Giapponismo for ever, non importa se per forza o
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Giapponismo for ever, non importa se per forza o
Giapponismo for ever, non importa se per forza o per piacere Francesco Morena “Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza torna re alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione.” (Vincent Van Gogh, 1888) Il paese che fu ‘scoperto’ due volte Nella storia del mondo il Giappone è stato l’unico paese che i cosiddetti occidentali h anno ‘scoperto’ due volte. Sembrerebbe un controsenso, poiché la scoperta può essere solo una, a rigor di logica. Tuttavia, i fatti storici andarono in un tale modo che questa constatazione può essere giustificata. La prima ‘scoperta’ avvenne nel 1542, e fu piuttosto casuale. In quell’anno alcuni portoghesi naufragarono sulle coste meridionali dell’arcipelago estremo-orientale. Né loro avevano mai visto un giapponese né un giapponese aveva mai incontrato un europeo. L’impatto iniziale fu forte, così come lo era stato qualche decennio prima in America, allorché gli spagnoli vennero in contatto con gli Indios. Conosciamo le drammatiche evoluzioni di quest’ultima ‘scoperta’ europea, tra proficui scambi cult urali e genocidi, benefiche trasmissioni di conoscenze e depredazioni. Nonostante tali recentissimi presupposti, in Giappone andò però in maniera del tutto diversa. Il Paese del Sol Levante, benché si trovasse a quei tempi in una fase di marcata turbolenza politica, aveva solidi presuppost i sociali e militari per reggere l’urto dell’arrivo in massa di quegli stranieri. Così, gli europei e i giapponesi instaurarono relazioni che, tra aperture e diffidenze, durarono alcuni decenni. Fin quando, al culmine di un’escalation di giustizie sommarie, martì ri cristiani e altissime tensioni diplomatiche, il governo del potentissimo shōgun Tokugawa non impose il sakoku, ovvero la politica di totale isolamento del Giappone dal resto del mondo. Se si eccettua la piccola finestrella di Nagasaki, attraverso la quale filtravano poche merci e vaghe notizie grazie all’intermediazione di alcuni mercanti cinesi e olandesi ai quali era stato concesso il permesso di avere un volume limitato di traffici commerciali, il Giappone e l’Occidente praticamente si ignoraron o per più di due secoli. A posteriori, si può affermare che questo lunghissimo tempo abbia contribuito ad alimentare negli occidentali una sorta di mito, una trasposizione – già illuminista ma nei fatti alquanto retrò – dell’idea di un paese, il Giappone, nel quale le case erano tutte rivestite d’oro, come aveva raccontato Marco Polo. In questi due secoli dal Giappone giungevano in Europa solo alcuni generi di manufatti, ovvero quelli che avevano l’approvazione dello shōgun e che contemporaneamente soddisfacevano il desiderio di profitto dei mercanti. Oltre a beni di durata effimera, come i metalli grezzi e la carta, gli olandesi traghettarono soprattutto lacche e porcellane, di un tipo des tinato fin dall’origine all’esportazione, molto lontano per stile dal tradizionale gusto giapponese. Gli europei fantasticarono su quel paese ancora misterioso specchiandosi nelle levigate superfici di arredi e suppellettili laccati e dorati, oppure maneggiando elegante vasellame ornato di esuberante policromia, o ancora ammirando le illustrazioni a corredo di alcuni testi compilati da viaggiatori eruditi come Engelbert Kaempfer e Philipp Franz von Siebold, che riuscirono a introdursi in Giappone tra le fila degli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (Fig. 1). Per questa situazione, tra Sei e Settecento, il Giappone fu in parte relegato nell’ombra della Cina. A quei tempi il Regno di Mezzo attraeva uno straordinario interesse tra gli occidentali. Nonostante anche i rapporti con la Cina non siano stati costantemente buoni, l’Impero asiatico, e le sue numerose propaggini culturali appena oltre i suoi confini, stimolarono prepotentemente la fantasia degli europei, in tutti gli ambiti, artistico, filosofico e mondano. La cultura cinese ispirò una tendenza di gusto di vastissime proporzioni e lunghissima diffusione. È la Cineseria, un termine che male si presta