comportamenti può essere considerato espressione dell’attivazione a livello
secondario e terziario di più sistemi emotivo-motivazionali.
Il terzo sistema identificato da Panksepp e colleghi è quello del desiderio sessuale, che permette
agli individui di riprodursi. Sebbene circuiti sessuali maschili e femminili siano presenti nei membri
di entrambi i sessi, l'attivazione di questo sistema presenta notevoli differenze di genere.
Strutturalmente, infatti, l'urgenza motivazionale viene fatta risalire ad aree subcorticali diverse nei
maschi e nelle femmine, e tali aree tendono a loro volta ad attivare ormoni differenti responsabili
dello sviluppo sessuale tanto dal punto di vista fisico quanto da quello psicologico. Negli individui
di sesso maschile, l'attivazione primaria di questo sistema avviene a livello delle regioni mediali
dell'ipotalamo anteriore. Se queste vengono stimolate, l'individuo sperimenta un'emozione intensa
di natura estremamente piacevole che spinge l'organismo ad agire. Queste aree sono responsabili
della secrezione del testosterone, un ormone che viene prodotto già prima della nascita e che
permetterà, in seguito, lo sviluppo delle caratteristiche prettamente maschili. Il testosterone è a sua
volta responsabile dell'attivazione di alcuni neurotrasmettitori come la vasopressina e l'ossido
nitrico. Le ricerche sugli animali hanno dimostrato che entrambi questi neurotrasmettitori sono
implicati in alcuni dei comportamenti associati alla sfera della sessualità maschile. La vasopressina,
ad esempio, stimola il corteggiamento e la rivalità intraspecifica per la conquista sessuale. L'ossido
nitrico, da parte sua, aumenterebbe l'aggressività e l'avidità sessuale. Al contrario, per quanto
riguarda i mammiferi di sesso femminile, Panksepp e colleghi individuano nell'ipotalamo ventromediale il centro dell'attivazione di tale sistema emotivo-motivazionale. Gli ormoni responsabili
della sessualità femminile sono prima di tutto il progesterone e gli estrogeni. Questi ormoni
svolgono un ruolo fondamentale da un punto di vista fisico e psichico. Se infatti da una parte sono
8
responsabili dello sviluppo fisico delle caratteristiche prettamente femminili, dall’altra influenzano
profondamente la stessa attività sessuale. Alti livelli di questi ormoni corrispondono a un aumento
delle fantasie erotiche, e dunque a una maggiore predisposizione all'attività sessuale (corrispondente
con il periodo di fertilità). Estrogeni e progesterone hanno inoltre un ruolo importantissimo nella
produzione di ossitocina. L'ossitocina è un ormone strettamente connesso al genere femminile, e
non ne regola solo l'attività sessuale, come vedremo più avanti, ma è connesso anche al sistema
dell'attaccamento e dell'accudimento e, in generale, a qualsiasi interazione sociale positiva. Nel
sistema sessuale, l'ossitocina aumenta l'intensità dell'orgasmo femminile, promuove lo sviluppo di
un legame affettivo e, in generale, grazie alla “collaborazione” con il sistema degli oppioidi, è
connessa a tutte le emozioni positive legate all'attivazione di questo sistema. Si può ipotizzare che il
piacere legato all'atto sessuale si associ a una disposizione maggiore all'attività sessuale e, quindi, a
una stabilizzazione del legame con il partner. Per concludere, rispetto al ruolo giocato dagli ormoni,
risulta interessante come tanto l'ossitocina quanto la vasopressina siano presenti in entrambi i sessi,
sebbene in quantità relative diverse. L'ossitocina è collegata tanto all'erezione quanto
all'eiaculazione maschile e ha quindi, anche nell'uomo, la funzione di rafforzare il rapporto con il
partner sessuale. Curiosamente, invece, alti livelli di vasopressina sembrano inibire il desiderio
sessuale negli individui di sesso femminile.
L'attivazione del sistema della cura garantisce ai membri più indifesi (in particolare i cuccioli delle
varie specie) la protezione dai predatori e permette di completare lo sviluppo in un ambiente sicuro.
Non a caso l'ossitocina, l'ormone più importante per l'attivazione di questo sistema, viene prodotto
in maggiori quantità dal cervello femminile. Estrogeni e progesterone sono responsabile della
produzione di ossitocina all'interno dell'ipotalamo anteriore e dell'area preottica dorsale (dPOA).
Una lesione di una di queste zone comporta danni irreversibili nella capacità di prendersi cura
dell'altro. Durante la gravidanza si osservano alti livelli di progesterone e estrogeni con conseguenti
alti livelli di ossitocina, che a sua volta favorisce le contrazioni uterine durante il parto. Con la
nascita si assiste a un nuovo equilibrio che predispone la neo-madre a interagire con il piccolo.
Calano i livelli di progesterone – che a dosi elevate hanno un effetto sedativo – per rendere la madre
più vigile e attenta, aumentano i livelli di prolattina responsabile della produzione di latte materno e
continuano a essere alti i livelli di ossitocina, che favorisce la fuoriuscita di latte e lo stabilizzarsi di
un legame affettivo tra madre e bambino. L'ossitocina non è però la sola sostanza che alimenta il
sistema dell'accudimento. All'attivazione di tale sistema corrisponde infatti un aumento degli
oppioidi endogeni, che contribuiscono allo stabilizzarsi di un umore positivo e al calo
dell'aggressività e dell'irritabilità. É interessante notare come le madri che hanno a che fare con i
loro bambini possiedano una serie di comportamenti innati che le aiutano a interagire
piacevolmente con i figli. Ad esempio, avvicinano il loro viso a quello del lattante a una distanza di
circa trenta centimetri senza alcuna istruzione, e questa distanza coincide esattamente con quella
che permette al bambino di vedere il loro volto nel modo migliore (van Hofsten et al., 2014).
Dunque, se molto si è parlato di una motivazione innata all'attaccamento e dei comportamenti del
bambino, si può dire che anche i comportamenti di accudimento hanno una base innata e sono
intrinsecamente piacevoli. Allo stesso modo, non bisogna ignorare che, sebbene nell'uomo il
9
sistema della cura risulti meno attivo in quanto evolutivamente più recente, tanto l'ossitocina quanto
gli oppioidi sono in grado di attivare le stesse zone cerebrali anche negli individui di sesso
maschile. In realtà, la capacità di suscitare emozioni positive è una prerogativa di qualsiasi sistema
emotivo-motivazionale che porti l'individuo a stabilire un contatto umano: senza tale feedback
positivo, l'uomo non sarebbe portato, fin dalla nascita, a stabilire legami sociali che, come abbiano
visto, risultano necessari per la sopravvivenza del gruppo e, dunque, dell’individuo stesso.
Alla base del sistema di panico/sofferenza – ossia il correlato biologico del sistema motivazionale
dell'attaccamento individuato da Bowlby (1969) - Panksepp e colleghi individuano le aree
subcorticali del grigio periacquedottale (PAG), del talamo dorso mediale, del setto ventrale,
dell'area pre-ottica dorsale e del letto della stria terminale, le cui diramazioni giungono fino alla
neo-corteccia. Gli autori osservano che, in tutti i mammiferi studiati, la stimolazione elettrica di
queste zone genera nel bambino intense reazioni di panico e nell'adulto forti sentimenti dolorosi.
Con lo sviluppo puberale la sensibilità di tali aree tende a diminuire, in particolar modo nei soggetti
di sesso maschile. L'attivazione di questo sistema sembrerebbe quindi essere ormone-dipendente;
ad ogni modo, aumentando la scarica, le suddette zone mantengono la loro sensibilità e i soggetti
manifestano queste risposte tipiche. La particolarità di questo sistema emotivo-motivazionale
consiste nei due differenti tipi di emozioni che il soggetto sperimenta. Se, infatti, l'attivazione di tale
sistema è chiaramente associata a emozioni estremamente spiacevoli - disperazione, senso di
solitudine, impotenza - proprio il tentativo di superare questo stato emotivo porta il bambino (ma
anche l'adulto) ad attivare un comportamento di attaccamento che ha il compito di ristabilire la
vicinanza con il proprio caregiver (o con un'altra persona cara) promuovendo un senso di benessere
e sicurezza. Notiamo come l'azione di tale sistema sia fortemente legata a diversi tipi di sostanze
chimiche. Un ruolo di prim'ordine giocano, senza dubbio, gli oppioidi endogeni. Alti livelli di
oppioidi tendono a disattivare il sistema del lutto/panico producendo un senso di quiete e
appagamento. Il rilascio di questi neurotrasmettitori è, a sua volta, associato ad alcuni stimoli
esterni collegati al sistema dell'accudimento, come il calore corporeo, l'odore materno, alcune voci
familiari e l'allattamento. Oppioidi e legami sociali positivi appaiono dunque strettamente connessi,
tanto da ipotizzare un'associazione tra la mancanza di contatto affettivo e la ricerca di sostanze
d’abuso, cosa perfettamente in linea con le ricerche condotte da Bruce Alexander (1981) negli anni
settanta e ottanta. L'importanza dell'accudimento genitoriale nel rispondere prontamente
all'attivazione del sistema di panico/sofferenza del bambino è sottolineata dagli studi sull'asse
ipotalamo-ipofisi-surrene. Tale sistema è ormai comunemente associato alla risposta allo stress da
parte dell'individuo. In particolare, in situazioni di emergenza si attiva il sistema nervoso simpatico
che, attraverso due vie, una lenta – ormonale - e una veloce basata su sinapsi, permette una risposta
allo stress da parte dell'individuo. Nella via lenta, l'ipotalamo invia il fattore di rilascio della
corticotropina (corticotropin releasing factor; CRF) all'ipofisi che produce, a sua volta,
l'ormone corticotropina (ACTH) il cui compito è quello di stimolare le ghiandole surrenali che
cominceranno a produrre glucocorticoidi e mineralcorticoidi. Questi, una volta giunti al cervello, in
particolare all'amigdala e all'ippocampo, inibiscono la sintesi e il rilascio di CRF e ACTH, ossia
l'intera attivazione simpatica. Nel caso in cui ci siano pochi recettori di glucocorticoidi nel cervello,
10
risulterà più difficile inibire la condizione di stress. Diversi studi dimostrano come una deprivazione
materna di lunga durata porti a una riduzione di recettori dei glucocorticoidi nell'ippocampo
protraendo una condizione di allarme anche quando il momento di stress viene superato (van
Hasselt et al., 2012).
