Aprile 2008 - Gruppo Astronomico Tradatese

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Aprile 2008 - Gruppo Astronomico Tradatese
G RUPPO
ASTRONOMICO
T RADATESE
Aprile 2008
7° CORSO DI AGGIORNAMENTO PER INSEGNANTI
2° Lezione: IL NUOVO VOLTO DEL SISTEMA SOLARE
Rel. C.Guaita
2.1) PLUTONE, STORIA DI PIANETA MANCATO.
La recente decisione dell’ IAU di declassare Plutone dal rango di pianeta appare non solo corretta ma inevitabile. Ma il
vero problema non è stato tanto un giudizio su Plutone, quanto una definizione assoluta di pianeta.
“Se Plutone fosse stato scoperto al giorno d’oggi, nessuno si sarebbe mai sognato di ritenerlo un vero
pianeta”. Questa il pensiero di Andrè Brahic, un noto planetologo dell‘ Università di Parigi che per due anni
ha tenuto le fila del cosiddetto PDC (Planet Definition Committee), una commissione di sette saggi
(astronomi, scrittori, storici) che ricevette dall’IAU (International Astronomical Union) il compito di trovare
finalmente una definizione soddisfacente di pianeta. All‘ inizio dello scorso Luglio il PDC tenne una riunione
conclusiva a Parigi, nell’ottica di presentare una proposta definitiva che potesse essere valutata dai 2500
partecipanti alla 26° Assemblea Generale dell’ IAU tenutasi a Praga dal 14 al 25 Agosto ’06. Il fatto che la
sorte di Plutone, o se vogliamo, una definizione senza equivoci di pianeta, fosse stata inserita tra le
principali attività della più grande assise mondiale che riunisce ogni tre anni gli astronomi professionisti, non
è causale. Non c’è dubbio, infatti, che la scoperta del primo oggetto transnettuniano più grande di Plutone
(UB313, ovvero ERIS), effettuata da Mike Brown (Caltech) nel Luglio 2005, abbia di molto accelerato un
processo che era in corso ormai da un decennio e che è diventato improrogabile da Febbraio-Marzo ’06,
quando due lavori indipendenti hanno dato la sicurezza che il diametro di UB313 (‘ERIS’) era davvero
superiore, seppur di poco, a quella di Plutone. Il primo studio è stato condotto da F. Bertoldi (Max Plance
Institute) al radiotelescopio IRAM di Pico Velata: dalla misura della radiazione termica emessa, il diametro di
ERIS risultava circa il 30% superiore a quello di Plutone (3100±300 km contro 2290±90 km). Quasi
contemporaneamente Mike Brown comunicava che HST, il Telescopio Spaziale Hubble, dopo aver valutato
per ERIS un albedo vicino al 90%, ne aveva misurato direttamente il diametro, ritrovandolo comunque
superiore a quello di Plutone, anche se solo del 5%.
La speranza dell’americano M. Brown era che gli venisse attribuito il merito di aver finalmente scoperto il 10°
pianeta, nella sicurezza che questo gli avrebbe conferito la stessa fama che si era guadagnato nel 1930
Clyde Tombaugh, lo scopritore di Plutone. In realtà le cose sono andate un po’ diversamente. La scoperta
di un oggetto come UB313 (‘ERIS’) più grande di Plutone ha infatti finito per…. diminuire e non aumentare
il numero globale dei pianeti solari. Sì perché ci si è resi definitivamente conto che le anomalie di Plutone
non potevano più mantenerlo nella lista dei pianeti veri e propri. La decisione di ‘declassare’ Plutone,
recentemente presa a Praga, in occasione del 26° Congresso mondiale dell’IAU, è di quelle che hanno fatto
e faranno discutere. Forte in particolare la resistenza degli Americani che, avendo scoperto un solo pianeta
(Plutone appunto), non potevano accettare a cuor leggero di farselo sfuggire da un giorno all’altro. Va
comunque aggiunto che l’ IAU, per decidere la sorte di Plutone, doveva disporre di una definizione univoca
di pianeta. Una cosa apparentemente semplice ma che, in realtà, si è rivelata tanto complessa e
controversa, da richiedere oltre due anni di lavoro all’apposita commissione (il già ricordato PDC ) allestita
dall’ IAU per questo scopo.
Ma per capire bene le ragioni che hanno imposto la ‘cancellazione’ di Plutone, bisogna partire dall’inizio e
rifare brevemente la lunga storia che ha coinvolto questo lontanissimo mondo ghiacciato. Come ben noto, la
ricerca di Plutone venne stimolata dalle constatate discrepanze fra l'orbita osservata e quella calcolata di
Nettuno, che facevano sospettare l'esistenza di un corpo celeste sconosciuto (di massa terrestre) che ne
influenzasse gravitazionalmente l' orbita. Era il 29 Gennaio 1930 quando Clyde Tombaugh riprese a
Flagstaff la prima lastra in cui compariva il nuovo pianeta non lontano dalla stella Delta Geminorum. Una
seconda lastra, ripresa sei giorni dopo, ne confermò l'esistenza e ne permise l’annuncio ufficiale il 13 marzo
1930. A quel punto sembrò che i problemi dinamici del moto dei pianeti esterni fossero brillantemente risolti.
Oggi sappiamo che questo ottimismo non era giustificato: Plutone è infatti troppo piccolo (1/440 della massa
terrestre) per influenzare in modo apprezzabile il moto di Nettuno, al punto che ormai si è convinti che la sua
scoperta avvenne del tutto fortuitamente (tanto è vero che venne scovato in una posizione distante ben 6°
da quella calcolata teoricamente).
Ben presto ci si rese pure conto che, mentre gli altri pianeti si muovevano su orbite nate e mantenutesi quasi
complanari e praticamente circolari, il presunto 9° pianeta mostrava delle caratteristiche orbitali davvero
strane. L'orbita era infatti inclinata di ben 17,2° rispetto all’ eclittica (ossia al piano comune degli altri pianeti)
e, soprattutto era fortemente eccentrica (e=0,25): così, mentre all’afelio Plutone raggiungeva le 48 unità
astronomiche (u.a.) dal Sole, si avvicinava fino a 30,2 u.a. al perielio, penetrando all'interno dell'orbita quasi
circolare di Nettuno (per esempio, essendo l’ultimo passaggio al perielio di Plutone avvenuto nel settembre
1989, Nettuno è rimasto il pianeta più lontano dal Sole fino alla metà del 1999).
Al di là della causalità della scoperta e delle stravaganze orbitali, altre due date sono di importanza
fondamentale per la comprensione della vera natura di questo corpo celeste: il luglio 1978, giorno della
scoperta del satellite Caronte e l' Agosto 1992, data in cui venne individuato il primo oggetto
transplutoniano.
Caronte venne scoperto il 2 luglio 1978 da J.W. Christy e R.S. Hattington, presso lo stesso telescopio
astrometrico da 155 cm dell' osservatorio di Flagstaff con cui lavorava Tombaugh quando scoprì Plutone.
Conoscendo il periodo di rivoluzione (6 h, in sincronia con la rotazione di Plutone) e la separazione orbitale
(circa 20.000 km) di Caronte da Plutone, fu immediato (tramite la terza legge di Keplero) valutare la massa
totale del sistema che risultò solo 1/5 di quella lunare. Fu anche possibile stabilire che Caronte, con una
massa di 1/10 rispetto a quella di Plutone, era una vera anomalia nel sistema solare, dove la massa dei
satelliti è normalmente compresa tra 1/100 e 1/10000 rispetto a quella del loro pianeta.
A parte comunque le anomalie di Caronte, il valore modesto della massa globale rendeva il sistema
Plutone/Caronte molto dissimile dagli altri pianeti esterni, che hanno masse decine o centinaia di volte
superiori a quella terrestre. Da qui l’idea che il lontanissimo oggetto potesse essere null’altro che uno dei
massimi rappresentanti di una nuova fascia di oggetti ghiacciati che prima K.Edgeworth nel 1940 e poi da
G. Kuiper nel 1950, avevano teorizzato al di la di Nettuno. Gli oggetti presenti in questa regione vengono
denominati KBO (Kuiper Belt Obiects) oppure anche TNO (Trans Neptunian Obiects). L’ ipotesi che Plutone
altro non sia che un KBO ha acquisito enorme credibilità a partire dal 30 agosto 1992, quando D.Jewitt e
J.Luu scopritono 1992 QB1 (‘Smiley’), il primo di una enorme lista di oggetti transplutoniani , arrivata ormai
a superare le mille unità. In questa situazione, era inevitabile la scoperta del primo KBO con
diametro>1000 km (Quasar,2002), del primo KBO con diametro>Caronte (Orcus, 2004) e, finalmente, del
primo KBO con diametro>Plutone (Xena, luglio 2005).
Non appena venne scoperto Caronte, nel luglio '78, ci si rese conto che, ogni 124 anni, per la durata media
di 5 anni, la Terra viene a trovarsi esattamente sul piano dell'orbita di Caronte e risulta quindi possibile
osservare continue eclissi tra Plutone e il suo satellite. Per un incredibile colpo di fortuna, uno di questi
periodi favorevoli iniziò il 16 gennaio '85 (ossia solo 7 anni dopo la scoperta di Caronte!). Le eclissi si
succedevano ogni 3,2 giorni e duravano da 32 a 79 minuti ( a seconda della posizione dei due baricentri).
La durata dei cali di luminosità corrispondenti alle eclissi, e quella dei periodi di discesa e di risalita della
curva di luce (durante i quali i due dischi gradualmente si sovrappongono), hanno permesso di ricavare in
modo preciso l'orientazione e le dimensioni dell'orbita di Caronte, nonché i diametri dei due corpi e (dalla
massa totale ricavata attraverso la terza legge di Keplero) anche la densità. Ne è risultato, per Plutone, un
diametro di 1145 ± 46 km e per Caronte un diametro di 642±34 km. La conseguente densità media dei due
corpi si aggira attorno a 2,02 g/cm3, il che indica la presenza di una mistura di rocce e di ghiacci, con la
componente ghiacciata addirittura predominante rispetto a quella rocciosa. Anche questa era un’anomalia,
perché i pianeti classici o sono di composizione rocciosa (pianeti terrestri) o gassosa (pianeti esterni).
Nel giugno 1994 l' intera superficie di Plutone venne per la prima volta mappata dallo Space Telescope, con
una risoluzione inferiore a 150 km. Il pianeta apparve come l'oggetto dai dettagli più contrastati esistente
nel Sistema Solare e dotato di almeno 12 regioni (chiare o scure) nettamente distinte. Il modo più naturale di
interpretare questa morfologia è quello di pensare a porzioni di superficie scoperte o ricoperte da ghiacci.
Nacque anche la convinzione che alcune strutture potessero rappresentare dettagli morfologici più
complessi, come crateri da impatto o bacini collegati ad attività interna.
La mappa più dettagliata della superficie di Plutone venne comunque realizzata nel Gennaio 2001 da D.
Young, elaborando dati di tutti i cinque anni di mutue eclissi di Plutone con Caronte registrate all'
Osservatorio McDonald nel blu e nel giallo. Vennero evidenziate ampie calotte polari ed una regione scura
non omogenea, centrata a circa 95° Ovest appena sotto l'equatore, dove l’uso di filtri differenti faceva
intravedere aree di ghiaccio meno sporco (blu) e più sporco (arancio). A sporcare il ghiaccio potrebbe essere
materiale organico formatosi per sintesi fotochimica locale. E’ ignota la ragione della disomogeneità
geografica di questa sintesi fotochimica: una parte del terreno (in blu) potrebbe però essere stata rimodellata
da attività endogena.
Il 28 Maggio 1999, grazie ad una serata dalle condizioni di seeing eccezionale (0,5") in cima al Mauna Kea,
M. Brown (Caltech) riuscì a realizzare per la prima volta, utilizzando il telescopio Keck I da 10 metri, spettri
singoli di Plutone e Caronte (quella notte separati di 0,9") tra 1 e 2,5 microns. Nello spettro di Plutone erano
nitidamente presenti sia quattro bande del CH4 (1,15, 1,4, 1,7 e 2,3 micron) sia la banda dell' N2 solido a
2,16 micron. Lo spettro di Caronte era invece dominato dalle bande del ghiaccio d'acqua a 1,5 e 2,2 micron,
con l'aggiunta, però, di due informazioni supplementari: un assorbimento a 1,65 micron che indicava come il
ghiaccio fosse cristallino e un assorbimento a 2,3 micron probabile indizio della presenza di NH3.
(ammoniaca). Si tratta di due dati sorprendenti perché entrambi potrebbero dimostrare una certa attività
sulla superficie di Caronte: l' NH3 è infatti così labile che solo una fonte rinnovabile ne può giustificare l'
attuale esistenza; inoltre perché il ghiaccio sia cristallino è necessaria, almeno saltuariamente, una
temperatura ben superiore a quella tipica di quella regione del Sistema Solare (-200°C).
Per spiegare la differenza così netta tra la composizione superficiale di Plutone e quella del suo satellite non
si può prescindere dall'idea che la loro composizione originaria debba essere stata la stessa: la
differenziazione, dunque, deve essere avvenuta in seguito e, a questo punto, viene spontaneo attribuire la
perdita di CH4 da parte Caronte, alla sua massa ridotta rispetto a quella di Plutone. Certo che, ritrovare sulla
superficie di Plutone le bande del CH4 e dell’ N2 solidi, faceva immediatamente pensare alla possibilità che,
in certe condizioni, questi composti sublimassero a formare una debole atmosfera. Era un tassello
importante per una disamina preliminare completa delle caratteristiche del sistema Plutone/Caronte, ma
cercare una possibile atmosfera non era certo una cosa facile. Per questo tipo di indagine l’azione migliore
sarebbe quella di osservare Plutone mentre occulta una stella di luminosità paragonabile e verificare che al
bordo del pianeta la diminuzione di luce della stella non sia istantanea ma soggetta ad uno smorzamento
progressivo. Il problema è che il diametro apparente estremamente ridotto di Plutone rende questi fenomeni
estremamente rari. Così, per la prima occultazione, si è dovuto aspettare fino al 9 Giugno 1988: quel giorno
Plutone ( m=13,2) occultò in modo quasi centrale una stella di m=12 della costellazione della Vergine, all'
interno di una striscia di Oceano Pacifico a cavallo dell'Australia e della Nuova Zelanda. L’evento venne
seguito, tra gli altri, da J. Elliot (MIT) che organizzò un volo sul Pacifico a bordo del KAO (Kuiper Airborne
Observatory). La luce della stella ha cominciato ad attenuarsi in maniera lenta e continua a 350 km dalla
superficie di Plutone, poi, dopo 70 secondi di occultazione totale, è tornata a risalire lentamente: era la
dimostrazione inequivocabile che Plutone era circondato da una tenue coltre gassosa.
Spettri ad alta risoluzione ottenuti nel 1992 al telescopio UKIRT delle Hawaii tra 1,4 e 2,4 micron hanno
potuto confermare che l’atmosfera di Plutone è composta fondamentalmente da N2 (banda a 2,16 micron)
+ 2% di CH4 (varie bande tra 2 e 2,4 microns).
Perché queste osservazioni fossero ripetute sono dovuti passare ben 14 anni. L’occultazione da parte di
Plutone non di una, ma addirittura di due stelle della costellazione di Ofiuco in un solo mese ( il 20 luglio e il
21 Agosto 2002), ha fornito due importanti informazioni: innanzi tutto la conferma della presenza di una
atmosfera attorno a Plutone, in secondo luogo la scoperta che questa atmosfera era chiaramente cambiata
rispetto a 14 anni prima, nel senso che sembrava 3 volte più densa e più opaca. Da qui l’idea di J. Eliott che
la ragione dell’ improvviso aumento della pressione atmosferica plutoniana sia di carattere endogeno.
Il 10 Luglio 2005 J. Eliott ed il suo gruppo del MIT hanno potuto assistere ad un evento ancora più
straordinario che ha letteralmente mobilitato tutti i più grandi telescopi delle Ande cilene: l’occultazione di
una stellina di 14° magnitudine da parte del SOLO Caronte. E’ stato così possibile escludere una atmosfera
attorno al satellite, definirne il diametro con una precisione dell’ 1% (1212±16 km) e, di conseguenza, una
densità di 1,72 g/cm3, ossia un po’ inferiore a quella di Plutone.
L’ultimo atto di questa lunga storia risale al maggio 2005, quando, con l’utilizzo dello Space Tlescope, Alan
Stern (Southwest Research Institute), nell’ambito delle ricerche collegate alla missione New Horizons (che
raggiungerà Plutone nel luglio 2015), scoprì attorno a Plutone altri due piccoli satelliti, Nix ed Hydra. Il fatto
che si trattasse di due oggetti di 50 e 160 km, in orbita complanare a quella di Caronte e nello stesso senso
di quest’ultimo, ha ulteriormente rafforzato la validità di una simulazione teorica R. Canup (una collega di
A.Stern al Southwest Research Institute) secondo cui Plutone avrebbe subito una grossa collisione nella
notte dei tempi da cui nacquero sia Caronte (ecco spiegato la sua massa anomala) sia altri frammenti
orbitali minori. E’ chiaro che la presenza di un sistema multiplo di satelliti, per di più giustificabili in base ad
una teoria simile a quella ormai consolidata anche per la formazione della Luna, è un altro punto a favore
della natura ‘planetaria’ di Plutone.
In definitiva, per riassumere, dopo 75 anni di studi, il sistema Plutone/Caronte è passato attraverso una
sequela continua di vicissitudini ‘planetarie’, alcune positive ed altre negative. I primi riscontri negativi sono
stati quelli tipo dinamico (orbita inclinata ed allungata); sono poi seguite anomalie di tipo chimico-fisico
(composizione in gran parte ghiacciata, massa addirittura più piccola della Luna); infine si sono aggiunte
informazioni contraddittorie di tipo evolutivo (oggetto importante ma non predominante della Fascia di
Kuiper). Però negli ultimi 10 anni Plutone qualche proprietà planetaria se la è pure guadagnata: fra tutte la
presenza di una atmosfera e di almeno tre satelliti In più, ed anche questo non è di poco conto, c’era un
problema storico, emotivo e se vogliamo psicologico, che ha spinto artisti, letterati ma anche scienziati di
chiara fama a considerarlo implicitamente ‘pianeta’ da almeno tre generazioni.
In questa situazione il compito dell’ IAU si è trasformato da apparentemente facile a difficilissimo. Alla fine ci
si è accorti che dare una definizione ASSOLUTA di pianeta è praticamente impossibile. Così, dal momento
che era Plutone l’oggetto del contendere, si è andati a cercare definizioni ad hoc che mantenessero od
escludessero Plutone nel gruppo dei PIANETI.
Accennavamo all’ inizio alla proposta formulata a Parigi dal PDC (Planet Definition Committee), in vista della
discussione con votazione al recente 26° Congresso dell’ IAU di Praga. Secondo i punti base di questa
proposta un pianeta è un corpo celeste che
a)ruota attorno al Sole
b)ha una massa sufficiente perché la conseguente gravità gli faccia assumere forma sferica (tecnicamente si
parla del raggiungimento dell’equilibrio idrostatico). La massa minima perché questo succeda è di 5x1020 kg
oppure (e questo dipende ovviamente dalla composizione) un diametro di almeno 800 km. La massa, però,
non deve superare 13 masse gioviane, perché altrimenti l’oggetto, potendo innescare al centro reazioni
termonucleari, comincia ad assumere proprietà stellari (diventando inizialmente una nana bruna).
Questa definizione non solo avrebbe ‘salvato’ Plutone, ma avrebbe anche elevato a 12 il numero totale dei
pianeti. Avrebbe infatti fatto diventare ‘pianeta’ anche Cerere (il primo asteroide scoperto da Piazzi nel 1801)
e 2003 UB313 (‘Xena’). I corpi al di là di Nettuno con orbite inclinate, molto eccentriche e periodi orbitali
>200 anni avrebbero assunto la denominazione di PLUTONI. E fin qui tutto bene. Il tragico, però, è che
avrebbe trasformato in pianeta anche Caronte (diametro=1212 km), satellite di Plutone (così Plutone non
solo rimaneva pianeta, ma diventava pianeta DOPPIO !). Invece la nostra Luna, che con il suo diametro di
3476 km, è molto più grande di Plutone, sarebbe rimasta un satellite. Questa assoluta incongruenza (è
incredibile che tutti i media abbiano riportato la notizia della possibile ‘promozione’ di Caronte senza un
minimo di spirito critico!) è legata al fatto che il baricentro del sistema Plutone/Caronte è situato
all’ESTERNO dei due corpi, mentre il baricentro del sistema Terra/Luna (e di ogni altro sistema satellitario) è
situato all’ INTERNO del primario, ossia della Terra. Come se non bastasse Mike Brown, scopritore di Xena,
si è subito accorto che la definizione cui si è accennato si adattava non a 12 ma a ben 53 oggetti noti del
Sistema Solare (con la concreta possibilità che calcoli ulteriori relativi ai vari KBO noti, portassero il conto a
superare i 200). Un disastro, insomma, che fortunatamente è stato evitato il 18 Agosto scorso, quando una
sottocommissione dell’ IAU guidata da Alan Boss (un grande esperto di formazione di sistemi planetari
presso la Cornegie Institution di Washington), ha formulato una proposta alternativa che, grazie all’aggiunta
di un terzo parametro alla proposta originaria, suona più o meno così:
un PIANETA è un corpo celeste che, oltre che ruotare attorno al Sole ed avere forma sferica, è l’oggetto
maggiore tra tutti quelli della sua stessa popolazione, nel senso che è in grado di ripulire (con la sua gravità)
tutto lo spazio che lo circonda.
Tutti i corpi sferici che ruotano attorno al Sole ma che non soddisfano a questa terza condizione (e che non
siano satelliti) assumono la definizione di PIANETI NANI: ovviamente Plutone (essendo solo uno dei tanti
KBO) non soddisfa a questa condizione e perde la qualifica di PIANETA VERO.
Tutti gli altri oggetti che ruotano attorno al Sole (comete, asteroidi, ecc) ma che non sono nè pianeti veri nè
pianeti nani, vengono definiti PICCOLI CORPI, ovvero SSSB (Small Solar System Body).
All’Assemblea mondiale dell’ IAU è stato chiesto lo scorso 24 Agosto ’06 di scegliere tra la prima definizione
di pianeta (PLUTONE= pianeta doppio) e la seconda (PLUTONE= pianeta nato). Dopo accesissima
discussione (non tanto fra le due definizioni, quanto tra i pro e contro a Plutone…) ha prevalso la
definizione di A. Boss secondo cui, ripetiamo, un corpo celeste è un pianeta se:
a) ruota attorno al Sole
b) ha forma sferica
c) è in grado di ripulire tutto lo spazio che lo circonda
Siccome Plutone soddisfa alle prime due condizioni ma non alla terza (la sua orbita è infatti immersa in una
fascia di migliaia di oggetti analoghi compresa tra 30 e 50 u.a.), da adesso Plutone non può più essere
considerato pianeta vero e proprio. E’ superfluo aggiungere che c’è un sacco di gente cui questa
conclusione non è piaciuta e non piace (il fatto che tra costoro ci siano anche gli Astrologi ci lascia
indifferenti: con o senza Plutone i loro oroscopi saranno sempre un pubblico imbroglio). E non poteva essere
altrimenti, dal momento che, almeno a Praga, si è trattato più di una decisione ‘politica’ (fautori o detrattori
di Plutone) che oggettiva. Non nel senso che sia scientificamente scorretta (chi scrive non considera più
Plutone un pianeta dalla scoperta del primo oggetto transplutoniano nel 1992), quanto nel senso che risulta
obiettivamente IMPOSSIBILE dare una definizione ASSOLUTA di pianeta. In ‘politica’, però, è ben noto che
tutto si può cambiare quando sia utile, necessario o, semplicemente non gradito alla maggioranza (non
centra con le stelle ma dà l’idea: qualche anno fa un sindaco di una città balneare decise di ‘potabilizzare’
nei mesi estivi l’acqua del suo acquedotto, elevando per decreto il limite permesso di atrazina….). Così non
è per nulla escluso che la definizione di pianeta (quindi la sorte di Plutone) venga nuovamente cambiata in
vista della prossima Assemblea Generale dell’ IAU, che si terrà a Rio de Janeiro nel 2009. Anche perché,
ormai, con la scoperta di oltre 150 sistemi planetari extrasolari, anche la definizione di pianeta dovrebbe
subire un processo di doverosa globalizzazione.
2.2) TUTTA LA VERITA’ SU ERIS, PRESUNTO DECIMO PIANETA.
Il 29 Luglio ’05 è stata annunciato il primo un oggetto più grande di Plutone, al di là di quest’ ultimo. Si tratta certamente
di una scoperta epocale, ma non si può però ancora parlare di decimo pianeta. Vediamo perché.
Alla fine di Luglio ’05 erano stati scoperti poco più di 900 oggetti disseminati dall’orbita di Nettuno (30 u.a.)
fino a circa 50 u.a. (quindi ben oltre l’orbita di Plutone) e con inclinazioni molto varie (ma mai eccezionali)
rispetto al piano dell’eclittica. Denominati KBO (Kuiper Belt Obiects) o, più in generale, TNO (Trans
Neptunian Objects) questi oggetti costituiscono la cosiddetta fascia di Edgeworth-Kuiper, suggerita per la
prima volta da Kenneth E. Edgeworth nel 1943 e teorizzata nel 1951 da Gerard Kuiper come fonte delle
comete a corto periodo. Negli stessi anni l’astronomo olandese J.H. Oort postulava anche l’esistenza di
una riserva di corpi ghiacciati molto più lontana (la nube di Oort appunto), come fonte delle comete a lungo
periodo. Moderne simulazioni computerizzate hanno dimostrato che la maggior parte dei KBO è stata
lanciata nella loro attuale posizione dall’interazione gravitazionale con Giove, non appena il massimo dei
pianeti raggiunse la completa maturazione. L’esistenza di oggetti transplutoniani rimase nel campo delle
ipotesi fino al 30 Agosto 1992, quando D. Jewitt e J.Luu scoprirono il primo KBO. Denominato 1992 QB1,
questo oggetto di 250 km di diametro è diventato il capostipite della cosiddetta sottoclasse dei CUBEWANI,
caratterizzati da orbite abbastanza poco eccentriche e poco inclinate, con semiassi maggiori compresi tra
42 e 48 u.a. I cubewani costituiscono circa il 50% dei KBO e sono in pratica il ‘cuore’ della fascia di Kuiper.
La fascia di Kuiper più interna è caratterizzata invece da oggetti (circa il 35% del totale) con periodi orbitali
in risonanza 3:2 con quello di Nettuno (in pratica fanno due rivoluzione nel tempo che Nettuno ne fa tre): da
qui la denominazione di PLUTINI, perché questo è anche il caso di Plutone che, ormai, ben pochi
continuano a considerare un pianeta in senso classico. C’è infine un 15% di KBO che costituisce la fascia di
Kuiper più esterna: denominati SDO (ossia Scattered Disc Obiects) questi oggetti sono caratterizzati da
orbite fortemente ellittiche ( il record spetta a 2000 0067 con un afelio a 1100 u.a.), in quanto pesantemente
soggetti all’influenza perturbatrice di Nettuno.
Le stesse simulazioni sull’ origine della fascia di Kuiper predicevano che ivi debbano trovarsi anche corpi di
massa consistente, tipo addirittura quella di Marte o della Terra. Da qui, a partire dall’inizio del 2000, una
ricerca sempre più sistematica di KBO che si avvicinassero prima alla taglia di Caronte, satellite di Plutone
(diametro=1270 km) e poi a quella dello stesso Plutone (diametro=2320 km). Chiaro che l’eventuale
scoperta del primo KBO maggiore di Plutone avrebbe automaticamente tolto a Plutone non solo lo scettro
di 9° pianeta, ma ne avrebbe attenuato forse definitivamente anche la natura di pianeta in senso classico,
facendolo (giustamente) rientrare nel novero dei maggiori KBO. I primi sintomi che la sorte di Plutone era
segnata si ebbero il 28 Novembre 2000 con la scoperta di VARUNA (diametro=936±300) cui fece seguito,
nel Giugno 2002, la scoperta di QUAOAR, che con il suo diametro di 1260±190 km rasentava le
dimensioni di Caronte.
Attualmente il ‘club dei 1000’ (ossia i KBO con diametro prossimo o superiore ai 1000 Km) comprende già
una quindicina di componenti. Grande merito in questa ricerca spetta a Michael Brown (Caltech) che,
assieme a D. Rabinowitz (Yale Univ.) e C. Trujillo (Gemini Obs.), ha saputo sfruttare al meglio le recenti
migliorie tecnologiche apportate alla mitica camera Schmidt da 1,2 m di Monte Palomar (ora chiamata
S.O.T., Samuel Oschin Telescope).
La camera Schmidt del Palomar entrò in funzione nel 1948 e realizzò dal 1949 al 1957 la famosa POSS-1
(Palomar Observatory Sky Survey) ossia una mappatura nel blu e nel rosso di tutto il cielo visibile dal
Palomar che sarebbe diventata un riferimento insostituibile per tutti gli osservatori del mondo per oltre un
quarto di secolo. Tra il 1985 e il 2000 venne intrapreso un secondo monumentale lavoro di mappatura
(POSS-2) in tre colori di tutto il cielo (settentrionale a Palomar e meridionale all’ ESO) tramite l’utilizzo di
speciali emulsioni fotografiche Kodak ad alta sensibilità: ne venne fuori un archivio di un miliardo di stelle e
50 milioni di galassie cui fa attualmente riferimento anche il Telescopio Spaziale Hubble.
L’era delle emulsioni fotografiche era però ormai arrivata al capolinea. Così, a partire dal 2000, il S.O.T.
venne dotato di una camera CCD a grande campo e di un sistema automatico che gli permettesse di
lavorare in remoto durante ogni sera di tempo favorevole. Nel 2003 per opera della Yale University, il
sensore elettronico venne ulteriormente migliorato grazie all’introduzione di una camera dalle
caratteristiche straordinarie, costituita da
un complesso di 112 CCD
in grado di coprire
contemporaneamente un campo di 4°x4°. Il compito della nuova camera, denominata QUEST (ossia
Quasar Equatorial Survey Team) è fondamentalmente quello di fare immagini profondissime su 1\3 di
tutto il cielo, alla ricerca di quasar , lenti gravitazionali e supernovae lontanissime. Il team di Micheal Brown
(Caltech) ha però compreso che la grande sensibilità di questa camera poteva anche essere sfruttata per
un intenso programma di ricerca di deboli oggetti transplutoniani, iniziatasi nel Novembre 2001 e tuttora in
corso. In sostanza, ogni notte, il S.O.T. riprende automaticamente, su certe regioni di cielo situate in
direzione opposta al Sole, tre immagini a distanza di 90 minuti l’una dall’altra. In una notte viene realizzato
anche un centinaio di immagini. La mattina seguente M. Brown le esamina tutte con un apposito
programma computerizzato, arrivando in una decina di minuti ad individuare quelle eventualmente più
promettenti. Anche questo è un segno dei tempi che cambiano: basti ricordare che nel 1930, per arrivare alla
scoperta di Plutone, C. Tombaugh soleva lavorava senza interruzione per una decina di ore, esaminando
con un comparatore di lastre fotografiche migliaia di stelle ogni giorno. I primi tre anni della campagna di M.