a definizioni e a sintesi, poiché coinvolge un’infinità di sfumature e significati. Essa non è però solo una variegazione di gusto tra le a ltre: è un’idea di evasione, di libertà, di sogno, di esplorazione, di conoscenza, che solo superficialmente si lega alla concretezza di oggetti ornati di figurette ‘alla cinese’. Il Giappone, la sua cultura e le sue arti, si intrufolarono quasi anonimamente in questa esplosione tutta cinese, ma i riflessi della sua presenza sono palesi. Le porcellane e le lacche di là provenienti, le illustrazioni dei libri dedicati alla cultura di quell’arcipelago, incuriosirono gli intellettuali, gli artisti e gli artigiani di tutta Europa nei tempi del Barocc o e del Rococò. Tuttavia, per convenzione e temperie culturale, anche queste ‘intrusioni’ giapponesi debbono rientrare nella Cineseria che all’epoca era in Occidente la ‘madre’ di tutti gli esotismi. La Cineseria raggiunse il suo acme entro gli ultimi decenni del Settecento. Il suo vigore intellettuale e artistico scemò progressivamente con il ritorno in auge dei paradigmi della Classicità. L’austero stile Neoclassico mal si combinava con le ridondanze e la leggerezza della Cineseria. Tuttavia, essa mai svanì completamente, rimanendo sopita ma viva anche nell’Ottocento. Per sintetizzare brutalmente, il suo momento di decadenza più vistoso coincise con l’ascesa, verso l’inizio dell’Ottocento, del fenomeno dell’Orientalismo, ovvero di quella congerie culturale e artistica nella quale diventano protagonisti i temi legati al ‘mondo arabo’. Sulla scia delle campagne egiziane di Napoleone, fiorì dunque una nuova, anche se non inedita, passione esotica. Gli harem, i cammelli, le tigri, le piramidi e via di seguito, si sostituirono alle concubine imperiali, ai draghi e alle pagode cinesi. La forma e il contenuto cambiano radicalmente. Non cambia però quell’anelito alla scoperta, all’esplorazione del mistero, alla rappresentazione dell’incanto dell’‘altro’ e dell’‘altrove’, che è nota tipica dell’essere umano. Qualcuno ha ipotizzato che l’esotismo sia andato dove lo hanno portato gli interessi economici. In Cina, quando in quella zona di mondo c’erano traffici da portare a buon fine; in Marocco, quando il colonialismo si spostò tra quelle terre. Non è del tutto vero, poiché così si sminuirebbe, anzi degraderebbe, quel desiderio di conoscenza che ha spinto gli uomini a varcare le Colonne d’Ercole. Non è neanche del tutto falso. Le nazioni occidentali, a partire dagli S tati Uniti, che dal 1854 imposero al Giappone con la forza dell’esibizione dei cannoni la fine del suo secolare isolamento, non furono certo mossi dal desiderio di instaurare rapporti culturali con quel paese che, unico al mondo, ancora opponeva il suo rif iuto all’impellente globalizzazione (ante litteram, s’intende…). L’idillio scoppiò dopo, come conseguenza. La diplomazia internazionale semplicemente voleva avere con il Giappone relazioni commerciali. Forse la verità, che in quel paese non ci fosse in realtà oro a sufficienza per ricoprire tetti e pavimenti, già era nota. Tuttavia, ben altre potevano essere le ricchezze da scambiare, e anche questo forse già si sapeva. Gli occidentali trovarono allora condizioni politiche, economiche e sociali per riuscire con relativa facilità a imporre ai giapponesi i loro modi e le loro pratiche, i traguardi dell’incipiente modernità. Il Giappone, infatti, attraversava allor a un periodo di profonda crisi, le cui conseguenze si riverberavano a tutti i livelli. Era quindi nell’aria l’anelito per un radicale cambiamento, e l’occasione dell’arrivo degli stranieri fu propizia per mettere in atto quella che a tutti gli effetti fu una rivoluzione epocale. Nel volgere di pochissimi anni l’istituzione dello shogunato decadde definitivamente e l’imperatore torno a concentrare su di sé tutti i poteri decisionali, dopo quasi sette secoli in cui era stato relegato a funzioni meramente religiose e rituali. Contemporaneamente, molte nazioni occident ali siglarono accordi di amicizia e, naturalmente, commerciali col Giappone. Fu allora che il Giappone fu ‘scoperto’, per la seconda volta. È nato prima l’uovo-Giapponismo o la