Panksepp e colleghi localizzano il sistema della paura in alcune aree cerebrali la cui attivazione
produce sensazioni estremamente spiacevoli. Procedendo dal basso verso l'alto, il sistema ha origine
dalle aree subcorticali del PAG passando per l'ipotalamo anteriore e mediale fino ad arrivare alle
zone centrali dell'amigdala. Risulta particolarmente interessante come la stimolazione di queste aree
produca due diversi tipi di risposta a seconda dell'intensità. Una stimolazione moderata produce una
risposta modesta con occasionali episodi di immobilità, mentre una stimolazione intensa produce
comportamenti di fuga da parte dell'individuo. Le due risposte sono state associate ai due tipi di
comportamento in presenza di un predatore che si trovi ancora lontano nel primo caso, o che,
viceversa, si trovi in prossimità della vittima. Sentimenti di paura sono sempre accompagnati
dall'attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico le cui sensazioni – vasocostrizione dei
grandi vasi, aumento del sangue al cuore e al cervello, aumento del battito cardiaco, sudorazione,
disturbi gastrointestinali – risultano estremamente spiacevoli. Fin dalla nascita, esistono una serie di
stimoli incondizionati ai quali l'uomo, come gli animali, risponde attivando istintivamente tale
sistema. Spazi aperti, movimenti improvvisi, rumori forti attivano uno stato di allerta che
predispone l'individuo all'azione. Gli spazi aperti impediscono all'animale di nascondersi e lo
espongono alla vista dei predatori, i movimenti improvvisi così come i rumori forti rimandano ai
rapidi attacchi dei predatori. Risulta interessante, inoltre, come nelle diverse specie tale sistema
venga attivato da indicatori tipici dei propri predatori. Ad esempio, i ratti sono portati a reagire fin
da subito all'odore dei gatti pur non essendo consapevoli del potenziale pericolo che essi
rappresentano. L'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il cui funzionamento è stato precedentemente
spiegato parlando del sistema panico/sofferenza, è attivamente coinvolto anche nel sistema della
paura. Una disfunzione di tale asse promuove un'iper-attivazione della risposta allo stress e
un'eccessiva vigilanza da parte dell'individuo.
Infine, Panksepp e colleghi individuano le basi del sistema emotivo-motivazionale del gioco in
alcune aree subcorticali del talamo, in particolar modo nei nuclei parafascicolari e in quelli
dorsomediali posteriori, in seguito alla cui stimolazione si osserva l'attivazione del comportamento
di gioco. Grazie ad alcuni esperimenti sui topi, gli autori hanno osservato che durante il gioco, così
come a seguito della stimolazione di queste aree, questi animali emettono un particolare tipo di
suono che possiede una frequenza di 50Hz e si differenzia dai suoni emessi durante altri tipi di
attività. Potremmo dire che nell'uomo la risata in qualche modo sia il corrispondente del suono a
50Hz dei topi. La risata, infatti, risulta una caratteristica innata in tutti gli individui e viene prodotta
in interazioni giocose. Per quanto riguarda le sostanze collegate all'attivazione del sistema emotivomotivazionale del gioco, non risulta ancora chiaro se esista una sostanza in grado determinarne
l'attivazione. Sicuramente, durante le attività ludiche vi è un rilascio maggiore di oppioidi che, come
sappiamo, contribuiscono a determinare l'estrema piacevolezza dell'esperienza. Al contrario, gli
11
psicostimolanti – la cui azione mira ad aumentare il livello delle ammine biogene - tendono a
ridurre notevolmente, se non a inibire, il gioco. Quella del gioco è una motivazione “tanto fragile
quanto robusta” (Panksepp, Biven 2012, p. 355). Fragile poiché si è disposti a giocare
esclusivamente in assenza di uno stato di attivazione emotiva negativo (insicurezza): un animale
ferito, arrabbiato o in pericolo, ad esempio, interromperà immediatamente il gioco per recuperare
una situazione di maggiore sicurezza. Allo stesso modo, però, risulta estremamente “robusto” in
quanto, non appena questa situazione di sicurezza viene ristabilita, il gioco verrà ripreso. Le
caratteristiche specifiche dei giochi osservati nelle diverse specie sembrano sottolinearne la valenza
adattiva. Vediamo, ad esempio, come i gatti tendano a preferire il gioco con piccoli oggetti che
svilupperebbero così le loro doti come predatori; al contrario, animali come le antilopi privilegiano
giochi caratterizzati da salti e corse utili, in futuro, per sfuggire ai propri predatori. Oltre alle attività
in cui il gioco risulta utile per sviluppare le proprie abilità fisiche e cognitive, gli autori sottolineano
come quest'esperienza abbia un ulteriore valore adattivo per lo sviluppo delle abilità sociali.
Giocando con i propri pari, infatti, non solo l'individuo sviluppa un primo senso di autonomia dai
propri genitori, ma può anche cominciare a formarsi un'idea di quelle che sono le normali regole
interattive tra coetanei e dei diversi ruoli sociali. Un esperimento di Panksepp e colleghi (ricerca
non pubblicata) evidenzia come la possibilità di giocare nell'infanzia sia connessa anche alle
strategie utilizzate nell'incontro con un possibile partner sessuale. Osservando tre animali tra cui
una femmina e due maschi di cui uno aveva avuto esperienze di gioco e l'altro no, l'animale con
esperienza del gioco era risultato di gran lunga più efficace del suo compagno nella conquista della
femmina.
Gli studi di Panksepp evidenziano come ogni sistema emotivo/motivazionale primario sia centrato
su un’emozione, piacevole o spiacevole, suscitata a livello delle specifiche aree subcorticali e sia
regolato da diversi ormoni e neurotrasmettitori. A partire da questo livello primario, frutto
dell’evoluzione, ogni sistema va poi strutturandosi con gradi di sempre maggior complessità grazie
alle connessioni che si creano a livello del sistema limbico e della neocorteccia e grazie alle
esperienze che l’individuo fa all’interno del proprio ambiente familiare, sociale e culturale più
ampio. La continua interazione tra mente e cervello, ossia tra il funzionamento delle aree più
ancestrali del cervello e quello delle aree più evolute della neocorteccia, darà vita alla complessità
di stati affettivi e cognitivi propri dell'individuo adulto.
I sistemi di influenza corticale e di significazione sociale che possono attivare le nostre attività e le
nostre motivazioni sono quindi molteplici e complessi, e altrettanto molteplici e complesse sono le
soluzioni (consce e inconsce) che ne derivano. Il temperamento, le esperienze precoci, le esperienze
fatte nel contesto sociale più ampio, i conflitti che si tramandano a livello generazionale e il
contesto politico e culturale concorrono continuamente a influenzare ciò che siamo. Si vengono così
a configurare due processi (Panksepp, 2014): il primo, bottom-up, in cui, attraverso lo sviluppo e
l'apprendimento, le emozioni primarie generatesi a livello subcorticale si strutturano e influenzano
continuamente i processi limbici e neocorticali. Il secondo, top-down, permette invece un controllo
12
dall'alto, dove gli apprendimenti precoci e la capacità di ragionare e riflettere sui nostri stati d'animo
influenza e regola a sua volta questi stati emotivi di base.
Per riassumere, le sfide adattive che la specie umana ha incontrato nel corso della sua evoluzione
hanno condotto l’uomo, come altri mammiferi, a reagire in maniera “automatica” a una serie di
caratteristiche ambientali, con sentimenti piacevoli e spiacevoli. L’evoluzione di questi sistemi
emotivo-motivazionali a livello secondario e terziario dipende invece dalla necessità di tutti gli
esseri viventi di valutare la scelta più adattiva nel proprio ambiente di riferimento. Alcuni
comportamenti sono razionali e consapevoli, altri sembrano irrazionali e sono spesso inconsci,
frutto dell’evoluzione della specie umana da una parte e del tentativo di adattarci al nostro specifico
ambiente di vita dall’altra (Wilson, 2007). Il modo in cui reagiamo alle diverse sfide del nostro
ambiente dipende quindi da una serie di affetti, motivazioni e propensioni primarie che si
sono selezionate nel corso dell’evoluzione della specie poiché hanno permesso la
sopravvivenza dell’individuo e del gruppo, ma anche dalla plasticità di questi “istinti”, frutto
dell’imperativo all’adattamento che porta ogni individuo a cercare il modo migliore di
adattarsi al proprio specifico ambiente di sviluppo e poi al proprio specifico ambiente di vita.