Brown hanno prodotto la scoperta di una quarantina di oggetti della fascia di Kuiper. Tra questi, nel
Novembre 2002, il già citato QUAOAR, il primo oggetto con diametro > 1000 Km situato in orbita circolare
a 42 u.a. dal Sole (un cubewano quindi) e nel 2004 ORCUS (2004DW), un Plutino le cui dimensioni erano
nettamente superiori a quelle di Caronte (diametro di circa 1500 km), per proseguire (14 Novembre 2003)
con SEDNA (2003 VB12), un oggetto di 1600 km, per il quale fu immediato per i MEDIA parlare di decimo
pianeta. Ma le sue caratteristiche orbitali assolutamente straordinarie fecero tramontare quasi subito questa
ipotesi: SEDNA ruota infatti attorno al Sole in circa 10.500 anni, su un’orbita inclinata di 12° ed altamente
ellittica ( e=0,85), con perielio a 76 u.a. (22 Settembre 2075), ed afelio a 980 u.a. (oltre 130 miliardi di km).
A prima vista un’ orbita così eccentrica e lontana sembrava imparentata con quella tipica dei KBO
dispersi (ossia gli SDO). Ma l’eccezionale distanza perielica di SEDNA (come detto 76 u.a.) rende
inaccettabile questa ipotesi: tutti i calcoli teorici sull’ entità delle perturbazioni di Nettuno pone infatti il limite
superiore della fascia di Kuiper attorno alle 50 u.a. (non a caso, nessun KBO mostra distanze perieliche
maggiori). Da qui l’idea dominante che SEDNA sia in realtà il primo rappresentante di una nuova classe di
oggetti, appartenente alla nube di Oort più interna, che sia stato dislocato dalla nube di Oort principale in
conseguenza di qualche perturbazione stellare.
Nel Maggio 2004, D. Jewitt e J.Luu (sì, proprio gli scopritori del primo KBO), utilizzando lo spettrometro
CISCO applicato al telescopio SUBARU da 8 metri della Hawaii, realizzarono su QUAOAR la sorprendente
scoperta delle due bande del ghiaccio cristallino a 1,5 e 2 micron: questo richiede punte di temperatura di
almeno -160°C (impatti, attività interna?), ben superiori ai -230°C tipici della distanza dal Sole di QUAOAR
(43 u.a.). Ancora più interessante la scoperta contemporanea di una banda a 2,2 microns tipica della
miscela H2O-NH3 (ammoniaca), giustificabile solo in presenza di attività geologica che riversi nuova NH3
nell’ambiente in sostituzione di quella demolita di continuo dalla radiazione cosmica. In definitiva,
QUAOAR, pur essendo un freddissimo corpo ghiacciato, si rivelava tutt’altro che inerte dal punto di vista
geologico: un comportamento, questo, di sicuro stampo planetario, che era logico attribuire a tutti i KBO di
dimensioni paragonabili o maggiori. La strada per la scoperta del primo KBO di dimensioni maggiori di
quelle di Plutone era chiaramente aperta. Se nessuno poteva dire quando questo sarebbe successo, era
invece facile individuare l’autore più probabile della scoperta: si trattava di M. Brown e del suo gruppo, sia
per l’esperienza pluriennale già accumulata, sia, soprattutto, per la disponibilità della strumentazione più
adatta.
L’annuncio fatidico è stato dato dal team di M. Brown il 29 Luglio scorso, con qualche anticipo rispetto alla
volontà degli stessi scopritori, in seguito ad una delle ormai consuete fughe di notizie che spesso
precedono le scoperte più importanti. La sigla del primo KBO più grande di Plutone suona asetticamente
come 2003 UB313 essendo stato ripreso per la prima volta dal telescopio S.O.T. il 31 Ottobre 2003 all’
interno della costellazione della Balena. Già che c’era, nell’annuncio del 29 Luglio scorso, M. Brown ha
inserito anche la scoperta di 2005FV9 (avvenuta il 31 Marzo 2005), un KBO con diametro maggiore di
quello di Caronte.
Le ragioni per cui c’ è voluto più di un anno e mezzo per rendere di pubblico dominio la notizia della
scoperta del primo KBO maggiore di Plutone, sono molteplici.
Innanzi tutto la conferma della reale esistenza di 2003 UB313 è venuta solo il 5 Gennaio 2005, quando il
S.O.T. , riprendendo lo stesso campo del 31 Ottobre 2003, ha permesso di percepirne il debole movimento
tra le stelle di campo e di calcolarne anche i parametri orbitali preliminari. Ne è venuto fuori un KBO ad alta
inclinazione (44,1°) ed alta eccentricità (0,44) del tipo SDO (Scattered Disk Object), con perielio a 37,8 u.a.
e afelio a 97,6 u.a. ed un periodo di rivoluzione attorno al Sole di 557 anni. Al momento della scoperta
l’oggetto era di m=19 e si trovava a circa 97 u.a. di distanza, quindi prossimo alla sua massima lontananza
dal Sole. I mesi che hanno fatto seguito al Gennaio ’05 sono stati sfruttati da M.Brown per una stima
accurata delle dimensioni del nuovo KBO, rivelatisi, già all’inizio, estremamente promettenti. Di sicuro,
comunque, nessun annuncio sarebbe stato fatto il 29 Luglio se non si fosse sparsa la voce (rivelatasi poi
infondata) che proprio per quel giorno un team di astronomi spagnoli guidati da Jose-Luis Ortiz (Osservatorio
della Sierra Nevada) aveva deciso di dare il clamoroso annuncio della scoperta di un KBO più grande di
Plutone. Denominato 2003 EL61 (‘SANTA’) in quanto scoperto il 7 Marzo 2003, l’orbita dell’ oggetto potè
essere accuratamente ricostruita da J.L. Ortiz grazie al reperimento di molte immagini di archivio risalenti
addirittura fino al 1955. Fu così possibile accertare che SANTA era un cubewano con orbita inclinata di
28,2° e piuttosto eccentrica (distanza perielica=35,1 u.a. e distanza afelica=51,5 u.a.) percorsa in 285 anni. I
primi spettri ottenuti al telescopio Gemini Nord indicarono una superficie molto simile a quella di Caronte,
satellite di Plutone, dominata da intense bande del ghiaccio d’acqua. Assumendo a questo punto, per
SANTA, lo stesso albedo di Caronte (0,38), J.L. Ortiz ne fece una stima preliminare del diametro attorno a
2000 km, ossia ‘pericolosamente’ vicina alle dimensioni di Plutone. Ma in breve tempo ogni dubbio venne
chiarito da una spettacolare scoperta: quella di un satellite di circa 350 km attorno a SANTA. Denominato
‘Little Helper’, esso ruota su un’orbita quasi circolare a 49.500 km dal corpo principale, in poco più di 49
giorni. Dalla differenza di luminosità tra primario e secondario ( circa 3,3 magnitudini) e facendo la sensata
assunzione che densità ed albedo siano paragonabili, è stato possibile stimare per Little Helper una massa
dell’ 1% rispetto a SANTA e per SANTA (terza legge di Keplero) una massa effettiva non superiore ad 1/3
rispetto a quella di Plutone, ovvero un diametro massimo di 1600 km. Era chiaro, quindi che il KBO di Ortiz
era ben al di sotto delle dimensioni di Plutone. M. Brown però non poteva saperlo e quindi, nel timore di
essere beffato ‘sul filo di lana’, decise di divulgare la scoperta di 2003 UB313 il 29 luglio scorso,
contemporaneamente a quella di SANTA. Tutti i dati in suo possesso deponevano per un corpo simile a
Plutone ma di dimensioni nettamente superiori. Due, in particolare, le osservazioni fondamentali, una di
tipo spettroscopico e l’altra di tipo fotometrico. Il lavoro spettroscopico, condotto il 25 Gennaio ’05 da D.
Rabinowitz con lo spettrografo NIRI applicato al telescopio Gemini Nord da 8 metri in cima alle Hawaii,
diede un esito clamoroso: tra 1 e 2,5 microns, 2003UB313 presenta le stesse intense bande del metano che
caratterizzano lo spettro di Plutone. Tranne Plutone, nessun altro KBO aveva mai mostrato bande del
metano: 2003UN313 si rivelava, quindi, una specie di ‘fratello maggiore’ di Plutone. Da qui lo spunto per
arrivare, per via fotometrica, ad una stima del diametro. Assumendo infatti un albedo altrettanto elevato di
quello di Plutone (0,55), il diametro di 2003UB313 dovrebbe superare nettamente i 3400 Km (contro i 2280
di Plutone) perché si giustifichi il valore misurato di magnitudine (m=19). Ovviamente si tratta solo di una
stima di massima, perché, in realtà, l’albedo vero dell’oggetto non è noto. Ma - secondo i conti di M.Brownche 2003UB313 sia più grande di Plutone rimane indiscutibile: il suo diametro supererebbe (con un valore di
2400 km) comunque quello di Plutone anche se, per assurdo, riflettesse il 100% della luce solare (ossia se il
suo albedo avesse il valore massimo di 1). Certo, un sistema classico per la misura del diametro ci sarebbe:
esso si rifà ad un metodo messo a punto negli anni 70 da David Allen per la misura delle dimensioni degli
asteroidi, basato sulla misura del massimo di emissione termica tra 10 e 20 microns. Purtroppo, per oggetti
lontani e quindi estremamente freddi come i KBO questo metodo è di difficile applicazione perché il
massimo nella loro emissione termica è spostato tra 60 e 70 microns, lunghezza d’onda alla quale
l’atmosfera terrestre è opaca. Fortunatamente la clamorosa scoperta di un piccolo satellite attorno a
2003UB313 ha permesso di confermarne la massa e, indirettamente, le dimensioni.
In ogni caso, il fatto che il team di M. Brown abbia finalmente individuato un oggetto più grande di Plutone,
75 anni dopo la scoperta di quest’ ultimo, rimane di importanza epocale.
Come tale, ha immediatamente attirato l’interesse dei MEDIA di mezzo mondo, che non hanno esitato un
attimo a parlare di 10° pianeta. A dir la verità M. Brown, lo scopritore, ha dato molta ‘corda’ a questa
interpretazione (evidentemente perché direttamente coinvolto….) affermando che, essendo Plutone il 9°
pianeta, è assolutamente ovvio che un oggetto maggiore di Plutone debba essere considerato come 10°
pianeta. Per il nuovo ‘pianeta’ l’ I.A.U. ( Unione Astronomica Internazionale) ha deciso il nome di ERIS (e
Disnomia per il satellite) . Il fatto è che, attualmente, NON esiste una definizione ufficiale di pianeta e,
addirittura, sembra assai difficile trovare un qualche accordo su questo tema: basti dire che una apposita
commissione dell’ I.A.U. guidata da Alan Boss (uno dei maggiori teorici sul problema della formazione dei
pianeti, presso la Carnegie Institution) non è arrivata a nessun risultato dopo oltre un anno di discussioni! In
realtà, in ambito I.A.U., predomina attualmente l’idea di considerare come KBO tutti gli oggetti che si
portano a più di 40 u.a. dal Sole, indipendentemente dalle loro effettive dimensioni. Da questo punto di
vista, lo stesso Plutone viene ormai considerato alla stregua di uno dei maggiori KBO. Chiaro, quindi, che se
Plutone sta perdendo il rango di 9° pianeta, non può di certo essere considerato come 10° pianeta il primo
KBO più grande di Plutone. Specie in considerazione del fatto che è tipico dei pianeti avere orbite quasi
circolari e complanari al piano dell’eclittica, mentre invece 2003UB313 ha un’orbita altamente eccentrica
(e=0,44) e fortemente inclinata (i=44°) sul piano dell’eclittica. Anche il discorso dimensionale è molto
discutibile. Per esempio Gibor Basri (un fisico dell'Università della California) ha proposto di considerare
pianeta qualunque oggetto le cui dimensioni siano tali da fagli assumere forma sferica: ma questo criterio
è chiaramente equivoco, in quanto potrebbe succedere che un corpo piccolo ma fatto da materiali pesanti
sia considerato più pianeta di un corpo magari molto più grande fatto da materiali ghiacciati. Molto meglio
potrebbe essere, definire PIANETA un corpo che da solo abbia una massa MAGGIORE della somma di
tutti gli altri corpi con orbite simili. Da questo punto di vista NON sono pianeti nè Plutone né 2003UB313
sia per le loro caratteristiche orbitali sia perché le rispettive masse sono di molto inferiori a quella di tutti gli
altri KBO messi assieme (stimata teoricamente di 1-5 masse terrestri).
2.3) LE MOLECOLE DI STARDUST.
Stanno cadendo, dopo un anno di intensi studi, i primi segreti delle polveri della cometa Wild-2, catturati e portati a Terra
dalla sonda Stardust. Ecco un resoconto dei risultati preliminari, già sufficienti per affermare cha vanno modificate molte
delle idee classiche che ci eravamo fatte sulle comete.
Il 15 Gennaio 2006 la sonda Stardust ha riportato a Terra, racchiuso in una capsula stagna ( il cosiddetto
SRC= Sample Return Capsule) forse il ‘carico’ più prezioso mai arrivato dallo spazio: si tratta di circa
10.000 particelle di dimensioni comprese tra 1 e 300 micron della cometa Tempel-1, che la Stardust raccolse
il 2 Gennaio 2004 passando a soli 236 km dal nucleo della cometa, grazie ad una racchetta di alluminio con
le trame riempite di aerogel, entro cui le particelle si sono conficcate a 6,1 km/s (velocità ritenuta
insufficiente a provocarne modificazioni fisiche e/o chimiche). Il materiale proveniva da 22 getti altamente
collimati uscenti dal nucleo di 4,5 km della cometa Wild-2, un oggetto molto giovane in quanto catturato da
Giove nel 1974 nella sua attuale orbita a corto periodo (6,5 anni). Questo garantiva la natura primordiale del
materiale emesso: si può infatti calcolare che, essendo passata solo cinque volte al perielio, la Wild-2 può
aver perso al massimo un centinaio di metri di superficie originaria, rimanendole ancora almeno 10.000 anni
prima di esaurirsi completamente.
In totale la superficie di raccolta dell’aerogel era di 1037 cm2 cui si sono aggiunti 153 cm2 di telaio di
Alluminio tra un riquadro di aerogel e l’altro. Va ricordato, per completezza, che il lato A dell’aerogel era
riservato alle polveri della cometa, mentre il lato B ha raccolto, in due periodi differenti durante il viaggio di
trasferimento, un piccolo numero di particelle interstellari (tuttora non analizzate).
Secondo la risposta dello strumento CIDA (Cometary and Interstellar Dust Analyzer) a bordo di Stardust, il
flusso maggiore di particelle cometarie si è verificato tra -487 s e +712 s a cavallo della minima distanza e
questo, in fondo, è più che logico. Ma i dati di un altro strumento il DFMI (Dust Flux Monitor Instrument)
hanno evidenziato un secondo picco a cavallo di 700 s dopo il flyby, interpretato come il casuale incontro di
materiale cometario che si era già staccato dalla cometa in precedenza. In ogni caso il flusso di particelle
non era continuo ma a raffiche della durata di 10-30 s ciascuna, come se il materiale provenisse da
aggregati di polvere in disgregazione più che da grosse particelle compatte. L’aerogel è un materiale
specialissimo, composto di SiO2 (silice) ad altissima porosità (più del 99% è vuoto, il che corrisponde ad una
densità media di 0,01 g/cm3!) in grado di disperdere gran parte del calore per attrito delle particelle che vi
si conficcano dentro: in questo modo le particelle scavano una specie di canale nell’aerogel e sono
facilmente ritrovabili quasi intatte alla fine del canale stesso. Almeno così si pensava a priori. Non si era
però fatto il conto con la natura fisica (sconosciuta) del materiale cometario che, essendosi rivelato
composto da un’aggregazione molto soffice di particelle minori, ha finito per disperdersi in maniera
omogenea lungo tutta la superficie interna della galleria scavata nell’aerogel. Quest’ ultima risultava poi più o
meno dilatata in diametro in funzione della quantità di volatili presenti che evaporavano (disperdendosi o
decomponendosi) in conseguenza del calore per attrito sviluppatosi all’atto della cattura. Alla fine della
traccia rimaneva solo il nocciolo ‘duro’ (ma comunque sempre in forma di agglomerato) della particella di
materiale cometario. Si sono osservati tre tipi fondamentali di gallerie:
-quelle a forma di …carota (bulbo corto e radici lunghe), dovute alle particelle più compatte,
-quelle di forma opposta (bulbo lungo e radici corte) dovute a particelle molto friabili,
-quelle infine costituite solo da grosso bulbo, dovute probabilmente a particelle ricche di volatili.
La galleria più lunga ha raggiunto una profondità di 22 mm; quella più larga una ampiezza a metà altezza di
9,6 cm (come dire che era perfettamente visibile a vista e vi si poteva infilare un dito!).
Va anche aggiunto (e questa è stata una sorpresa) che un’altra fonte di materiale è stato il supporto in
alluminio dell’ aerogel, dove sono stati rinvenuti circa 260 microcrateri di diametro >100 micron (il maggiore
aveva un diametro di ben 680 micron) e circa 60 con diametro >60 micron. Una larga parte di questi crateri è
risultata multipla, ad ulteriore dimostrazione che i proiettili incidenti erano aggregati di particelle minori. Va
aggiunto che nei pressi di questi crateri è stato possibile ritrovare tracce del materiale incidente su cui
effettuare microanalisi chimiche.
In totale sono stati raccolti circa 10 microgrammi (millesimi di milligrammo !), sui quali 500 scienziati di
mezzo mondo (il cosiddetto PET, ossia Preliminary Examination Team, comprendente anche alcuni
ricercatori italiani dell’ Osservatorio di Catania e Napoli) hanno applicato le tecniche microanalitiche più
sofisticate della moderna tecnologia, sia per quanto riguarda la parte inorganica (ossia rocciosa) sia per
quanto riguarda la parte organica (ossia costituita da molecole a base di Carbonio). Nell’ ambito di questa
indagine un ruolo assolutamente fondamentale spetta alla microscopia elettronica sia a scansione ( SEM=
Microscopio Elettronico a Scansione, per immagini superficiali + sonda EDAX per analisi compositive
puntuali), sia in trasmissione (TEM=Microscopio Elettronico a Trasmissione, per campioni ridotti a sezioni di
pochi micron). Non meno importante tutta una serie di spettrometri di massa (MS) (analisi isotopiche e
identificazione di molecole specifiche) e di spettrometri Raman e Infrarossi (analisi della precisa natura
chimica dei componenti organici). Non ultimo sono stati utilizzate anche tecniche cromatografiche
(separazione di miscele di molecole in base alla loro differente velocità di spostamento entro colonne
riempite con materiali speciali) per la ricerca di composti organici di importanza più direttamente
prebiologica.
I materiali cosmici di riferimento, verso cui fare dei confronti, erano soprattutto due. Innanzi tutto le
cosiddette IPD (Interplanetary Dust Particles) che Don Brownlee (scienziato dell’ Università di Washington
ed ideatore della missione Stardust) raccoglie da almeno 20 anni nella stratosfera terrestre grazie a
speciali pannelli adesivi situati sulle ali di aerei d’ alta quota. Le IPD contengono materiale carbonioso
complesso, normalmente associato a granuli di silicati vetrosi ricchi di ‘isole’ di Fe-Ni e relativi solfuri
(GEMS, ossia Glass with Embebbed Metal and Sulfides). Pur tra molte incertezze (dovute al parziale
degrado termico per attrito nell’entrata in atmosfera) domina l’idea che le IPD siano di origine cometaria. I
secondi oggetti cosmici su cui fare riferimento erano ovviamente le condriti carboniose più ricche di
composti organici ( C1) tipo la meteorite di Murchison: oltre ad una quantità di materiale carbonioso che
può arrivare al 10% (con una alta porzione insolubile in quanto di alto peso molecolare) le condriti C1
contengono spesso delle inclusioni ricche di ossidi di Calcio ed Alluminio (dette CAI), che si ritiene siano i
reperti più antichi della nebulosa solare primordiale.
IL SORPRENDENTE MESSAGGIO DELLE POLVERI.
La composizione elementare (ossia la % relativa dei vari elementi chimici) è stata indagata da un foltissimo
gruppo di ricercatori guidati da Gorge J. Flynn (Università di New York ). La tecnica principale utilizzata è
stata l’emissione di raggi X per fluorescenza. Ogni elemento chimico emette raggi X di specifica energia
quando il campione viene colpito da raggi X ad alta energia (strumento SXRM, ossia Synchrotron X-Ray
Microprobe) oppure quando viene colpito dagli elettroni emessi dalla sorgente di un SEM (Microscopio
Elettronico a Scansione. Siccome le particelle della Wild-2 erano molto friabili ed eterogenee, i vari elementi
si sono distribuiti in concentrazione variabile lungo tutta la superficie interna delle gallerie nell’aerogel, al
punto che un 10% di tracce non ha mostrato nessuna particella alla fine della galleria. Questo ha reso
assai complessa la misura assoluta della composizione di ogni particella cometaria incidente, in quanto è
stato necessario ogni volta sommare tutti i frammenti dispersi nella galleria.
In generale, si può dire che la composizione della Wild-2 è consistente con quella delle condriti C1 (
meteoriti ritenute rappresentative della composizione originaria del Sistema Solare) per elementi come Ca
(Calcio), Ti (Titanio), Cr (Cromo), Mn (Manganese), Fe (Ferro) e Ni (Nichel), ma vi si discosta parecchio in
eccesso per elementi come Cu (Rame), Zn (Zinco), Ga (Gallio) e in difetto per lo S (Zolfo). Da questo punto
di vista le polveri della Wild-2 non sembrano troppo imparentate con le cosiddette IDP (Interplanetary Dust
Particles), la cui provenienza cometaria è ritenuta altamente probabile.
Trattandosi di materiale roccioso, le polveri delle Wild-2 sono chimicamente dei silicati, ossia dei composti
caratterizzati da tetraedri di atomi di ossigeno con al centro un atomo di Silicio (SiO4), legati tra loro da vari
tipi di atomi metallici (M1, M2):
Disseminati nella matrice silicatica si trovano ‘isole di Fe-Ni (Ferro-Nichel metallici) e di solfuri di Ferro e
nichel.
La temperatura alla quale questi silicati si formano, decide sia della loro composizione sia della loro
struttura mineralogica ( vetrosa se nati a bassa temperatura o cristallina se nati ad alta temperatura). Il
fatto è che, sebbene si ritenga che le comete provengano dalle regioni più fredde del Sistema Solare (
fascia di Kuiper o nube di Oort) sono di recente state raccolte importanti osservazioni spettroscopiche
relative a polveri cometarie caratterizzate da silicati in forma cristallina (soprattutto certe forme di OLIVINA
e PIROSSENO). Il primo caso risale alla cometa Hale-Bopp. Era il 27 Aprile ’96 quando un team di
scienziati guidati dal francese J. Crovisier (Osservatorio di Parigi) puntò verso la cometa uno strumento
ideale per studiarne le polveri, vale a dire il satellite infrarosso ISO. Subito, da una serie di sei picchi tra 11
e 34 micron apparve chiara la parziale presenza di Fosterite, una forma di Olivina ricca di Magnesio. Molto
interessante il fatto che , esclusivamente a cavallo del perielio, il gruppo di D. Wooden abbia individuato
anche i due intensi picchi a 9,3 e 10 micron del Pirosseno cristallino. Dieci anni dopo toccò al telescopio
Gemini Nord fare un secondo riscontro spettroscopico di Olivina cometaria. Era il 4 Luglio 2005 e la sonda
DEEP IMPACT aveva appena colpito con un missile il nucleo della cometa Tempel-1 : il Gemini Nord se ne
‘accorse’ immediatamente rilevando in infrarosso che le polveri della cometa non solo si erano raddoppiate
ma evidenziavano anche una parziale componente cristallina, sotto forma di alcune bande tipiche dell’
Olivina tra 9 e 12 micron :
La presenza di Olivina e Pirosseno è stata riscontrata anche nelle polveri della Wild-2. Con una novità
davvero rilevante rispetto ai casi precedenti: che in questo caso la matrice è quasi TOTALMENTE
cristallina. Vediamo di capire bene il significato di questa scoperta.
Va ricordato che per Olivina - (Mg,Fe)2SiO4- si intende una classe molto estesa di silicati di Ferro e
Magnesio, la cui colorazione è tipicamente di un verde ‘oliva’ e la cui composizione è definita da una grande
varietà del rapporto tra Magnesio e Ferro. Così si va dalla presenza esclusiva del Magnesio nella Fosterite
(Fo) (Mg2SiO4) alla presenza esclusiva del Ferro nella Fayalite (Fa) (Fe2SiO4). Più in generale sono possibili
tutti i casi intermedi caratterizzati da % ben definite di Fo e Fa (per esempio un’ Olivina Fo70Fa30 contiene il
70% di Fosterite e il 30% di Fayalite). E’ molto importante aggiungere che sono le condizioni di
temperatura e pressione a definire la composizione di una certa Olivina. Quindi Olivine a composizioni
differenti indicano condizioni di formazione differenti. Ma la temperatura ha un’influenza fondamentale
anche sul grado di cristallinità: così la fosterite cristallizza solo a T>850°C, mentre per far cristallizzare la
Fayalite si richiede una T>1100°C.
La presenza di Alluminio (Al) ed altri elementi minori (come Calcio e Sodio) + una maggior quantità di Silice
(SiO2) caratterizza invece i Pirosseni, altri silicati che diventano cristallini ad alta temperatura e che
cambiano di composizione in funzione delle condizioni fisiche (temperatura, pressione) della loro
formazione.
Nel caso specifico della Wild-2, un 30% delle particelle raccolte era costituita da Olivine, un 30% da
Pirosseni, un 10% da una miscela di Olivine e Pirosseni, un altro 30% da Solfuri di Ferro e Nichel. La
sistematica disgregazione delle varie particelle lungo i canali scavati nell’aerogel ha permesso di
individuare (sui singoli frammenti) una grande molteplicità di composizioni differenti, tra cui il caso della
Fosterite (Mg2SiO4) è risultato dominante.
La presenza di vari tipi di Olivine è un dato di estremo interesse perché dimostra come il materiale
cometario abbia sperimentato all’inizio differenti condizioni di elevata temperatura. Una spiegazione
naturale di questo fatto implica che nelle comete sia confluito materiale proveniente da regioni della
nebulosa primordiale molto differenti, che abbiano quindi subito un riscaldamento primordiale molto
differente. Il fatto poi che sia la Fosterite il silicato preponderante delle polveri della Wild-2 dimostra anche
che la temperatura a cui si formarono queste polveri deve essere costantemente rimasta superiore a 800900°C. Ad ulteriore dimostrazione del probabile passato ‘rovente’ del materiale cometario c’è una scoperta
ancora più sorprendente: quella della presenza, lungo la cosiddetta traccia 25 dell’aerogel, di alcune
inclusioni CAI, ritenute (ne abbiamo già accennato) i primi prodotti di aggregazione della nebulosa solare,
che si condensarono anche alle temperature più elevate ( T anche >2000°C).
L’ ultimo posto dove si pensava di trovarne traccia era nelle polveri di una cometa….
La scoperta di Olivine cristalline (e di inclusioni CAI) nelle polveri di comete come la Hale-Bopp, la Tempel1 e, soprattutto la Wild-2 rende necessaria una disamina delle possibili fonti (solari o non solari) di alta
temperatura che abbiano originato questi materiali così particolari.
Chi abbia preriscaldato le polveri che poi sono state inglobate nelle comete è difficile dirlo. Una possibile
risposta risale comunque a più di dieci anni fa, quando, nel 1995, il satellite ISO aveva osservato bande
tipiche dell’Olivina cristallina attorno ad una mezza dozzina di YSO (Young Stellar Objects), ossia stelle
giovanissime circondate da anelli proto-planetari. Un anno dopo, nel 1996, K. Liffman ((Università di
Melbourne) pubblicò un importante lavoro in cui si dimostrava che i getti polari prodotti per qualche milione
di anni da ogni protostella circondata da un anello di polvere, riescono a dislocare a grande distanza un
buon 10% del materiale del disco proto-planetario. Si tratta di materiale silicatico che, secondo un lavoro
pubblicato alla fine del 1997 da F.H. Shu (Università della California), deve aver subito continui
riscaldamenti tra 1000 e 2000°C in seguito all’interazione con la saltuaria emissione di raggi X altamente
energetici da parte della protostella centrale.
Siccome è evidente che le parti più interne del disco proto-planetario devono essersi scaldate in maggior
misura delle regioni più esterne, ne devono essere derivati Olivine e Pirosseni cristallini a composizione
molto variabile: esattamente quello che si è riscontrato negli agglomerati di polvere della Wild-2.
Una alternativa è che il materiale silicatico cometario sia di provenienza NON solare (‘pre-solare’), quindi
che si sia riscaldato nei pressi di qualche stella prima di essere inglobato nella regione più esterna della
nebulosa solare. Una possibilità certamente plausibile che poteva essere confermata o esclusa in un solo
modo: valutando la composizione isotopica dell’ Ossigeno (16O, 17O, 18O) presente nei silicati e
confrontandolo con i valori terrestri (ovvero solari). Si tratta di un lavoro delicatissimo, i cui risultati
preliminari, pubblicati da un folto gruppo di specialisti guidato da K. D. MaKeegan (Università di
Washington), dimostrano che i silicati della Wild-2 sono fondamentalmente di provenienza ‘solare’. Ma
non solo. Nei pressi del micro-cratere C2086W la sonda EDAX ha trovato un granulo con un netto eccesso
di 17O: si pensa che si tratti di un pulviscolo presolare, proveniente dal materiale emesso da una vicina
gigante rossa.
Ma le polveri della Wild-2 hanno sorpreso non solo per i composti inorganici presenti, ma anche per
quelli…assenti.