gallina-Giapponeseria? “Provate ad immaginarvi qualche cosa come una grande galleria multicolore, piena di piante verdi e di fiori, illuminata da lampade di tutti gli stili e da flambeaux di tutte le forme riparati da ventole fantastiche che simulano uccelli, calici di gigli mostruosi, farfalle, ombrellini, cappelli, acconciature del settecento, figure cinesi. Tutta la volta è rossa, di quel rosso vivissimo e inimitabile che hanno certe stoffe dell’Estremo Oriente; e sul rosso stanno sparpagliati mille ventagli di Jokohama, piccoli ventagli dipinti a colori chiari. Su le pareti gli oggetti più curiosi e più disparati si confondono in un luccichio abbarbagliante: una foukousa ricamata d’oro circonda un piatto ispano-moresco; un pezzo di velluto veneziano è fermato dalla sciabola d’un samouraï; una maiolica faentina posa sopra una menso la di lacca; […] una madonna su tavola d’oro, opera d’un qualunque primitivo, sorride piamente nel lume vermiglio d’una lanterna giapponese orrida di draghi e di mostri…”. Questo brano fu scritto da Gabriele D’Annunzio nel marzo del 1886 per descrivere il salotto di Palazzo Primoli a Roma (cfr. p. 198). L’immagine è quella di un ambiente sfarzoso, rutilante di forme e di colori, di suggestioni artistiche tra le più dispa rate. Vi convivono tutti gli Orienti e molti Occidenti, delle epoche più diverse, dal Medioevo alla contemporaneità. Il padrone di casa, il conte Primoli (cat. 13), era ‘uomo di mondo’, aristocratico di sangue napoleonico che si era formato nei circoli intellettual i più esclusivi della Parigi multiculturale del tempo. Il suo gusto, ridondante nel suo manifesto eclettismo, rispecchiava per molti versi le tendenze internazionali dell’epoca. Secondo le quali, in uno stesso ambiente, potevano convivere fondi oro italiani con tessuti veneziani, vasellame faentino con le ceramiche spagnole di gusto moresco. Secondo il quale potevano convivere, senza apparenti contraddizioni, manufatti cinesi con oggetti giapponesi, in un vortice di riferimenti più emozionali che culturali. Il Giappone, dunque, al tempo della sua seconda ‘scoperta’, fu coinvolto in qu el prepotente revival stilistico che dominava le scene del gusto internazionale, nell’ambito del quale si inserì un rinnovato interesse e per la Cineseria settecentesca e per l’Orientalismo ottocentesco. È il tempo in cui spopolava, tra pubblico e artisti, la pittura magmatica per colorismi di Mariano Fortuny, il cui studio romano nel 1874 “era tutto pieno di oggetti di curiosità, di stoffe, di bronzi, di majoliche, di tappe ti, d’armi, di vetri dipinti artisticamente foggiati di antiche e rinomate fabbriche , vero bazar, tutto splendori, colori, riflessi e barbagli; parea più un’Esposizione d’arte industriale che il quieto santuario d’un artista che ha bisogno di concentrarsi per ritrovare sé stesso nell’opera sua” (Fig. 2). Questa volta, però, e nonostante questa roboante mescolanza apparente, il Giappone si era presentato agli occidentali in completa autonomia rispetto alla Cina e agli altri Orienti. La diffusione della sua cultura, dei suoi costumi e della sua art e avrebbe generato un fenomeno di grandissime proporzioni e d’importanza cruciale per l’evoluzione del gusto occidentale della seconda metà dell’Ottocento. Pur essendo concettualmente una sorta di filiazione della Cineseria, in quanto analoga espressione di un anelito umano ai piaceri dell’esotismo, il Japonisme (secondo il neologismo coniato dal francese Burty nel 1872) si mostrò in breve con un carattere diverso, più consapevole e interiorizzato, il quale, quanto meno, si affiancò alla pur sempre persistente tendenza all’accumulo in stile bric-à-brac di oggetti esotici, prima cinesi ora giapponesi. Questa mania per le japonaiseries, così definite da Jules de Goncourt nel 1867, che non sono il Giapponismo ma la sua versione mondana e più frivola, ebbe una sorta di benedizione ufficiale già nel 1862, anno in cui il Giappone partecipò con un padiglione all’Esposizione Universale di Londra. Da allora, e sempre più intensamente nei decenni successivi, il mercato occidentale fu letteralmente invaso da manufatti giapponesi. Fu l’eterno gioco dell ’equilibrio