Figura 1. I sette sistemi motivazionali di Panksepp, le aree subcorticali e le sostanze chimiche
collegate
13
4. Il modello dell’obiettivo egoista
Il modello dell’obiettivo egoista, ipotizzato da Huang e Bargh (2014), illustra bene come gli esseri
umani siano in grado di perseguire i propri obiettivi, evoluzionisticamente fondati e adattivi, anche
senza che siano consapevoli di farlo. A partire da questi obiettivi inconsci il soggetto sviluppa una
serie di obiettivi consapevoli che possono essere simmetrici o antitetici rispetto a quelli inconsci e
che sono influenzati tanto dalla sua storia quanto dalla realtà in cui si trova ad agire. Le
incongruenze nei comportamenti e nei giudizi possono essere quindi spiegate, almeno in alcuni casi,
come la risultante di obiettivi inconsci multipli e in alcuni casi in contrapposizione tra loro. Secondo
gli autori, infatti, ogni individuo ha diversi obiettivi, spesso in conflitto tra loro, ciascuno dei quali
influenza e dirige il comportamento in un modo solipsistico. Proprio come per i geni di cui parla
Dawkins (1976), gli obiettivi veicolano il processamento delle informazioni e programmano una
serie di comportamenti finalizzati a massimizzare le probabilità che essi possano essere portati a
compimento anche in assenza di consapevolezza. Durante l’ovulazione, ad esempio, le donne sono
portate a comprare vestiti più corti e scoperti, un abbigliamento che le rende più attraenti agli occhi
degli uomini, anche se non sanno di stare ovulando e coscientemente non vogliano essere più
seducenti (Kenrick, Griskevicius, 2013). Allo stesso modo, uno studio di Miller e collaboratori
(2007) mostra come il ciclo ovulatorio femminile influenzi anche il modo in cui gli uomini
reagiscono alle donne. Le diciotto spogliarelliste di questo particolare campione risultavano infatti
ottenere una mancia media pari a 335 dollari nel periodo di ovulazione, contro i 185 dollari che i
registravano durante le altre settimane. E in presenza di donne in fase di ovulazione o comunque
viste come più attraenti, anche in assenza di consapevolezza gli uomini tendono ad assumere più
comportamenti rischiosi, uno dei segni più forti di status e dunque uno dei mezzi più importanti di
seduzione. L’importanza fondamentale del periodo di ovulazione per la riproduzione e, quindi, per
la possibilità di trasmettere i propri geni, influenza dunque in modo inconsapevole le scelte e i
comportamenti di uomini e donne con l’obiettivo di rendere le donne più attraenti per il partner e
più predisposte all’accoppiamento, e gli uomini più sensibili al fascino femminile e più coinvolti nel
compito della conquista.
Gli obiettivi influenzano quindi il giudizio, la percezione e i comportamenti di una persona in
maniera “egoista” in modo da ottenere il risultato desiderato anche senza che la persona in
questione intenda raggiungere quell’obiettivo in modo cosciente.
La percezione[1] è il meccanismo basilare attraverso cui ogni obiettivo cerca inconsapevolmente la
propria soddisfazione; si tratta di un processo principalmente automatico e inconscio mediante il
quale l'ambiente favorisce l'attivazione automatica di rappresentazioni interne del mondo esterno
che, a loro volta, influenzano il comportamento sia mediante un'attività percettiva inconsapevole sia
attraverso la successiva creazione automatica di un link tra percezione e comportamento. L'intera
sequenza, stimolo ambientale – percezione – comportamento può diventare così automatica (Bargh,
Chatrand, 1999).
14
Diversi studi (Dijksterhuis, Chartrand, Aarts, 2007) hanno mostrato come la sola esposizione ad
alcuni stimoli ambientali sia sufficiente a produrre l’attivazione di una serie di processi mentali
superiori che agiscono al di fuori della consapevolezza. Questi processi inconsci sono in grado di
attivare stereotipi, atteggiamenti e giudizi (Ferguson, 2008) e di produrre comportamenti volti al
raggiungimento di un determinato obiettivo (Marien et al., 2012) senza che il soggetto ne sia
consapevole. In linea con gli assunti proposti dalla biologia evoluzionista, studi di Social-Cognition
sugli effetti di priming e sugli automatismi hanno infatti dimostrato come numerosi processi mentali
superiori (percezione, categorizzazione, scelta di un obiettivo e perseguimento dello stesso) che
sottendono il comportamento sociale possano essere innescati per poi continuare a operare anche in
assenza di un’intenzionalità conscia. Gli esperimenti sugli effetti dell'attivazione automatica di
stereotipi ne sono una prova. In un esperimento di Bargh, Chen, & Burrows (1996), ai partecipanti
veniva presentato a livello subliminale un volto di un giovane uomo dai tratti afro-americani e gli
autori hanno riscontrato che i partecipanti, rispetto al gruppo di controllo a cui non era stato
mostrato il volto, reagivano con grande ostilità a provocazioni moderate che venivano fatte loro in
un secondo momento. L'attivazione automatica dello stereotipo relativo all'etnia di appartenenza
aveva fatto sì che i partecipanti rispondessero con grande ostilità. Ed è bene ricordare che, benché
gli stereotipi siano categorie spesso molto imperfette in quanto il loro contenuto non permette di
dialogare con le caratteristiche specifiche delle persone e degli oggetti reali, la loro funzione è
fondamentalmente adattiva perché permette di semplificare le numerose informazioni provenienti
dall'ambiente. Quindi, nonostante gli effetti automatici degli stereotipi sul comportamento possano
creare problemi nell'interazione sociale, il link implicito e automatico tra percezionecategorizzazione (attivazione implicita e inconsapevole di rappresentazioni mentali) e
comportamento esiste per una ragione adattiva, fare sì che gli individui agiscano in maniera
adeguata anche in assenza di un controllo e di un monitoraggio consapevole.
Gli autori (Huang, Bargh, 2014) hanno messo in evidenza quattro principi alla base del modello
dell’obiettivo egoista: automaticità, riconfigurazione, similarità e incoerenza.
•
Il principio dell’automaticità propone l’esistenza di un processamento inconscio che
produce giudizi e comportamenti. La dissociazione tra questo sistema di processamento
inconscio e i processi consapevoli è stata confermata anche da alcuni studi neuroscientifici
(Bogen, 1995) che mostrano come pazienti con lesioni ai lobi pre-frontali siano guidati nel
loro comportamento quasi esclusivamente da eventi situazionali, con una totale mancanza di
consapevolezza rispetto alla stranezza o irrazionalità di alcuni di questi comportamenti.
Questo stesso principio spiega come spesso i comportamenti di una persona siano guidati da
più obiettivi in conflitto tra loro, conflitto che viene agito al di fuori della consapevolezza.
L'attività di giudizio e decision-making può infatti procedere inconsciamente. Gladwell
(2005) racconta a tal proposito di un esperimento condotto da ricercatori dell'Università
dell'Iowa (Bechara, Damasio, Tranel, Damasio, 1997). Ai partecipanti veniva chiesto di
scegliere una carta alla volta tra quattro mazzi, due rossi e due blu, al fine di massimizzare le
vincite. I soggetti non erano a conoscenza che i mazzi di carte rosse facevano guadagnare
15
•
•
•
molto ma perdere altrettanto. Più modeste erano, invece, le vincite e le perdite che si
potevano ottenere scegliendo le carte blu. I partecipanti riuscivano a spiegare le ragioni per
cui le carte rosse erano da evitare dopo aver scelto circa un'ottantina di carte. Il risultato più
interessante è stato però rilevato mediante degli elettrodi disposti sul palmo della mano di
ogni giocatore al fine di misurarne l'attività delle ghiandole sudoripare. Già dopo la decima
carta, le mani dei partecipanti cominciavano a sudare quando ci si avvicinava alle carte
rosse, come se avessero capito che quelle carte erano più “rischiose” ben prima di prenderne
consapevolezza.
Il principio della riconfigurazione prevede che i cambiamenti nei giudizi e nei
comportamenti di una persona possano essere vincolati a una riconfigurazione cognitiva e
comportamentale che ha lo scopo di facilitare il raggiungimento dell’obiettivo da parte
dell’individuo. Una volta attivato, questo processamento inconscio dirige la nostra
attenzione su alcuni stimoli escludendone altri, e influenza la nostra capacità di giudizio e
valutazione di persone e oggetti.
Il principio di similarità prevede che se gli obiettivi consci e inconsci sono mossi dalla
stessa motivazione di fondo ci si può aspettare un alto grado di somiglianza rispetto al tipo
di processi necessari per perseguirli. Detto in altri termini, non fa molta differenza se un
obiettivo sia consapevole o meno per i piani che elaboriamo e le azioni che compiamo al
fine di perseguirlo.
Il principio di incoerenza, infine, illustra come, poiché ogni persona è guidata
contemporaneamente da più obiettivi inconsci che prevedono una diversa modalità di
pensiero, giudizio e comportamento, che varia a seconda di quella che è la motivazione più
forte al momento, l’esito di questa attivazione multipla possa condurre a comportamenti
incoerenti o apparentemente irrazionali.
Per riassumere, gli obiettivi sono immagazzinati come rappresentazioni mentali che possono
essere attivate in maniera automatica da caratteristiche dell'ambiente, alla pari di quanto
accade per gli stereotipi o altre strutture percettive. Gli obiettivi che gli individui si prefissano
influenzano significativamente il giudizio e il modo in cui gli individui agiscono e si
comportano nella realtà.