In primo luogo è risultata assai scarsa la quantità di GEMS (Glass with Embedded Metal and Sulfides),
ossia di silicati in forma vetrosa con inclusioni di Fe-Ni e relativi solfuri tipici di regioni fredde della nebulosa
solare primordiale e abbondanti nelle IDP (Particelle di polvere Interplanetaria). Addirittura, in un lavoro
pubblicato nel Gennaio ’08 da un team di geologi guidati da H. Ishii (Lawrence Livermore National
Laboratory), è stato dimostrato che anche quei pochi casi di GEMS sono di origine spuria, in quanto
prodottisi durante il passaggio delle particelle cometarie nell’aerogel. E’ chiaro che l’assenza di GEMS è una
importante dimostrazione che nessun componente della Wild-2 si è originario della fascia di Kuiper da dove
Giove l’ha catturata 30 anni fa.
C’è inoltre qualcosa che non quadra per quanto riguarda la stabilità dell’ olivina in un ambiente
teoricamente ricco di acqua come quello cometario. E’ infatti ben noto (vedi un bel lavoro pubblicato nel
2003 da Julie Stopar, Università delle Hawaii, sulle 0livine scoperte nella regione marziana di Nili Fossae
dallo spettrometro TES a bordo della sonda MGS) che in presenza di acqua l’ olivina si decompone in argilla
+ Ossidi di Ferro in meno di 10.000 anni, anche nelle condizioni meno favorevoli.
Come mai, allora, non si è trovata traccia di argille nelle polveri della Wild-2 ? E come mai anche i carbonati
(verosimilmente prodotti dal contatto con acqua e CO2) sono risultati assenti La cosa è tanto più strana se si
pensa che il telescopio spaziale infrarosso SPITZER trovò abbondanza di argille e carbonati nelle polveri
della cometa Tempel-1 dopo l’impatto con DEEP IMPACT. Forse la cometa Wild-2 è molto più ‘asciutta’ di
quanto si pensasse? E se anche questa fosse la spiegazione, perché invece la Tempel-1 (appartenente
come la Wild-2 alla famiglia di Giove) apparve ‘normale’?
LE MOLECOLE ORGANICHE.
Al di là delle polveri silicatiche, è indubbio che la curiosità maggiore relativa al materiale catturato alla Wild-2
era legata alla presenza ed alla natura di eventuali molecole complesse a base di Carbonio. Si è trattato di
un lavoro complesso e tecnico, cui cercheremo di far cenno nel modo più semplice possibile, non senza
aver fatto notare la possibile interferenza sui risultati dello stesso aerogel (che contiene qualche % di
gruppi CH3 legati alla Si) e del riscaldamento durante la cattura (che potrebbe aver modificato alcune
molecole inizialmente presenti e/o aumentato artificialmente il loro peso molecolare, oppure, anche,
potrebbe spiegare come mai il valore del rapporto D/H degli organici della Wild-2 sia decisamente inferiore a
quello degli organici delle IDP). La ricerca è stata effettuata positivamente sia sui frammenti all’interno di
alcune gallerie nell’aerogel sia sul bordo di certi micro-crateri formatisi sul telaio di Alluminio. Va detto,
comunque, che in generale, i granuli della Wild-2 si sono rivelati piuttosto poveri di composti carboniosi.
Una prima classe di organici (individuati in immagini SEM-EDAX e caratterizzati soprattutto per
Spettrometria di Massa) sono i cosiddetti PAH (idrocarburi aromatici policondensati), già piuttosto comuni
nelle particelle IDP e nei meteoriti carboniosi, oltre che nell’ ISM (InterStellar Medium). Di PAH ne sono stati
trovati di due tipi, con basso e alto numero di anelli aromatici. Appartengono al primo tipo (vedi per esempio
la traccia 22) anelli ad uno (benzene) o due (naftalene) cicli, più o meno sostituiti da gruppi CH3 laterali.
Siccome si tratta di composti quasi sconosciuti nelle IDP o nelle condriti carboniose, vien da pensare che
possano derivare da processi di riscaldamento pirolitico del C presente nell’aerogel (in poche parole,
quindi non centrano forse nulla con il materiale cometario). Al secondo tipo appartengono PAH che possono
contenere anche 3 (fenantrene) e 4 (pinene) anelli aromatici semplici o con lunghi sostituenti laterali (vedi
per esempio la traccia 16). Trattandosi di molecole normalmente presenti nelle IDP e nelle meteoriti
carboniose, è evidente che si tratta di materiali tipici della cometa Wild-2. Ma l’esame accurato dei
frammenti molecolari negli spettri di massa (ricordiamo che la Spettrometria di Massa identifica le molecole
spaccandole in frammenti minori più facilmente riconoscibili) crea ulteriori complicazioni. Una è la presenza
di frammenti con peso molecolare molto alto (>800). Avviene così anche negli IPD e potrebbe trattarsi di
prodotti di polimerizzazione di alcuni dei PAH presenti per effetto della lunga permanenza a contatto con la
radiazione energetica (UV. X o particellare) dello spazio interstellare oppure, più semplicemente, la genesi
potrebbe essere legata ad effetti termici (l’attrito atmosferico per gli IPD e l’entrata nell’aerogel per la polvere
di Stardust). Sempre negli spettri di massa (e sempre a somiglianza degli IPD) ci sono poi alcuni frammenti
(picchi di peso molecolare 101, 112, 155, 167) con pesi molecolari incompatibili con la decomposizione di
semplici PAH: essi sono meglio spiegabili se le molecole di partenza contengono (oltre che anelli aromatici,
quindi a base di solo Carbonio) anche anelli eterociclici (ossia contenenti anche Ossigeno e Azoto oltre al
Carbonio).
Una conferma molto importante della presenza di sostanze organiche è stata ottenuta per un certo numero
di tracce (per esempio dalla 58 alla 61) mediante Spettroscopia IR dotata di microscopio in grado di
focalizzare il raggio infrarosso fino ad una dimensione minima di 15 micron. Sia su frammenti singoli, sia
lungo tutte le pareti delle tracce sono stati sistematicamente individuati alcuni assorbimenti caratteristici. A
parte un ampia banda allargata attorno a 3322 cm-1 dovuta allo stiramento di legami O-H dell’aerogel, si
sono osservate molte altre bande IR estremamente significative. La prima di esse, centrata attorno a 3065
cm-1 , essendo assolutamente tipica dello stiramento del legame C-H dei composti aromatici, conferma in
pieno la presenza di PAH. E’ molto netta, inoltre, una tripla banda a 2968 cm-1 (-CH3), a 2923 cm-1 (-CH2-)
e a 2855cm-1 (-CH3 e -CH2-) si tratta del famoso assorbimento a 3,4 micron scoperto per la prima volta
nella Halley e presente anche in certe meteoriti carboniose e in molte nebulose oscure del ISM (Interstellar
Medium). Il valore vicino a 4 del rapporto -CH2- /-CH3 Indica la presenza (assieme agli aromatici) anche di
composti organici alifatici a catena piuttosto lunga. Notevole il fatto che il rapporto quantitativo degli organici
alifatici rispetto agli aromatici è molto maggiore nelle polveri della Wild-2 rispetto a quanto riscontrato nelle
meteoriti carboniose e negli IPD. Assolutamente interessante è poi un terzo forte assorbimento centrato a
1706 cm-1 lungo tutta la traccia 59. Chi conosce un minimo di spettroscopia infrarossa sa che si tratta,
senza nessun dubbio, dello stiramento del legame C=O (Carbonio legato con doppio legame all’Ossigeno),
tipico di composti OSSIDATI del Carbonio come acidi carbossilici (-COOH) ma anche di aldeidi e chetoni: ci
si chiede quale strano processo cosmico possa mai aver generato negli organici della Wild-2, una banda di
ossidazione così intensa in assenza di… ossigeno. Il dubbio che possa trattarsi di un artefatto o di un
inquinamento esterno è forte ma, nel contempo, anche assai poco probabile: non ci può essere infatti
traccia di assorbimenti del C=O nel materiale che compone l’aerogel. Possiamo in questa sede tentare
almeno un’ipotesi: quella secondo cui il C=O sia legato alla decomposizione termica di qualche polimero
della formaldeide (POM) con produzione di formaldeide libera (H2C=O), di H2 (Idrogeno) e CO (ossido di
Carbonio), secondo uno schema che venne inizialmente individuato nelle polveri della Halley e fu
successivamente richiamato in gioco per spiegare l’elevata produzione di CO durante l’impatto con Giove
della cometa SL9 nel Luglio 1994. Un quarto assorbimento di grande interesse è stato individuato nel
granulo 21 e 26 della traccia 35: si tratta di una debole banda centrata a 2232 cm-1, molto probabilmente
dovuta allo stiramento del triplo legame C≡N. La sua origine non è poi così difficile da immaginare: può
provenire dalla presenza di polimeri dell’HCN (acido cianidrico) che –è ben noto dagli studi sulla Halleysono una delle basi della crosta scura della superficie delle comete, oppure può derivare dalla
decomposizione termica della crosta stessa (con liberazione proprio di HCN). Una bella dimostrazione di
questa interpretazione deriva da alcune immagini SEM con microanalisi del granulo 26 dove è chiarissima
la presenza di N (Azoto) e la sua stretta associazione con il C (Carbonio), quindi l’esistenza di organici a
base di CN. Che l’N in questione sia di origine cometaria è dimostrato anche da un netto arricchimento
dell’ isotopo N15 (rispetto all’ N14) tipico del materiale interstellare.
A parte comunque le particelle solide, il PET ( Preliminary Examination Team) ha voluto verificare se, per
caso, l’aerogel avesse assorbito materiali cometari gassosi, quindi molto volatili e leggeri come ammine e
semplici amminoacidi. Per far questo sono stati sottoposti ad analisi per cromatografia liquida (+
derivatizzazione delle ammine con aldeide o-ftalica per poter utilizzare il sensibilissimo rivelatore UVfluorescente) gli estratti acquosi di due campioni di aerogel che aveva volato su Stardust: uno venuto
direttamente a contatto con i gas cometari, l’altro accuratamente schermato dagli stessi. In più, per
controllo, sono stati analizzati anche degli estratti acquosi ottenuti da campioni di aerogel rimasti a Terra.
Davvero strano il risultato. Nell’aerogel di Stardast sono stati infatti individuati alcuni amminoacidi (tipo
acido ε-ammino-caproico, γ-ammino-butirrico, glicina, β-alanina, L-alanina) ed alcune ammine (tipo
MEA/etanol-ammina, MA /metil-ammina, EA / etil-ammina). L’assenza di MA, EA e glicina nell’aerogel di
controllo che aveva volato su Stardust senza impattare i gas cometari, farebbe pensare che queste tre
molecole siano di provenienza cometaria. Ma seri dubbi su questa interpretazione derivano dal fatto che
tracce di queste stesse tre molecole sono state rinvenute anche nell’aerogel di partenza, ossia in quello
rimasto a Terra (residui catalitici della preparazione dello stesso?). E’ vero che la quantità era 100 volte
minore di quella rinvenuta da Stardust, ma un minimo di esperienza nella tecnica analitica utilizzata
(appunto la cromatografia liquida) impone molta prudenza su questo punto: viene spontaneo pensare che
MA, EA e glicina si possano essere formati dallo stesso aerogel per qualche processo legato ad effetti
termici oppure alla lunga esposizione alla radiazione cosmica, oppure semplicemente alla lunga
permanenza nelle condizioni di vuoto quasi assoluto dello spazio interplanetario. Prudenza che invece non
sembra proprio aver sfiorato Jason Dworkin e Daniel Glavin (NASA Goddard Space Flight Center), i due
autori della ricerca, i quali hanno espressamente parlato della prima prova documentata che nelle comete
ci sono fonti di Azoto immediatamente utilizzabili per la sintesi biologica. Non è chiaro se questa ipotesi
potrà essere confermata o smentita dalle molte analisi tuttora in corso. Una cosa, però, è certa: la
conclusione di questa fantastica avventura cometaria è ancora molto lontana e, forse, le sorprese maggiori
(specie per quanto riguarda la disamina delle molecole carboniose) devono ancora arrivare.
2.4) DEEP IMPACT CONTRO LA COMETA TEMPEL-1!
Il 4 luglio 2005, per la prima volta l’uomo è riuscito a ‘riaccendere’ una cometa ( la Tempel-1) lanciandole contro un
proiettile da 370 kg. Riviviamo assieme questa memorabile avventura scientifica e tecnologica.
Per gli scolari della scuola di Andover, nel Minnesota, il successo della missione DEEP IMPACT è stato
festeggiato in una maniera davvero speciale. L’ idea di Dee McLellan, maestra dell’ ultima classe
elementare, è stata infatti a suo modo vincente: far raccogliere ai ragazzi, entro la data fatidica del 4
Luglio, una quantità di monetine di Rame (1/100 di dollaro) equivalente al peso del proiettile sparato dalla
navicella DEEP IMPACT verso la cometa Tempel 1. L’impresa non era facile, perché essendo il proiettile
costituito da un blocco di 370 kg di Rame (un materiale inesistente nelle comete, quindi assolutamente
neutro dal punto di vista delle analisi spettroscopiche), si trattava di raccogliere una equivalente quantità in
peso di monetine. Grazie all’aiuto di tutta la città, i ragazzi sono riusciti raggruppare circa 50.000 pezzi da
un centesimo, per una cifra, quindi di quasi 500 $. L’accordo era che, se nello spazio tutto fosse andato
bene con la distruzione del proiettile contro la cometa, anche le 50.000 monetine avrebbero dovuto essere
spedite dall’altra parte del mondo: a beneficiarne è stata una scuola di bimbi dell’ Ucraina che, per
l’occasione, si era gemellata con la scuola di Andover.
In realtà, anche se qualche voce ‘fuori dal coro’ c’è sempre ( il caso di Marina Bai, un‘astrologa russa che ha
accusato la NASA di avergli rovinato gli oroscopi, entrerà nella storia come esempio insuperabile di
stupidità umana) dobbiamo davvero tutti ringraziare DEEP IMPACT per averci concesso una incredibile
opportunità di capire meglio l’ ancora misteriosa natura delle comete. Lanciata solo sei mesi prima ( il 12
Gennaio ’05) la missione DEEP IMPACT (vedi bene Nuovo Orione di Luglio ’05, pp36) è entrata nel vivo
esattamente 171 giorni dopo il lancio. Alle 8,07 (ora italiana) del 3 Luglio scorso, la navicella madre, ormai
a soli 900.000 km dal suo obiettivo (la ‘vecchia’ cometa Tempel-1, catturata da Giove in un’orbita di 5,5 anni)
ha sganciato un cilindro a base conica di 370 kg destinato a colpire, poco meno di 24 ore dopo, il nucleo
della cometa alla vertiginosa velocità di circa 10 km/sec (36.000 km/h). L’energia in gioco (facilmente
calcolabile dalle formuletta 1\2 mv2 , con m= massa del proiettile e v= sua velocità) era davvero notevole ed
equivalente più o meno all’esplosione istantanea di 5 tonnellate di TNT (tritolo). Per raggiungere il suo
obiettivo l’impattatore era dotato di una camera a media risoluzione denominata ITS (Impactor Targeting
Sensor ) che aveva il compito di riprendere la cometa ogni 30 minuti fino ad un’ora prima (davvero
emozionanti le immagini della corpo cometario di 11x4,5 km che si andava via via avvicinando), quindi
ogni secondo fino all’ impatto: in questo modo è stato possibile affinare in maniera straordinaria la
traiettoria (sono state necessarie tre accensioni successive di un sistema di piccoli ugelli 90, 35 e 12,5
minuti prima dell’ impatto) ma, soprattutto, è stato possibile ottenere immagini della superficie cometaria
almeno 10 volte migliori di quanto avevano fatto in precedenza le navicelle DS-1 sulla Borrelly (22
Settembre 2001) e STARDUST sulla Wild-2 (2 gennaio 2004): basti dire che nell’ultima immagine, ripresa
dall’ ITS 3,7 secondi prima dell’impatto da un’altezza di soli 30 km, si rilevano dettagli di soli 5 metri!
Nel momento dell’ impatto, avvenuto alle 7,52 (ora italiana) del 4 Luglio sul centro dell’emisfero illuminato
della cometa, la navicella madre era pronta a riprendere ogni minimo dettaglio ottico e spettroscopico con
le sue due camere a media (MRI) ed alta (HRI) risoluzione. Questo lavoro si è protratto per 13 minuti, fino
alle 8,05, quando la sonda principale, ormai arrivata alla minima distanza dalla cometa di soli 500 km, ha
rivolto verso di essa il suo schermo protettivo, interrompendo per sicurezza qualunque osservazione. Ciò è
durato fino alle 8,52, quando, con la cometa ormai tornata a distanza di sicurezza, sono state riprese le
ultime fantastiche immagini in fase di allontanamento. Due i momenti più significativi di questa fase
delicata e convulsa: la ricezione delle prime immagini MRI dell’ impatto alle 8,18 del 4 Luglio e la
conferma . alle 10,42 non solo che la nave madre era sopravvissuta al flyby, ma che le sue ottiche si erano
mantenute in condizioni perfette. Le riprese in allontanamento si sono protratte fino alle 19,52 del 7 Luglio,
(quindi circa 60 h dopo l’impatto), mentre la trasmissione dei dati si è prolungata fino alla fine Luglio.
Dal punto di vista scientifico, le 4500 immagini raccolte dalle tre camere di DEEP IMPACT hanno fornito
ineguagliabili informazioni su due punti fondamentali: la morfologia superficiale della cometa ( ripresa,
come accennato, con una massima risoluzione mai così alta) e la sua struttura e composizione interna
(evidenziata per la prima volta dal confronto ottico e spettroscopico tra il comportamento della cometa
PRIMA e DOPO l‘impatto). Per quanto ci vorranno anni per decifrare l’imponente mole di dati raccolti (‘Ne
avrò almeno fino alla pensione’ – diceva un confuso ed emozionato F. A H’earn, responsabile della
missione, alla prima conferenza stampa), è già possibile tentare una valutazione preliminare dei
principali risultati scientifici.
Dicevamo che mai la superficie di una cometa era stata fotografata in maniera così dettagliata. Peccato che
questa superficie sia apparsa qualcosa di completamente differente da quanto ci si potesse aspettare in
base alle (seppur poche) esperienze precedenti. In particolare sembrava logico aspettarsi dalla superficie
della Tempel-1 una qualche somiglianza con quella della Wild-2, esplorata il 2 Gennaio ’04 dalla sonda
STARDUST, se non altro perché in entrambi i casi si tratta di due comete della famiglia di Giove, dotate di
periodo molto simile (5,5 e 6 anni). In realtà le due comete non sembrano neanche lontane parenti. La Wild2, essendo stata catturata solo di recente da Giove, è passata solo cinque volte al perielio (quindi è una
cometa piuttosto ‘giovane’): la sua superficie è disseminata da una moltitudine di misteriose ‘concavità’ a
fondo piatto che più che crateri da impatto sembrano strutture collegate in qualche modo alla sua attività
emissiva. Per contro la superficie della Tempel-1 (una cometa molto più ‘evoluta’ essendo passata
centinaia di volte al perielio) sembra decisamente più piatta e rimodellata. In effetti si intravedono
alcune impronte circolari che richiamano nella forma i crateri da impatto, ma ci sono anche porzioni di
superficie completamente piatte (acqua liquida riversatasi in superficie ?), lunghe creste meandriformi
alte alcune decine di metri (ghiaccio emerso dal profondo attraverso fessure crostali?), profonde
depressioni, forse stratificazioni. Le regioni lisce e pianeggianti sono in particolare molto problematiche, e in
parte somiglianti a strutture analoghe riprese dalla sonda DS-1 sulla superficie della Borrelly (dove, però,
non si riscontrò traccia di crateri da impatto!). Nulla comunque che sia immediatamente correlabile con
l’attività cometaria. A meno che l’attività emissiva sia in qualche modo legata ad una moltitudine di piccole
e brillanti macchie chiare ben visibili nelle immagini che l’ impattatore ha ripreso nell’ultimo minuti prima di
colpire.
Per quanto riguarda l’ impatto vero e proprio, ci si attendevano informazioni fondamentali sia sulla vera
natura della crosta superficiale (compatta, porosa, polverosa) sia sulla sua funzione nel pilotare l’attività
emissiva. In sostanza si voleva capire se, in una cometa poco attiva come la Tempel-1, il decadere
dell’attività fosse legata alla perdita di gran parte dei suoi volatili, oppure alla formazione di una crosta così
spessa da impedirne la fuoruscita. Per decidere tra queste due possibilità era necessario che l’impattatore
PERFORASSE la crosta, creando un cratere di un almeno un centinaio di metri che mettesse in diretto
collegamento il materiale (primordiale?) interno con l’esterno: una ripresa violenta dell’ attività cometaria
sarebbe stata in questo caso un indizio molto importante dell’ eventuale ruolo moderatore della crosta
superficiale.
La missione DEEP IMPACT è stata accompagnata da un’imponente campagna osservativi sia da terra che
dallo spazio. A terra hanno lavorato 7 tra i maggiori telescopi dell’ ESO ( i 4 VLT da 8,2 metri del Cerro
Paranal sotto la guida di H.Rauer e i 3 maggiori telescopi di La Silla , sotto a guida di H. Boehnhard ) e il
Keck da 10 metri delle Hawaii (sotto la guida di K. Meech). Dallo spazio hanno lavorato il Telescopio
Spaziale Hubble, il telescopio infrarosso Spitzer, il telescopio per raggi gamma GRO, nonché la sonda
Rosetta ed il satellite per raggi gamma Swift.
Spettri ad alta risoluzione ottenuti alla fine di Giugno dallo spettrografo UVES collegato al telescopio VLT
Kueyen hanno mostrato che la Tempel-1 emetteva soprattutto polvere : la banda principale era quella del
radicale CN (cianogeno) a 387 nm, proveniente, normalmente, dalla disgregazione della crosta superficiale.
Presenti anche alcune speci che ogni cometa sviluppa normalmente al perielio ( la Tempel-1 ha raggiunto
la minima distanza dal Sole di 1,5 u.a. il giorno dopo l’impatto), come C2, C3, NH, NH2. La cometa è rimasta
fondamentalmente polverosa anche durante alcuni improvvisi outbursts ( importanti quelli del 14 e 22
Giugno e quello del 2 luglio). Molto scarse erano H2O (acqua) e CO (Ossido di carbonio), due tra le
molecole più significative dell’attività cometaria: tanto è vero che lo spettrometro infrarosso collegato alla
camera HRI della sonda DEEP IMPACT ha cominciato a trovarne traccia solo attorno al 20 di Giugno.
Questa situazione apparentemente tranquilla era giustificata, in fondo, da una temperatura superficiale
piuttosto modesta: DEEP IMPACT ha misurato un’emissione infrarossa della parte illuminata del nucleo
compatibile con una temperatura compresa tra 0 e 25 °, perfettamente comprensibile se si considera la
già ricordata notevole distanza perielica. Ma alle 7,52 (ora italiana) del 4 luglio tutto è cambiato:
l’impattatore, colpendo la cometa a 10 km/sec, si è istantaneamente vaporizzato, creando per un tempo
brevissimo ( 5 centesimi di secondo) una palla di fuoco di qualche migliaio di °C, che, esplodendo, ha
generato un cratere di almeno 300 metri di diametro. Che la temperatura sia salita ben oltre i 2000°C è
stato dimostrato dal satellite Swift, che ha misurato un aumento di quasi 7 volte dell’emissione UV globale
della cometa a 260 nm. L’esplosione del proiettile ha creato un baratro nella crosta superficiale: da qui ha
preso a fuoruscire una immensa colonna di materiale interno che, illuminata dal Sole, ha dato luogo ad una
fortissima post-luminescenza, ripresa in ogni dettaglio da terra e dalla sonda madre sia fotograficamente
che spettroscopicamente. Il fatto che il cratere dell’ impatto sia rimasto invisibile è una prova tangibile che
il materiale sollevatosi sopra di esso doveva avere una grana finissima, forse prossima a quella del
borotalco. Era la dimostrazione che il proiettile aveva colpito una superficie ricoperta di polvere
sottilissima, al di sotto della quale il terreno era però solido e compatto. E’ verosimile pensare che proprio la
compattezza di questa crosta giustificasse la bassa attività della cometa: un dato questo di grande
interesse scientifico.
I riscontri spettroscopici sul materiale in uscita dal cuore della Tempel-1 sono stati impressionanti.
Gli spettri infrarossi ripresi da DEEP IMPACT sono diventati estremamente complessi (ci vorranno mesi
per la loro completa interpretazione), per quanto dominati da un vistosissimo assorbimento dell’acqua
attorno a 2,8 micron e da intense bande di composti carboniosi attorno a 3,4 micron. In generale le bande
dell’acqua (assorbimento del radicale OH a 310 nm) sono emerse in maniera prepotente negli spettri
raccolti dallo spettrografo UVES collegato con il telescopio VLT Kueyen il giorno seguente l’impatto (come
si ricorderà c’erano prima solo tracce impercettibili) e, nel contempo tutte le varie bande di assorbimento
(CN, C2, C3) sono aumentate di intensità di un buon 20%. Importanti anche le testimonianze di un forte
aumento della polvere riversatasi nella chioma interna. Ne ha fornito chiaro riscontro lo spettrometro
infrarosso TIMMI2 collegato al telescopio da 3,6 metri dell’ ESO che, avendo seguito anche di GIORNO
l’evoluzione della chioma, l’ ha trovata, nelle 14 ore successive all’ impatto, molto più estesa e almeno tre
volte più brillante. Molto interessanti anche le osservazioni nella banda X del satellite Swift: due giorni dopo
l’impatto, l’emissione X della chioma esterna della cometa si era praticamente raddoppiata, il che voleva
dire che anche la polvere, notoriamente capace di diffondere i raggi X solari, doveva essere aumentata di
molte decine di migliaia di tonnellate. Tutto questo in perfetta concordanza con le immagini ottiche che
hanno mostrato la nascita di un grande ventaglio in espansione a circa 1000 km/h. Dati infrarossi ancora
più interessanti sono venuti dal Keck da 10 metri che, dalle Hawaii, ha potuto ‘vedere’ direttamente l’
impatto : a parte un’immediata impennata delle bande dell’acqua, del CO e dell’ HCN (acido cianidrico), ha
destato grande sorpresa la scoperta di alcuni assorbimenti rarissimi e tipici solo delle grandi comete, come
quelli del CH3OH (metanolo) C2H6 (etano), C2H2 (acetilene). Capire come una cometa quasi ‘spenta’ abbia
potuto rilasciare questo materiale è molto difficile: non bisogna però dimenticare che la ripresa di attività
non era per nulla di origine naturale, ma legata ad un fortissimo trauma termico. Non si può quindi escludere
che proprio il calore dell’ impatto sia stata la causa della formazione locale di molecole molto più
complesse del previsto.
Ci si chiede adesso cosa farà DEEP IMPACT…. ‘da grande’, ossia dopo che, a partire da fine Luglio, avrà
terminato di riversare a Terra tutti i dati raccolti. Il fatto di aver superato indenne l’incontro con la Tempel1, con entrambe le due camere di bordo in perfetta efficienza, rende assolutamente sensato un
prolungamento della missione. Verso quale obiettivo non è ancora chiaro, ma c’è una cometa con un
periodo di 11 anni che transiterà proprio dalle parti di DEEP IMPACT tra 3,5 anni. La cometa si chiama
Boethin e venne scoperta il 4 Gennaio 1975 da un astrofilo filippino ( il reverendo Leo Boethin): facciamo
tutti il tifo perché DEEP IMPACT ci possa fare questo ennesimo grande regalo.
2.5) INCREDIBILE ITOKAWA !
Gli impressionanti risultati dell’ esplorazione ravvicinata di questo minuscolo asteroide, ufficializzati dai Giapponesi all’
inizio di Giugno, sono destinati a cambiare per sempre le idee che ci eravamo fatti sulla natura degli oggetti che
transitano vicino alla Terra.
Si chiama Itokawa, il più sorprendente asteroide potenzialmente pericoloso per la Terra (NEO, ovvero Near
Earth Object) che occhio umano abbia mai visto da vicino. Il merito di questa storica esplorazione ravvicinata
va totalmente alla nuova Agenzia spaziale giapponese (JAXA, ossia Japan Aerospace Exploration Agency)
che ha assolutamente voluto e realizzato una missione spaziale da fantascienza. Il tutto è iniziato l' 8
Maggio 2003 quando, dalla base di Kagoshima, in Giappone un vettore M-V-5 lanciava la navicella MUSESC destinata a riportare a Terra il primo campione di materiale asteroidico, dopo averne studiato per alcuni
mesi le caratteristiche morfologiche. L'asteroide scelto, scoperto nel 1998 e per questo denominato 1998
SF36, è un NEO (Near Earth Object) di tipo Apollo che ruota attorno al Sole in 1,5 anni, su un’orbita ellittica
a bassa inclinazione (1,6° sull’eclittica) di 0,95x1,69 u.a., che gli fa attraversare contemporaneamente
l’orbita della Terra e di Marte. Una situazione orbitale instabile, che, secondo i calcoli, porterà l’asteroide ad
impattare con la Terra in meno di un milione di anni. Attualmente 1998 SF36 è stato ribattezzato 25143
Itokawa, in onore di Hideo Hitokawa, fondatore dell'agenzia spaziale giapponese.
Va ricordato che questo progetto giapponese doveva realizzarsi già nel luglio 2002 con un lancio verso
4660 Nereus tramite un missile Mu-5. Tutto, però si bloccò a causa del fallimento del lancio immediatamente
precedente, con il quale il missile Mu-5 avrebbe dovuto portare in orbita Astro-EX, il primo satellite
giapponese per raggi X. Il ritardo fece perdere l'appuntamento di MUSES-C con Nereus e costrinse alla
scelta di un nuovo asteroide, appunto 1998 SF36 (Itokawa). MUSES-C (ossia Mu Engineering Spacecraft)
è la terza missione a costo contenuto (170 milioni di dollari) ma ad alto contenuto tecnologico, lanciata con
il vettore Mu. La prima fu MUSES-A che, sotto il nome di HITEN, raggiunse la Luna nel 1990. La seconda fu
MUSES-B che, sotto il nome di HALCA, venne immessa in orbita terrestre nel 1997 per studi
radioastronomici. MUSES-C è stata comunque la missione più ambiziosa: suo compito era infatti non solo
quello di studiare da vicino l'asteroide Hitokawa, ma anche di prelevarne dei campioni da riportare a Terra.
Proprio per questo i Giapponesi hanno battezzato la loro navicella HAYABUSA (qualcosa come 'avvoltoio' in
giapponese). Per espletare questo compito estremamente difficoltoso e finora mai tentato, la sonda (un
cubo di circa 1,5 m di lato pesante 530 kg) è stata dotata di apparati tecnologici estremamente sofisticati.