tra domanda e offerta a dominare. Gli europei e gli statunitensi, folgorati dalle novità provenienti da quel paese asiatico, si svuotavano le tasche (come pare accadde a D’Annunzio del periodo giapponista) per entrare in possesso di oggetti gia pponesi, di ogni genere, e più compravano e più ne desideravano; mentre i giapponesi, da una parte – fiutato il guadagno – produssero valanghe di beni più o meno artistici sempre più vicini per stile al gusto degli acquirenti stranieri, dall’altra, nella f oga di ‘occidentalizzarsi’ a ogni costo, non ebbero remore nel vendere, e spesso svendere, alcuni di quei loro tesori artistici ritenuti memoria di un passato da dimenticare al più presto. Alcuni avveduti conoscitori occidentali compresero la bellezza di q uell’arte antica e ne approfittarono, con onestà, per formare quelle che ancora oggi, ormai musealizzate, sono le più importanti collezioni di arte giapponese al di fuori del Giappone. Al tempo dell’Esposizione londinese il Giappone si affacciò anche nella pittura italiana di soggetto storico. Lo fece con discrezione, quasi camuffandosi sotto mentite spoglie, cinesi, mongole e persiane. Il tramite fu Tranquillo Cremona, nel suo monumentale dipinto con Marco Polo presentato da suo padre a Cubilay Gran Khan de’ Tartari esposto a Brera nell’agosto del 1863 (Fig. 3), nel quale compaiono diversi manufatti giapponesi nonostante il soggetto veneto -cinese (cat. 61). Dell’equivoco, ora risolto, del Giapponismo italiano È meglio sintetizzarlo in anticipo. Al tempo in cui Cremona realizzò il suo melting-pot giappo-cino-orientale, di arte giapponese in Italia se ne doveva vedere poca. Le spaventose ondate di oggetti giapponesi in quegli anni arrivavano soprattutto a Londra e a Parigi, e lì in gran parte si fermavano. La prova inconfutabile di questo assunto non sono le fonti del tempo, né il ‘calcolo matematico’ sulla propagazione del Giapponismo in quei paesi rispetto all’Italia, ma la portata delle collezioni che lì si formarono, pubbliche e soprattutto private. Tuttavia, anche nel paese culla del Rinascimento si cominciava ad avere notizie sul Giappone e sulla sua arte. I fronti di questa penetrazione furono molti e qui di seguito se ne rende conto solo come spunti. Negli anni sessanta, ad esempio, si inauguravano a Firenze gli insegnamenti di lingue e culture estremo-orientali a cura di Anselmo Severini e poi dell’allievo Carlo Puini, quest’ultimo fine collezionista di arte cinese e giapponese. Intanto, Enrico Hillyer Giglioli nel luglio 1866 raggiung eva Yokohama a bordo della Magenta come membro scientifico della spedizione organizzata dal governo italiano per instaurare i primi contatti diplomatici con il Giappone. Il patto fu siglato il 25 agosto di quell’anno. Il Giglioli ritornò in Italia con una quantità di reperti naturali, antropologici ed etnologici provenienti da ogni zona del mondo, tra i quali alcuni giapponesi, oltre a uno straordinario album di fotografie. Nel 1873, tra l’8 maggio e il 3 giugno, arrivarono in Italia i membri della cosiddetta missione Iwakura (cat. 49). Nel loro tour furono accompagnati dal conte Alessandro Fè d’Ostiani che era stato ministro plenipotenziario in Giappone. Fine conoscitore d’arte, la sua raccolta di dipinti giapponesi fu esposta nel 1897 a Venezia in occasione della Biennale. In quegli anni le relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone erano dunque intense. Mentre gli italiani mostrarono in ambito commerciale un grande interesse per la bachicoltura, i giapponesi si invaghirono dell’arte italiana, forse in seguito ai resoconti entusiastici della missione del 1871-1873, a tal punto da affidare a tre artisti italiani il prestigioso incarico di insegnare nella neonata Scuola di Belle Arti (Kōku Bijutsu Gakkō) di Tokyo. A Fontanesi (cat. 66) fu affidata la cattedra di pittura, a Ragusa (cat. 67) quella di scultura e a Giovanni Vincenzo Cappelletti, che rimase in Giappone fino al 1885, quella di architettura. Mentre Fontanesi lasciò traccia indelebile della sua pittura nel bagaglio di molti artisti giapponesi che lavorarono in ‘stile occidentale’ (yōga), Ragusa fu dei tre quello che con più