5. Le sfide adattive e la mente razionale
Per quegli animali che non sono dotati della plasticità cerebrale che caratterizza il cervello umano, i
comportamenti utili a perseguire obiettivi inconsci evoluzionisticamente fondati e adattivi possono
16
rivelarsi altamente disfunzionali quando l’ambiente si modifica in modo rilevante. Quando, infatti,
l’ambiente attuale si differenzia notevolmente dall’ambiente ancestrale, o quando i cambiamenti
sono talmente rapidi da non permettere un’evoluzione graduale della specie, questa, mentre lavora
inconsapevolmente in vista di obiettivi adattivi, finisce per mettere in crisi la sua stessa
sopravvivenza. In natura si possono trovare diversi esempi di questa evenienza (Wilson, 2007). Le
tartarughe marine appena nate, ad esempio, nascono normalmente durante la notte e sono
naturalmente predisposte a dirigersi verso la luce. Questa, infatti, riflettendosi sul mare, ha
permesso per millenni alle tartarughe di raggiungerlo in modo automatico. La costruzione di case
sulla spiaggia dotate di luce elettrica ha però reso questo comportamento innato, un tempo adattivo,
causa di morte certa per le piccole tartarughe. In maniera analoga, alcuni uccelli originari delle
Galàpagos, avendo vissuto per millenni in ambienti privi di predatori, all’arrivo dei primi
esploratori erano completamente impreparati a difendersi. Questi uccelli accolsero così l’arrivo dei
conquistadores come se fossero alberi: appoggiandosi ai cacciatori come fossero rami, andarono
direttamente incontro alla morte. Ma un elemento fondamentale dell’evoluzione umana è
la plasticità con cui può adeguare il suo repertorio di abilità al mutare delle circostanze. Possiamo
quindi ipotizzare che, a partire dalle proprie esperienze infantili, lo sviluppo a livello
secondario e terziario dei sistemi emotivo-motivazionali individuati da Panksepp dia vita a un
repertorio comportamentale, spesso automatico, finalizzato all’adattamento allo specifico
ambiente di riferimento. E possiamo immaginare la psicopatologia come un fallimento in questo
processo di adattamento al mutare delle circostanze.
Alcuni autori (Kenrick, 2011; Kenrick, Griskevicius, 2013) hanno elaborato il concetto di mente
modulare per descrivere i repertori emotivo-motivazionali specie-specifici che permettono agli
esseri umani di perseguire i propri obiettivi di base: i moduli possono essere rappresentati come
piccoli interruttori interni al cervello ognuno dei quali dà vita a un pattern specifico necessario per
la sopravvivenza in un determinato ambiente. Una volta che un dato modulo individua la specifica
situazione di attivazione, emette un segnale che produce nell’uomo comportamenti adattivi
specifici. Alcuni eventi funzionano da “situazione segnale” in modo innato ed elicitano emozioni e
comportamenti che nel corso dell’evoluzione hanno permesso l’adattamento a eventi che
nell’ambiente ancestrale della specie hanno rappresentato un pericolo o un’opportunità (Sperber,
Hirschfeld, 2004); altri vengono appresi nel corso dei primi anni di vita e con il tempo danno vita a
una serie di comportamenti ugualmente automatici e più o meno flessibili.
La visione modulare ha in realtà subìto diverse critiche. Pievani (2014), ad esempio, considera
inaccettabile l’esistenza di moduli specializzati per reagire a specifiche situazioni ancestrali le cui
manifestazioni diventano adattive o disadattive a seconda dell’ambiente in cui si esplicano in
quanto quest’idea presuppone una visione passiva e immutabile della mente. Più che di moduli,
dunque, l’autore ritiene che sarebbe opportuno parlare di “precursori naturali” di certe reazioni
(ibidem, p.160), precursori evoluzionisticamente fondati ma ambientalmente labili. “Le competenze,
le preferenze, le predisposizioni e le attitudini che hanno un’origine evolutiva sono vincoli che il
passato ci restituisce. Come tali, influenzano i nostri modi di pensare e agire” (ibidem, p. 161).
17
Kenrick e Griskevicius (2013) si soffermano su alcuni di questi precursori naturali (Fig. 2): alcuni ci
spingono a evitare il dolore fisico e le malattie, altri a farci fare degli amici e a conquistare uno
status sociale il più elevato possibile, altri ancora a conquistare e mantenere un partner e altri a
prendersi cura della propria famiglia. In ogni momento, la nostra mente è impegnata nella
risoluzione di uno o più di queste sfide ancestrali e attiva un comportamento volto alla risoluzione
di questi problemi la cui strategia dipende, in ultima analisi, dalle nostre esperienze e dal nostro
specifico ambiente di adattamento. Non sperimentiamo in modo consapevole le connessioni tra
questi comportamenti e il loro obiettivo funzionale ultimo, ma ci limitiamo a fornire spiegazioni
razionali a posteriori di questi comportamenti. Tuttavia, a livello funzionale tutto quello che
facciamo risulta intimamente connesso (Kenrick, 2011).
•
•
•
•
I comportamenti deputati all’auto-protezione si attivano in risposta a pericoli reali o eventi
percepiti come tali. Vengono attivati, ad esempio, da espressioni di rabbia negli sconosciuti
o al pensiero di individui appartenenti ad altre razze o religioni. L’attivazione di questi
processi rende le persone vigili e sospettose e le porta a compiere scelte in accordo con la
maggioranza. L’appartenenza al gruppo, infatti, ci fa sentire protetti e meno vulnerabili.
I comportamenti deputati all’evitamento delle malattie sono attivati dal suono di qualcuno
che starnutisce o tossisce, dalla vista di ferite aperte o di odori forti. Ad esempio, uno studio
di Tybur e Bryan (Tybur, Bryan et al., 2011) mostra come le persone siano più predisposte a
usare contraccettivi quando vengono esposte a un cattivo odore. Dato che, tendenzialmente,
sono altri individui a essere portatori di malattie, un’attivazione eccessiva di questo modulo
può condurre le persone a comportamenti evitanti o di isolamento sociale. Poiché è molto
più probabile che in antichità le malattie verso le quali non si avevano difese venissero
diffuse da estranei, anche in questo caso l’attivazione di questo modulo si associa a un
atteggiamento di diffidenza verso estranei e luoghi poco conosciuti. Ad esempio, Schaller e
colleghi (Schaller, Park, Mueller, 2003) hanno condotto diverse ricerche che mostrano come
le persone più xenofobe si considerino anche più sensibili alle malattie.
I comportamenti deputati all’affiliazione sono tra i più importanti ai fini del nostro discorso.
Se è vero che gli altri individui sono potenziali portatori di malattie e minacciano quindi il
nostro benessere, è anche vero che l’appartenenza al gruppo, come abbiamo visto, comporta
notevoli vantaggi per l’individuo. Come detto in precedenza, infatti, non solo la
cooperazione aumenta la possibilità di accedere a un numero limitato di risorse, ma protegge
anche dai predatori e dalle minacce di un gruppo rivale. Il sistema dell’affiliazione viene
attivato da stimoli che sollecitano o minacciano l’appartenenza al gruppo e produce, anche
in questo caso, comportamenti di maggior conformismo sociale.
I comportamenti deputati al raggiungimento dello status risultano essenziali ai fini del
successo e della riproduzione di ogni individuo. Alcuni animali ottengono e mantengono il
proprio status all’interno di un gruppo attraverso comportamenti aggressivi diretti verso altri
membri del proprio gruppo. Tra gli uomini le cose possono andare diversamente. Alcuni di
noi ottengono infatti uno status elevato attraverso l’acquisizione di competenze che
suscitano il rispetto e l’ammirazione da parte degli altri, altri attraverso la bellezza e il
18
•
•
•
successo, altri ancora, a seconda dell’ambiente di riferimento, non si distanziano poi tanto
dai nostri fratelli mammiferi e continuano a ottenere rispetto e ammirazione attraverso l’uso
della forza e della prevaricazione. Nessun comportamento, infatti, risulta adattivo in
qualsiasi ambiente, così come non esiste un unico tipo di personalità selezionato
dall’evoluzione, ma esistono più tipi che possono adattarsi ai diversi possibili ambienti –
primari ma anche sociali più ampi – in cui l’individuo si trova vivere. In quest’ottica, i
recenti studi dello psicologo Daniel Nettle (2005; 2006; 2008) mostrano come la plasticità
dei tratti di personalità sia una caratteristica fondamentale dell’evoluzione umana.
I comportamenti che hanno a che vedere con la conquista del partner vengono attivati dalla
vista di un partner reale o potenziale. A differenza degli altri sistemi citati, questo ci induce
a fare scelte uniche e anticonformiste che ci pongono in risalto rispetto agli altri (Miller,
2000). Per quanto riguarda la scelta del partner, si possono riscontrare differenze
significative tra le scelte maschili e femminili. Poiché le donne forniscono alla prole dei
vantaggi diretti – più sono fertili e in salute più daranno alla luce bambini sani – gli uomini
sono generalmente attratti da donne più giovani che mostrano chiari segni di salute fisica. Al
contrario, poiché gli uomini forniscono un vantaggio indiretto alla prole – in termini di
protezione e risorse – le donne sono generalmente attratte da uomini più anziani che
presumibilmente hanno conquistato uno status sociale più elevato (Kenrick, 2011). Alcuni
esperimenti (Kenrick, 2011) mostrano inoltre come le donne siano portate a giudicare gli
uomini come attraenti quando questi vengono descritti come dominanti, mentre gli uomini
sembrano essere attratti da donne che mostrano caratteristiche accudenti.
Una volta conquistato il giusto partner, un altro sistema comportamentale è deputato
al mantenimento del legame. È probabile che lo sviluppo di questo sistema – che abbiamo in
comune con ben poche specie – derivi dall’immaturità fisica e cognitiva con cui vengono al
mondo i bambini, che rende necessarie le cure dei genitori ben oltre la nascita. Questo
sistema viene attivato da segnali che indicano tristezza e malcontento nel partner, ma anche
da possibili rivali in amore. Mentre il comportamento automatico deputato alla conquista del
partner dirige la nostra attenzione verso individui attraenti del sesso opposto, questo sistema,
generalmente, la dirige verso membri attraenti del nostro stesso sesso che potrebbero
rappresentare una minaccia per la nostra coppia.