Primo tra tutti un complesso di quattro motori a ioni di nuova generazione, del tipo di quello che volò per la
prima volta sulla navicella americana DS-1 (Deep Space 1) permettendole di avvicinare il nucleo della
cometa Borrelly nel Settembre 2001. Sebbene dotato di una spinta limitata, la caratteristica primaria del
motore a ioni di Hayabusa è di poter funzionare per migliaia di ore senza interruzione (l’ha fatto per 26.000
ore in fase di avvicinamento!): ad alimentarlo c'è una riserva di 65 kg di gas Xeno che viene prima ionizzato
da un fascio di microonde, quindi espulso ad alta velocità attraverso quattro ugelli da un fortissimo campo
elettrico. L'energia per il campo elettrico viene fornita da due grandi pannelli solari da 12 m2, in grado di
produrre fino a 700 kw alla distanza di 1 u.a.
Gli strumenti principali di bordo sono:
1) la camera AMICA (Asteroid Multi-band Camera), un teleobiettivo da 15 mm di apertura e 120 mm di
lunghezza focale che è stato utilizzato sia per scopi scientifici (impressionanti immagini ad alta risoluzione
dell'asteroide in sette bande spettrali da 380 a 1010 nm) ) sia come guida ottica nei momenti finali di
avvicinamento. La camera è stata collaudata magnificamente il 19 maggio 2004 quando ha inviato
splendide immagini della Terra e della Luna: quel giorno Hayabusa ha sfiorato la Terra da 3725 km, in un
flyby indispensabile per ricevere la spinta finale verso l'asteroide Itokawa, cui si è accostata fino a 20 km a
partire dal 12 settembre 2005.
2) Uno spettrometro infrarosso NIRS ( Near-Infrared Spectrometer) che ha realizzato 80.000 spettri
dell’asteroide tra 0,76 e 2,1 microns a partire dal 10 Settembre ’05, per determinarne la composizione
mineralogica.
3)Uno spettrometro a fluorescenza dei raggi X (XRF) che il 19 Novembre ’05 ha misurato la % di Si (Silicio),
Al (Alluminio) e Mg (Magnesio) in sei punti differenti dell’asteroide per determinarne la composizione
chimica e mineralogica e cercarne un collegamento con le più comuni rocce meteoriche.
4) Un laser altimetro (LIDAR) che, dal 10 Settembre al 25 Novembre ’05, con qualcosa come 4 milioni di
impulsi di andata e ritorno, ha determinato l’esatta forma dell’asteroide e pilotato la sonda nei momenti
delicatissimi della discesa verso la sua superficie.
5) Una capsula di soli 519 grammi, denominata MINERVA (ossia Micro/Nano Experimental Robot Vehicle for
Asteroid), che avrebbe dovuto posarsi e 'saltare' per 36 ore sulla superficie asteroidica, misurandone la
temperatura e riprendendone immagini ravvicinatissime con una batteria di tre camere ad alta risoluzione.
Purtroppo questa parte della missione è fallita perchè la capsula, sganciata per errore troppo presto il 12
Novembre ’05, si è persa nello spazio sotto gli occhi impotenti della camera a bordo della nave madre. E’
altamente probabile che la causa vada ricercata nell’estrema difficoltà di pilotaggio remoto della navicella,
in seguito alla perdita per guasto di due giroscopi su tre ( il 31 Luglio e il 3 ottobre ’05). Una situazione,
questa, che ha influito pesantemente anche sulle delicatissime manovre di prelievo di materiale superficiale.
Dal punto di vista tecnico il problema più complesso è stato quello di escogitare un sistema affidabile per
prelevare dei campioni asteroidici: bisogna infatti ricordare che in quel ambiente dalla gravità ridottissima
(1\100.000 di quella terrestre!) qualunque tentativo di scavo o perforazione si tradurrebbe in un'immediata
espulsione dall' asteroide. Alla fine la soluzione adottata è stata semplice ma geniale. In sostanza la sonda
principale doveva scendere lentamente verso l’asteroide fino a sfiorarne per un solo secondo la superficie:
in questo momento dalla bocca di un raccoglitore ad imbuto doveva partire a 300 m/sec un proiettile di 5
grammi, che avrebbe sollevato un gran polverone e permesso all’ imbuto stesso di succhiare parte di questa
polvere e di immagazzinarla in un contenitore stagno di 40 cm di diametro e 20 kg di peso. Se il primo
prelievo non andava a buon fine era possibile un secondo tentativo.
Hayabusa è entrata nel raggio d’azione di Itokawa (senza orbitarvi attorno in senso vero e proprio) a partire
dal 12 settembre ’05, quando si è portata a soli 20 km di distanza. Poi, a partire dal 30 Settembre fino alla
fine di Ottobre, ha preso a volteggiare in varie posizioni a 7 km di distanza per studiare in ogni dettaglio la
morfologia e la composizione superficiale dell’ asteroide e cercare, nel contempo, il punto migliore dove
scendere a prelevare dei campioni.
Le prime immagini, riprese a grande distanza, hanno rivelato che Itokawa è un piccolo oggetto DOPPIO e
allungato, con dimensioni di 535x294x209 km, ed una rotazione retrograda di 12,13 h attorno ad un asse
coincidente con la dimensione minore e perpendicolare al piano orbitale. E fin qui nessuna sorpresa perché
la duplicità (o molteplicità) è piuttosto comune tra i NEO. Quello che invece ha lasciato letteralmente
esterrefatti gli scienziati sono state le immagini ad alta risoluzione dell’ intera morfologia superficiale,
completatasi alla fine di Settembre ’05: l’oggetto NON mostrava infatti nessuna traccia evidente di crateri
da impatto! Una cosa assolutamente imprevedibile e mai prima riscontrata su altri corpi del Sistema Solare.
Si confermava, per contro, la natura binaria dell’ oggetto, costituito da un componente minore (testa) di
230x200x180 km e da un componente maggiore (corpo) di 490x310x260 km quasi uniformemente ricoperti
da grossi massi: la giunzione tra di essi era costituita da una strozzatura larga un centinaio di metri e
profonda almeno 20 metri dove, incredibilmente, la superficie era praticamente piatta, costituita da materiale
con granulometria millimetrica/centimetrica (ma non da polvere che la debolissima gravità non riesce a
trattenere) e completamente priva di massi. La propaggine equatoriale di questo collare pianeggiante,
denominata Muses Sea e grande come un campo di calcio, è stata scelta come sito più sicuro per atterrarvi
e prelevarvi dei campioni. In totale, su una superficie globale di 0,393 km2, la porzione ricoperta da massi è
l’80%, contro un 20% di superficie liscia. E’ interessante far notare che le misure LIDAR della distribuzione
su Itokawa dell’intensità del campo gravitazionale, hanno indicato che laddove la superficie era più liscia
(ossia composta da materiale di grana centimetrica), lì era anche più bassa la gravità: non è chiaro perché
questo succeda e si spera di trovare una spiegazione con opportune simulazioni teoriche. Altrettanto
interessante il fatto che le regioni più lisce siano anche quelle tendenzialmente più scure, mentre l’ albedo
medio del 30% risulta spesso incrementato, laddove è più alta la rugosità media della superficie.
I massi visibili con dimensioni > 5 metri sono almeno 500. Altrettanti o molti di più potrebbero però celarsi
sotto la superficie, obliterati da una gran quantità di materiale a grana più fine: si spiegherebbe così, perché,
specie sulla ‘testa’ di Itokawa, dove è massima la convessità, la rotondità globale appaia spesso interrotta da
piccole regioni dove la superficie diviene improvvisamente piatta (denominate ‘facets’, sfaccettature). Il
masso maggiore, denominato Yoshinodai, è grande come un palazzo di 15 piani, con le sue dimensioni di
50x30x20 metri. Ce n’ è anche uno di 10 metri letteralmente nero come il carbone ( e per questo
denominato Black Bulder): si trova sull’equatore al centro del componente minore e, per questa sua
peculiarità, è stato scelto come riferimento per il meridiano 0. Spiegare la presenza così numerosa di
massi di queste dimensioni è davvero difficile. E’ noto infatti che, su un corpo COMPATTO di grosse
dimensioni (vedi per esempio il caso di EROS, il maggiore dei NEO conosciuti mappato integralmente dalla
sonda NEAR nel 2000-2001) i massi sono la conseguenza della formazione di crateri da impatto. Ma, come
dicevamo, Itokawa non presenta evidenti crateri da impatto (salvo una ventina di concavità sospette quasi
completamente obliterate sotto uno strato di materiale molto fine). E poi, in realtà, le dimensioni dei massi
sono tali che, per produrli, ci vorrebbero crateri da impatto così grandi da distruggere totalmente
l’asteroide! Da qui l’idea che i massi si debbano essere formati prima o contemporaneamente alla nascita
dell’asteroide stesso, quando un impatto di grandi proporzioni disgregò un corpo progenitore molto più
antico. Questo impatto primordiale avrebbe prodotto una miriade di frammenti dai quali, poi, Itokawa si
potrebbe essere formato in vari modi completamente differenti. L’ attuale rotazione di circa 12 ore rende
assai improbabile che un singolo frammento compatto si sia fissionato (cioè diviso in due) perché questo
richiederebbe un’altissima velocità di rotazione. Altrettanto improbabile (a causa della bassissima gravità
locale) la frammentazione in due parti per impatto esterno, seguita da riaggregazione. Più verosimile che
Itokawa si sia formato per aggregazione di due frammenti separati (‘testa’ e ‘corpo’) provenienti da un
violento impatto su un corpo primordiale, con ricaduta su di essi di frammenti grandi (i massi presenti un po’
dovunque) e piccoli (i ciottoli millimetrici o centimetrici che caratterizzano le regioni piatte). ‘Testa’ e ‘corpo’
potrebbero, però, a loro volta avere una struttura COMPATTA (ossia essersi staccati come tale dal
progenitore) oppure essere degli AGGREGATI di frammenti minori (‘rubble pile’, mucchio di sassi). Questa
seconda possibilità, mai riscontrata in precedenza su altri NEO, veniva ritenuta inizialmente assai
improbabile. Invece le indagini di Hayabusa sono state inequivocabili al riguardo: Itokawa è il primo NEO
‘rubble pile’ che sia stato scoperto, facendo pensare che questa sia anche la natura fondamentale delle
migliaia di altri NEO di piccole dimensioni. Una scoperta di importanza decisiva, nell’ottica di mettere a
punto adeguate strategie di difesa contro un oggetto di questo tipo che si diriga malauguratamente verso la
Terra.
Alla definizione della struttura interna di Itokawa si è arrivati in base a considerazioni di tipo spettroscopico,
chimico e fisico. La parte spettroscopica è toccata allo spettrometro NIRS che, tra Settembre e Novembre
’05, ha raccolto qualcosa come 80.000 spettri relativi a tutti i differenti terreni superficiali (piatti e rugosi,
chiari e scuri): essi hanno mostrato una omogeneità straordinaria, con differenze compositive inferiori al
10-20%. E’ risultata assai chiara la presenza di tre assorbimenti infrarossi: a 1,9 micron (pirosseno), a 1,25
micron (olivina), a 0,95-1,05 micron ( Olivina+Pirosseno). Si tratta di uno spettro molto simile a quello delle
ordinarie condriti ( i meteoriti più comuni), ovvero della più generale classe degli asteroidi di tipo S, che
caratterizzano la fascia asteroidica più interna (da cui, evidentemente, Itokawa deve essere stato espulso).
Una chiara conferma è venuta dallo strumento XFR (fluorimetro per raggi X, in grado di determinare qualità
e quantità di certi elementi chimici in base all’energia con cui essi riemettono i raggi X di provenienza
solare) entrato in azione il 19 Novembre ’05 mentre la sonda tentava la prima discesa sulla superficie.
Sono stati individuati con chiarezza Mg (Magnesio), Al (Alluminio) e Si (Silicio), con il Mg nettamente
dominante sull’ Al in tutti i sei punti superficiali esaminati. In particolare l’abbondanza di Mg (15,2%) e Si
(19,5%) indica la stessa elevata quantità di olivina delle condriti di tipo LL. E’ importante sottolineare che
terreni più scuri e più chiari sono apparsi identici dal punto di vista compositivo (sia al NIRS che all’ XFR).
Per spiegare questo fatto, che venne già riscontrato dalla NEAR su Eros, si deve ricorrere al cosiddetto
space weathering (azione modificatrice della radiazione cosmica) che incupisce il materiale più superficiale
facendone emergere la componente metallica. Chiaro allora che, laddove il terreno è più scosceso (bordi
craterici, colline) il materiale più scuro tende a scivolare a valle, lasciando intravedere la superficie più
chiara sottostante. Esattamente quanto si riscontra anche su Itokawa, per esempio
nelle regioni
corrugate di Shirakami e Yatsugatake sul lato orientale di Muses Sea, oppure sul collare di presunti crateri
come Komataba sul bordo occidentale di Muses Sea.
Una volta definita, per
Itokawa, una composizione condritica, diventava fondamentale misurarne
sperimentalmente la densità, ossia il rapporto massa/volume: un valore di 3-3,5 tipico delle condriti
ordinarie, avrebbe indicato una struttura monolitica, un valore molto inferiore una struttura a ‘mucchio di
sassi’. Mentre il volume è stato ricavato facilmente dalle immagini ottiche (1,84x 107 m3), ad un valore
preciso della massa (3,51x1010 kg) si è arrivati il 12 Novembre ’05 quando Hayabusa, ha orbitato per due
volte attorno ad Itokawa da 1400-800metri e 800-100 metri. Ne è risultata una densità media di 1,9±0,13
g/cm3 tipica di un oggetto con almeno il 40% di porosità, quindi di un agglomerato di frammenti minori di
ogni forma e dimensione. Risulta a questo punto ovvia la forma tendenzialmente arrotondata (per un
monolite, come per esempio Gaspra, Ida e lo stesso Eros, la forma tende ad essere spigolosa ed angolata)
e l’assenza di fessurazioni globali ( tipo quelle di Eros e di Phobos) che solo una struttura compatta può
produrre in caso di impatti al limite della disgregazione. E, se vogliamo, diviene comprensibile anche l’
apparente assenza di crateri da impatto che, evidentemente, hanno grande difficoltà a formarsi su terreni
intrinsecamente incoerenti (si pensi ad un impatto su un mucchio di ghiaia o di sabbia).
Le ‘grandi manovre’ per il prelievo di materiale sono iniziate nella prima settimana di Novembre’06 con la
discesa della navicella a soli 100 metri dalla superficie. Da questa posizione di ‘parcheggio’ sono stati tentati
due atterraggi (TD1 e TD2, dove TD sta per TouchDown), il 19 e il 25 Novembre’05. Il primo tentativo di
atterraggio è stato anche preceduto dal rilascio (in un punto a 6°S e 39°E) di una piccola sfera metallica
altamente riflettente (‘marker’) che doveva servire come guida al LIDAR durante la discesa finale. La
sferetta, che ha impiegato ben 6 minuti per colmare la distanza di 54 metri che la separavano
dall’asteroide, non era qualcosa di puramente inerte: all’interno c’era infatti un disco con incisi 880.000 nomi
astrofili e gente comune che la Planetari Society giapponese aveva raccolto nel 2002 da ben 149 nazioni…
E’ interessante ricordare che, secondo i piani, Hayabusa doveva scendere in ‘caduta libera’ verso la
superficie, ossia a motore spento (per evitare che il terreno venisse inquinato dai gas di scarico del motore);
poi, non appena fosse avvenuto il prelievo, il motore avrebbe dovuto riportarla in posizione di parcheggio. Il
tutto sotto il controllo strettissimo del LIDAR. Ma, in occasione del primo atterraggio del 19 Novembre’05
(TD1) qualcosa (per ragioni mai chiarite) non ha funzionato a dovere. In sostanza il computer di Hayabusa
non ha ‘capito’ che la sonda stava atterrando: di conseguenza NON ha comandato né lo sparo del proiettile
né la riaccensione del motore per la rapida risalita. Come risultato la sonda è rimasta a ‘saltare’ sulla
superficie per qualcosa come 35 minuti (al posto che per un solo secondo!). Da un certo punto di vista
questo potrebbe essere stato anche un bene: si pensa infatti che l’imbuto preleva campioni, conficcandosi
nel terreno, potrebbe aver comunque raccolto del materiale utile (da qui la decisione di ordinare la chiusura
stagna della corrispondente prima capsula porta-campioni). Rimane il fatto che si è trattato di una situazione
non prevista ed altamente rischiosa (‘ballare’ su una rovente superficie sassosa, dove la temperatura
poteva superare i 100°C non è certamente il massimo per una delicatissima macchina spaziale..). Forse da
qui deriva un altro problema tecnico molto grave che, nelle settimane seguenti ha addirittura rischiato di
compromettere il ritorno a Terra della navicella: l’ uscita incontrollata di idrazina da uno o più dei dodici
ugelli chimici che ha fatto perdere per alcune settimane qualunque contatto con la Terra.
Un secondo tentativo di atterraggio-prelievo è stato effettuato il 25 Novembre ’06 e, questa volta tutte le
operazioni si sono svolte correttamente. Purtroppo, però rimangono seri dubbi sull’emissione o meno del
proiettile solleva-polvere ( sembra che il LIDAR non ne abbia sentito il ‘rinculo’) per cui solo quando la
sonda tornerà a Terra si potrà verificare la presenza o meno a bordo sia di questo che del primo
campione. Ritorno che ci sarà ma che sarà molto più complicato del previsto. Subito dopo il secondo
tentativo di prelievo di campioni, una improvvisa perdita di idrazina da uno dei motori secondari ha reso la
sonda quasi ingovernabile, facendole perdere completamente sia la sua traiettoria sia i contatti con la Terra
a partire dall’ 8 Dicembre ’05. Una situazione quasi disperata cui i tecnici giapponesi sono riusciti
miracolosamente a porre rimedio il 26 Gennaio 06, quando la navicella , pur completamente fuori assetto, ha
intercettato abbastanza casualmente, gli affannosi segnali che di continuo le venivano inviati da Terra.
Questo è stato sufficiente per verificare che mentre l’idrazina di bordo (necessaria per alimentare i motori
direzionali) era completamente andata perduta, praticamente intatta ( più di 42 kg) era la riserva di Xeno
adibita al funzionamento dei motori a ioni. Detto fatto si è deciso di utilizzare proprio una parte di questo
Xeno per alimentare ugelli di emergenza con cui, alla fine di Marzo ’06, è stato possibile riportare
Hayabusa in perfetto allineamento sia con la Terra che con il Sole. Quando, a metà Maggio, è arrivata la
conferma che anche il motore a ioni era in perfetta efficienza, è stato possibile studiare una traiettoria
alternativa di ritorno verso la Terra. Il tutto avverrà nel Giugno 2010 (ossia con tre anni di ritardo rispetto a
quanto programmato inizialmente), quando la capsula stagna porta-campioni scenderà in maniera morbida
(leggi: frenata da scudo antitermico + paracadute) presso la base australiana di Woomera: anche pochi
milligrammi di materiale asteroidico saranno un premio grandioso per gli scienziati giapponesi e del mondo
intero.
2.6) NUOVI MESSAGGI DA MERCURIO.
Splendido successo della sonda MESSENGER, che lo scorso 14 Gennaio ’08 è riuscita a scrutare da vicino l’emisfero
di Mercurio che il Mariner 10 non potè esplorare 33 anni fa. Ecco un bilancio dei primi risultati raggiunti.
Per Robert Strom, professore emerito dell’ Università dell’ Arizona, presso il Lunar and Planetary Laboratory
di Tucson, il 14 Gennaio 2008 è stato forse il giorno più esaltante della sua lunga carriera scientifica. In
realtà quel giorno era atteso con ansia da un centinaio tra scienziati ed ingegneri che, guidati da Sean
Salomon (Dipartimento di magnetismo terrestre della Carnegie Institution di Washington), erano riusciti nella
difficile impresa di portare la sonda MESSENGER nei pressi di Mercurio, a 33 anni di distanza dallo storico
primo sorvolo del Mariner 10. Ma per Robert Strom la missione MESSENGER ha un significato tutto
particolare. La sua carriera di scienziato iniziò infatti nel 1974, quando scelse, per la sua tesi di dottorato, di
studiare le immagini che il Mariner 10 aveva inviato a Terra durante i suoi tre sorvoli ravvicinati con
Mercurio (29 Marzo e 21 Settembre ’74, 16 Marzo ‘75 ). Purtroppo il tempo è implacabile con tutti….. Così
R. Strom si è trovato ad essere l’unico esponente del vecchio team del Mariner 10 direttamente coinvolto
anche nella missione MESSENGER.
Come dice il nome, MESSENGER ( MErcury Surface, Space ENviromment, GEochemistry and Ranging) è
la prima sonda con cui la NASA ha finalmente deciso di proseguire il lavoro pionieristico del Mariner 10,
indagando in maniera mirata ed approfondita sui misteri del primo e più torrido dei pianeti terrestri. Si tratta
della 7° missione del cosiddetto programma Discovery, istituito nel 1992 con lo scopo di allestire, in tempi di
realizzazione sufficientemente veloci, missioni planetarie di costi piuttosto contenuti (inferiori a 500 milioni di
dollari). La prima missione Discovery fu NEAR (Near Earth Asteroid Rendezvous) che lanciata nel
Febbraio ’96, raggiunse nel Febbraio del 2000 l’asteroide Eros e gli orbitò attorno per un anno intero.
Seguirono poi Mars Pathfinder, Lunar Prospector, Stardust, Genesis, Contour, Deep Impact, Dawn
L’ultima missione Discovery sarà KEPLER, che verrà lanciata nel Febbraio 2009 con lo scopo di monitorare
il transito di pianeti sul disco di 100.000 stelle di tipo solare.
Ma torniamo a MESSENGER. Essendo l’ obiettivo primario della missione quello di compiere il primo studio
intensivo del pianeta Mercurio, era assolutamente necessario che la navicella ne entrasse per la prima volta
stabilmente in orbita. Questo avverrà effettivamente a partire dal 18 Marzo 2011, ossia quasi 7 anni dopo il
lancio del 3 Agosto 2004. Per capire come mai si richieda un tempo così lungo per raggiungere un pianeta
piuttosto vicino come Mercurio, bisogna considerare che, per rispettare il budget limitato a disposizione, è
stato necessario risparmiare propellente e ricorrere ad una traiettoria di estrema complessità, che ha
coinvolto l’ assistenza gravitazionale (‘gravity assist’) di ben tre pianeti. Il lancio del 3 Agosto 2004 ha
posto MESSENGER su un’orbita solare con periodo di un anno. Così, esattamente dopo un anno, la
navicella ha potuto riavvicinarsi alla Terra ( 2 Agosto 2005 da 2347 km): lo scopo era quello di ‘abbassare’ la
sua orbita iniziale, predisponendola ad un doppio passaggio ravvicinato con Venere (il 24 Ottobre 2006 da
2987 km e il 5 Giugno 2007 da soli 313 km). I due flyby con Venere hanno ‘ristretto’ ulteriormente l’orbita di
MESSENGER permettendogli di sfiorare tre volte Mercurio da 200 km (il 14 Gennaio e il 6 Ottobre 2008, il
29 Settembre 2009): questo per ridurre progressivamente la velocità della navicella (rispetto a Mercurio) e
darle modo di entrare in orbita attorno al pianeta il 18 Marzo 2011, dove rimarrà per almeno un anno.
L’orbita finale sarà quasi polare (inclinazione di 80° sull’equatore di Mercurio) e fortemente ellittica
(200x15193 km), con un periodo di percorrenza di 12 ore.
Mercurio deve dunque essere sfiorato per tre volte da MESSENGER, prima della definitiva entrata in orbita.
Ciò non toglie che il primo di questi avvicinamenti, avvenuto il 14 Gennaio scorso, ha avuto un’importanza
del tutto particolare, per la semplice ragione che si è voluto cartografare una parte dell’ emisfero di Mercurio
che il Mariner 10 non era riuscito a scrutare nel 1974 e che, quindi era rimasto sconosciuto. Nel contempo
si è voluto testare per la prima volta, su un obiettivo scientifico di primaria importanza, tutti gli strumenti
analitici di bordo.
Alla partenza MESSENGER pesava 1107 kg. Oltre metà di questo peso (599 kg) era costituito da
propellente (ìdrazina + tetrossido di Azoto). Un altro terzo del peso è stato assegnato all’ indispensabile
schermo antitermico di 2x2,5 metri, costituito dallo stesso materiale delle piastrelle dello Shuttle e in grado di
resistere fino a 400°C. Fondamentali anche i due pannelli solari di 1,5x1,65 metri, capaci di fornire 650 Watt
di energia in orbita mercuriana. In totale, tra schermo antitermico, pannelli solari e telaio della sonda si
arriva a 458 kg. I rimanenti 50 kg sono stati assegnati agli strumenti di bordo, che sono 7 ed hanno
richiesto una cospicua miniaturizzazione. Vediamo di farne una descrizione sommaria.
La parte fotografica è costituita da MDIS (Mercury Dual Mode Imaging System), un complesso di due
camere multispettrali (11 filtri tra 0,4 e 1 micron) a grande (10°x10°) e piccolo (1,5°x1,5°) campo. Allo studio
della composizione superficiale di Mercurio sono adibiti due strumenti: uno è GRNS (Gamma Rays and
Neutral Spectrometer) che misura l’energia dei raggi gamma (GRS) e dei neutroni (NS) che gli elementi
costitutivi della crosta di Mercurio emettono sotto la pioggia dei raggi cosmici; l’altro è XRS ( X-Rays
Spectrometer) che misura l’energia dei raggi X che ogni elemento chimico emette specificatamente per
fluorescenza quando colpito da raggi X di provenienza solare. Allo studio della composizione atmosferica di
Mercurio è dedicato MASCS (Mercury Atmospheric and Surface Composition Spectrometer) costituito da
due spettrometri, uno nell’ Ultravioletto-Visibile (UVVIS) e l’altro nel Visibile-Infrarosso (VIRS). Ad altri due
strumenti è affidato lo studio del campo magnetico di Mercurio: uno è MAG, ossia un magnetometro
classico, montato su un’asta lunga 3,6 metri e dotato di un suo proprio schermo solare; l’altro è EPPS
(Energetic Particle and Plasma Spectrometer), adibito alla misura delle particelle intrappolate nel campo
magnetico di Mercurio. Infine c’è MLA (Mercury Laser Altimeter) in grado di valutare la forma e la gravità di
Mercurio (quindi la sua struttura interna), misurando la distanza di MESSENGER con una precisione che,
nel raggio di 1000 km, arriva a 30 cm.
Nei tre passaggi ravvicinati del 1974-75 Il Mariner 10 aveva sfiorato Mercurio ad una distanza variabile da
350 km (terzo passaggio del 16 Marzo ’75), a 5790 km (primo passaggio del 29 Marzo ’74), a 50.000 Km
(secondo passaggio del 21 Settembre ’74). In totale venne fotografato circa il 45% della superficie del
pianeta tra 10° e 190° di Long. Ovest. Ne venne fuori una morfologia su grande scala molto simile alla
faccia invisibile della Luna, caratterizzata da crateri di ogni età e dall’ assenza di grandi bacini da impatto
resi scuri da lava basaltica trasudata dal mantello profondo (‘mari’). Sul terminatore Est, a 190° di
longitudine, grazie al forte contrasto del Sole radente, venne parzialmente individuata la formazione più
rilevante del pianeta, denominata Caloris. Fu prodotta da un asteroide che, 3,8 miliardi di anni fa, colpì il
pianeta provocando una ferita così colossale (1.300 Km di diametro, con anelli concentrici periferici alti 2 km)
che l'onda d'urto si propagò fino agli antipodi generando (sul quadrante sud-est) una zona di intensa
perturbazione sismica. Le immagini della superficie mercuriana opposta a Caloris riprese dal Mariner 10,
sono talmente peculiari (fitte ondulazioni collinari intercalate da fessure) da risultare uniche in tutto il Sistema
Solare. Un evento di questo tipo avrebbe prodotto, sulla Luna, un grande ‘mare’ circolare scuro. Ma nel
caso di Mercurio, la vera natura di Caloris rimase ignota alle camere del Mariner 10, in quanto la grande
cicatrice era in gran parte immersa nella parte notturna. Per quanto riguarda il resto della superficie
esaminata, il Mariner 10 fece almeno altre tre osservazioni principali. La prima è la presenza di numerose
pianure intercrateriche piatte, forse prodotte dalla fuoruscita di grandi volumi di lava classica. La seconda è
l’ esistenza di una moltitudine di fessure e scarpate lunghe anche migliaia di km: qualora la loro
distribuzione fosse globale, potrebbero rappresentare la contrazione della crosta superficiale in seguito al
raffreddamento del nucleo interno del pianeta. La terza osservazione del Mariner 10 riguarda i due poli di
Mercurio: qui sono infatti stati trovati alcuni crateri perennemente in ombra, quindi caratterizzati da
temperature così gelide da essere compatibili con la presenza di ghiaccio (primordiale o depositato da
impatti cometari). Ma, forse, la scoperta più inaspettata del Mariner 10 è stata quella della presenza di un
campo magnetico intrinseco attorno a Mercurio, inclinato di circa 10° rispetto all’asse di rotazione: ci si
chiese ( e ci si chiede tuttora) come possa un pianeta così piccolo (diametro=4880 km e massa=1/20
rispetto alla Terra) aver mantenuto un interno sufficientemente caldo da supportare le correnti elettriche
convettive che sono alla base dei campi magnetici di tipo terrestre.
Nei 33 anni intercorsi tra Mariner 10 e MESSENGER la ricerca su Mercurio non si è fermata
completamente: è infatti proseguita da Terra grazie all’introduzione di strumenti e tecniche innovative, sia
in campo spettroscopico sia nel campo dell’ acquisizione di immagini ad alta risoluzione (riflessione radar e
neutralizzazione dell ‘effetto negativo del seeing).