impeto si dedicò all’acquisto di manufatti giapponesi, al fine di fornire materiale di studio agli allievi della sua scuola palermitana di arti applicate. Una straordinaria collezione di arte estremo-orientale, formata a Parigi negli anni sessanta dell’Ottocento, era a Napoli già verso il 1869, per merito di Placido de Sangro Duca di Martina. Grazie ai consigli di Albert Jacquemart, il nobile acquisì porcellane cinesi e giapponesi antiche di squisita fattura, oltre a lacche e a altri ninnoli ‘alla moda’ delle japonaiseries. Nella stessa città (sede dell’Istituto Universitario Orientale) il principe Gaetano Filangieri promosse nel 1878 la fondazione del Museo Artistico Industriale Scuole Officine, e nel 1888 l’apertura del Museo Civico. Organizzate secondo l’esempio del South Kensington di Londra e del Musée des Arts Décoratifs di Parigi, le due istituzioni si proponevano scopi educativi per gli artisti e per gli artigiani, e perciò non mancavano esemplari di arte giapponese. Nel 1876 la cittadina di Ivrea acquisì la collezione di oggetti cinesi e giapponesi del conte Pier Alessandro Garda, che avev a iniziato a raccoglierli già nella prima metà dell’Ottocento. Negli stessi anni a Milano non pochi erano i privati che possedevano manufatti giapponesi, acquisiti frequentando per affari il lontano arcipelago asiatico. Alcuni di loro ne prestarono in occas ione dell’Esposizione d’Arte Industriale del 1874, per arricchire la sezione giapponese. A quell’epoca il concittadino Enrico Cernuschi, residente a Parigi, aveva già compiuto il viaggio in Asia durante il quale avrebbe acquistato gran parte della sua strepitosa collezione d’arte orientale. Anche Frederick Stibbert iniziò a comperare manufatti giapponesi intorno al 1870, frequentando le Esposizioni Universali e i mercanti d’arte, che sempre più spesso si specializzavano nella vendita di arte estremo -orientale (catt. 14-16). Questo fenomeno commerciale interessò anche l’Italia. A Firenze operava ad esempio Janetti, antiquario di fiducia del Re già a Torino, che avrebbe aperto una succursale anche a Roma, nella stessa città in cui era attiva anche la signora Beretta, ricordata più volte da D’Annunzio per i suoi oggetti orientali. Allora la città toscana era centro di un interesse particolare per la musica giapponese grazie agli studi e alle raccolte di strumenti del mondo del barone Alessandro Kraus (catt. 87 -88). Fu a lui che si rivolse Mascagni mentre componeva le arie dell’Iris (cat. 91). Un altro negozio di oggetti estremo-orientali si trovava almeno dal 1843 a Trieste, noto come il Gabinetto Cinese Wünsch. Allora Trieste era il porto dell’Impero austriaco, nel quale confluivano merci di ogni genere che venivano poi smistate verso Vienna e da lì nel resto dell’Europa centrale. Non mancavano dunque le opportunità per i triestini di ammirare e acquistare manufatti estremo-orientali. Tra i collezionisti di xilografie dell’Ukiyo-e, il pittore Argio Orell (cfr. p. 197, Fig. 3), che espose la sua raccolta già nel 1908. In quell’anno, nella vicina Venezia, la straordinaria collezione di arte giapponese del principe Enrico di Borbone era in esposizione permanente per essere venduta al migliore offerente (Fig. 5). Formata nel cor so del viaggio intorno al mondo che il nobile aveva affrontato tra il 1887 e il 1889, fu per metà acquisita dallo Stato italiano dopo la fine della Prima Gue rra. L’altra metà era stata purtroppo già dispersa. A Genova si compiva all’incirca nello stesso periodo un’altra vicenda collezionistica, certo meno travagliata. Nel 1905 apriva infatti al pubblico un museo nel quale si conservavano ed esponevano le collezioni di arte estremo -orientale di Edoardo Chiossone, che aveva vissuto in Giappone per ventitré anni svolgendo la mansione di direttore dell’Officina Carte Valori. I genovesi, che già nel 1892 avevano avuto occasione di apprezzare le qualità dell’arte giapponese nella sezione dedicatale nella Mostra d’Arte Antica con pezzi provenienti da collezioni private locali, poterono allora ammirare quella meravigliosa raccolta, formata da un personaggio dotato di superiore sensibilità artistica. Al neonato Museo Chiossone dedicò