Infine, i comportamenti deputati alla cura della prole si attivano quando ci troviamo in
presenza di bambini, comportano un desiderio di protezione, in particolare diretta verso i
propri figli, a cui si associa il desiderio di trasmettere loro capacità e risorse necessarie per
sopravvivere e riprodursi a loro volta[2].
19
Figura 2. Gerarchia delle motivazioni secondo Kenrick
Dalla biologia proviene una teoria interessante, “life history theory” (Stearns, 1992), che aiuta a
comprendere come diversi comportamenti possano essere attivati da una stessa sfida evolutiva, e
apparire ugualmente adattivi a seconda dell’ambiente di riferimento. Come quella delle altre specie,
così anche la vita dell’uomo potrebbe essere suddivisa in tre grandi step, ognuno caratterizzato dal
prevalere di uno sforzo adattivo: somatico, di coppia e parentale. Il primo step vede tutti gli animali
coinvolti nello sforzo di sopravvivere e ottenere una maturazione fisica e cognitiva adeguata.
Durante questo periodo, i moduli dell’auto-protezione e dell’evitamento delle malattie sono sempre
attivi: siamo particolarmente turbati dalla presenza di estranei e il nostro repertorio alimentare
risulta di gran lunga più selettivo di quello di un adulto. Alcuni animali attraversano molto
velocemente questa fase e in breve tempo riescono a rendersi autonomi e indipendenti. Altri, come
l’uomo, necessitano di diversi anni prima di raggiungere una maturazione fisica e cognitiva
adeguata e durante questi anni la loro sopravvivenza è garantita dalla vicinanza e dall’amore dei
genitori che lo curano e lo proteggono.
Il secondo step coinvolge gli animali nello sforzo adattivo di ricercare e conquistare un partner
adeguato a trasmettere i propri geni. Nel regno animale questo sforzo risulta associato a espressioni
di violenza e competizione tra rivali. Allo stesso modo, anche gli uomini, come abbiamo visto,
riversano una grande quantità di energie nel mostrarsi unici e migliori degli altri. L’aumento di
testosterone e adrenalina che si registra durante l’adolescenza (Kenrick, Griskevicius, 2013) porta
gli individui a compiere gesti rischiosi sottovalutando le conseguenze delle proprie azioni, inibendo
così i moduli deputati all’autoprotezione e all’evitamento delle malattie per sedurre i membri del
sesso opposto.
Il terzo e ultimo step prevede che l’animale sia coinvolto nella cura della prole. Anche questo step
può variare significativamente a seconda della specie e dell’ambiente di riferimento. Normalmente,
20
durante questa fase gli uomini stabiliscono delle relazioni solide con un partner con il quale
prendersi cura dei futuri figli. In questa fase diminuiscono i livelli di testosterone e adrenalina, e
diminuiscono i comportamenti deputati all’affiliazione e alla conquista del partner. I comportamenti
esibizionisti e rischiosi, infatti, non sono più così adattivi nel momento in cui c’è un’altra persona
che fa affidamento sulle tue cure.
Alcuni animali hanno una storia di vita molto rapida, in cui si susseguono velocemente i tre step,
altri hanno una storia più lenta e possono utilizzare strategie differenti per adempiere alle sfide
adattive. “Strategie rapide”, attraverso cui l’animale investe molto poco nello sforzo somatico per
concentrare tutte le sue energie nella conquista del partner, risultano adattive all’interno di un
ambiente pericoloso e imprevedibile. Se infatti l’animale spendesse un’eccessiva quantità di tempo
e di energie nel primo step rischierebbe di non riprodursi affatto. Al contrario “strategie lente”
risultano adattive in ambienti sicuri e prevedibili, in cui l’animale può percorrere i tre step in tutta
sicurezza. Questo principio può essere utile per comprendere le notevoli differenze che si
riscontrano negli ambienti sociali umani caratterizzati da alta o bassa instabilità. I primi sono più
facilmente associabili all’utilizzo di “strategie lente”, come rimandare la gratificazione immediata
per ottenere un maggiore vantaggio futuro. I secondi sono invece maggiormente caratterizzati da
“strategie veloci” come, ad esempio, preferire un vantaggio immediato, anche se minore, anziché
aspettare una maggiore gratificazione futura. E in entrambi i casi si tratta di scelte, al fondo, sensate
e adattive.
Nessuna strategia è di per sé migliore poiché, in ultima analisi, la sua valenza più o meno
adattiva dipende dal tipo di ambiente in cui nasciamo, cresciamo e ci troviamo a vivere. Le
nostre esperienze infantili, in particolare, rappresentano un’impronta fondamentale a partire
dalla quale si formano le nostre aspettative, le nostre credenze e, dunque, i nostri
comportamenti. Lo sviluppo mentale umano comprende quindi una serie di circuiti variabili;
anziché trasmettere un singolo tratto, i nostri geni prescrivono la capacità di sviluppare una
serie di tratti, più o meno variabili e adattivi a seconda dell’ambiente in cui si cresce e ci si
trova a vivere (Wilson, 1978). Tutti noi, ad esempio, siamo predisposti a ricercare il legame e la
vicinanza con delle figure di riferimento, ma la modalità specifica con cui ogni individuo stabilisce
questo legame e ricerca la sicurezza dipenderà tanto dal temperamento quanto dalle esperienze che
caratterizzano i primi anni di vita del soggetto e che plasmano le sue credenze. Un comportamento
che si è rivelato adattivo nell’infanzia può non esserlo più in età adulta, ma non sempre al mutare
dell’ambiente si riesce a rispondere con un adeguamento ugualmente rapido delle proprie credenze,
aspettative e risposte.
Per riassumere quanto detto finora, l’evoluzione della specie ha prodotto una serie di sistemi
comportamentali che derivano da alcune propensioni “istintive” evoluzionisticamente fondate e che,
nel loro complesso, promuovono la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo in uno specifico
ambiente. Tra questi sistemi, alcuni hanno la funzione primaria di sancire e rafforzare la nostra
appartenenza a un gruppo. Come abbiamo visto, infatti, la natura umana, oltre a contenere una serie
21
di meccanismi che promuovono direttamente gli interessi del singolo, è allo stesso tempo gruppale,
ossia contiene una serie di meccanismi che ci permettono di promuovere gli interessi del nostro
gruppo e di ostacolare quelli dei gruppi rivali. Le maggiori sfide adattive della vita umana
vedono infatti l’individuo coinvolto in piccoli e grandi gruppi – dalla famiglia a gruppi sociali
più ampi - che ne facilitano la sopravvivenza e aumentano le possibilità riproduttive. Per poter
evolvere come specie, ma anche per poter aspirare a una realizzazione e a un benessere personale,
dobbiamo poterci sentire al sicuro, sentire che siamo protetti, amati e stimati all’interno di un dato
ambiente e del nostro gruppo di riferimento.
6. I principi morali di Haidt e il legame con i sensi di colpa interpersonali
La selezione multilivello che favorisce la cooperazione all’interno dei gruppi e la rivalità tra gruppi
diversi fa sì che non soltanto vi sia un piacere nella cooperazione, ma anche il desiderio di vedere
puniti i membri del gruppo che non cooperano e che tradiscono. I gruppi possono essere egualitari e
cooperare al loro interno non perché si compongono di sole persone virtuose, bensì perché è la
stessa mentalità di gruppo che si occupa di punire i bulli e i traditori (Wilson, 2007). Questo non
avviene esclusivamente nei piccoli gruppi, ma in tutte le società umane che si fondano su una serie
di valori, politici e religiosi, che hanno per lo più il ruolo di sopprimere gli egoismi individuali.
All’interno delle diverse società i comportamenti dei singoli ritenuti devianti rispetto alla coesione
del gruppo vengono ostracizzati attraverso accuse velate – come il gossip – o attraverso critiche e
esclusione dal gruppo (Boehm, Boehm, 2009). Ma quale meccanismo si trova alla base di questi
comportamenti? Cosa permette a più individui appartenenti allo stesso gruppo di allearsi in vista di
un obiettivo comune e di ostacolare coloro che vi si contrappongono?
Abbiamo visto come all’interno dei gruppi alcuni comportamenti risultino necessari a garantire il
senso di appartenenza e coesione del gruppo e a far sì che questi risultino adattivi per gli individui
che ne fanno parte. A tal proposito, Haidt e collaboratori (Haidt, Joseph, 2004; 2007; Haidt,
Graham, 2007; Haidt, 2012) hanno approfondito alcuni obiettivi adattivi che appaiono di grande
rilevanza all’interno della vita sociale: prendersi cura di bambini vulnerabili, formare unioni con
consanguinei per trarre vantaggio dalla reciprocità, formare coalizioni per competere con altre
coalizioni, negoziare gerarchie di status, tenere al riparo se stessi e i propri consanguinei dai
parassiti e dagli agenti patogeni (Fig. 3). Nel complesso, ognuna di queste sfide ha prodotto una
serie di risposte automatiche - identificate anche da Kenrick e Griskevicius (2013) nei
comportamenti di cura, affiliazione e evitamento delle malattie - che vanno a costruire le basi della
moralità umana. In ultima analisi, ognuno di questi principi morali deriva dal bisogno umano di
sicurezza e appartenenza a un gruppo ed è garantito da valutazioni cognitive ed emotive
automatiche e inconsce.