Per esempio nella seconda metà degli anni 80 A. Potter e J. Morgan (Università del Texas) con uno
spettrometro applicato al riflettore di 2,7 m dell’ Osservatorio McDonald, scoprirono che Mercurio era
circondato da una debole atmosfera di vapori di Sodio (+ Potassio, Calcio e Idrogeno) e che questo tendeva
stranamente a concentrarsi nelle regioni polari. Contemporaneamente (Gennaio ‘88) Ann L. Strague
(Università dell’ Arizona), utilizzando il riflettore da 1,5 m dell’ Osservatorio di Catalina, riuscì a capire che
la fonte principale del Sodio mercuriano era il Bacino Caloris ed il terreno peculiare ai suoi antipodi. Il
perchè di questo comportamento venne chiarito alcuni mesi dopo (Luglio ’88), quando J.O. Burns
(Università del New Mexico) raccogliendo con le antenne del VLA (Very Large Array) la radiazione a 30 cm
emessa da Mercurio, potè stabilire che (per complesse ragioni stagionali) su Caloris ed ai suoi antipodi la
temperatura era di almeno 100°C superiore a quella media del resto del pianeta, favorendo in questo modo
la sublimazione del Sodio di cui sono ricche le rocce superficiali. Una volta che il Sodio è andato in fase
vapore, esso viene ionizzato dalla radiazione solare e pilotato, dalle linee di forza del campo magnetico,
verso le regioni polari, dove tende ri-depositarsi e ad accumularsi. Dunque, il calore ed la radiazione solare
trasformano la superficie di Mercurio in una fonte continua di atomi di Sodio. Ma la stessa radiazione solare
provvede anche a disperdere nello spazio questa debolissima atmosfera. La dimostrazione sta in alcune
interessanti immagini riprese nella riga del Sodio a 0,589 micron dallo strumento MASCS a bordo della
sonda Messenger, lo scorso 14 Gennaio ’08: esse mostrano infatti una persistente ‘coda’ di vapori di Sodio
emergente dall’ emisfero di Mercurio opposto al Sole (quello in ombra)
A partire dall’inizio degli anni 90, per Mercurio è iniziata una nuova era, quella della mappatura superficiale
con la tecnica della riflessione radar. I primi tentativi (Luglio-Agosto ’91, Febbraio ’94) vennero effettuati da
M. Slade (J.P.L.) in maniera ‘bistatica’: lancio verso Mercurio di microonde a 3,5 cm con l’ antenna di 70 m
di Goldstone, e raccolta del segnale riflesso col complesso di 27 antenne del VLA. Vennero evidenziate
alcune zone di alta riflettività radar, e fu sorprendente constatare che tra queste c’erano anche entrambe le
regioni polari. L’idea che il fenomeno fosse legato all’ accumulo sui poli di atomi di Sodio si rivelò ben
presto errata: infatti il senso di rotazione del campo elettrico associato al raggio riflesso mutava rispetto a
quello incidente (tecnicamente si parla di variazione di polarizzazione) in un modo assolutamente tipico
delle superfici ghiacciate. Una conferma della presenza di ghiaccio sui poli del torrido Mercurio è stata
ottenuta nel 1994 da John Harmon, sparando col radiotelescopio di Arecibo microonde a 12,6 cm verso i
poli del pianeta: fu chiaro, in quell’ occasione, che la massima intensità del segnale riflesso coincideva quasi
esattamente con la posizione dei crateri perennemente in ombra scoperti dal Mariner 10. Dal 2000 al 2005
lo stesso J. Harmon ha utilizzato ancora la grande antenna di Arecibo per tentare una prima mappatura a
buona risoluzione (2km) dell’emisfero di Mercurio non esplorato dal Mariner 10. In particolare Harmon voleva
definire la vera natura delle 3 principali ‘macchie radar’ (denominate A, B e C) che Slade aveva
individuato a medie latitudini nei primi anni 90. Il risultato (pubblicato a metà del 2007) è stato chiaro: A
(348° Ovest e 34°S), B (343° Ovest e 58°N) e C( 246°Ovest e 11°N) sono tre giovanissimi crateri da impatto
estremamente raggiati, rispettivamente di 85, 95 e 125 km. A Sud di C (242°Ovest e 26,5° S) venne
individuato un cratere ‘fantasma’ a raggiere molto degradate, la cui interpretazione come struttura vulcanica
è completamente tramontata dopo le immagini inviate da Messenger lo scorso 14 Gennaio. Interessante il
fatto che Caloris, il massimo bacino da impatto di Mercurio, risultò quasi invisibile al radar (interno
estremamente piatto?) e che una struttura analoga, centrata a 280° Ovest, fosse invece ben percettibile
appena sopra l’ equatore (interno più vecchio e rugoso?).
L’emisfero di Mercurio non esplorato dal Mariner 10 è stato di recente scrutato da Terra anche con telescopi
ottici, utilizzando la ben nota tecnica dell’accumulo di immagini webcam o CCD, scelte tra quelle ottenute
in condizioni di seeing ottimali. Il primo lavoro in proposito, realizzato alla fine di Agosto ’99 col riflettore da
1,5 m di Monte Wilson, è frutto della collaborazione tra un astrofilo (Ron Dantowitz, del Museo di Borston)
ed un team di geologi guidati da M. Mendillo (Università di Boston). Dall’accumulo di circa 1000 immagini
digitali di alta qualità ne nacque la prima mappa mercuriana tra 270° e 330° Ovest (più o meno la metà
dell’emisfero non esplorato dal Mariner 10): in essa la modesta risoluzione di circa 250 km mostrò una
superficie uniformemente costituita da macchie chiare (crateri giovani?) e scure (pianure laviche?), dove
però era praticamente impossibile trovare una correlazione con le due ‘macchie radar’ A e B ivi individuate
nei primi anni 90. La restante porzione dell’emisfero ignoto di Mercurio (fascia compresa tra 180° e 300°
Ovest) è stata oggetto di una recentissima (Marzo-Aprile 2007) campagna osservativa, condotta da
Gerard Cecil (Università della Carolina del Nord) con uno strumento di qualità straordinarie: il telescopio
SOAR (Southern Astrophysical Research Telescope) da 4,1 m che dal 2004 è operativo in Cile, sul Cerro
Pachon (lo stesso sito del Gemini Sud da 8 metri). Dunque Cecil, con un filtro a 0,82 micron, ha
accumulato circa 60.000 immagini di Mercurio estratte da filmati webcam, ottenendo le prime immagini da
Terra dove è ben visibile sia il bacino Caloris sia una seconda possibile grande cicatrice da impatto centrata
a 280° Ovest e 10°N (venne denominata Skinakas dal nome del telescopio greco che permise al russo L.
Ksanfomality di individuarla per la prima volta nel Maggio 2002 ed è verosimilmente la stessa visibile anche
nelle immagini radar di Arecibo). La porzione della superficie mercuriana ripresa da Cecil è molto
interessate perché buona parte di essa è stata ripresa anche dalla sonda MESSENGER lo scorso 14
Gennaio: purtroppo Skinakas era in ombra quel giorno e quindi non ha potuto essere né confermato né
escluso.
In realtà, è bene ricordare che MESSENGER ha ripreso 1312 immagini della superficie mercuriana
compresa tra 96° e 276° Ovest. Siccome le 3500 immagini del Mariner 10 coprirono Mercurio da 10° a 190°
Ovest è evidente che MESSENGER si è in parte sovrapposto (in fase di avvicinamento) al Mariner 10, e
che la porzione di Mercurio esplorata per la prima volta (in fase di allontanamento) è di circa 100° di long.
(da 190° a 276° a cavallo di Caloris), ovvero un po’ meno del 30% della superficie globale. Rimane quindi
un altro 25-30% di superficie (275°-360° di Long) ancora tutta da studiare, che sarà naturalmente esplorata
da MESSENGER nei prossimi passaggi: per adesso, di questa parte ancora sconosciuta, gli unici riscontri
sono le immagini ottiche a bassa risoluzione riprese da M.Mendillo a Mt. Wilson a metà del 1999 ed alcune
immagini radar ad alta risoluzione riprese da J. Harmon ad Arecibo a metà del 2001.
La grande curiosità di esplorare l’intera morfologia del bacino Caloris si è realizzata il 14 Gennaio ’08 circa
80 minuti dopo il massimo avvicinamento di MESSENGER, quando Mercurio è stato ripreso nel rosso (0,75
micron) da circa 27.000 km. Subito è balzata all’occhio una evidente anomalia: l’interno di Caloris (diametro
effettivo di 1550 km contro i 1300 stimati dal Mariner 10) appare chiaro, liscio e poco incavato, in netto
contrasto con la colorazione scura dei grandi bacini lunari (tipo, per intenderci, il mare Orientale).
Evidentemente, dopo il grande impatto che lo produsse 3,8 miliardi di anni fa (e che, forse a somiglianza
della Luna, sollevò basalto scuro dal mantello profondo), Caloris venne modificato nel miliardo di anni
successivo, dall’ intensa attività geologica/vulcanica di Mercurio. Forse fu proprio l’interno di Caloris una
delle fonti primarie di questa attività vulcanica: un indizio potrebbe essere la scoperta di una stranissima
struttura (The Spider, il ragno) al centro di Caloris, costituita da una raggiera di decine di profonde fessure
che sembrano emergere da una fonte centrale comune (la presenza in questo punto di un cratere da impatto
potrebbe anche essere del tutto causale). Dal punto di vista morfologico, The Spider assomiglia molto alle
cosiddette ‘Novae’, scoperte su Venere dal radar della sonda Magellano e ritenute lo stadio di partenza di
certe particolari formazioni vulcaniche venusiane denominate ‘Coronae’. In generale, la ricerca (o la
conferma) di antiche strutture vulcaniche, era uno dei (difficili) compiti affidati a MESSENGER. Per esempio
sembra di natura vulcanica una profonda fessura a ferro di cavallo che MESSENGER ha scoperto sul
fondo di un cratere anonimo di 52 km, quando si trovava ormai in fase allontanamento. Sembra invece un
giovane cratere da impatto la struttura ‘fantasma’ individuata dal radar a 245°Ovest e 35°S e scambiata da
certuni per una possibile caldera vulcanica. Ecco, il discorso dei crateri mercuriani è importante e
complesso. Intanto moltissimi di quelli più degradati (ossia più antichi) sono a fondo piatto, ad indicazione
di un probabile azione livellante dell’antica attività vulcanica di Mercurio. Sono però molto numerosi
(rispetto alla Luna) anche i crateri chiari fortemente raggiati, quindi assai giovani ( la vicinanza del Sole
potrebbe avere la sua importanza nell’attrarre meteoriti verso Mercurio) ed i crateri circondati radicalmente
da crateri secondari. In questo secondo caso è evidente l’effetto della elevata gravità superficiale di
Mercurio che, a causa della sua alta densità (5,43), è circa 1/3 di quella terrestre (quindi doppia di quella
lunare). Assai curiosa è anche la frequenza con cui certi crateri con diametro> 200 km (anche Caloris è uno
di questi) tendono ad assumere una forma a doppio cerchio (splendide alcune immagini riprese da
MESSENGER sul terminatore in avvicinamento): qui, è probabile che all’elevata gravità superficiale si
sovrapponga anche la composizione chimica della crosta di Mercurio che, secondo i risultati preliminari
dello strumento MASCS, potrebbe essersi impoverita (rispetto agli altri pianeti terrestri) degli elementi più
leggeri. Ma obiettivamente, parlare di misure compositive è al momento assolutamente prematuro. Anche
perché lo strumento ideale a questo riguardo è l’ XRS ( X-Rays Spectrometer) che potrà raggiungere la
massima sensibilità solo nei prossimi anni, quando tornerà ad aumentare l’attività solare (ricordiamo che
sono proprio i raggi X solari a far emettere, per fluorescenza, dal terreno i raggi X specifici di ogni elemento
chimico che l’ XRS può registrare).
Di interesse del tutto particolare (per la possibile presenza di depositi ghiacciati) sono state le immagini
MESSENGER di crateri situati nei pressi di terreni polari mai fotografati dal Mariner 10 ( il Nord in
avvicinamento da 32.000 km ed il Sud in allontanamento da 33.000 km). E’ chiaro che le pure immagini
ottiche possono selezionare dei crateri perennemente in ombra, ma non dicono nulla sulla eventuale
presenza, al loro interno, di depositi di ghiaccio. Per questo MESSENGER, una volta entrata in orbita,
dovrà ricorrere soprattutto allo strumento GRNS (Gamma Rays and Neutral Spectrometer) che, come già
accennato, misura l’energia dei neutroni che gli elementi costitutivi della crosta di Mercurio emettono sotto
l’influsso dei raggi cosmici: siccome l’ idrogeno del ghiaccio rallenta questi neutroni, ecco che un eccesso di
neutroni lenti provenienti dall’ interno di un cratere in ombra sarebbe un grosso indizio della presenza di
ghiaccio.
Ma, forse, le strutture più peculiari della superficie di Mercurio, che le immagini di MESSENGER hanno
definitivamente confermato come diffuse globalmente, sono le scarpate (‘scarps’, nel senso di dislocazioni
lineari della crosta) lunghe a volte centinaia di km e sistematicamente sovrapposte (in quanto posteriori) a
tutti i principali dettagli morfologici. Siccome solo Mercurio, tra tutti i pianeti terrestri, possiede questo
intreccio di scarpate, la loro formazione viene collegata all’eccezionale densità di Mercurio (5,43 contro
3,34 della Luna). In sostanza, avendo Mercurio un diametro di 4880 km, la sua densità si può spiegare solo
con una composizione ferrosa del 60% , ovvero con un nucleo ferroso enorme, il cui raggio rappresenta il
75% del totale. Il perché il piccolo Mercurio abbia un nucleo metallico così grande è oggetto di
discussione. La teoria che va per la maggiore è quella dell’ impatto radente: in pratica, nel caos dinamico
del Sistema Solare primordiale,
il pianeta appena formatosi sarebbe stato colpito di striscio da un
planetoide della massa di Marte che ne avrebbe estirpato gran parte del mantello, lasciandone intatta solo
la parte nucleare. Ma anche se Mercurio ha un nucleo abnorme, rimane un pianeta di piccola taglia, quindi
predisposto ad un veloce raffreddamento interno: in questo modo il nucleo deve aver subito una forte
contrazione che, trasmettendosi anche al soprastante ‘sottile’ mantello, ne ha determinato una estesa
fessurazione globale.
Forse collegato all’anomala dimensione del nucleo c’ è un’altra delle proprietà più inaspettate di Mercurio,
vale a dire l’esistenza di un campo magnetico dipolare intrinseco. Come già ricordato, il campo magnetico di
Mercurio venne scoperto nel 1974 dal Mariner 10 che ne determinò anche i parametri essenziali:
inclinazione di 10° rispetto all’asse di rotazione ed intensità di 1/100 rispetto a quello terrestre. Non è per
niente chiaro se il meccanismo che produce il campo magnetico di Mercurio sia o no simile a quello
terrestre (correnti convettive in un nucleo fluido, quindi caldo). Una cosa però è certa: che se il meccanismo
fosse di tipo terrestre, esso dovrebbe mostrare le stesse variazioni periodiche di inclinazione (‘migrazione’) e
di intensità ben note a livello terrestre su scala temporale di poche decenni. Si può ben immaginare, quindi,
quanta fosse la curiosità di sapere da MESSENGER quale fosse la situazione dopo 33 anni. Ebbene, la
risposta dello strumento MAG è stata molto chiara: il 14 Gennaio ’08 il campo magnetico di Mercurio era
ancora ben presente e NON mostrava sostanziali modifiche rispetto alle misure del Mariner 10. Un bel
rompicapo non c’è che dire, per un pianeta come Mercurio che, causa le sue ridotte dimensioni, dovrebbe
avere un nucleo interno ormai solidificatosi, quindi incapace di supportare correnti convettive.
Fortunatamente, nel Maggio 2007, un team di geologi della Cornell University guidati da Jean-Luc Margot
ha pubblicato un importante lavoro che potrebbe sbloccare la situazione. Vediamo di che si tratta. In 18
occasioni, tra il 2002 e il 2007 Margot ha sparato dall’antenna di 70 metri di Goldstone in California un forte
fascio di microonde contro Mercurio, raccogliendone l’eco radio sia alla stessa antenna di Goldstone che al
radiotelescopio di 100 m di Green Bank, in Virginia. In questo modo fu possibile misurare con una precisione
di 1 parte su 100.000 la velocità di rotazione di Mercurio durante due intere rivoluzioni . Il fatto è che,
essendo il periodo di rivoluzione di Mercurio (88 giorni) sincronizzato in rapporto 2/3 con quello di rotazione
(59 giorni), quest’ultimo tenderà ad essere accelerato o rallentato dalla gravità solare al perielio e all’afelio
(si ricordi che l’orbita di Mercurio è molto ellittica). Questo effetto di ‘librazione’ sarà tanto più facilitato
quanto più il mantello esterno ha la possibilità di ‘scivolare’ sul nucleo interno. In altre parole l’effetto di
librazione deve essere molto più sensibile in presenza di un nucleo fluido (quindi caldo) che in presenza di
un nucleo solido. Ebbene, i calcoli di Margot sono categorici al riguardo: la librazione risulta tre volte
superiore a quella che ci si aspetterebbe se il nucleo fosse solido, quindi Mercurio deve avere un nucleo
ancora parzialmente liquido. Come questo sia potuto avvenire non è facile da spiegare, anche se la
soluzione più semplice (sempre secondo Margot) sarebbe quella di ammettere che, con qualche
meccanismo incognito, il nucleo di Mercurio sia riuscito ad inglobare (nonostante la sua vicinanza al Sole)
una sia pur minima ( 0,1%) quantità di Zolfo. Toccherà a MESSENGER migliorare e confermare questi
risultati preliminari. Quando infatti sarà entrato in orbita nel Marzo 2011, il laser altimetro MLA di bordo
potrà determinare in ogni momento e con precisione eccezionale, la distanza della sonda da Mercurio:
da qui sarà possibile calcolare qualunque irregolarità del suo campo gravitazionale e di conseguenza,
qualunque anomalia della sua struttura interna. C’è molta fiducia in questa possibilità dopo il test
estremamente positivo che MLA ha effettuato il 14 Gennaio ’08, quando è stato acceso tre minuti prima
(distanza =600 km) di raggiungere la minima distanza da Mercurio (200 km) ed è stato spento sei minuti
dopo (distanza= 1500 km), dopo aver scansionato 3200 km di terreno tra 340° e 290° Ovest: il tracciato si
trova appena a Nord di uno dei grandi crateri a raggiera ( A ) scoperti dal radar di Arecibo e MLA è riuscito
a riprodurne con una buona approssimazione l’ andamento tridimensionale.
In totale, durante il primo incontro con Mercurio del 14 Gennaio ’08 MESSENGER ha lavorato per 55 ore,
raccogliendo qualcosa come 700 Gigabytes di immagini e dati. L’analisi approfondita di questo materiale
dovrà obbligatoriamente essere completata in pochi mesi: servirà infatti come base per predisporre al
meglio il secondo flyby stretto con Mercurio, che MESSENGER ha in programma il prossimo 6 Ottobre
’08. In quel momento su Mercurio saranno passati 1,5 giorni locali rispetto al 14 Gennaio, quindi
MESSENGER troverà illuminato (quindi ben visibile) circa un terzo di quel 21% di superficie che ancora
rimane totalmente sconosciuta (qui dentro si colloca tra l’altro il bacino Skinakas). Lentamente, quindi, ma
inesorabilmente, il pianeta più vicino al Sole è destinati a rilasciare i suoi ultimi segreti.
2.7) SPIRIT ED OPPORTUNITY: 4 ANNI SU MARTE.
Lo scorso 4 e 25 Gennaio ’08 i due ‘immortali’ rover della NASA hanno raggiunto un record di sopravvivenza che
sembrava impossibile. Se Opportunity fece le scoperte principali nei primi due anni di missione, Spirit ha dato invece il
meglio di sé negli ultimi due anni, dimostrando che su Marte, in passato, esisteva una intensa attività idrotermale. E dal
26 Maggio arriva Phoenix…
Come ben noto, verso la fine degli anni 70, i geologi marini fecero forse la più grande scoperta della storia
della geofisica: quella dell’esistenza, lungo tutti i 60.000 km delle dorsali oceaniche, di sorgenti idrotermali
caldissime, prodotte dall’ infiltrazione e dal contatto dell’acqua marina con il magma che risale dalle dorsali.
A causa della enorme pressione esistente sui fondali, l’acqua dei geyser idrotermali fuoriesce a temperature
ben maggiori di quelle tipiche dell’ebollizione dell’ acqua (100°C). Nei casi estremi si arriva anche a 400°C,
quindi ad un eccezionale potere solubilizzante dei minerali profondi: così, assieme a gas velenosi come H2S
(solfuro d’ idrogeno), CO2 (2-300 ppm, ossia mg/litro, ciascuno) + un po' di CH4 (metano), quest’acqua
surriscaldata riesce a solubilizzare una gran quantità di scuri solfuri di metalli pesanti come Ferro (100-150
ppm), Rame, Nichel (pochi ppm), nonché una notevole quantità di solfato di Calcio, CaSO4 (1000-4000
ppm) e fino a 1500-2000 ppm di SiO2 (silice). A contatto con la fredda (2°C) acqua oceanica, i solfuri che
l‘acqua idrotermale tiene in soluzione grazie alla sua elevata temperatura, precipitano immediatamente
dando al fenomeno l’apparenza di emissioni scure e polverose: da qui la denominazione, ormai
universalmente nota, di Black Smokers, ‘fumatori neri’. Quando invece la temperatura dell’acqua emessa
non supera i 200°C essa non riesce a solubilizzare i neri solfuri e allora si parla più propriamente di ‘fumatori
bianchi’, perché a dominare sono vari solfati (nel caso terrestre di Calcio e di Bario) ma, soprattutto, ancora
SiO2 (Silice). In definitiva gli ambienti idrotermali oceanici della Terra ci forniscono un insegnamento
fondamentale: quello secondo cui la presenza di depositi di SiO2 (silice) è una delle prove più chiare della
presenza passata o presente di attività vulcanica in un ambiente molto ricco di acqua. L’importanza di
questo fenomeno non è però solo di tipo geologico ma anche biologico: non bisogna infatti dimenticare che
è proprio la SiO2 a costituire la materia prima da cui partono moltissimi organismi marini per costruire
l’intelaiatura dei loro gusci protettivi. Quindi l’equazione silice-acqua-vulcanesino-(forse)vita va ritenuta non
solo possibile ma, addirittura probabile.
Questa premessa costituisce l’indispensabile base per capire l’importanza di una memorabile giornata (8
Aprile ’07 terrestre e 1160° giorno di lavoro marziano) e di una memorabile scoperta di SPIRIT. Ma
procediamo con ordine. Sceso più di quattro anni fa (era il 4 Gennaio 2004 e la missione primaria doveva
durare tre mesi) all’interno di un cratere di 160 km (il Gusev) che venne scelto perché lo si riteneva sede di
un antico lago (il tracciato fluviale che intacca il suo bordo Sud senza un corrispondente punto di efflusso, ne
è un chiaro indizio) Spirit trovò inizialmente sempre e solo rocce basaltiche al posto dei previsti sedimenti
lacustri. Ben presto ci si rese conto che, in fondo, tutto questo era logico: se il lago Gusev era (come
stimato) vecchio di 2-3 miliardi di anni, il suo fondale doveva essere ormai sepolto sotto decine di metri di
detriti di ogni tipo. Sarebbe bastato scavare in profondità per verificare se questa ipotesi era corretta.
Peccato che Spirit poteva al massimo scavare per pochi millimetri la superficie da esaminare col il suo RAT
(Rock Abrasion Tool), una piccola anche se efficientissima mola abrasiva situata all’estremità di un lungo
braccio meccanico: all’interno di questa incisione tonda di un paio di centimetri poteva essere posizionato lo
strumento APXS, Alfa-Particle X-rays Spectrometer (un straordinario mini-fluorimetro ai raggi X per la
composizione superficiale), oppure lo strumento MI, Mossbauer Spectrometer (uno strumento in grado di
determinare la presenza e la tipologia dei minerali a base di Ferro), nonché un microscopio ottico
(MI=Microscopic Imager) per studiare la morfologia fine dei campioni analizzati. Ad altezza d’uomo le
indagini a grande campo vengono condotte da una stereo-camera ottica e dal cosiddetto mini-TES, uno
spettrometro infrarosso adibito all’individuazione chimica diretta dei materiali ed indispensabile per ricercare
in essi le bande di assorbimento dell’acqua. Ma spesse volte, dove non arriva la tecnologia può arrivare
l’intuizione, magari supportata da un minimo di fortuna. Sì, perché a 3 km di distanza dal punto di atterraggio
era visibile un complesso di 7 collinette (denominate Columbia Hills in onore dei sette astronauti del
Columbia che erano periti tragicamente l’anno prima) che non aveva nessuna ragion d’essere se non fosse
che la loro posizione era troppo prossima a quella di un cratere di 20 km (il Thira) interno a Gusev, perché
questo fosse frutto del caso. L’idea che le colline fossero costituite dall’accumulo di materiale estirpato dalle
profondità del cratere Gusev dall’ impatto del cratere Thira, convinse il team di Spirit a tentare (quello che
allora sembrava) l’impossibile: mandare Spirit verso le colline e farvelo salire per verificare se,
effettivamente, le rocce sommitali (quindi in teoria provenienti dalla profondità maggiore) fossero state
modificate in qualche modo dall’ acqua. Ci sono voluti molti mesi ma alla fine Spirit ce l’ha fatta. I risultati
analitici sono rimasti però contrastanti: è vero che sono state con certezza individuate rocce basaltiche
modificate dall’ acqua, ma sono rimasti dubbi sulla reale provenienza di quest’acqua (l’ antico lago Gusev,
piogge acide, emissione geotermica ?). Ciò non toglie che dai 300 m della sommità di Husband Hill (la
collina più alta) Spirit è riuscito ad inviare fantastiche immagini del panorama che si dispiegava AL DI LA’
delle colline. Immediatamente gli occhi dei geologi sono stati attratti da una formazione circolare grande
come un campo da calcio (‘Home Plate’), la cui morfologia era fino ad allora sconosciuta in ambiente
marziano. La forma a ‘torta stratificata e schiacciata’ di Home Plate era molto sospetta: simili strutture sono
infatti tipiche dei vulcani che nascono in ambiente marino, dove è decisiva l’azione della pressione
dell’acqua sovrastante. Essendo ormai la metà di Settembre ’05, Spirit era al lavoro su Marte già da 600
giorni marziani (ovvero 1,5 anni contro i tre mesi previsti all’ inizio) e cominciava a mostrare qualche disturbo
di vecchiaia (problemi con la ruota anteriore destra, con il motore del RAT, con la sensibilità dello
spettrometro Mossbauer che, usa una sorgente radioattiva al Co57, che ha un tempo di dimezzamento di
270 giorni). In più è innegabile che per un rover scendere da una collina è molto più difficile che salire. Ci
sono voluti 150 giorni perché Spirit raggiungesse il bordo Nord di Home Plate, onde verificare che, almeno
morfologicamente, si poteva trattare di una struttura vulcanica sottomarina. Intanto però si stava avvicinando
l’ennesimo più grave pericolo: il secondo inverno marziano. Ci sono voluti altri 100 giorni per trovare un sito
dove fermarsi a svernare: condizione fondamentale era il ritrovamento di un terreno con una inclinazione di
almeno 16° per riuscire a catturare il massimo di energia solare. Spirit si trovava in una complessa regione
collinare denominata Mc Murdo per certe sue similitudini con il terreno antartico. All’interno di questa regione
venne individuato il sito adatto (a Sud–Ovesr di Home Plate) e venne denominato Low Ridge. Spirit è
rimasto fermo sui versanti di Low Ridge da Aprile a Ottobre ’06, compiendo il suo primo compleanno di
portata storica (1000 gironi marziani!), il 26 Ottobre ’06. A comunque messo a frutto al meglio anche questa
sua condizione di forzata staticità. Ha infatti attentamente esplorato con la stereo-camera e il mini-Tes tutto
l’ambiente circostante facendo una scoperta straordinaria: quella della presenza, in mezzo ad una foresta di
scure rocce vulcaniche, di due massi tozzi e chiari di composizione ferrosa, due meteoriti insomma (Zhang
Shang e Allan Hills), a pochi decimetri l’una dall’ altra! Come dire che, siccome meteoriti analoghi erano stati
trovati anche da Opportunity sull’altro lato del pianeta, si può ritenere, contro ogni precedente previsione,
che il terreno marziano sia uno dei migliori depositi di meteoriti che si conoscono.
Spirit ha anche avuto il tempo di esplorare a fondo un stretta lingua di terreno ad Ovest di Home Plate e
delimitata da una cresta piuttosto decisa denominata Mitcheltree Ridge. Qui sono stati individuati molteplici
obiettivi analitici interessanti che hanno cominciato ad essere avvicinati a partire da Novembre ’06. Una
prima scoperta forse non sarebbe mai avvenuta se nel frattempo la ruota anteriore destra di Spirit non si
fosse definitivamente bloccata. Ma qualche volta non tutti i mali vengono per nuocere…Avendo perso la
mobilità di una delle ruote anteriori, da quel momento Spirit è stato infatti costretto a muoversi sempre in
retromarcia, con la ruota dietro che trascinandosi inerte affondava spesso anche di 30 cm. Ecco allora
affiorare una serie di terreni bianchi simili in realtà a molti altri già individuati in fase di avvicinamento (Paso
Roble il 20 Febbraio ’05, sol 403, oppure Arad, metà Gennaio ’06, sol 720-750 ). L’analisi più completa con
lo strumento APXS e con il MiniTes è stata condotta su Tyrone. Risultato: si tratta di una miscela di solfati di
Ferro e Calcio con almeno il 6% di acqua assorbita! Un risultato già di eccezionale rilevanza se ci si ricorda
che proprio questo tipo di solfati si ritrovano nei soffioni idrotermali della Terra. Da questo momento in
avanti si sono succedute di continuo altre scoperte e sorprese. Il 26 Novembre ’06 il microscopio ha
scoperto che la roccia King Gorge era un conglomerato di palline millimetriche di natura basaltica contenenti
(all’analisi APXS) alta % di K (Potassio). Non si trattava di un caso isolato perché vennero scoperte proprietà
simili nella roccia Troll (21 Gennaio ’07, sol 1069) e nella roccia Torquas (22 Marzo ’07, sol 1143). Fu il
primo indizio dell’antica presenza di attività vulcanica sottolacustre: l’alta % di K indica una provenienza
molto profonda e la morfologia sferoidale millimetrica indica l’effusione esplosiva di magma in ambiente
acquatico.
Finalmente si arriva alla fatidica data dell’ 8 Aprile ’07 (sol 1160) cui accennavamo all’inizio. La roccia chiara
e nodulare denominata Elizabeth Mahon ha dato allo strumento APXS un responso sensazionale: il 72%
era composto da Silice SiO2 ! Non si trattava di un caso isolato. Anzi! Il 17 Maggio (sol 1198) la roccia
Geltrude Weise ha rivelato all’ APXS una composizione di SiO2 PURA ! Decine di altri casi si sono aggiunti,
tutti localizzati nella stretta lingua di terreno compresa tra Home Plate e Mitcheltree Ridge. Inevitabile che
questa fessura sia stata denominata Silicon Valley marziana. Non c’era ormai nessun dubbio che quei
depositi chiari erano il frutto del fluire verso la superficie di sorgenti di acqua molto calda, evidentemente
rese tali dal contatto con una sorgente vulcanica ‘sottomarina’ come doveva essere proprio Home Plate.