un volume Vittorio Pica, lo studioso che più ha contribuito alla diffusione in Italia delle conoscenze sull’arte giapponese. Frequentatore di Parigi e di Goncourt, pubblicò nel 1894 il fondamentale testo L’arte dell’Estremo Oriente, al quale seguirono numerosi articoli sull’argomento per la rivista “Emporium”. In più occasioni spronò gli artisti e gli artigiani italiani a prendere a modello l’arte giapponese per rinnovare i propri repertori nel tentativo di rimanere al passo con le innovazioni elaborate nel resto d’Europa. Promosse con convinzione quindi il Giapponismo: nel 1914 dedicò una monografia proprio a De Nittis, il più giapponista degli artisti italo-francesi (catt. 2, 6, 7, 9, 57). Questa già prosaica elencazione potrebbe impinguarsi di numerosissimi altri dettagli, ma può bastare. Anche in Italia, dunque , le occasioni per gli artisti e per gli artigiani di avere un contatto con l’arte giapponese non mancarono, fin dai primi tempi della sua seconda ‘scoperta’. Non può perciò essere stata tale non-mancanza la causa del presunto ‘equivoco’ sul Giapponismo italiano. Questo fenomeno artistico, indubbiamente di formazione internazionale, attecchì anche nel Bel Paese, con sue specificità e con una sua certa portata (Figg. 6-7). Esso ha quindi meritato l’approfondimento di questa mostra e meriterà altri interventi. La loro prospettiva non è stata, e non dovrà essere, quella di consentire all’Italia di scalare posizioni nella classifica dei paesi “più giapponisti” del mondo, in cui primeggia irraggiungibile (per cronologia, quantità e qualità) la Francia, segu ita a ruota da Inghilterra, Belgio, Austria, Stati Uniti, etc. In un contesto artistico, quello italiano, in cui, più che altrove, hanno nella seconda metà dell’Ottocento attecchito lo Storicismo e i più diversi ‘Neo’ (NeoSettecentismo, NeoGoticismo, NeoCineseria, NeoOrientalismo, NeoPrimitivismo, Neo-Rinascimento, e così via), il Giapponismo ha certo avuto qualche difficoltà in più nella penetrazione. Non c’è da crucciarsi ammettendo una certa dipendenza del Giapponismo italiano da quello internazionale poiché, è noto, allora il sogno di molti degli artisti italiani, in molti casi poi avveratosi, era quello di trasferirsi o di trascorrere un periodo a Parigi, il focolaio di tutti gli stimoli d’arte. Per questioni almeno transitive, nella teoria il Giapponismo italiano non potrebbe non esserci. Nella pratica, esso esiste, eccome! Proprio come in Francia e in ogni altro paese, ha la bidimensionalità delle superfici pittoriche e i volumi della plastica scultorea più varia, e lo si può sfogliare in una sua selezione tra le pagine di questo catalogo. Il capolavoro del Giapponismo italiano Il Giapponismo, come la Cineseria, l’Orientalismo e tutti gli altri ‘esotismi’, è un fenomeno di gusto che non ha tempo. Lo aveva fatto notare già nel 1961 Hugh Honour a proposito della Cineseria, che si è sovr apposta adeguandosi a tutte le evoluzioni stilistiche che si sono succedute nel corso dei secoli. I suoi limiti cronologici non possono perciò essere defini ti con rigore, e infatti, dalla metà dell’Ottocento, la cultura e le arti del Giappone non hanno mai smesso di ispirare gli artisti e gli artigiani. Da allora le forme di questa infatuazione sono cambiate più volte, e in certi periodi il Giapponismo ha attrat to più interesse che in altri coinvolgendo, oltre che ambiti artistici diversi, anche i costumi e le mode più passeggere, in un ciclo più o meno ininterrotto di ritorni e di riscoperte, a volte di grande profondità a volte di estrema futilità. Nella storia artistica di Mario Cavaglieri (catt. 24 e 85) il Giapponismo non ha tempo. Esso si insinua suade nte fin dalla fase giovanile della carriera del pittore veneto ma, con più decisione, nelle prove che seguirono il suo primo soggiorno parigino del 1911, lo stesso anno in cui, a Roma per partecipare all’Esposizione Internazionale, visitò con interesse la sezione giapponese allestita per quell’evento. Allora si inaugurarono quelli che la critica ha battezzato con locuzione felice come ‘Anni Brillanti’. L’innata propensione di Cavaglieri per una pittura dagli impasti generosi si acuì ulteriormente. Le