22
Ad esempio, l’essere umano è portato a reagire con dolore, collera o disgusto quando
percepisce eventi nel suo mondo sociale che riguardano: persone sofferenti (in particolare
bambini) o che arrecano sofferenza a qualcuno; persone che imbrogliano o che non riescono a
ripagare i favori; persone oppresse o che opprimono; persone sleali, irrispettose, che
commettono attività immorali o degradanti. Questi eventi tendono a suscitare nell’uomo una
serie di giudizi automatici e spontanei, basati probabilmente sull’attivazione subcorticale dei
sistemi emotivo-motivazionali e, dunque, su emozioni piacevoli o spiacevoli. Zajonc (1980)
sostiene che la mera presenza dell'oggetto verso il quale il soggetto ha un atteggiamento (posizione
interiore favorevole o sfavorevole) sia sufficiente a causare la corrispondente valutazione.
L'attribuzione di qualità come buono vs cattivo, ad esempio, può essere elicitata immediatamente
dalla vista dell’oggetto. L'immediatezza e la non intenzionalità della classificazione delle esperienze
come buone o cattive non dipende, peraltro, dalla forza o dall'importanza dell'atteggiamento. Le
persone fanno valutazioni anche quando non sanno di farlo e valutano inconsapevolmente tutte le
condizioni, dalle più alle meno importanti. La valutazione inconscia principalmente positiva o
principalmente negativa influisce sul tono dell'umore della persona e assume così, a cascata, la
funzione di segnalare situazioni di sicurezza o pericolo nell'ambiente circostante. Non sono solo
oggetti e situazioni specifiche a essere valutate rapidamente e senza un'intenzionalità consapevole,
ma anche le persone che vediamo per la prima volta: una grande quantità di informazioni è
trasmessa attraverso comportamenti espressivi non intenzionali che non raggiungono il livello della
consapevolezza, e la correttezza di queste valutazioni “immediate e inconsce” è piuttosto elevata
(Ambady & Rosental, 1998).
Vediamo, nello specifico, i sistemi proposti da Haidt (2012):
•
•
Il principio di cura/danno deriva dal bisogno di prendersi cura delle persone in difficoltà ed
è basato sulla capacità empatica di sentire il dolore e la sofferenza altrui. Questo principio
morale può essere facilmente collegato all’attivazione del sistema dell’accudimento
delineato da Panksepp (Panksepp, Biven, 2012) che, come abbiamo visto, permette agli
individui (in misura maggiore alle donne) di reagire in modo automatico ad alcuni segnali
che esprimono bisogni o sofferenza da parte di un altro individuo. Come sappiamo, una
situazione di sofferenza e pericolo è il fattore scatenante originario del principio di
protezione/danno, ma, grazie allo sviluppo delle capacità empatiche, la cura si estende a
individui diversi, distribuiti gerarchicamente a seconda del grado di parentela e vicinanza.
Il principio di correttezza/inganno deriva dalla necessità di trarre benefici da una relazione a
due, corrisponde alla preoccupazione per un trattamento ingiusto e per la disuguaglianza, ed
è legato al processo evolutivo di altruismo reciproco. In genere, infatti, ci mostriamo altruisti
con chi incontriamo per la prima volta ma, con il passare del tempo, la nostra disponibilità
diventa selettiva: collaboriamo solo con chi è si è dimostrato altruista nei nostri confronti ed
evitiamo o ostacoliamo chi si è dimostrato egoista o si è approfittato di noi. Alla base di
questo comportamento vi potrebbe essere l’attivazione di sistemi diversi che vengono
attivati da gesti di collaborazione o di egoismo compiuti nei nostri confronti. Oltre ai sistemi
23
•
•
•
dell’accudimento e dell’attaccamento potrebbe ad esempio essere implicato il sistema del
gioco, la cui stimolazione prevede un comportamento attivo di ricerca di un’interazione
reciproca, in cui si “vince” e si “perde” a turno, e quello dell’aggressività.
Il principio di libertà/oppressione deriva dai sentimenti di risentimento delle persone nei
confronti di coloro che li dominano e intendono limitare la loro libertà, e spinge gli individui
a cooperare contro gli oppressori, i bulli e i dominatori. Dal punto di vista adattivo, può
essere considerata la risposta alla sfida di vivere in piccoli gruppi in cui gli individui, se
avessero avuto la possibilità, avrebbero prevaricato e oppresso i propri simili. I sistemi alla
base di questo principio morale potrebbero dunque essere quello dell’attaccamento, della
paura e dell’aggressività. I segnali scatenanti sono quelli che comportano un tentativo di
dominanza arbitraria da parte di un individuo sul gruppo: comportamenti aggressivi e
vessatori portano gli altri individui a unirsi per contrastare gli oppressori.
Il principio di lealtà/tradimento deriva dal bisogno di formare coalizioni mutevoli, ma
coese, all’interno delle società, coalizioni che possono aiutare i singoli soprattutto in
presenza di risorse limitate. Questo principio comporta un bisogno innato di appartenenza al
gruppo e avversione verso il gruppo rivale ed è alla base delle virtù del patriottismo e del
sacrificio per il gruppo. Il fattore scatenante originario di questo modulo deriva dalla
percezione dell’altro come appartenente al nostro gruppo o come traditore. Il bisogno di
appartenenza al gruppo sembra essere collegato principalmente con l’attivazione del sistema
dell’attaccamento, che potrebbe interagire con l’attivazione del sistema dell’accudimento
diretto verso i compagni leali e quello dell’aggressività diretto verso i traditori o i membri di
altri gruppi rivali. Un celebre esperimento di psicologia sociale condotto da Sherif (1954)
mostra come, in determinate condizioni, si creino facilmente dinamiche che favoriscono la
divisione in in-group e out-group. Sherif decise di portare un gruppo composto da dodici
ragazzini a un campo estivo di tre settimane dove i ragazzi erano stati divisi casualmente in
due gruppi da undici ragazzi ciascuno. Per i primi cinque giorni ogni gruppo era convinto di
essere solo all’interno del campo. All’interno di ogni gruppo era quindi emerso un leader e
avevano iniziato a formarsi regole, riti e identità distinte tra i membri. Quando al sesto
giorno i due gruppi si erano accorti di non esser soli, avevano iniziato a pregare l’educatore
di organizzare una sfida tra i due gruppi che si era concretizzata in un torneo basato su
abilità sportive. Da quel momento in poi, il comportamento tribale aveva visto un
incremento, favorendo il senso di lealtà all’interno del gruppo e la rivalità con il gruppo
rivale.
Il principio di autorità/sovversione deriva dalla nostra lunga storia di primati coinvolti in
interazioni sociali gerarchiche che costituiscono il fondamento dell’appartenenza al gruppo,
ed è alla base delle virtù di leadership e followership. Gli individui più abili riescono infatti
a mantenere la protezione dei superiori e la lealtà dei subordinati. I fattori che attivano
questo sistema sono tutti quegli elementi che denotano una differenza tra ranghi, più bassi e
più alti, e quei comportamenti tesi a negare o sovvertire l’ordine gerarchico. Difatti, se
l’autorità è in grado di tutelare il gruppo difendendolo dal caos, tutti gli individui sono
istintivamente portati a tutelare questa gerarchia, a patto che questa garantisca l’ordine e
24
•
l’interesse del gruppo. Anche alla base di questo modulo possiamo ipotizzare che vi sia il
sistema dell’attaccamento, che promuove nell’individuo un bisogno di sicurezza
interpersonale, e quello della paura.
Il principio di santità/degradazione è associato a emozioni di disgusto e paura per la
contaminazione, e si trova alla base di alcuni principi religiosi che inducono a vivere in
modo “più virtuoso” e “meno carnale”; alla base di questo principio vi è l’idea del corpo
come un tempio che può essere profanato da attività immorali e contaminanti. Sappiamo che
il senso del disgusto ha permesso agli individui di proteggersi dai microbi e, dunque, di
essere esposti a meno malattie potenzialmente mortali. Il sentimento di disgusto può quindi
essere considerato parte del nostro “sistema immunitario comportamentale” che ci spinge a
tenerci a debita distanza da oggetti o persone in grado di trasmettere infezioni e malattie.
Alla base di questo principio potrebbe essere ipotizzata l’interazione il sistema della paura e
della rabbia e l’emozione del disgusto. Attualmente, un esempio diretto dell’attivazione di
questo sistema può essere considerata l’avversione per gli estranei, come le popolazioni di
immigrati, che sembra infatti diminuire quando il rischio di contrarre malattie è minore
(Thornhill, Fincher, Arran, 2009).
25
Fig. 3. I sei principi morali di Haidt
26
Dunque, secondo Haidt, la morale dell’uomo possiede un carattere innato e transculturale che
si esplica in sei principi morali individuabili nelle diverse culture e nelle diverse società.
Questa prima “bozza morale” innata viene però modificata durante l’infanzia a seconda
dell’ambiente d’appartenenza e si declina in modo diverso nelle diverse culture. Solo in
seguito a questo giudizio automatico il soggetto cerca argomentazioni razionali a supporto di questo
giudizio attraverso il ragionamento morale. Potenzialmente siamo dunque in grado di elaborare dei
giudizi morali su diverse questioni. Alcune di queste vengono rinforzate nell’infanzia, altre
rimangono invece sopite. Su alcuni aspetti ci mostriamo quindi irremovibili, rispetto ad altri
diventiamo invece più elastici. Le ricerche di Shweder e collaboratori (Shweder, Mahapatra, Miller,
1987) evidenziano quanto le differenze culturali, etiche e religiose possano strutturare, in modi
diversi, le idee e i comportamenti degli individui nelle diverse società a partire dai fondamenti
innati della morale. In particolare, gli autori individuano tre clusters principali di tematiche morali:
•
•
•
L’etica dell’autonomia si fonda sull’idea che gli uomini siano individui isolati che hanno
bisogni e desideri che devono essere liberi di soddisfare. Questo principio etico,
prevalentemente presente nelle società occidentali, si fonda su i valori riguardanti i diritti e
la libertà individuale.