E chi lo sa se, sul fondo dell’antico lago Gusev, questa Silice pura non abbia dato il là alla nascita di qualche
microrganismo marziano? Mentre i media e il resto del mondo non si accorgevano quasi neanche di tutto
questo (succede sempre così, è inutile arrabbiarsi) l’entusiasmo dei geologi di Spirit era ormai al massimo.
Ma, nella scienza come nella vita, quando le cose vanno troppo bene, bisogna spesso aspettarsi che da un
momento all’altro il vento cambi in senso opposto… Nel caso specifico proprio di vento si tratta, il micidiale
vento marziano che a partire dalla metà di Giugno ’07 ha sollevato una imponente tempesta di sabbia che
fino alla fine di Agosto ha messo a durissima prova la sopravvivenza di Spirit ( ed anche di Opportunity dall’
altra parte del pianeta). In pratica, tra luglio ed Agosto arrivava verso le cellule solari dei due rover solo l’ 1%
dell’energia normale e, quel che è peggio, la loro residua efficienza risultava drammaticamente
compromessa dalla gran quantità di polvere che si era depositata. Nonostante che su Marte fosse estate la
temperatura diurna è scesa di oltre 20°C e ancora di più è scesa quella notturna. Il problema è che MAI la
temperatura interna dei rover può scendere sotto i -40°C, per non compromettere in maniera irreversibile
l’elettronica. Quando questo dovesse succedere c’è un sensore che ordina l’entrata in funzione di otto
riscaldatori al Plutonio radioattivo. Ma anch’essi hanno bisogno di energia, precisamente almeno 60 Watt/h.
Se a bordo non rimane a disposizione almeno questa quantità di energia è finita. E bisogna dire che si è
andati veramente molto vicini al dramma, quando l’energia delle celle solari è scesa progressivamente da
700 Watt/h prima della tempesta a soli 128Watt/h. Fortunatamente, a fine Agosto ’07 il ‘santo protettore’ dei
due rover è intervenuto a tempo, nel senso che la tempesta ha cominciato velocemente ad estinguersi,
permettendo, tra l’altro a Spirit, (24 Agosto ’07, sol 1294) di battere il leggendario record di longevità del
Viking 2 (che scese sulla pianura marziana dell’ Utopia il 3 Settembre ’76). Alla fine di Settembre ’07, il
lavoro analitico è potuto ricominciare a pieno ritmo. Ma c’è un proverbio che dice che le disgrazie non
vengono mai sole… Intanto con tutta la polvere in circolazione le ottiche delle camere e del microscopio di
bordo ne sono state pesantemente toccate opacizzandosi. Fortunatamente usando le maniere forti (grossi
scossoni) il problema è stato velocemente risolto. Ma oltre che le ottiche, la polvere marziana oblitera anche
i crateri più piccoli con il pericolo che magari passi inosservato un ostacolo di questo tipo. Proprio quello che
è successo a Spirit nella drammatica settimana del 20-27 Novembre ’07 (sol 1380-1387) quando il rover già
zoppo è finito dentro un piccolo cratere (Cerberus) interamente ricolmo di polvere sottilissima. Da Terra le
hanno tentate di tutte per disincagliarlo, ma è un fatto che forse, se fosse stato perfettamente integro, non
avrebbe avuto scampo. Invece con opportune simulazioni da laboratorio, si è riusciti a sfruttare proprio
l’attrito spurio della ruota bloccata per impedire a Spirit la più ingloriosa delle fini. Dopo questo sospiro di
sollievo gli ultimi mesi sono stati dedicati ad una ricerca meticolosa del sito (a Nord di Home Plate dove c’è
un terreno inclinato di circa 20°) dove passare il 3° invero marziano. C’è da giurarci che, passato l’inverno,
Spirit si risveglierà dal letargo completando quell’ ultima parte di lavoro che gli eventi metereologici hanno
purtroppo impedito: vale a dire l’esplorazione meticolosa della superficie piatta del vulcano.
Se per Spirit gli ultimi due anni di missione sono stati quelli decisivi, per Opportunity, posatasi sull’ antica
superficie marina di Meridiani Planum il 25 Gennaio 2004, le scoperte più significative sono avvenute quasi
subito (vedi bene Le Stelle N.24, di Dicembre ’04, pp32), quindi il proseguo della missione è servito per
confermare i primi dati e, soprattutto, per fornir loro una interpretazione il più possibile coerente. Come si
ricorderà Opportunity fu baciata in atterraggio da un incredibile colpo di fortuna: quello di finire proprio al
centro dell’unico piccolo cratere (Eagle, 10 metri) presente nei paraggi ! Un cratere è l’unico mezzo
‘meccanico’ in grado di portare alla luce il terreno nascosto dai sedimenti più superficiali. Quindi se, come si
pensa, Meridiani Planum era un antico mare, era logico aspettarsi la presenza di depositi salini. Quando i
geologi di Opportunity videro che una metà del bordo interno di Eagle era tappezzato da centinaia di grosse
‘piastrelle chiare’ fu immediata la decisione di farne uno studio chimico e fisico accuratissimo. Con un
risultato inequivocabile: le ‘piastrelle chiare’ erano fatte di Solfato di Magnesio (MgSO4), uno dei sali tipici
dell’acqua marina quando questa, per qualche ragione (intensa attività vulcanica?) acquisisce dall’esterno
una forte acidità. Ma per Opportunity era pronta una sorpresa ancora più grande: quella della presenza
generalizzata di una ‘quantità industriale’ di sferette centimetriche grigio-azzurre (‘blueberries’, mirtilli)
risultate (analisi MS) costituite da EMATITE pura, un ossido di Ferro che si può depositare solo in presenza
di una grande quantità di acqua, stabile per tempi geologici sufficientemente lunghi. La prova inconfutabile di
un antico oceano marziano era stata raggiunta ma, come dice il proverbio, l’appetito vien mangiando. In
sostanza le ‘piastrelle superficiali’ erano la testimonianza dell’ ULTIMO oceano marziano, ma sarebbe
stato di estremo interesse conoscerne l’evoluzione a ritroso nel tempo. Questo era teoricamente possibile:
bastava trovare depositi salini molto più profondi, magari andando ad esplorare i fondali di qualche cratere
molto più grande di Eagle. Endurance (80 metri), il cratere ‘giusto’, venne intravisto ad 1,5 km dal punto di
atterraggio di Opportunity. Dopo 125 giorni di viaggio, Opportunity arrivò sul bordo di Endurance e si trovò
davanti uno spettacolo di incredibile bellezza: tutte le pareti del cratere erano piastrellate da depositi bianchi.
La decisione di scendere nel cratere fu immediata e vincente: man mano che il rover scendeva, diminuivano
i solfati ed aumentavano i cloruri, a dimostrazione che l’oceano marziano più antico (forse primordiale) era
molto meno acido di quello di ultima generazione e molto più simile a quello della Terra, con conseguenza
ben immaginabili sulle discussioni di esistenza o meno di vita su Marte. Rimaneva però aperta un’ altra
domanda: la vita marziana (se mai nacque ai primordi) si è conservata anche quando l’acqua marziana si è
acidificata arricchendosi di solfati? Una domanda tutt’ altro che accademica da quando (inizio anni 2000)
venne scoperto il primo batterio capace di sopravvivere in soluzioni saline almeno 10 volte più concentrate
di quelle della normale acqua di mare (Mar Morto, Great Salt Lakes). Denominato Halobacterium NRC-1, si
tratta di un ‘estremofilo’ antichissimo (un Archea), molto semplice dal punto di vista genetico, quindi in grado
di proliferare in qualunque ambiente estremo (tipo la Terra primordiale o lo stesso pianeta Marte). La misura
della salinità vera dell’ultimo oceano marziano poteva sembrare completamente al di fuori delle potenzialità
di Opportunity. Invece… Invece a ben 7 km da Endurance le sonde orbitali notarono Victoria, un giovane
cratere 10 volte più grande (diametro di circa 800 metri). Dopo circa 1000 giorni di viaggio (era più o meno
l’autunno 2006) Opportunity ha raggiunto il bordo di Victoria, inviandocene immagini tridimensionali di
grande effetto. Una ripetuta circumnavigazione protrattasi per 9 mesi, ha mostrato che il bordo del cratere
era inciso e dentellato, con punti (denominati Capi) dove emerge benissimo una sontuosa stratificazione. In
particolare, ad una decina di metri di profondità, destò un grande interesse una banda chiara di elevato
spessore che si ritrovava lungo tutto il bordo interno del cratere e che quindi venne interpretata come lo
spessore salino rilasciato dall’ ultimo mare marziano. Rare erano invece le ‘finestre’ sufficientemente
morbide (inclinazione <25°) per tentarvi una discesa: in pratica l’unica promettente era Duck Bay, chiusa tra
Capo Verde e Capo Frio e nettamente intaccata nella parte superiore dalla banda chiara.
L’esplorazione chimico-fisica della banda chiara divenne un target primario da quando immagini ravvicinate
di Cape St. VIncent (agli antipodi di Duck Bay) mostrarono (inizio Maggio 2007) senza equivoci che la banda
chiara era in realtà composta da TRE strati ben differenziati: il primo sottostrato fu chiamato Steno, il
secondo Smith, il terzo Lyell (dal nome di tre famosi geologi del 19° secolo). Ma siccome l’entrata di
Opportunity in Victoria, per quanto interessante, poteva avere anche esito nefasto per il rover, si decise che
fino alla fine di Maggio ’07 sarebbero stati avvicinate tutte le regioni periferiche al cratere ritenute di
importanza scientifica superiore alla media. Tra queste, una curiosa sere di pennacchi scuri che
emergevano dal lato Nord del cratere, non riservarono le ipotizzate sorprese: si trattava infatti di materiale
basaltico scuro a grana grossa che venne dislocato dall’ impatto e che venne suddiviso in filamenti dai bordi
dentellati del cratere. La sorpresa però, inaspettata e clamorosa, venne dall’ esplorazione del terreno che
precedeva questi filamenti scuri (Gennaio-Marzo ’07): su un terreno piatto e ricchissimo di ‘mirtilli’ c’era una
decina di rocce chiare che sembravano finite lì…..per caso. L’analisi Mossbauer (ormai il tempo analitico
dell’ MS era passato dalle iniziali 4 h a 48 h!) della maggiore di queste rocce (Santa Caterina) ha mostrato
che si trattava di un corpo composto di FeS, un solfuro di ferro denominato troillite e tipico di certi meteoriti
metallici. Le analisi spettrali al miniTes hanno dimostrato che anche le altre rocce vicine avevano
composizione simile: si trattava, quindi, di un campo di meteoriti metallici! E’ interessante ricordare che
Opportunity aveva scoperto già un altro meteorite metallico (Barbertan), all’uscita del cratere Endurance.
Solo che in quel caso la composizione era di Komacite (una lega di Ferro-Nichel). Alla metà di Giugno le
simulazioni al computer avevano individuato la strada ottimale da percorrere per scendere lungo Duck Bay
ma, a questo punto si è scatenata la già accennata tempesta di sabbia e tutte le operazioni hanno dovuto
essere interrotte fino alla fine di Agosto ’07. Opportunity ha cominciato ad entrare all’interno di Victoria l’ 11
Settembre ’07 (sol 1291) con estrema circospezione: mai prima, infatti era capitato di dover analizzare un
terreno così inclinato. L’ 11 Ottobre ’07 (sol 1321) è iniziato il prelievo e l’analisi di campioni da Steno (la
porzione superiore dello strato chiaro), che ha richiesto circa un mese. Con Novembre ’07 è iniziata una
campagna intensiva su Smith (la seconda porzione dello strato chiaro situata due metri più in basso). Alla
metà di Febbraio ’08 anche Lyell (la fascia inferiore dello strato chiaro) era stata passata sotto i ferri. Chi
però si aspettava variazioni compositive nelle tre fasce si sbagliava: la composizione era infatti sempre
costituita da solfato di Magnesio e la stratificazione era solo una questione fisica, legata alla granulometria
dei depositi. Su queste basi Andrew Knoll (Harvard University) a ‘gelato’ un po’ l’auditorio dell’ annuale
congresso della AAAS (15 Febbraio ’08) spiegando che l’informazione principale deducibile dall’analisi e
dalla misura dello spessore dell’intero strato chiaro, era una stima della quantità di solfati presenti nell’ ultimo
oceano marziano. Anche essendo molto ottimisti sulla quantità globale di acqua, ne risulterebbe una salinità
di almeno un ordine di grandezza superiore a quella sopportabile dal più resistente degli Alo-batteri terrestri,
il già citato NRC-1: come dire che quell’ oceano doveva essere una specie di liquido ‘disinfettante’ per
qualunque sfortunato batterio che vi fosse finito dentro….. Una bella doccia fredda, non c’è che dire che,
comunque, non mette in discussione l’indagine che Opportunity condusse all’interno del cratere Endurance e
dalla quale, come abbiamo accennato, si potè dimostrare che con più si recede nel tempo, con più la salinità
dell’ oceano Boreale marziano era ricca di cloruri, quindi si avvicinava a quella degli oceani terrestri.
Essendo ormai vicino il solstizio invernale marziano australe (26 Giugno ’08) l’attività di SPIRIT ed
OPPORTUNITY si sta riducendo al minimo. Soprattutto, sono stati ridotti al minimo i movimenti sulla
superficie. Ebbene, pochi sanno che anche questa situazione di semi-ibernazione è stata sfruttata dalla
NASA per impellenti problemi scientifici. Lo scopo è stato quello di creare un supporto ad una missione
davvero molto attesa: il prossimo atterraggio su Marte della sonda Fhoenix. Phoenix partì felicemente il 4
Agosto ’07 e toccherà la regione polare nord di Marte il prossimo 26 Maggio ’08. Sarà un’operazione
delicatissima che richiede un controllo assai accurato della traiettoria di discesa. In poche parole un
controllo tridimensionale. Per questo le orbite degli attuali tre principali satelliti marziani (Odissey 2001 in
primis, ma anche MRO, Mars Reconnaissance Orbiter e Mars Express) sono state modificate perché si
trovino esattamente sopra il punto di discesa di Phoenis il prossimo 26 Maggio. A partire da 10 minuti prima
dell’ atterraggio, Odissey 2001 ne raccoglierà tutti i segnali e li invierà in tempo reale a Terra, mentre le altre
due sonde orbitali faranno da backup, ossia registreranno a bordo gli stessi dati e li manderanno poi a terra
ad atterraggio avvenuti. Tutte operazioni molto complesse da sincronizzare che necessiterebbero di
qualche prova ‘sul campo’. Ecco allora il contributo di Opportunity: tra il 17 e il 21 Febbraio ’07, dalla sua
posizione ‘forzatamente’ statica ha inviato segnali in orbita permettendo di verificare che il sistema di
sincronizzazione orbitale tripla è complicato ma certamente possibile. Come dice il nome, PHOENIX è nata
dalle ceneri della missione MPL (Mars Polar Lander) , fallita nel 2001 in fase di atterraggio nella regione
polare Sud di Marte. Toccherà l’atmosfera di Marte a 5,7 km/s. Una velocità che verrà ridotta a 2,4 m/s
grazie all’attrito dello scudo antitermico, ad un paracadute e, infine, a dei retrorazzi. Il punto di atterraggio si
colloca nei pressi del polo Nord marziano con un compito primario molto ambizioso: cercare la presenza e
la persistenza del ghiaccio d’acqua, nonché l’eventuale esistenza attuale o passata di organismi viventi.
Strumento fondamentale è il cosiddetto RA (Robotic Arm) che dovrà prelevare campioni in superficie ed in
profondità per poi depositarli in appositi strumenti analitici. La camera RAC (Robotic Arm Camera, in quanto
collocata all’estremità dell’ RA) ) avrà il compito di esaminerà con grande accuratezza il suolo prima dei
prelievi. I campioni verranno inviati a due tipi di analizzatori. Il primo è TEGA (Thermal and Evolved Gas
Analyzer), una specie di stufa che scalderà il materiale marziano per liberarne qualunque sostanza volatile
(acqua, CO2, ma, soprattutto composti organici) e permettere ad uno spettrometro di massa di farne una
analisi chimica ed isotopica completa. L’altro analizzatore è MECA, un vero e proprio laboratorio chimico
dotato di due microscopi (uno ottico e l’altro a forza atomica), di un conduttimetro, di un misuratore di
acidità e salinità. Indagini a largo raggio e per tempi prolungati saranno inoltre condotti dalla camera SSI
(Surface Stereoscopic Imager) che scruterà ad altezza d’uomo ed a grande risoluzione tutto il paesaggio
circostante, e dalla stazione MET (Meteorological Station) , che terrà sotto controllo ogni giorno pressione,
temperatura e nuvolosità della zona di atterraggio. Essendo le analisi chimiche e cromatografiche molto
complesse, la disponibilità di reagenti fa prevedere che la missione analitica debba terminare in circa tre
mesi. Proprio i mesi durante i quali Spirit ed Opportunity saranno in ‘letargo’invernale. Forse, quando i due
rover verranno riattivati l’Umanità avrà trovato una risposta all’esistenza o meno di vita batterica su Marte….
2.8) OCCHI RADAR SUI LAGHI DI TITANO.
Durante i primi 25 flyby stretti (Ottobre 2004-Febbraio 2007), il radar della Cassini ha perforato per 12 volte le nuvole
opache di Titano, facendocelo apparire ancora più incredibile di quanto avremmo mai immaginato. Il tutto grazie alla
presenza di una fredda atmosfera ricca di metano, un gas che si comporta su Titano esattamente come l’acqua
nell’atmosfera terrestre.
In occasione del 16° flyby con Titano (T16) del scorso 22 Luglio ‘06, il radar della Cassini ha realizzato la
scoperta più importante dei primi due anni di studi intensivi sul maggiore satellite di Saturno. Quel giorno
per la 6° volta la grande antenna della sonda si è comportata come radar sintetico, andando ad esplorare
una stretta fascia di 6600 km della superficie di Titano, che partendo da 20°N e 142° Ovest, si è portata
fino a 80°N (dove ha raggiunto la minima distanza di 950 km) per poi ridiscendere a 13°N re 347°Ovest
(tanto per dare l’ idea sarebbe come andare dalle Hawaii al Sahara, passando per l’ Oceano Artico…). Con
un risultato sensazionale: le immagini radar prossime al polo Nord hanno mostrato una superficie
disseminata in ogni punto da un centinaio di bacini piatti di aspetto e dimensioni molto variabili (da 3 a 70
km) verosimilmente ricolmi di idrocarburi in forma liquida (soprattutto metano, etano, mescolati forse ad
Azoto). La presenza generalizzata di laghi polari è stata ampiamente riconfermata nei mesi successivi
durante il flyby T18 del 23 Settembre ’06, il flyby T19 del 9 Ottobre ’06, fino ad arrivare, lo scorso 22
Febbraio ’07, con il flyby T25, alla scoperta forse più ‘elettrizzante’: quella dell’esistenza sui terreni polari di
Titano anche di bacini fluidi di grandi dimensioni, paragonabili a veri e propri mari. Come spiegheremo
meglio in seguito, l’impronta assolutamente scura al radar dimostra che si tratta di quei laghi di metano che
erano stati cercati per anni senza successo. A supporto di questa interpretazione c’è il fatto che la maggior
parte dei laghi polari di Titano presentano canali di entrata ed uscita o, addirittura, canali di collegamento
reciproco. In alcuni casi i bordi dei bacini presentano dei collari rugosi (quindi grigi al radar in quanto
modestamente riflettenti al radar) interpretabili come spiagge prodotte dalla parziale evaporazione del
metano interno. Qualche volta i laghi maggiori sono trapuntati da isole. In altri casi i depositi lacustri
sembrano collocati in bacini più profondi con dei bordi esterni rilevati ed interni a scalinata simili a quelli che,
sui pianeti terrestri, caratterizzano le caldere vulcaniche: da qui l’dea che le depressioni entro cui il metano
liquido si è accumulato altro non siano che strutture crio-vulcaniche estinte o quiescenti. Per qualcuno dei
laghi la superficie sembra meno scura, quindi meno liscia di altri: è facile pensare in questo caso a bacini in
secca oppure alla presenza di fenomeni ondosi prodotti da intensi venti locali. IN ogni caso il fatto che i laghi
siano presenti solo al di là dei 75°N, è una prova molto forte che la loro esistenza è legata alle temperature
estremamente rigide ivi esistenti (siamo attualmente al buio della notte invernale, a -200°C), in grado di
mantenere in forma condensata il metano di cui è ricca l’atmosfera del satellite (5% rispetto all’Azoto,
secondo le misure al suolo della capsula Huygens). In realtà la scoperta di laghi polari su Titano non è una
novità assoluta. Se ne trovano infatti indizi anche in alcune immagini del polo Sud, raccolte a 0,938 micron
dalla camera VIMS ( Visual and Infrared Mapping Spectrometer) a bordo della Cassini il 6 Giugno ’05, dalla
pur consistente distanza di 450.000 km, quando venne individuata una gigantesca impronta scura di 234x73
km (più o meno le dimensioni del lago Ontario) con tanto di bordi corrugati assimilabili a spiagge. Nei
dintorni, tutta una serie di canali e macchie scure minori di difficile interpretazione a causa della risoluzione
molto limitata delle immagini. La presenza contemporanea di una estesa e mutevole copertura di nuvole di
metano faceva pensare a grandi piogge (di metano) come fonte di alimentazione più probabile del grande
lago. La questione dell’esistenza di bacini fluidi avrebbe potuto essere risolta definitivamente il 7 Settembre
’05, in occasione del 7° flyby da 2000 km tra Titano e la Cassini, quando venne deciso di usare il radar per
la 3° volta, facendolo scorrere dalle medie latitudini meridionali fino a poca distanza dal polo Sud. Purtroppo
un contrattempo tecnico ha fatto perdere completamente i dati relativi alle latitudini più elevare (>75°S),
ossia quelli verosimilmente più interessanti. Ciò non toglie che le informazioni raccolte, pur parziali, siano
state di grande utilità. Per la prima volta infatti, dopo i famosi fiumi scoperti dalla capsula Huygens, il radar
riuscì a dimostrare che, almeno alle medie latitudini meridionali, il terreno è molto rugoso ed intaccato da un
impressionante intrico di tracciati fluviali, alcuni corti, sottili e dendriformi (ossia caratterizzati da una
moltitudine di affluenti), altri lunghi anche centinaia di km, larghi 1-2 km e meandriformi. Attorno a 65°S di
latitudine il terreno cambia decisamente aspetto, diventando molto scuro quindi, verosimilmente, molto
piatto. L’impressione che si tratti di una regione ricoperta parzialmente o totalmente da materiali fluidi, è
suffragata dalla particolare morfologia del terreno di confine che, con i suoi bordi ruvidi e arrotondati, appare
molto simile ad una successione di spiagge e insenature lasciate in secca dalla ‘bassa marea’ o dalla
parziale evaporazione di metano liquido.
La scoperta di laghi polari di metano liquido su Titano va a tutti gli effetti ritenuta la più importante dei primi
due anni di esplorazione orbitale della Cassini. Ma non è certo la sola. Da quando infatti la navicella ha
cominciato ad utilizzare il radar i misteri di Titano si sono progressivamente dissolti, facendolo diventare
uno degli oggetti più interessanti del Sistema Solare dopo la Terra. Cercheremo quindi di descrivere tutte le
principali tappe di questa fantastica avventura scientifica.
Con i passaggi ravvicinati di Settembre ’06 (il 7 e il 23), di Ottobre ’06 (il 9 e il 26), di Dicembre ’06 (il 12 e il
28), di Gennaio ’07 (il 13 e il 29), di Febbraio ’07 (il 22) e di Marzo ’07 (il 10 e il 26) la Cassini ha raggiunto
il ragguardevole numero di 26 flyby stretti (distanza inferiore a 1000 Km) con Titano. Ognuno di questi flyby
ha sempre più aumentato la comprensione dei segreti del maggiore dei satelliti di Saturno (diametro=5150
km), reso affascinante da un atmosfera di azoto (N2) e metano (CH4) simile a quella della Terra primordiale,
nella quale uno smog organico rossastro offusca completamente la visione ottica della superficie. La
stessa Cassini, durante il flyby T5 del 16 Aprile ’05, ha contribuito a dimostrare con lo strumento INMS ( Ion
snd Neutral Mass Specrometer) che questo smog è composto da una miscela di idrocarburi complessi,
derivanti dalla decomposizione fotochimica di metano e Azoto negli strati atmosferici più alti.
Per cercare di perforare l’ opacità di questa atmosfera la Cassini ha a disposizione due tecniche. La prima
è: l’utilizzo di alcune finestre nel NIR (vicino infrarosso) attraverso cui il CH4 è trasparente (soprattutto quella
a 0,938 microns): in questo modo lo strumento VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer) ha
ottenuto mappe globali del satellite con risoluzione di qualche di km. Poi c’è la riflessione radar che ha
fornito immagini davvero decisive potendo raggiungere una risoluzione di poche decine o centinaia di metri
(la stessa tecnica venne utilizzata con successo all’ inizio degli anni ’90 dalla sonda Magellano per la
mappatura completa della superficie di Venere). Il lavoro a 0,938 microns è proseguito ininterrotto per tutti i
flyby con Titano finora realizzati, permettendo di ricostruirne una morfologia superficiale davvero enigmatica,
caratterizzata da una netta dicotomia tra la fascia equatoriale e il resto del satellite. In sostanza l’equatore è
dominato da tre bacini scuri trapuntati da ‘isole’ chiare (Fensal, una struttura ad H centrata attorno a O° di
Long,., Shangri-La, centrata alla Long. di 180° , Belet, centrata alla Long. di 270°), mentre il resto della
superficie appare chiara e riflettente (come il ghiaccio). Degno di nota (in quanto ben visibile anche da
Terra e scoperto già nel 1994 dallo Space Telescope) il continente equatoriale di Xanadu, un blocco
4000x2000 km .che divide Shangri-La da Fensal. I terreni scuri equatoriali mostrano confini così netti con i
limitrofi ‘continenti’ chiari, da far pensare che si tratti in realtà di bacini incavati entro cui si riversino
continuamente o saltuariamente grandi quantità di fluidi idrocarburici (soprattutto metano e suoi derivati).
Questa interpretazione ha trovato grande sostegno dalle memorabili immagini riprese il 15 Gennaio ’05
dalla capsula Huygens, che ha avuto la grande fortuna di scendere sulla superficie di Titano proprio in
corrispondenza di una regione (‘Adiri’) di confine tra terreno chiaro e scuro. Huygens ha così potuto scoprire
che la superficie chiara era costituita da un altopiano di ghiaccio intaccato da una rete di fiumi di metano
che trasportavano, verso le regioni scure più incavate, buona parte del materiale carbonioso scuro che
precipita dall’alta atmosfera.. E’ molto interessante aggiungere che, secondo uno studio pubblicato alla fine
del 2005 da Gary Parker (Università dell’ Illenois) l’azione erosiva del metano sul ghiaccio di Titano è simile
a quella dell’acqua sulle rocce terrestri: se infatti la gravità superficiale di Titano è circa 1/7 di quella
terrestre, la viscosità del metano liquido è circa 1/6 di quella dell’acqua, facendo si che, alla fine, la velocità
di scorrimento (quindi il potere corrosivo) dei due fluidi sia paragonabile. Il fatto che i letti dei fiumi di Titano
siano apparsi tutti sistematicamente scuri non è un caso. E’ vero infatti che il metano liquido è di per se
incolore ma, nel contempo, è anche un ottimo solvente per le melme fotochimiche che si depositano in
grande quantità sugli altopiani ghiacciati. Di conseguenza, quando piove (metano) su Titano, i terreni
ghiacciati vengono ripuliti dalle scure melme organiche ivi deposte riprendendo l’originario aspetto chiaro. Il
metano, arricchitosi di questi composti, scorre nei fiumi in forma di liquido scuro e viscoso e finisce per
riversare i composti organici in esso dissolti sui fondali dei bacini dove i fiumi vanno a sfociare. Quando non
piove per un po’ il metano tende ad evaporare: di conseguenza sul fondo dei fiumi e dei laghi la colorazione
diviene sempre più scura, perché la porzione organica colorata (che per il suo alto peso molecolare non può
evaporare) vi si concentra sempre di più.
Questa interpretazione dei dati di Huygens è certamente convincente ma anche interlocutoria: essendo
infatti basata sull’analisi particolareggiata di una piccolissima porzione della superficie titaniana, lasciava
aperte moltissime altre domande. Ci si chiedeva in particolare se la presenza di fiumi era localizzata o
generalizzata, se i ‘mari’ scuri equatoriali erano (o erano stati) effettivamente ricolmi di liquidi idrocarburici,
se esistevano altre zone del ‘pianeta’ adatte all’accumulo di qualche materiale fluido (fosse esso azoto o
metano). Più in generale era necessario cercare testimonianze serie sulla reale esistenza su Titano di
piogge violente e persistenti di metano (senza le quali la presenza di fiumi sarebbe stata inspiegabile).
Senza contare una domanda di fondo ancora più intrigante, vale a dire la fonte primaria del metano che,
decomponendosi di continuo a dare composti fotochimici colorati, sparirebbe del tutto in poco meno di 10
milioni di anni se non venisse di continuo reintrodotto nell’ ambiente.
Ma, per rispondere a tutti questi interrogativi, erano necessarie immagini dotate di una nitidezza ed una
risoluzione nettamente migliori di quelle ottenute nel vicino infrarosso dalla camera VIMS. Ecco allora
l’importanza fondamentale del radar, o meglio del radar ad apertura sintetica, che la Cassini ha già
utilizzato dieci volte nei primi due anni di missione. Ogni volta è stata ‘radiografata’ circa l’ 1% della
superficie titaniana, sotto forma di ‘strisce’ molto sottili come spessore (2-300 km) ma molto lunghe come
estensione (alcune migliaia di km). Durante questa operazione l’antenna parabolica principale da 4 metri
della Cassini lanciava un fascio di microonde contro la superficie di Titano e ne raccoglieva il segnale
riflesso in una posizione molto più avanzata dell’orbita: in questo modo (secondo il concetto della sintesi di
apertura) è possibile raggiungere una risoluzione equivalente a quella di un’antenna di diametro equivalente
alla distanza percorsa dalla sonda tra l’invio e la ricezione riflessa del segnale. E’ necessario ricordare che
con più una superficie è piatta con più appare scura al radar, perché il segnale tende ad essere riflesso in
direzione opposta a quella incidente. Per contro con più una superficie è rugosa o scoscesa, con più appare
chiara al radar, per la sua capacità di retro-riflettere una porzione comunque notevole del raggio incidente.