superf ici si gremirono di spatolate, grumi e tubettate di colori. I toni in origine puri si lambivano, poi si coprivano l’un l’altro, quin di si mischiavano, in una messe selvaggia e irriverente. Al culmine di quest’ordalia cromatica, Cavaglieri cominciò a cesell are zone di colore sollevandole dal felice magma in cui erano state fino ad allora fuse. Le ampie campiture di rosso laccato, i gialli ocrigni, i bianchi biaccati, gli azzurri cerigni furono ‘salvati’ dalla potenza del segno, dal rigore del disegno. Com e nelle xilografie giapponesi, Cavaglieri costruì la composizione intorno a questi moduli monocromati. Al contrario delle stampe dell’Ukiyo-e, il pittore rodigino isolò il tassello di colore puro in un mare tempestoso di dettagli, vibranti di molti dei toni d ella scala dei colori. Alla furia dell’uragano cromatico che pervade i molti dipinti di quest’epoca scampano anche i volti e le parti di corpo non v estite delle figure femminili. Sono ritratti di donne bellissime, con le quali amava frequentarsi Cavaglier i che allora era già artista affermato e richiestissimo. In molti compare l’amata Giulietta, sua affascinante compagna. Donne esili, sin uose, dai colli allungati e i volti ovali, elegantissime nei loro abiti spesso alla moda esotica del tempo. I loro sguardi si perdono sognant i nell’infinito. Esse, allora come oggi, non guardano chi ammira il dipinto ma solo il pittore che le sta ritraendo . Sembrerà scontato, forse, ma questi elementi certo accomunano le donne di Cavaglieri a quelle di molti artisti dell’ Ukiyo-e, prima di tutto Utamaro (cat. 22) che nelle sue donne instillò tutto se stesso. Non è la forma, in questo caso, l’elemento del Gia pponismo di Cavaglieri. È l’affinità intellettuale con l’opera e la formazione di quegli artisti giapponesi che ha stimolato questa rifle ssione. È rimasto un ritratto di Cavaglieri di quell’epoca, realizzato da Hans Stoltenberg Lerche. Il pittore appare se duto, con le gambe incrociate come un Buddha nella cosiddetta ‘posizione del loto’, posa che si ritrova anche nella litografia del manifesto della mostra romana del 1919 in cui i due artisti esposero insieme (Fig. 8). Parrà coincidenza ma, nel 1912, proprio Vittorio Pica, il ‘vate’ del Giapponismo in Italia, aveva dedicato una monografia allo scultore tedesco. Roberto Longhi, che scrisse di Cavaglieri dopo aver visitato quell’esibizione, rilevò quanto gli oggetti, le maioliche e i tappeti, fossero importanti nella pittura dell’artista. Ed è vero, nel tripudio di colori nei dipinti di quel periodo, si affastellano oggetti di ogni tipo. Come in un salotto del Settecento veneziano, mensole, tavoli, pareti, tutto è superficie libera per ospitare un manufatto. Questo ‘terrore del vuoto’ è chiara fonte di ispirazione per il pittore che riflette sulla tela, a sciabolate di colori, l’impressione ricevuta. D’altronde, di oggetti è ricolmo il suo stesso studio padovano, raffigurato in più opere già intorno al 1915, guardando il quale, come già notato dai conoscitori dell’opera di Cavaglieri, si ha la sensazione di penetrare in una delle ambientazioni esotiche descritte da D’Annunzio qualche decennio prima, allestite poi dal poeta nel suo Vittoriale. Nell’atelier di vasi ce ne sono in abbondanza, e molti di loro sono cinesi e giapponesi. Tuttavia, assodato che l’artista possedesse ceramiche estremo-orientali, sarebbe riduttivo, e inutile, chiamare in causa questo dato di fatto quale testimonianza del Giapponismo di Cavaglieri. Piuttosto, pare che i rilievi smaltati, filettati nei contorni come fossero cloisonnés, la ridondanza decorativa, i colori e le dorature molto rilevati, caratteristiche di quel vasellame prodotto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo per soddisfare le richieste occidentali (tarda ‘Famiglia rosa’ cinese e Satsuma giapponese, generi ai quali appartengono anche i pezzi di Cavaglieri), siano elementi che riecheggiano nella pittura ‘scultorea’ dell’artista italiano, così materica da sembrare a molti critici premonizione delle evoluzioni informali degli anni cinquanta. Non ha senso discutere le possibilità che ebbe Cavaglieri di ammirare e studiare arte