L’etica della comunità enfatizza maggiormente la visione dell’uomo come membro di
gruppi e società più ampie. Questo tipo di etica si fonda sui principi del patriottismo, della
lealtà e del rispetto.
L’etica della divinità si fonda sull’idea dell’uomo come contenitore temporaneo di un’anima
divina, sull’idea che il corpo è sacro e come tale va rispettato.
Alla luce di quanto detto, possiamo ipotizzare che il prevalere di un tipo di morale sull’altra possa
rappresentare motivo di tensione tra gruppi diversi. Per coloro che si rifanno all’etica della
comunità, l’individualismo dell’occidente post-industriale appare egoista e pericoloso. Per coloro
che si rifanno invece all’etica divina, l’ottica individualista sembra un’esaltazione degli istinti
umani più bassi. Questi contrasti possono anche presentarsi all’interno dello stesso gruppo
familiare, nel passaggio da una generazione all’altra ad esempio, quando il sistema di valori di
riferimento cambia rapidamente provocando una frattura tra genitori e figli. Sviluppare un’idea
diversa dai propri genitori può infatti comportare forti vissuti di colpa da parte dei figli che sentono
che quello che gli è stato insegnato durante l’infanzia e l’adolescenza, il sistema di valori con il
quale sono cresciuti, rappresenta il legame stesso con i propri genitori e distanziarsi da questi valori
vuol dire quindi spezzare questo legame, mentre restare fedeli a quei valori può ostacolare il loro
successo in un mondo che cambia. Un esempio attuale riguarda le seconde generazioni di
immigrati, che nel passaggio da una cultura all’altra possono incontrare molte difficoltà. Se da una
parte, infatti, abbracciare completamente la cultura d’origine dei genitori, le norme e i valori del
paese di appartenenza può comportare per i ragazzi difficoltà di adattamento e integrazione al
nuovo contesto, dall’altra il rifiuto di tali valori e l'adesione ai costumi e agli stili di vita della nuova
cultura può generare profondi sensi di colpa derivanti dall'idea di aver tradito i propri genitori.
27
Per riassumere, abbiamo visto come i principi morali abbiano un carattere universale e adattivo
poiché hanno contribuito, nel tempo, alla sopravvivenza del gruppo, e vanno poi strutturandosi a
seconda della cultura di appartenenza. Ogni persona è istintivamente predisposta a reagire con
collera e disprezzo verso quegli individui che minacciano l’identità, l’appartenenza e la
cooperazione all’interno del gruppo. Allo stesso modo, tutti noi siamo istintivamente predisposti
a seguire questi principi morali e, se questo non avviene, veniamo travolti da dolorosi vissuti
di colpa.
La Control-Mastery Theory differenzia tra sensi di colpa consci e inconsci. Mentre i primi sono
legati alla consapevolezza di aver fatto qualcosa di sbagliato in base al proprio sistema culturale e
morale, i secondi sono invece legati a credenze derivate da traumi da shock o da stress vissuti nel
corso delle proprie relazioni primarie, in cui il bambino ha sentito che il perseguimento di un
obiettivo sano – giocare con gli amichetti, dipendere, arrabbiarsi per un torto subìto, essere
autonomo ecc. – era causa di dolore e sofferenza per i propri cari. Questo tipo di senso di colpa
interpersonale, pur nascendo da una motivazione pro-sociale e adattiva, finisce per essere
disadattivo nel momento in cui ostacola la realizzazione di obiettivi personali e relazionali sani
e adattivi, provocando inibizioni e sintomi. In particolare:
•
•
•
•
Il senso di colpa da separazione/slealtà deriva dalla credenza patogena secondo cui separarsi
fisicamente e psicologicamente dai propri cari possa arrecare loro sofferenza. Possiamo
notare come esista una somiglianza tra questo senso di colpa interpersonale e il principio di
lealtà/tradimento studiato da Haidt. In entrambi i casi, infatti, lo scopo per l’individuo è
quello di salvaguardare la propria appartenenza al gruppo.
Il senso di colpa da responsabilità onnipotente ha a che vedere con l’idea di avere il potere e
il dovere di prendersi cura degli altri significativi. Questo senso di colpa appare invece
connesso al principio morale di cura/danno ipotizzato da Haidt. D’altra parte, anche in
questo caso, essendo associato a credenze patogene, il soggetto finisce per mettere da parte i
propri bisogni pur di rispondere a quelli altrui e si vive come cattivo ed egoista ogni qual
volta non è in grado di soddisfarli o si concentra sui propri interessi.
Il senso di colpa del sopravvissuto si associa invece alla credenza patogena secondo cui il
proprio successo e benessere personale sia ingiusto in quanto iniquo, come se quello che il
soggetto possiede, o ha raggiunto, fosse stato tolto a qualcun altro. L’idea alla base di questo
senso di colpa è la stessa che possiamo rintracciare nel principio di equità/imbroglio studiato
da Haidt, e in alcuni casi a quello di autorità/sovversione.
Il senso di colpa da odio di sé deriva da relazioni abusanti o trascuranti in cui il soggetto, pur
di non vedere i propri genitori come cattivi, si è convinto di non meritare di essere amato,
accudito e protetto. Questo senso di colpa è forse il più doloroso e disfunzionale tra tutti i
sensi di colpa in quanto il soggetto non riesce a tollerare di poter essere felice e avere una
buona autostima e finisce per boicottare quelle situazioni o relazioni che sembrano
accennare a questa possibilità. Poiché questo senso di colpa si associa spesso all’idea di
essere intrinsecamente cattivo, sbagliato e sporco, è possibile ravvisare delle analogie con i
28
principi di santità/degradazione e autorità/sovversione descritti da Haidt, sebbene, ancora
una volta, l’origine traumatica di questo senso di colpa lo renda profondamente disadattivo.
8. Conclusioni
Le difficoltà che riportano i pazienti in terapia sono spesso profondamente radicate nelle sfide
adattive che incontriamo come specie. Il bambino fin dalla nascita è profondamente motivato ad
adattarsi alla sua realtà e lo fa con il bagaglio di esperienze che gli è stato tramandato dai suoi
predecessori a livello filogenetico. Il bambino sa, in modo inconsapevole, che la propria
sopravvivenza dipende dalla vicinanza con il proprio gruppo primario, in particolare con i propri
genitori. Ha bisogno che questi lo amino, lo curino e lo proteggano. Ogni comportamento che
procura loro sofferenza o dispiacere è motivo di grande sofferenza per il bambino, che sente di
poter perdere la loro stima e la loro protezione e quindi è portato a giustificare i genitori e attribuirsi
la responsabilità di ciò che accade. Questi vissuti di colpa che il bambino sperimenta durante i primi
anni della sua vita, sebbene nascano con una motivazione pro-sociale e adattiva, se pervasivi e
associati a credenze patogene derivate da esperienze traumatiche finiscono per plasmare la
percezione, le risposte e i comportamenti dell’individuo al suo ambiente, producendo rimozioni,
inibizioni e sintomi.
Proprio come le tartarughe e gli uccelli di cui abbiamo parlato, i cui comportamenti, un tempo
adattivi, si rivelano fondamentalmente disfunzionali nel nuovo ambiente di adattamento, così anche
gli uomini possono mettere in atto una serie di strategie utili ad adattarsi al proprio ambiente
infantile che in seguito si rivelano però disfunzionali. La psicopatologia, dunque, può essere letta
come espressione di credenze e schemi patogeni che hanno favorito l’adattamento dell’individuo a
un ambiente primario traumatico ma che si rivelano disadattivi al mutare delle circostanze. Se è
vero infatti che, a differenza delle tartarughe e degli uccelli, siamo dotati di un funzionamento
mentale che ci permette di adattare il nostro bagaglio evolutivo alle sfide di un ambiente diverso da
quello ancestrale, è anche vero che le credenze e gli schemi acquisiti durante l’infanzia plasmano il
nostro funzionamento mentale e la nostra personalità divenendo spesso automatici, impliciti e
difficili da modificare.
Non bisogna però dimenticare che l’imperativo dell’adattamento accompagna l’uomo in ogni
momento della sua vita. Quando giungono in terapia, quindi, i pazienti sono fortemente motivati a
disconfermare le proprie credenze patogene in quanto causa di sofferenza e non più adattive. E
consciamente o inconsciamente cercheranno di raggiungere questo obiettivo per mezzo di piani più
o meno articolati. Sarà compito dell’analista disconfermare le loro credenze patogene e aiutarli a
realizzare il loro piano attraverso l’atteggiamento, le interpretazioni e il superamento dei test.
29
[1] Sternberg (2000) definisce la percezione come "l'insieme dei processi per mezzo dei quali
riconosciamo, organizziamo e diamo senso alle sensazioni relative alla molteplicità di stimoli
ambientali" (p. 132).
[2] E' necessario però sottolineare che alcuni studiosi (Pievani, 2014) preferiscono procedere con
cautela rispetto all’attribuzione di una paternità biologica o culturale di alcuni comportamenti. I
diversi modi in cui pensiamo e ci comportiamo sono comunque il frutto dell’intreccio tra precursori
naturali ed evoluzione culturale della specie.
30
Bibliografia
Alexander, B. K., Beyerstein, B. L., Hadaway, P. F., Coambs, R. B. (1981), “Effect Of Early And
Later Colony Housing On Oral Ingestion Of Morphine In Rats”. In Pharmacology Biochemistry
And Behavior, 15(4), 571-576.
Ambady, N., Rosenthal, R. (1992), “Thin Slices of Expressive Behavior as Predictor of
Interpersonal Consequences: A Meta-Analysis”. In Psychological Bullettin, 111, 256-274.