Il radar venne usato la prima volta dalla Cassini il 26 Ottobre 2004 nella speranza che ne derivassero
informazioni utili alla discesa di Huygens (programmata di lì a meno di tre mesi). La ‘striscia’, lunga 4500
km, partiva a 133° Ovest e 32°N e terminava a 12° Ovest e 29° N. La risoluzione di soli 350 m permise
finalmente di evidenziare dettagli nitidissimi. Questo però non fu sufficiente ad un foltissimo team di geologi
guidati da C.Elachi (attuale direttore del JPL e principale responsabile della missione venusiana Magellano)
per una immediata interpretazione: si vedevano infatti strutture talmente nuove (e differenti da quelle
scoperte su Venere !) che neppure scienziati ben ‘smaliziati’ come quelli del team di Elachi, riuscirono a
darne una immediata interpretazione! La situazione cominciò a cambiare solo dopo sei mesi di lavoro:
venne infatti accertata la presenza di colate chiare di crio-lava, l’esistenza di almeno una caldera vulcanica
di 90 km (Ganesa Macula a 50°N e 87° Ovest), la presenza di uno ‘stagno’ scuro (a 50°N e 55° Ovest)
nonché di molti canali sinuosi, interpretabili ( a posteriori!) come possibili letti fluviali. Non meno significativa
l’assenza totale di crateri da impatto, a dimostrazione di una superficie verosimilmente molto giovane dal
punto di vista geologico.
Il secondo scandaglio radar venne pianificato il 15 Febbraio ’05 ( era passato solo un mese dalla discesa di
Huygens) in occasione del terzo flyby tra Titano e la Cassini (T3). Fu deciso di mantenere lo stesso
intervallo in longitudine (4500 km tra 133 e 12° Ovest) ma di scendere fino a latitudini equatoriali. In questo
modo veniva sorvolata una superficie ‘mista’ (in parte scura e in parte chiara) ad oriente del grande
continente Xanadu. Subito il terreno scuro (all’infrarosso) riservò una grande sorpresa: lungi dal risultare
ricoperto di liquidi, apparve caratterizzato da una ‘strana’ morfologia a strisce (‘graffi del gatto’) inizialmente
fonte di molte discussioni: sembravano dune, ma ci si chiedeva come potesse esistere, sul ghiacciato
Titano, del materiale polveroso che il vento potesse facilmente sollevare e trasportare. Un’altra grande
novità fu la scoperta di alcuni crateri da impatto. Il primo (15°N e 85° Ovest), di dimensioni enormi (diametro
di 400 km) è stato denominato Menrva: si tratta di un bacino a cerchi concentrici, all’interno ed all’esterno
del quale ci sono chiare tracce che immense quantità di ghiaccio si devono essere trasformate in acqua
liquida al momento dell’impatto che l’ ha originato. Il secondo (10°N e 18° Ovest), del diametro di 80 km, è
stato denominato Sinlap ed è poi risultato ben visibile anche in immagini VIMS riprese in occasione dei flyby
T4 (31 Marzo’05) e T5 (16 Aprile’05): alcune catene lineari di colline alte mediamente 300 metri e lunghe
fino a 100 km situate in direzione radiale al cratere stesso , sono state interpretate più come materiale
eiettato dal cratere che come fenomeni di origine tettonica. Anche perché sembrava poco probabile che la
crosta ghiacciata di Titano presentasse qualche tipo di attività orogenetica. Come dire che i dubbi e gli
interrogativi aumentavano al posto che diminuire…
Il flyby T8 del 28 Ottobre ’05 con annesso 4° scandaglio radar, fu fondamentale perché portò le prime
risposte certe, anche se ricche di sorprese. L’area coperta dal radar, situata 10° sotto l’equatore tra 190°320° di Long.Ovest, essendo centrata su uno dei tre principali terreni scuri di Titano (quello di Senkyo-Belet),
sembrava ideale per definire una volta per tutte la natura generale dei terreni scuri. E così è stato.
Belet, lungi dall’essere un bacino colmo di fluidi idrocarburici, è apparso sistematicamente ricoperto da
dune parallele all’equatore, alte 100-200 metri e regolarmente distanziate di un paio di chilometri. Non un
mare di metano, quindi, ma un mare di sabbia… Lunghe a volte fino a 1500 km, le dune erano interrotte
solo dalla presenza saltuaria di ostacoli naturali (‘isole’). La morfologia di queste dune (leggi: rapporto tra
altezza, larghezza e spaziatura) le rende quasi indistinguibili da quelle che ricoprono un buon 5% dei
deserti terrestri (Numidia, Sahara, Australia), facendone supporre una genesi analoga. Il fatto è che, sulla
Terra, i grandi sistemi di dune parallele sono prodotti da forti venti che spirano in una direzione dominante
ma che mostrano anche lievi cambiamenti periodici di angolazione. Ci si chiedeva come fosse possibile un
meccanismo analogo su Titano dove i venti (se ne rese conto anche Huygens in fase di discesa) spirano
fondamentalmente da Est verso Ovest. La risposta è stata fornita nel Maggio ’06 da un folto gruppo di
geologi guidati da R. Lorenz (Università dell’ Arizona): secondo i loro calcoli sarebbero le maree di Saturno
(400 volte più intense di quelle terrestri) a deviare leggermente ora verso Nord ora verso Sud i venti
longitudinali di Titano, con una periodicità di circa 16 giorni, ossia equivalente al periodo di rivoluzione del
satellite. I dati (confermati anche dalle misure in loco di Huygens) parlano di venti spiranti a circa 1,5 km/h:
un valore più che sufficiente per sollevare polvere di 100-200 micron, se si tien conto della bassa gravità
del satellite (1/7 della terrestre) e del fatto che la densità della sua atmosfera superficiale è 4 volte quella
della Terra. Sulla natura della polvere è difficile disquisire: la logica direbbe che sia composta da particelle
di materiale carbonioso scarsamente aggregato in quanto fortemente ‘disidratato’ (leggi: evaporazione
completa del metano che le aveva solubilizzate).
Le distese di dune sono a volte interrotte da strutture lineari chiare (quindi ruvide o dotate di pareti
scoscese) larghe 5-25 km e spesso estese per centinaia di km. Il fatto che qui le dune si interrompono, ne
testimonia una topografia rilevata (si stimano altezze tra 300 e 600 metri) quindi una probabile origine
tettonica per deformazione compressiva della crosta. Si tratta ancora una volta di una scoperta molto
importante, che ha trovato una conferma altimetrica durante il flyby T20 del 26 Ottobre ’06 (va ricordato che
il radar della Cassini non può, su una stessa zona, raccogliere contemporaneamente immagini e lavorare
come altimetro).
Oltre alle scoperte radar appena descritte, il flyby T8 tra Titano e la Cassini ci ha regalato un altro ghiotto
risultato collaterale. Siccome l’estremità più orientale della striscia radar coincideva col sito di atterraggio
della capsula Huygens, ne è derivato un confronto davvero molto istruttivo tra le immagini radar ed i
paesaggi ad altissima risoluzione ripresi al suolo. Si è così capito come Huygens debba essersi in realtà
adagiato nei pressi di una delle tante ‘isole’ di ghiaccio che disseminano la superficie scura della regione di
Shangri-La. Questa stessa regione, durante il medesimo flyby T8, è stata oggetto di uno spettacolare
mosaico a 0,938 microns da parte della camera VIMS.
Mancava però ancora un tassello alla prima indagine radar esplorativa della fascia equatoriale di Titano:
un esame approfondito della morfologia di Xanadu, il grande ‘continente’ che caratterizza l’emisfero di prua
del satellite e che, come accennato, fu il principale dettaglio morfologico individuato nelle prime immagini
infrarosse raccolte a Terra nel a metà degli anni ’90.
I misteri di Xanadu sono crollati sotto i colpi del radar della Cassini il 30 Aprile ’06, in occasione del flyby
T13, fornendoci informazioni ancora una volta entusiasmanti. Il radar sintetico, usato per la 5° volta, ha
scandagliato, con una risoluzione massima di 400 metri, una fascia di 120° di longitudine (da 40° a 160°
Ovest per un totale di 4850 km)) situata circa 10° sotto l’equatore. L’estremità più occidentale copriva una
buona metà del mare scuro di Shangri-La (comprese alcune misteriose ‘isole’).
La scoperta basilare è che il più grande ‘continente’ di Titano (Xanadu è grande come l ‘Australia) è
davvero un …continente, con una morfologia straordinariamente affine a quanto conosciamo sulla Terra. Vi
sono montagne (molto brillanti al radar) dappertutto, a volte isolate (vulcani?), a volte disposte in lunghe
catene. Tra le montagne ci sono valli (sedimentarie?) scure spesso incise da canali meandriformi con tanto
di affluenti (fiumi di metano?). I fiumi maggiori sembrano nascere dalle montagne e terminare la loro corsa
ad Ovest , nell’accogliente bacino scuro di Shangri-La, dove i fondali sono ricoperti da dune di sabbia,
oppure ad Est, in una regione altrettanti scura ma stranamente priva di dune. Qua e là si ritrovano alcuni
crateri da impatto: la maggior parte sono di taglia media (10-30 km), ma in un caso il diametro arriva a 70
km e l’interno presenta un picco centrale
Davvero interessante anche la risoluzione di alcune misteriose strutture all’interno di Shangri-La. Una è
Guabonito, un cerchio a pareti scoscese di 90 km situato appena ad Ovest di Xanadu, interpretabile o
come un cratere da impatto ricolmo di sedimenti eolici o come una caldera vulcanica. Poi ci sono alcune
‘isole’ (le cosiddette ‘faculae) la cui natura era fino ad allora molto incerta. Ebbene, il radar della Cassini ha
chiarito che le isole di Shangri-La sono davvero ‘isole’, ossia piccoli lembi continentali che emergono dal
fondale marino scuro. Lo dimostrano per esempio alcune splendide riprese di Shikoku Facula (una specie
di Inghilterra in formato ridotto) la cui estremità settentrionale è dominata da una struttura conica sormontata
da un bacino scuro di 35 km (vulcano o cratere da impatto ?), il cui centro è attraversato da canali
dendriformi scuri, e la cui estremità meridionale sembra solcata da colline basse e irregolari.
La scoperta di una estesa rete fluviale sia su Xanadu (T13, 5° sorvolo radar) che a latitudini molto più
meridionali (T7, 3° sorvolo radar) pone interrogativi importanti sulla meteorologia di Titano. In sostanza un
sistema così generalizzato di tracciati fluviali impone che su Titano siano presenti condizioni chimico-fisiche
adatte a generare piogge (di metano) anche torrenziali. Su questo punto non si può prescindere dai dati
raccolti dallo strumento HASI a bordo di Huygens, precisi ed interessantissimi al tempo stesso. HASI ha
misurato una pressione al suolo di 1,467 Atm ed una temperatura di -179,5°C, che diminuisce ulteriormente
di una ventina di gradi salendo in quota fino al limite della troposfera (40 km di altezza). Subito dopo, con
l’inizio della stratosfera, la temperatura risale lentamente, raggiungendo al limite di quest’ultima (250 km di
altezza) un valore massimo di -100°C: questo valore rimane poi stabile per i restanti 1000 km di atmosfera
(mesosfera + termosfera). Sempre dalle misure di HASI, si è visto che la concentrazione (molare) di
Metano si mantiene attorno al 5% (rispetto all’ Azoto) dal suolo fino a 8 km di altezza. Poi il metano comincia
a diminuire lentamente assestandosi ad un valore stabile dell’ 1,4% a partire da 32 km di altezza. Da questi
dati, assolutamente fondamentali, T. Takano (Università di Colonia) e Marcello Fuchignoni (responsabile di
HASI) hanno tratto alla fine di Luglio un lavoro che dimostra come l’umidità relativa del metano fosse solo
del 45% sul luogo di atterraggio di Huygens (non poteva quindi piovere), ma che (tenendo presente il calo di
temperatura con l’altezza) si porta in regime di saturazione sopra i 6 km di altezza. Da qui la deduzione
che, tra 8 e 25 km di altezza, deve esistere una nebbia di metano che, tramite una pioggerellina
ininterrotta, depone annualmente uno strato di almeno 50 mm di metano liquido su tutta la superficie
titaniana. Ma se questa pioggerella può spiegare l’aspetto ‘fangoso’ del terreno su cui Huygens si è posato,
la grande rete fluviale scoperta dal radar esige un approccio completamente differente. Esattamente quanto
pubblicato nel Gennaio 2006 da P. Rannou (Università di Versailles). Rannou è partito dall’osservazione
sperimentale (Cassini in orbita e Keck II da Terra) che su Titano, attualmente in regime di estate australe, si
formano due tipi di nuvole: alcune piccole e poco persistenti sempre localizzate a 30-40°S, altre grosse e
molto stabili situate nella regione polare Sud, oltre i 70°S. Perché si formino nuvole è necessario che il
metano atmosferico raggiunga velocemente un regime di saturazione, il che, secondo le leggi della fisica, è
possibile solo se la temperatura diminuisce o se la concentrazione del metano stesso aumenta. Rannou
sceglie la prima possibilità parlando di un preciso ciclo stagionale di tipo monsonico, che si innesca d’estate
con il repentino sollevamento (forse favorito da un contributo mareale di Saturno) di grosse masse d’aria
alle medie latitudini. Il raffreddamento dell’aria in risalita non solo giustifica le labili nubi tropicali, ma
determina anche, scivolando verso la più fredda atmosfera polare a quote di 30-35 km, le più persistenti
nubi presenti alle alte latitudini. Ovviamente il ciclo si inverte quando la stagione estiva si trasferisce
sull’altro emisfero. Interessante quindi l’idea di Rannou, ma ancora incompleta, perché spiega bene la
formazione delle nuvole di Titano, ma non cosa inneschi in esse la genesi di piogge torrenziali. Alla fine di
Luglio ’06, R. Hueso (Università di Bilbao) ha apportato una decisiva modifica alla teoria monsonica di
Lannou, facendo notare come l’ambiente sia assai ricco di quel pulviscolo organico che precipita dall’alta
atmosfera dove si forma per decomposizione fotochimica del metano. Secondo Hueso i granuli di pulviscolo
organico sono nuclei di condensazione molto efficaci, attorno a cui il metano, in regime di saturazione, si
condensa in goccioline dalle dimensioni più che sufficienti (1-5 mm) per creare piogge torrenziali: esse
sarebbero capaci di riversare al suolo fino a 100 kg di metano liquido per metro quadro di superficie in
poche ore.
La teoria monsonica di Rannou-Hueso è dunque non solo possibile ma anche convincente, nel senso che
spiega come faccia l’atmosfera di Titano a trasferire, da un emisfero all’altro, sotto forma di piogge
torrenziali estive, una importante quantità di metano (una stima grossolana parla di uno spessore al suolo
di circa 4 metri). Ma, purtroppo, la teoria monsonica non spiega come mai il tenore di metano si mantenga
stabile su Titano nonostante la sua continua fotodissociazione nell’alta atmosfera.
Si tratta di un problema molto serio che , secondo H. Roe (Univ. Della California) e C. Trujillo (Univ. dell’
Arizona) coinvolge la seconda possibilità fisica perché su Titano si formino nuvole, vale a dire qualche
aumento repentino della concentrazione del metano. Il tutto parte da uno studio sulla meteorologia di Titano
condotto da Terra per 82 notti, nel periodo 2001-4, in contemporanea coi telescopi Keck II e Gemini Nord .
Immagini del disco di Titano ottenute a 2,11 microns con ottiche adattive hanno confermato la presenza
regolare di nubi sia sul polo Sud sia a medie latitudine (attorno a 40°S). In queste ultime, però, c’era
qualcosa di strano: esse tendevano a formarsi in maniera esageratamente veloce e sempre nella stessa
posizione. Da qui l’ idea che a generarle sia qualche fonte endogena di metano (geysers, crio-vulcanesimo)
dotata di attività superficiale intermittente. Nel Marzo ’06 J. Luinine si è spinto ancora più lontano postulando
che gli indizi di attività emissiva intravisti dal Keck II e dal Gemini Nord siano solo la ‘punta dell’ iceberg’. In
sostanza il metano si troverebbe intrappolato in una crosta ghiacciata superficiale (‘clatrato’) di 2-8 km,
sotto la quale un profondo oceano liquido di acqua + 5% di ammoniaca farebbe da veicolo convettivo al
passaggio di varie possibili sorgenti di calore (maree, cristallizzazione del ghiaccio) che, attraversando poi il
clatrato superficiale, lo decomporrebbero provocando la liberazione del metano. Una teoria complicata come
si vede che, a parte i dettagli tecnici, trova una validità intrinseca nel concetto di fondo che lega la
complessa meteorologia di Titano alla presenza di un possibile esteso crio-vulcanesimo. Pensare ad
attività endogena è più che logico dopo la scoperta effettuata dalla capsula Huygens della presenza
nell’atmosfera di Titano di Argo40, un gas tipico delle eruzioni vulcaniche profonde. Il caso più ‘sospetto’ è
senz’altro quello di Hotei Arcus (estremità orientale di Xanadu) una struttura semicircolare di ben 70.000 km2
individuata nel Luglio 2004 dallo strumento VIMS a bordo di Cassini a causa della sua estrema luminosità
infrarossa. La cosa interessante è che l’emissione infrarossa prima si è raddoppiata nel Marzo 2005, poi è
tornata normale nel Novembre 2005, quindi è di nuovo raddoppiata nel Marzo 2006: un chiaro sintomo di
una attività endogena intermittente. Altre testimonianze raccolte dal radar della Cassini rimangono
piuttosto labili, in quanto basate soprattutto su impressioni morfologiche (il flyby T23 del 13 Gennaio ’07 ha
comunque splendidamente confermato la natura vulcanica di Ganesa macula) . Ma bisogna considerare
che finora è stato esplorato col radar poco meno del 10% di superficie. C’ è quindi da star sicuri che se
esistono crio-vulcani attivi su Titano, questi non potranno sfuggire al radar della Cassini nei rimanenti 14
flyby programmati per il 2007 e nei molti altri che seguiranno negli anni successivi.
2.9) GEYSERS IN ATTIVITA’ SUL GELIDO ENCELADO !
La sensazionale scoperta è stata fatta alla fine di Novembre ’05 dalla sonda CASSINI. Il piccolo satellite di Saturno
diventa così il quarto oggetto attivo del Sistema Solare, dopo la Terra, il satellite gioviano Io, e il satellite nettuniano
Tritone.
Tra Dicembre’03 e Maggio’04, durante il suo percorso di avvicinamento a Saturno, lo strumento UVIS
(Ultraviolet Imaging Spectrometer) a bordo della sonda CASSINI condusse accurate misure del tenore di
Ossigeno atomico rilasciato dal debole anello E (raggio medio=230.000 km), entro cui è immerso il satellite
Encelado. Le misure dell’assorbimento ultravioletto a 130,4 nm mostrarono una enorme ciambella di
Ossigeno estesa radialmente per almeno 16 Raggi saturniani (1Rs=58.000 km) e perpendicolarmente per
circa 4 Rs.
Tra Dicembre ’03 e metà Gennaio ’04 la quantità di Ossigeno rilasciata dall’ anello E è apparsa modesta
seppur continua. A determinare questa produzione d Ossigeno è l’ impatto delle particelle energetiche della
magnetosfera di Saturno sul ghiaccio che ne costituisce il materiale principale; questo però vuol dire che l’
anello E si estinguerebbe in meno di 100 milioni di anni se non si postulasse una fonte esterna che di
continuo sostituisca il ghiaccio che è andato perso. Improvvisamente, attorno a metà Febbraio ’04, il
tenore di Ossigeno aumentò in maniera abnorme, fino quasi a raddoppiare, arrivando ad una massa
complessiva rilasciata in poco più di un mese di 500 mila tonnellate. Da qui l’idea che l’ eventuale fonte di
ghiaccio che alimenta l’anello E, debba a volte presentare improvvisi e violenti aumenti di attività. A quei
tempi (mancavano ancora sei mesi all’inserimento della CASSINI in orbita attorno a Saturno) non era per
nulla chiaro da dove provenisse il materiale ghiacciato dell’anello E. Una cosa, però, era chiara: che
all’interno dell’anello E orbitava (a 237.378 km da Saturno) uno stranissimo satellite di ghiaccio (Encelado)
che, pur avendo un diametro di circa 500 km, aveva mostrato, nelle immagini Voyager riprese 25 anni prima
da 80.000 km, una superficie per la gran parte rimodellata da imponenti fenomeni geologici. Se, per caso,
Encelado fosse stato ancora geologicamente attivo, la spiegazione dell’esistenza e della persistenza dell’
anello E ne sarebbe stata una logica conseguenza. Peccato che il Voyager 2 non riuscì a reperire
nessuna testimonianza in questo senso. Cosa che, in fondo, non sorprese più di tanto, dal momento che
pensare ad attività geologica ancora in atto su un corpo piccolo come Encelado (diametro=505 km)
sembrava assurdo (in fondo il vicino satellite Mimas, grande come Encelado, presenta una delle superficie
più antiche dell’ intero sistema saturniano). Sta di fatto che, per le sue peculiarità, Encelado ha costituito e
costituisce uno degli obiettivi primari della missione CASSINI, secondo, solo, come importanza, all’
esplorazione di Titano. Per questo, nell’ambito dei quattro anni della missione primaria, sono stati
programmate molte osservazioni mirate, tra cui quattro i flyby stretti: tre nel 2005 (17 Febbraio da 1167 km,
9 Marzo da 500 km e 14 Luglio da poco meno di 200 km) ed uno il 12 Marzo 2008 (da meno di 1000 km).
Durante i flyby del 17 Febbraio ‘05 (E03) e del 9 Marzo ’05 (E04) la camera ISS (Imaging Science System)
della CASSINI, ottenne le prime spettacolari immagini a media (WAC, Wide Angle Camera) e ad alta
risoluzione (NAC, Narrow Angle Camera) dell’emisfero di prua di Encelado (ossia quello nella direzione del
moto orbitale), sia per quanto riguarda la porzione affacciata a Saturno (17 Febbraio), sia per quanto
riguarda la porzione opposta a Saturno (9 Marzo). La risoluzione almeno 10 volte migliore di quanto fece
nel 1981 il Voyager 2, ha mostrato una superficie ghiacciata geologicamente assai giovane (pochi crateri da
impatto), intaccata da una complicatissima rete di creste e fessure, tanto più numerose quanto più aumenta
la nitidezza delle immagini. Non c’è porzione della superficie di Encelado che non ne sia pesantemente
coinvolta: in alcuni casi si tratta di episodi di rimodellamento molto antichi (crateri sovrapposti a fratture), in
altri casi i terreni sono giovanissimi dal punto di vista geologico (fratture sovrapposte a crateri o, addirittura
assenza di crateri). E’ netta l’impressione che alcune tra le fessure maggiori, internamente sotto-strutturate
in fessure minori, siano delle specie di dorsali in fase di divaricazione, messe in movimento da ghiaccio
‘plastificato’ da qualche fonte interna di calore. Da questo punto di vista è davvero notevole la somiglianza
con strutture analoghe presenti sui satelliti gioviani Ganimede ed Europa. Nel contempo, se davvero la
presenza di queste bande di fessure parallele testimonia la formazione di nuova crosta ghiacciata, si
giustifica anche l’esistenza più o meno generalizzata di creste, interpretabili come porzioni di superficie
dove la crosta ha subito una decisa compressione laterale. Immagini appositamente riprese dalla CASSINI
sul bordo del satellite, vicino al terminatore hanno rilevato dislivelli massimi di poche centinaia di metri (< 1
km), a dimostrazione, che nonostante la sua attività geologica globale, Encelado, avendo una composizione
ghiacciata, deve avere una superficie fondamentalmente piatta.
E’ interessante aggiungere che la porzione geologicamente più antica di Encelado (maggior quantità di
crateri) si identifica con i terreni adiacenti alla regione polare Nord. Poi, man mano che si scende verso
Sud, il numero di crateri diminuisce sempre di più fino quasi a scomparire in corrispondenza delle latitudini
meridionali più elevate. In sostanza, quindi, le immagini ottiche dei primi due Flyby della CASSINI hanno
confermato la presenza su Encelado di un intensa attività geologica : questa dovette coinvolgere nel
passato l’intera superficie, mentre attualmente sembra localizzata soprattutto attorno al polo Sud. In che
cosa consistesse questa attività geologica non risultò immediatamente evidente, perché i terreni attorno al
polo Sud vennero scrutati solo di profilo ed in maniera frammentaria. Se, però, le iniziali immagini ottiche
della CASSINI furono interlocutorie, ben più efficaci furono i risultati degli altri strumenti di bordo.
Le prime misure rivelatrici sono state acquisite dalla CASSINI con il magnetometro MAG: in occasione di
entrambi i flyby di Febbraio e Marzo ’05, vennero infatti osservate distorsioni del campo magnetico di
Saturno nei pressi di Encelado, ed oscillazioni con una frequenza compatibile con la presenza di vapor
d’acqua ionizzata. Come dire che attorno ad Encelado ci doveva essere una atmosfera piuttosto densa in
grado di fare da ostacolo al plasma intrappolato nella magnetosfera di Saturno.
Ma pensare ad una atmosfera stabile attorno ad un corpo di soli 505 chilometri di diametro era
improponibile. Da qui l’idea che potesse esistere, sul satellite, una qualche fonte endogena di molecole
d’acqua che rinnovasse di continuo quanta se ne perdeva nello spazio: il che, in pratica, era come
ammettere, un qualche tipo di attività geologica ancora in atto. Fortunatamente, il flyby del 9 Marzo ’05
offriva un’opportunità davvero ghiotta di confermare la presenza di una qualche atmosfera: si trattava
dell’occultazione da parte di Encelado della stella λ Scorpii, che la CASSINI seguì in ogni dettaglio con lo
strumento UVIS (Ultraviolet Imaging Spectrograph). E’ noto che la presenza di una atmosfera fa sì che
l’attenuazione della luce della stella occultata sia graduale al posto che istantanea. Ma il risultato fu
contrario alle attese: λ Scorpii scomparve e riemerse dalle regioni equatoriali di Encelado in maniera
istantanea, dimostrando che, se anche c’era un’atmosfera, questa doveva essere impercettibile (<un
miliardesimo di quella terrestre!). Eravamo dunque in presenza di due osservazioni inconfutabili ma
contrapposte: una (quella del magnetometro) richiedeva la presenza di una densa atmosfera , l’altra (quella
dell’occultazione stellare) la escludeva! Encelado, insomma diventava ancora più misterioso, quindi
richiedeva indagini molto più approfondite. La conseguenza più immediata di questa situazione fu una
modificazione dei piani del flyby successivo, quello del 14 luglio ’05, che venne abbassato da 1000 km a
circa 175 km. Nei quattro anni della missione primaria, mai la CASSINI ha avvicinato un satellite a distanza
così ridotta: anche per questo il flyby con Encelado del 14 luglio, avvenuto nei pressi del polo sud, è stato
decisivo.
La prima grossa sorpresa è venuta dallo spettrometro infrarosso CIRS (Composite Infrared Spectrometer)
in avvicinamento che, da 84.000 km, ha raccolto la radiazione termica di Encelado tra 9 e 16,5 microns.
Per un corpo di ghiaccio altamente riflettente (albedo vicino al 90%), posto alla distanza di Saturno dal Sole,
era facile prevedere una temperatura media di circa -200°C, con valori anche inferiori sui poli, a causa
della forte inclinazione della già debolissima radiazione solare. Ebbene, mentre per le regioni equatoriali di
Encelado la temperatura misurata coincideva con le previsioni teoriche, qualcosa di molto strano è stato
osservato sul polo Sud. Qui infatti era presente una specie di macchia ‘termica’ dove la temperatura era di
almeno 15°C più alta del previsto, con punti che raggiungevano addirittura i -160°C (ossia qualcosa come
40°C in più rispetto al normale equilibrio termico).
Ancora più interessanti i dati raccolti nel momento del minimo avvicinamento al polo Sud.
Lo spettrometro INMS ( Ion and Neutral Mass Spectrometer), 35 secondi prima di raggiungere la minima
distanza, quando si trovava ad una quota di 270 km, ha infatti rilevato che, almeno in quella regione,
Encelado era circondato da un’atmosfera composta per il 65% di vapor d’acqua, per il 20% di H2 (idrogeno
molecolare) e per il resto di CO + CO2 ( Ossido di carbonio + anidride carbonica) e N2 (Azoto molecolare). La
concentrazione di vapor d’acqua sembrava raggiungere il massimo in corrispondenza di alcune specifiche
regioni della superficie: una situazione perfettamente compatibile con la presenza di un qualche tipo di
sorgente geotermica attiva.
Una conferma a questa interpretazione venne anche dall’analizzatore di particelle CDA ( Cosmic Dust
Analyzer), il cui rivelatore HRD (High Rate Detector) ha evidenziato un netto picco di finissime particelle di
ghiaccio circa 1 minuto prima del massimo avvicinamento, ad un’ altezza di 400 km dalla superficie.
Era chiaro che la fonte (o le fonti) di vapor d’acqua e di particelle di ghiaccio doveva essere la stessa e che
proprio da qui doveva derivare il materiale che alimentava l’anello E.
A posteriori, la presenza su Encelado di una atmosfera ‘localizzata’ sul polo Sud appare perfettamente
compatibile anche con il già accennato risultato dell’ occultazione stellare di λ Scorpii del Marzo ’05: in
quell’occasione la stella non mostrò alcun ammorbidimento nel segnale in entrata ed in uscita per il
semplice fatto che il passaggio dietro Encelado avvenne in posizione equatoriale, dove l’atmosfera è
assente. Per contro l’ 11 Luglio ’05, lo spettrometro UVIS della CASINI riuscì a seguire un’altra
occultazione stellare da parte di Encelado, questa volta coinvolgente γ Orionis (Bellatrix). In quel caso la
stella sparì dietro Encelado dalla parte del polo Sud e riemerse dalla parte dell’equatore: come conseguenza
la curva fotometrica in entrata ha mostrato una attenuazione lenta e morbida, mentre la ripresa del segnale
è stata quasi istantanea al momento dell’uscita. Un esperimento davvero splendido cui si è aggiunto un
notevole effetto ‘collaterale’: quello di poter sfruttare il passaggio della intensa luce di Bellatrix attraverso
la nuvola di materiale uscente dal polo Sud di Encelado per determinarne la composizione. Il risultato è
stato ancora una volta importante: lo spettrometro UVIS non ha infatti avuto difficoltà ad individuare nello
spettro della stella alcuni assorbimenti tipici del vapor d’acqua. A completamento dei vari dati acquisiti dalla
CASSINI nel luglio ‘05, il magnetometro MAG rilevò ancora una volta la stessa netta distorsione della
magnetosfera di Saturno attorno al polo Sud di Encelado già riscontrata nei due flyby precedenti..