estremo -orientale, poiché ne ebbe, e numerose (in tarda età si appassionò pure alla poesia cinese) . Al tempo degli Anni Brillanti, nel secondo-terzo decennio del Novecento, le conoscenze sul Giappone erano vaste, e già si preparavano nuovi orizzonti cognitivi. Anche il Giapponismo aveva superato abbondantemente la sua fase aurorale e gli artisti occide ntali elaboravano ora in maniera più consapevole e profonda gli stimoli che l’arte giapponese offriva, vivissimi nonostante si fosse affievolita l’euforia iniziale, di un cinquantennio prima. Al Giappone guardavano ancora i protagonisti del tardo Liberty e dell’incipiente Déco, ma ormai senza stupore. E indizi di Giapponismo sono lapalissiani nell’opera di artisti come Vuillard, Bonnard, Matisse, Ensor e Klimt, che Cavaglieri conosceva e apprezzava bene senza però mai citare. Cavaglieri, quindi, fu giapponista in un modo più sofistificato di quanto si potrebbe desumere scorrendo superficialmente il corpus delle sue opere. Il suo Giapponismo non è solo quello di matrice dannunziana, pure affascinante per la vastità onirica dei suoi spunti esotici, ma coinvolge più ambiti della teoria artistica, espressione viva e consistente della raffinata ricerca intellettuale e umana perseguita nel corso di un’esistenza da questo grande artista. Cavaglieri avrebbe potuto non esplicitare questa sua vena giapponista, lascian do agli studiosi e ammiratori della sua opera il compito di estrapolarla più o meno criticamente (come peraltro è stato già fatto, almeno parzialmente). Tuttavia, ha cedut o e infine l’ha resa manifesta. L’ha fatto tardi, nel periodo della sua piena maturit à artistica, negli anni in cui certi uomini cominciano sul serio a riflettere sul proprio passato, nel tempo in cui alcuni artisti possono unire i punti del percorso della loro arte. Tra il 1954 e il 1957 Cavaglieri soggiornò a Parigi. Dipingendo, e partec ipando con successo a numerose esposizioni con le opere che andava realizzando. Prese allora l’abitudine di lavorare in alcuni musei parigini. Raffigurò nel suo modo vibrante gli interni del Musée des Arts Décoratifs, del Cognacq-Jay, del Carnavalet, colmi di quegli spunti settecenteschi e neo-settecenteschi a lui tanto cari fin dalla giovinezza. Scelse quei luoghi perché più congeniali alla sua indole artistica, non solo di quel momento ma di sempre. Per lo stesso motivo si recò, dunque, al Museo Guimet, u no dei templi dell’arte estremo-orientale. Lì realizzò nel 1955-1956 il suo Omaggio all’Oriente, la sua ammissione di Giapponismo, come un biglietto con ringraziamenti sinceri per profonda gratitudine. Al Guimet Cavaglieri dipinse in quelle occasioni due grandi tele (una terza opera, meno suggestiva, risale al 1959), una delle quali è per nostra delizia presente in questa mostra (cat. 85). Il Maestro selezionò gli oggetti che meglio assecondavano il suo gusto di fine conoscitore e che muovevano le corde della sua memoria. In entrambe un paravento giapponese diventa quinta per alcuni oggetti disposti in primo piano, tutti riconoscibili tra quelli nelle collezioni del museo parigino. In una si distingue un celebre autoritratto di Hokusai, l a cui presenza ha ispirato a Cavaglieri il titolo della composizione, Hommage à Hokusaï (Fig. 9). Prevalgono però le porcellane, cinesi e anche giapponesi, antiche, e naturalmente esuberanti per decorazione policroma, e qualche contenitore in lacca. Non è lo stesso tipo di vasellame che Cavaglieri introdusse nelle sue opere degli Anni Brillanti, con i suoi smalti rilevatissimi come era la stesura pittorica dell’artista italiano. Trascorsi quarant’anni, la visione di quei volumi si è appiattita, i contorni hanno ritrovato le loro autonomie, la visione si è infine chiarita, e il piacere di un Oriente a lungo evocato è riemerso nelle sue tinte più autentiche. Colori e modulazioni che, nonostante l’adesione alle cose, hanno sempre, con la stessa convinzione, la medesima poesia e la ritrovata trepidazione, il gusto inconfondibile dell’arte di Mario Cavaglieri. Per questo, e per molte altre ragioni ancora, questa coppia di dipinti senza tempo di Cavaglieri è per me il capolavoro del Giapponismo italiano.