Bargh, J. A., Chartrand, T. L. (1999), “The unbearable automaticity of being”. In American
psychologist, 54(7), 462.
Bargh, J. A., Chen, M., Burrows, L. (1996), “Automaticity of social behavior: Direct effects of trait
construct and stereotype activation on action”. In Journal of personality and social
psychology, 71(2), 230.
Bechara, A., Damasio, H., Tranel, D., Damasio, A. R. (1997), “Deciding advantageously before
knowing the advantageous strategy”. In Science, 275(5304), 1293-1295.
Bianchi, A., Di Giovanni, P. (2000). Psiche e Società. Pararavia Editore, Torino.
Boehm, C., Boehm, C. (2009), Hierarchy in the forest: The evolution of egalitarian behavior.
Harvard University Press.
Bogen, J. E. (1995), “On the neurophysiology of consciousness: II. Constraining the semantic
problem”. In Consciousness and Cognition, 4, 137–58.
Bowlby, J. (1969), Attaccamento e perdita, vol. 1: “L’attaccamento alla madre” Bollati
Boringhieri, Torino, 1989.
Chartrand, T. L., Bargh, J. A. (1996), “Automatic Activation Of Social Information Processing
Goals: Nonconscious Priming Reproduces Effects of Explicit Conscious Instructions”. In Journal
Of Personality and Social Psychology, 71, 464-478.
Darwin, C. (1859), L’origine della specie. Tr. it. Newton Compton Editori, Roma 2011
Dawkins, R. (1976), Il gene egoista. Tr. it. Mondadori, Milano 2013
31
Decety, J. (2011), “The neuroevolution of empathy”. In Annals of the New York Academy of
Sciences, 1231(1), 35-45.
Dijksterhuis, A., Chartrand, T. L. Aarts, H. (2007), “Effects of priming and perception on social
behavior and goal pursuit”. In J. A. Bargh (ed.), Social psychology and the unconscious: The
automaticity of higher mental processes, Psychology Press, 51–131.
Ferguson, M. J. (2008), “On becoming ready to pursue a goal you don’t know you have:Effects of
nonconscious goals on evaluative readiness”. In Journal of Personality and Social Psychology, 95,
557–72.
Gazzillo, F. (2016), Fidarsi dei pazienti. Raffaello Cortina, Milano.
Gladwell, M. (2005). In un batter di ciglia. Il potere segreto del pensiero intuitivo. Tr. it.
Mondadori, Milano 2014.
Haidt, J. (2012), Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione. Tr. it.
Codice Edizioni, Torino 2013.
Haidt, J., Graham, J. (2007), “When morality opposes justice: Conservatives have moral intuitions
that liberals may not recognize”. Social Justice Research, 20(1), 98-116.
Haidt, J., Joseph, C. (2004), “Intuitive ethics: How innately prepared intuitions generate culturally
variable virtues”. In Daedalus, 133(4), 55-66.
Haidt, J., Joseph, C. (2007), “The moral mind: How five sets of innate intuitions guide the
development of many culture-specific virtues, and perhaps even modules”. In The innate mind, 3,
367-391.
Hamilton, W. D. (1966), “The moulding of senescence by natural selection”. In Journal of
Theoretical Biology, 12(1), 12-45.
Huang, J. Y., Bargh, J. A. (2014), “The Selfish Goal: Autonomously operating motivational
structures as the proximate cause of human judgment and behavior”. In Behavioral and Brain
Sciences, 37(02), 121-135.
Kenrick, D. T. (2011). Sesso, crimini e il senso della vita. Tr. it. Il Saggiatore, Milano 2014.
Kenrick, D. T., Griskevicius, V. (2013), “The rational animal: How evolution made us smarter than
we think”. Basic Books, New York.
32
Liszkowski, U., Carpenter, M., Henning, A., Striano, T., Tomasello, M. (2004), “Twelve-montholds point to share attention and interest”. In Developmental Science, 7, 297 – 307.
Marien, H., Custers, R., Hassin, R. R., Aarts, H. (2012), “Unconscious goal activation and the
hijacking of the executive function”. In Journal of Personality and Social Psychology, 103, 399–
415.
Miller, G. F., Tybur, M., Jordan, D. B. (2007), “Ovulatory Cycle Effect on Tip Earnings by LapDancers: Economic evidence for human estrus?”. Evolution and Human Beahavior, 28, 375-381.
Miller, E. K. (2000). “The prefrontal cortex and cognitive control”. In Nature Reviews
Neuroscience, 1, 59-65.
Muir, W. M. (2013), “Genetics and the Behaviour of Chickens: Welfare and Productivity”. In
Genetics and the Behaviour of Domestic Animals, 2nd Edition. Vol. 2, 1-30.
Nettle, D. (2005), “An evolutionary perspective on the extraversion continuum”. In Evolution and
Human Behavior, 26, 363-373.
Nettle, D. (2005), “The evolution of personality variation in humans and other animals”.
In American Psychologist, 61-622-631.
Nettle, D. (2008), “Why do some dads get more involved than others? Evidences from a large
British cohort”. In Evolution and Human Behavior, 29, 416-423.
Panksepp, J. (2006), “Emotional endophenotypes in evolutionary psychiatry”. In Progress in
Neuro-Psychopharmacology & Biological Psychiatry, 30, 774–784.
Panksepp, J. (2014), “Integrating bottom-up internalist views of emotional feelings with top-down
externalist views: Might brain affective changes constitute reward and punishment effects within
animal brains?”. In Cortex, 59, 208-2013.
Panksepp, J., Biven, L. (2012). Archeologia della mente. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano
2014.
Pievani, T. (2014). Il cammino dell'umanità. DeAgostini, Novara.
Rizzolatti, G., Craighero, L. (2004), “The Mirror- Neuron System”. Annual Review Of
Neuroscience, 27, 169-192.
33
Sampson, h., & mount zion psychotherapy research group (a cura di), (1986), The Psychoanalytic
Process: Theory, clinical observation, and empirical research. Guilford Press, New York.
Schaller, M., Park, J. H., Mueller, A. (2003), “Fear of the dark: Interactive effects of beliefs about
danger and ambient darkness on ethnic stereotypes”. In Personality and Social Psychology Bulletin,
29(5), 637-649.
Sherif, M. (1954), The Robbers Cave Experiment: Intergroup Conflict and Cooperation. Wesleyan
University Press.
Sherman, J. W., Gawronski, B., Trope, Y. (2014), Dual-Process Theories of the social mind.
Guilford Publications.
Shweder, S. A., Mahapatra, M., Miller, J. (1987), “Culture and moral development”. In j. kagan e s.
lamb (a cura di), The emergence of morality in young children. University of Chicago press,
Vhicago, 1-83.
Silberschatz, g. (2005), Transformative
Psychotherapy. Routledge. New York.
relationships:
the
Control
Mastery
Theory
of
Sperber, D., Hirschfeld, L. A. (2004), “The cognitive foundations of cultural stability and
diversity”. In Trends in cognitive sciences, 8(1), 40-46.
Stearns, C. (1992), The evolution of life histories. Oxford, England: Oxford University Press.
Stenberg, R. J. (1988), Psicologia del Pensiero Umano. Tr. it. Piccin Editore, Padova
Suomi, S. J. (2006). “Genetic and Environment Influencing the Expression of Impulsive Aggression
and Serotoninergic Functioning in Rhesus Monkey”s. In R. E. Tremblay, W. H. Hartup, and J.
Archer (a cura di), Develpmental Origins of Aggression. New York, Guilford Press, 63-82.
Thornhill, R., Fincher, C. L., Aran, D. (2009), “Parasites, democratization, and the liberalization of
values across contemporary countries”. In Biological Reviews, 84(1), 113-131.
Tomasello, M. (2007), “Cooperation and communication in the 2nd year of life”. In Child
Development Perspectives, 1(1), 8-12.
34
Tomasello, M., Hare, B., Lehmann, H., Call, J. (2007), “Reliance on head versus eyes in the gaze
following of great apes and human infants: the cooperative eye hypothesis”. In Journal of Human
Evolution, 52(3), 314-320.
Tybur, J. M., Bryan, A. D., Magnan, R. E., & Hooper, A. E. C. (2011), “Smells like safe sex
olfactory pathogen primes increase intentions to use condoms”. In Psychological science, 22(4),
478-480.
van Hasselt, F. N., Cornelisse, S., Yuan Zhang, T., Meaney, M. J., Velzing, E. H., Krugers, H. J.,
Joëls, M. (2012), “Adult hippocampal glucocorticoid receptor expression and dentate synaptic
plasticity correlate with maternal care received by individuals early in life”.In Hippocampus, 22(2),
255-266.
von Hofsten, O., von Hofsten, C., Sulutvedt, U., Laeng, B., Brennen, T., Magnussen, S. (2014),
“Simulating newborn face perception”. In Journal of Vision, 14(13)16, 1–9.
Weiss, J. (1993), Come funziona la psicoterapia. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Wilson, D. S. (2007), Evolution for everyone: How Darwin's theory can change the way we think
about our lives. Delta.
Wilson, E. O. (1978), Sulla natura umana. Tr. it Zanichelli Editore, Bologna 1980
Wilson, E. O. (2012), La conquista sociale della Terra. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
Wilson, D. S., Wilson, E., O. (2008), “Evolution for the good of the group”. In American Scientist,
96, 380-389.
Zajonc, R. B. (1980), “Feeling and thinking: Preferences need no inferences”. In American
Psychologist, 35, 151-175.
Zeigarnik, B. (1938), “On finished and unfinished tasks”. In A source book of Gestalt psychology,
1, 1-15.
35