Era chiaro che la CASSINI aveva individuato sul polo Sud di Encelado qualche fenomeno sconosciuto e
straordinario. Si trattava di capirne la meccanica ed il contorno morfologico.
Per questo la camera ISS (quella a largo e a piccolo campo) è stata puntata intensivamente sulla porzione
più meridionale dell’ emisfero di Encelado opposto a Saturno, durante tutta la fase di avvicinamento del 14
Luglio ’05.
Ben presto ci si è resi conto che, nella sua globalità, la regione polare Sud di Encelado, fino a circa 60° di
latitudine, presentava una morfologia assolutamente peculiare, mai vista prima su altri corpi del Sistema
Solare. In sostanza un complicato intreccio circolare di fessure e spaccature fa da confine ad un terreno
interno giovanissimo e privo di crateri, solcato a sua volta da una miriade di fessurazioni minori. Ogni tanto i
bordi di questo collare polare si divaricano in direzione radiale (ossia Sud-Nord), sotto forma di enormi
fasce di spaccature che intaccano gran parte del restante emisfero meridionale. Le formazioni più vistose
che caratterizzano l’interno della struttura convettiva polare sono delle striature parallele (lunghezza attorno
ai 120 km, larghezza di 1-2 km e separazione reciproca di una quarantina di km) che assumono una
colorazione blu-scura quando riprese in immagini in falsi colori (UV a 338 nm + VIS a 568nm + IR a 752 nm):
per questo loro aspetto sono state soprannominate ‘tiger strips’ (strisce della tigre). Alcune immagini ad alta
risoluzione (40 e 4 metri !) del terreno tra le strisce, riprese dalla CASSINI nel momento del sorvolo alla
distanza di soli 208 km, sono impressionanti: la superficie, dove non c’è alcuna traccia di crateri da impatto,
è dominata da una miriade di blocchi di ghiaccio di dimensioni variabili tra 10 e 100 metri. Si tratta di una
morfologia dal significato attualmente oscuro, in quanto sconosciuta su altri satelliti di ghiaccio (tipo Europa,
Ganimede o Tritone): prevale comunque l’idea che ci possa essere un collegamento con la particolare
geologia attiva che caratterizza questa regione. Riprese a 2 microns realizzate il 14 Luglio ’05 dalla
CASSINI con la camera VIMS (Visibile and Infrared Imaging Spectrometer) indicano che l’interno delle tiger
strips deve essere ricco di ghiaccio altamente cristallino, un fenomeno spiegabile solo in presenza di
qualche fonte endogena di calore. Calore che è stato evidenziato in maniera inconfutabile dello strumento
CIRS (Composite Infrared Spectrometer): una serie di rilievi effettuati a cavallo di una di queste strisce
scure, ha infatti dimostrato che il valore di temperatura saliva gradualmente fino ad un massimo laddove si
apriva la fessura per poi ridiscendere velocemente al valore ambiente allontanandosi da essa. Altri dati
interessanti sono stati presentati da R.H. Brown (Università dell’ Arizona), responsabile dello spettrometro
VIMS ( Visual and Infrared Spectrometer) a bordo della CASSINI, durante il 37° DPS (Division of the
Planetary Sciences) tenutosi a Londra alla metà di Settembre: dalle tiger strips sembra emergere CO2
(anidride carbonica) assieme ad una serie di semplici idrocarburi, come CH4 (metano), C2H6 (etano), C2H4
(etilene).
I primi tre flyby della CASSINI con Encelado hanno rintracciato importanti prove termiche e spettroscopiche
dell’ esistenza di attività geologica ancora in atto sul polo Sud del satellite. Mancava, però, ancora un
importante tassello a questa sceneggiatura: la scoperta diretta di geysers attivi, come era stato fatto dal
Voyager 1 per Io nel Marzo 79 e dal Voyager 2 per Tritone nell’ Agosto ’89.
Ebbene, anche questa ultima parte della storia si è completata lo scorso 27 Novembre ’05, quando la
CASSINI ha osservato in maniera continuativa per 36 minuti, una falce molto stretta di Encelado (angolo
di fase di 161°) da una distanza di circa 145.000 km. Il risultato è stato sensazionale: la luce solare radente
ha infatti evidenziato, sul polo Sud, una serie di geyser ad intensità variabile, che proiettavano materiale
fino ad un’ altezza di almeno 500 km (quindi con estensione paragonabile al diametro del satellite). Che non
si trattasse di un artefatto era dimostrato dal fatto che l’ impronta dell’ attività emissiva si conservava
nonostante il cambiamento, nel tempo, dell’angolo visuale tra Encelado e la CASSINI. Tutto lasciava
supporre, inoltre, che l’attività fosse normale e non episodica: indizi della presenza di geysers erano infatti
già stati acquisiti il 16 Gennaio ’05, quando la CASSINI passò a 209.000 km da Encelado: solo che allora
l’angolo di fase meno favorevole (148°) aveva gettato seri dubbi sulla realtà del fenomeno.
Sempre durante le osservazioni del 26 Novembre ’05, lo spettrometro VIMS a bordo della CASSINI ha
cercato di determinare spettroscopicamente la composizione del materiale eiettato dai geyser polari di
Encelado. E’ stato così possibile appurare che dalla superficie ghiacciata (doppio picco a 1,5 e 2 microns)
emergeva un getto di particelle di ghiaccio con dimensione media di 10 microns (picco allargato a 2,9
microns): verosimilmente era proprio quella la sorgente primaria del materiale dell’ anello E (entro cui
Encelado è immerso e per il quale lo stesso VIMS ha misurato un massimo di assorbimento nella regione
2,9-3,2 microns).
Discutere sul meccanismo che sta alla base di questa straordinaria attività geologica non è facile. Di sicuro,
deve essere coinvolto qualche tipo di interazione mareale, probabilmente in aggiunta a quella, troppo
debole e lontana, di Saturno.
La cosa più semplice da pensare è che dalle tiger strips polari di Encelado esca direttamente del vapor
d’acqua che veicola altri gas carbonici ed idrocarburici e che , a contatto con la gelida temperatura esterna
(attorno a -200°C) si trasforma quasi istantaneamente in polvere di ghiaccio. Il problema è che l’uscita di
vapor d’acqua implica la presenza di acqua liquida nel sottosuolo di Encelado. Una cosa che parrebbe
assurda in un corpo così gelido. Si può però dimostrare (lo fece J. Ruiz, dell’ Università di Madrid, per
Callisto, nel 2001) che in un corpo ad alta componente di ghiaccio il calore radiogenico primordiale può
creare, alla profondità di qualche decina di km, un guscio di acqua liquida, che rimane tale per miliardi di
anni grazie allo scudo ‘anti-termico’ del ghiaccio soprastante ed all’altissima pressione ambiente. Proprio a
causa dell’enorme pressione che la coinvolge, l’acqua profonda tende immediatamente a sfuggire verso
l’esterno qualora la superficie venisse intaccata da profonde fratture. Fratture, che, come abbiamo visto,
non mancano certo dalle parti di Encelado e che presentano attualmente la massima giovinezza geologica
sul polo Sud del satellite. Perché questo succeda è attualmente in fase di studio. Sembra, comunque, che gli
indizi maggiori siano diretti verso una risonanza 2:1 tra Encelado (periodo di rivoluzione=1,37 giorni) e la
più lontana luna Dione (periodo di rivoluzione=2,737 giorni), la cui superficie, ripresa dalla CASSINI alla
metà di Ottobre ’05, ha mostrato a sua volta indizi di debole attività geologica.
La scoperta, da parte dello spettrometro INMS, della presenza di N2 (Azoto) ed H2 (Idrogeno) tra i materiali
emessi dai geyser di Encelado, permette di apportare una utile variante al meccanismo sopra descritto.
Se infatti interpretiamo la presenza di N2 + H2 come indizio dell’ esistenza di NH3 (ammoniaca), una
molecola primordiale molto labile, quindi molto difficile da individuare spettroscopicamente (la CASSINI non
ne ha trovato traccia neanche su Titano, dove ne dovrebbe esistere in gran quantità per giustificare la densa
atmosfera di Azoto), viene spontaneo pensare che nel sottosuolo di Encelado possa in realtà esistere
uno strato di acqua mescolata ad ammoniaca. Il punto di congelamento di questa soluzione può abbassarsi
anche di 100°C rispetto a quello dell’acqua pura, rendendone quindi molto più probabile il trasporto
convettivo verso l’esterno.
Ci sono pochi dubbi che la scoperta di geyser attivi sul polo Sud di Encelado sia la più sensazionale dopo
l’esplorazione di Titano (che, tra l’altro prosegue attivamente con il radar, dopo la discesa della capsula
HUYGENS in Gennaio ’05). Questo nuovo tipo di attività geologica si aggiunge alle poche altre finora note
(vulcani terrestri da tettonica, vulcani mareali di Io, geyser idrocarburici di Tritone), ed è grande il desiderio
di approfondirne ulteriormente i meccanismi. Lo dovranno fare nei prossimi anni i teorici per cercare di
capire come e dove le forze di marea sono coinvolte nel processo. Ma soprattutto notizie di importanza
basilare sono arrivate il 12 Marzo ’08, quando la sonda CASSINI, è riuscita nell’impresa memorabile di
entrare direttamente all’interno dei geyser di Encelado. L’analisi diretta dei materiali emessi ha lasciato
letteralmente esterrefatti gli scienziati di mezzo mondo: chi avrebbe infatti mai immaginato che, assieme ad
una grande quantità di vapor d’acqua, dal polo Sud del satellite emergono anche moltissime molecole
organiche a base di carbonio, molto simili a quelle tipiche dell’attività cometaria.
2.10) LE DUE FACCE DI GIAPETO.
Il primo ed unico flyby stretto tra la sonda Cassini e l’ 8° satellite di Saturno ha dato esiti sorprendenti, confermandone
una forma a guscio di noce, con mezza superficie bianca come il latte e mezza superficie nera come il carbone..
A dieci anni dalla partenza (avvenuta il 15 Ottobre ’97) e dopo 4 anni di lavoro orbitale attorno a Saturno,
lo stato di salute della sonda Cassini rimane ottima da ogni punto di vista, con tutti gli strumenti ancora
perfettamente funzionanti secondo le specifiche. Ciò non toglie che l’attesissimo (in quanto unico in tutta la
missione ) flyby stretto del 10 Settembre ’07 con Giapeto sarebbe completamente fallito se fosse avvenuto
con un sol giorno di ritardo rispetto alla data programmata. Ad accorgersi di questa malaugurata possibilità
è stata Julie Castillo ed il suo team (J.P.L.) che, dopo aver lavorato per anni per programmare al meglio
l’incontro, si apprestava l’ 11 Settembre a raccogliere in California, con le grandi parabole del Deep Space
Network, i dati e le immagini di Giapeto che la Cassini aveva immagazzinato nel computer di bordo il giorno
precedente. All’ improvviso, dopo il riversamento a Terra di non più del del 30% dei dati, il computer della
Cassini si è messo nella cosiddetta situazione di safe mode, ossia si è bloccato, con il conseguente
spegnimento di tutti gli strumenti. Sono bastate poche ore per capire la causa di questo evento imprevisto:
un raggio cosmico particolarmente energetico aveva colpito casualmente la memoria del computer, facendo
immediatamente scattare le procedure di salvaguardia di tutte le parti elettroniche più delicate. Capito
questo è stato facile sbloccare il computer e ricominciare senza problemi il riversamento a Terra dei dati. Se
però il raggio cosmico avesse colpito la Cassini il giorno prima, durante il flyby con Giapeto, lo spegnimento
del computer avrebbe avuto effetti ovviamente disastrosi. Un bel colpo di fortuna (il ritardo di un giorno di
quel malefico raggio cosmico), che ha permesso di acquisire senza danni una enorme quantità di
informazioni di inestimabile valore scientifico: sì, perché il flyby della Cassini con Giapeto del 10 Settembre
’07 si colloca sicuramente tra gli eventi più entusiasmanti dell’ intera missione. Ma procediamo con ordine.
Quando G.D. Cassini scoprì Giapeto, il 25 Ottobre 1671, si rese immediatamente conto che in quel corpo
c’era qualcosa di molto strano: il satellite era infatti ben evidente sul lato ovest di Saturno, ma diventava
praticamente invisibile sul lato Est. Fu lo stesso Cassini ad intuirne correttamente la causa: evidentemente,
muovendosi Giapeto in maniera sincrona attorno a Saturno ( rotazione e rivoluzione in 79,33 giorni) doveva
presentare un emisfero bianco e brillante (quello posteriore) ed un emisfero nero come il carbone (quello
anteriore). Sempre Cassini si rese conto che il bizzarro satellite, rispetto agli altri satelliti saturniani noti, era
peculiare anche dal punto di vista orbitale: ruotava infatti attorno a Saturno su un’orbita inclinata di 15,5° e
piuttosto eccentrica ( e=0,028 e semiasse maggiore= 3,56 milioni di km), quindi soggetta ad importanti
interazioni mareali con Saturno. Il 22 Agosto 1981 la sonda Voyager 2, passando a 966.000 km da
Giapeto, confermò che l’interpretazione di Cassini era corretta: c’era un emisfero anteriore più nero del
…carbone (riflettività <3% e m=11,9) che venne denominato Cassini Regio, mentre l’opposto emisfero, così
brillante da riflettere oltre il 60% della luce solare (m=10,2), venne chiamato Roncevaux Regio. Il Voyager 2
non riuscì a capire il perché di questa incredibile dicotomia (davvero unica in tutto il sistema solare) ma fornì
misure molto accurate della densità del satellite: quasi 1,2 g/cm3, il che significa una composizione
ghiacciata con un 15% di materiali rocciosi. In più scoprì un’ulteriore misteriosa stranezza: quella della
presenza, sul bordo ovest del terreno scuro, di una successione di macchie chiare, che vennero interpretate
come picchi emergenti dal terreno scuro e per questo denominate Voyager Mountains. Che non si trattasse
di un artefatto venne dimostrato il 15 Ottobre ’04 dalla sonda Cassini, che, nel suo primo passaggio dalle
parti di Giapeto, godeva di una geometria più favorevole rispetto a quella del Voyager 2: ma la
considerevole distanza di 1,2 milioni di km non permise alcuna interpretazione realistica. La situazione si
sbloccò immediatamente il 31 Dicembre 2005, quando la sonda Cassini esplorò l’ intera Cassini Regio da
soli da 123.000 Km. Fu scoperto che le Voyager Montains altro non erano che la porzione iniziale di lunga
cresta, alta mediamente fino a 20 km e larga da 20 a 50 km: essa attraversa tutto il terreno scuro per
almeno 1300 km, mantenendosi praticamente coincidente con la linea equatoriale. Non fu però possibile
capire come mai le Voyager Mauntains fossero leggermente disassate rispetto alla cresta principale. In
sostanza la Cassini aveva scoperto che Giapeto assomigliava ad una specie di grande …noce, metà bianca
e metà nera, e questo aveva davvero dell’incredibile. Notevole era anche il fatto che il satellite risultava
fortemente schiacciato ai poli, con un diametro equatoriale (1498 km) che sopravanzava di ben 70 km quello
polare. Chiaro che in questa situazione l’attesa per il flyby da soli 1644 km della Cassini con Giapeto dello
scorso 10 Settembre ’07 era molto grande. Anche perché si è trattato dell’unico incontro veramente
ravvicinato di tutta la missione, avvenuto, per poter acquisire il massimo possibile di informazioni, alla
velocità relativa di soli 2,9 km/sec. Le immagini della cresta che attraversa l’emisfero oscuro, riprese dalla
Cassini da 7300 km di distanza, sono impressionanti e rivelatrici: la grande cordigliera appare costituita da
materiale duro e compatto, che ha subito lo stesso intenso bombardamento meteorico del resto del satellite,
quindi che si deve essere formata in un’era geologica molto molto antica. Sorprendente anche la
spiegazione dell’ accennato disassamento delle Voyager Mauntains: non si tratta della sommità di picchi
che emergono dal terreno scuro, bensì di macchie chiare che intaccano una delle pareti della lunga cresta
equatoriale. Intaccare, però, forse non è la parola giusta: le immagini a più alta risoluzione della Cassini
(solo 50 metri) dimostrano infatti che le macchie bianche sono in realtà ‘isole’ di terreno ghiacciato
originario che per qualche ragione (schermatura del terreno più elevato?) non sono state raggiunte dal
materiale che ha annerito la superficie della Cassini Regio (cresta equatoriale compresa). La scoperta che
la cordigliera equatoriale di Giapeto è costituita da ghiaccio originario molto antico, su cui (verosimilmente in
un secondo tempo) si è depositato uno strato di materiale scuro, è la base di partenza per interpretarne l’
origine. L’ipotesi forse vincente sulla sua formazione, elaborata da Julie Castillo (J.P.L.), si rifà all’ elevato
schiacciamento del diametro polare di Giapeto. Questa deformazione può essere spiegata solo da una
velocità di rotazione primordiale estremamente elevata (diciamo almeno 16 ore) che, sul satellite ancora
caldo e plastico, ne avrebbe dilatato per forza centrifuga la regione equatoriale. L’interazione mareale di
Saturno produsse, però, in pochi milioni di anni, una violenta azione di frenamento, troppo repentina perché
il satellite potesse recuperare la forma sferica (compatibile con l’attuale rotazione di 79 giorni): così, quando
Giapeto si è contratto a livello globale a causa di un raffreddamento ormai avanzato, l’iniziale dilatazione
equatoriale si è trasformata in una lunga cresta, obbligatoriamente collocata nella posizione dove si ritrova
attualmente. Una teoria acuta e convincente che, però, si deve basare su un’ assunzione molto precisa:
che il satellite si sia molto scaldato (fino a diventare plastico) all’ inizio, ma che poi si sia anche raffreddato
molto velocemente. Ebbene, secondo J. Castillo la fonte di calore primordiale deve essere stata una
adeguata dose di Alluminio 26, un isotopo radioattivo a vita breve che era presente nel materiale che
costituiva la nebulosa primordiale. Ma proprio perché a vita breve (tempo di dimezzamento in Magnesio 26
di soli 0,72 milioni di anni), l’ Al26 si è esaurito molto prima che cominciassero ad aggregarsi i corpi principali
del Sistema Solare, lasciando tracce di se stesso solo negli oggetti più antichi (meteoriti e, verosimilmente,
asteroidi). Da qui l’ ulteriore ipotesi di J. Castillo secondo cui Giapeto si sarebbe aggregato molto PRIMA di
tutti gli altri corpi del sistema di Saturno, diciamo non più di 2-3 milioni di anni dopo gli asteroidi: solo così,
infatti, la sua componente rocciosa (che come dicevamo rappresenta circa il 15% della massa) può aver
inglobato la dose di Al26 radioattivo sufficiente per la sua bizzarra evoluzione termica.
La teoria della formazione della cresta equatoriale di Giapeto come effetto di una veloce rotazione iniziale,
poi frenata dalle maree saturniane, non esclude altre possibilità. Per esempio si potrebbe anche invocare il
trasudamento primordiale di materiale caldo dall’interno, attraverso qualche estesa fessurazione della
crosta che iniziava a solidificare. In fondo fenomenici questo tipo (anche se di entità molto inferiore) sono
presenti anche su alcuni satelliti di Urano, come Titania e Ariel.
Questo non è in contrasto con la
coincidenza equatoriale della cresta: bisogna infatti considerare che qualunque fosse la posizione iniziale
della cresta, essa sarebbe stata comunque costretta ad assumere una posizione equatoriale in
conseguenza dell’interazione mareale con Saturno e della conseguente sincronizzazione tra rotazione e
rivoluzione.
Un’altra teoria fa riferimento al collasso mareale di un ipotetico denso anello di materia in orbita fin dall’
inizio attorno a Giapeto. Questa idea, sviluppata a metà del 2006 da W.H Ip (Università di Taiwan) si basa
sul fatto che Giapeto, a causa della sua anomala inclinazione orbitale che gli fa attraversare una regione di
spazio molto ampia, potrebbe aver raccolto, in fase di formazione, una quantità di materiale esterno
sufficiente alla nascita di un denso anello equatoriale (tecnicamente si parla di sfera di Hill molto estesa). Il
collasso di questo anello (forse reso instabile dalle interazioni mareali con Saturno) avrebbe poi prodotto la
cordigliera equatoriale. Una variante di questa sceneggiatura parla di una qualche connessione di causa ed
effetto tra cresta equatoriale ed alta inclinazione orbitale. In sostanza il piano orbitale di Giapeto,
inizialmente complanare con quello degli altri satelliti, sarebbe stato modificato da un grosso impatto
primordiale, dai cui detriti sarebbe poi nato l’anello. Nel Luglio 2007 P.C. Freire (Arecibo Observatory) ha
proposto una teoria ancora più estrema, nel senso che ad accumularsi sull’equatore di Giapeto sarebbe
stato addirittura materiale dell’anello di Saturno. Freire parte dall’osservazione che la cresta di Giapeto si
estende per 110°, ha un’ altezza pressoché costante ed è esattamente simmetrica rispetto alle regione
scura di Cassini Regio che attraversa. Pensare quindi che tra la cresta equatoriale di Giapeto e la scura
Cassini Regio ci sia uno stretto collegamento è tutt’altro che assurdo. Da qui l’idea che, nel lontano passato,
l’ eccentricità dell’ orbita di Giapeto, che doveva allora trovarsi sul piano degli anelli di Saturno, sia stata
fortemente aumentata da un improvviso evento esterno (interazione con un corpo massiccio non
necessariamente in orbita attorno a Saturno). In questo modo Giapeto avrebbe finito con lo sfiorare l’anello
di Saturno, provocandone una violenta ricaduta di frammenti (polvere + ghiaccio) contro la sua regione
equatoriale. Sarebbe così nata la famosa cresta ma nel contempo il calore sviluppatosi per attrito, facendo
sublimare il ghiaccio, avrebbe anche fatto aumentare localmente (ossia in corrispondenza della Cassini
Regio) la concentrazione della polvere scura. La stessa elevata eccentricità orbitale –sempre secondo
Freire- avrebbe successivamente innescato una serie di interazioni gravitazionali tra Giapeto e gli altri
satelliti, il cui risultato finale sarebbe stata l’attuale eccezionale inclinazione orbitale.
Come si vede, l’idea che la cresta equatoriale di Giapeto sia stata prodotta dal collasso di un antico anello
(fosse o no quello di Saturno), implica molte assunzioni ad hoc di difficile dimostrabilità. Per questo
sarebbe sempre stata considerata una semplice curiosità se la sonda Cassini non avesse di recente fatto
una scoperta davvero sorprendente: quella che esistono, nel sistema di Saturno, altri satelliti con
protuberanze equatoriali anche più evidenti di quella di Giapeto. La ricerca, pubblicata all’inizio di Dicembre
’07 da un folto gruppo di geologi guidati da Carolyn Porco (J.P.L.) riguarda i due piccoli satelliti Atlas e
Pan, uno orbitante sul bordo esterno dell’anello A di Saturno, l’altro orbitante all’interno della divisione di
Encke. Entrambi sono dotati di una protuberanza equatoriale così evidente da farli apparire quasi come dei … dischi volanti: in particolare Atlas (diametro equatoriale= 39 km, diametro polare=18 km) presenta un
collare equatoriale alto 3-5 km che ne costituisce quasi il 30% del volume, mentre Pan (diametro
equatoriale=33 km e diametro polare=21 km) possiede un collare equatoriale alto 2-4 km che ne costruisce
circa il 10% del volume. Degno di nota è pure il fatto (ben evidenziato da immagini ad alta risoluzione di
Atlas e di Pan, riprese dalla Cassini rispettivamente nel Giugno ‘07 e nell’ Aprile ‘06) che entrambi hanno
una densità ben inferiore a quella del ghiaccio d’acqua ( 0,41 e 0,34) e che le regioni equatoriali sono molto
lisce, mentre le regioni polari sono scabre e corrugate. Secondo il citato recente lavoro di C. Porco, la
parte scabra sarebbe l’impronta di un cuore di ghiaccio del diametro di una decina di km, formatosi dalla
frammentazione di un corpo maggiore che nel lontano passato si disintegrò dando origine agli anelli di
Saturno. Complesse simulazioni al computer mostrano che questo cuore di ghiaccio ha finito per ripulire il
materiale anulare in cui si trovava immerso, accumulandolo in forma di particelle molto sottili e porose nella
regione equatoriale.
A questo punto, un’origine simile diviene più credibile anche per la cresta equatoriale di Giapeto, dato e non
scontato che il bizzarro satellite fosse mai stato circondato da un suo anello, oppure che per qualche
ragione si fosse immerso nell’anello principale di Saturno. Con il vantaggio che questa ipotesi spiegherebbe
contemporaneamente anche l’esistenza del terreno scuro di Cassini Regio.
Ma un collegamento genetico tra cordigliera equatoriale e terreno scuro limitrofo si scontra con un dato di
fatto che appare inconfutabile nelle immagini ad alta risoluzione riprese dalla Cassini il 10 Settembre scorso:
quello secondo cui NON c’è nessun nuovo cratere che abbia intaccato l’ uniforme colorazione scura della
Cassini Regio, a dimostrazione che essa deve essere geologicamente piuttosto recente e, comunque, ben
successiva alla formazione del terreno craterizzato sottostante.
Una cosa è certa: si tratta della deposizione, sulla bianca crosta ghiacciata del satellite, di uno strato di
materiale scuro dallo spessore molto sottile. A dimostrarlo non è solamente il fatto che è perfettamente
visibile la morfologia della superficie sottostante ma, soprattutto, uno studio di riflessione radar effettuato da
S. Ostro nel Gennaio 2002 (emisfero chiaro) e nel Gennaio 2003 (emisfero scuro) con il radiotelescopio di
Arecibo: siccome le radioonde a 12,6 cm sparate dal radiotelescopio venivano riflesse con la stessa
intensità da entrambi gli emisferi di Giapeto, era facile dedurre che lo spessore del materiale scuro che ne
anneriva uno dei due doveva avere uno spessore di pochi centimetri. Una conclusione, questa, che anche
la Cassini ha potuto confermare il 10 Settembre ’07, utilizzando come radar a microonde la sua antenna
principale da 4 metri (la cosa è parecchio interessante perché è stata la prima e unica indagine radar
condotta su un oggetto diverso da Titano).
Per capire l’ origine del deposito scuro bisogna tener presente che esso si trova sull’emisfero anteriore del
satellite: logico quindi pensare a qualcosa che sia venuto dall’esterno provenendo da direzione opposta.
Degno di nota è anche il fatto che, mentre il materiale scuro riempie in toto i crateri della fascia equatoriale,
sporca di preferenza il bordo settentrionale dei crateri situati alle medie latitudini boreali, ed il bordo
meridionale dei crateri situati alle medie latitudini australi. Il colpevole potrebbe essere stato il nucleo scuro
di una piccola cometa oppure del materiale fuoruscito da un altro satellite contro-rotante rispetto a Giapeto:
Febe, uno scuro oggetto della fascia di Kuiper degradato dagli impatti, che Saturno ha catturato in orbita
retrograda a 13 milioni di km di distanza, sembrerebbe un candidato ideale. La recente scoperta (2001) di
altri 5 piccoli satelliti con una inclinazione orbitale di circa 175°, quindi molto simile a quella di Febe,
parrebbe alzare ulteriormente le quotazioni di Febe: si tratterebbe infatti di frammenti staccatisi da quest’
ultimo in occasione della formazione di Jason, il maggiore (50 km) dei suoi crateri da impatto. E’ verosimile
pensare che l’evento che diede origine alla ‘famiglia di Febe’ possa anche aver sollevato un gran polverone
scuro poi ricaduto sul davanti di Giapeto. Ma per quanto accattivante, questa ipotesi deve fare il conto con
importanti discordanze spettroscopiche, note da tempo e per nulla chiarite dalla Cassini. Si tratta di una serie
di studi condotti quasi contemporaneamente (fine 1998) da T.C. Owen (telescopio infrarosso UKIRT delle
Hawaii) e da B.J. Buratti (Monte Palomar). Il confronto, operato dal team di B. J. Buratti, tra lo spettro di
Febe e quello di alcuni satelliti di Saturno, nella regione 0,3-1 micron, è stato impietoso per Giapeto: il suo
emisfero oscuro si è infatti rivelato decisamente ‘rosso’ (leggi: aumento dell’assorbimento all’aumentare
della lunghezza d’onda) laddove lo spettro di Febe appare invece del tutto ‘piatto’ (leggi: assorbimento
costante all’aumentare della lunghezza d’onda). Ovvio, che in questa situazione, non era possibile parlare
di una qualche ‘parentela’ tra i due satelliti. Piuttosto, e questa è stata la vera sorpresa, l’arrossamento di
Giapeto sembrava la fotocopia dell’ andamento spettrale di Iperone, un altro dei satelliti di Saturno più
stravaganti, la cui forma a ’polpetta’ e la cui la rotazione caotica sono indizio di una storia passata molto
movimentata.
La situazione si è ulteriormente ingarbugliata quando il team di T. C. Owen ( UKIRT, Hawaii) ha esteso la
disamina spettrale dell’emisfero scuro di Giaopeto fino a 4 micron. Oltre ad alcune logiche bande tipiche del
ghiaccio d’ acqua (due deboli a 1,5 e 2 micron ed una intensa a 3 micron) lo spettro è caratterizzato anche
da un profondo assorbimento centrato a 3,2-3,4 micron: siccome si tratta della regione infrarossa tipica dei
legami C-H (Carbonio-Idrogeno), c’ era anche la prova definitiva che fosse uno strato di materiale
carbonioso ad annerire la superficie ghiacciata dell’emisfero anteriore di Giapeto. Ma quale ne era la natura
chimica precisa e quindi la provenienza? Per rispondere a questo interrogativo gli autori hanno fatto tutta
una serie di simulazioni, arrivando ad una conclusione inaspettata: quella secondo cui si tratterebbe dello
stesso catrame organico ricco di Azoto, carbonio e doppi legami, che arrossa l’atmosfera di Titano (il
compianto Carl Sagan lo denominò ‘tolina’ per sottolinearne l’estrema complessità). Da qui la conclusione
che ad ‘incatramare’ l’emisfero scuro di Giapeto sia stato nientemeno che il più interno satellite Titano
(1,22 milioni di km da Saturno). Anche se è ben difficile dire come questo sia successo, T.C. Owen azzarda
un ‘ipotesi: un grosso impatto avrebbe sollevato dalla superficie di Titano una grande quantità di tolina e
l’avrebbe lanciata verso l’esterno fino ad incontrare prima Iperone (1,46 milioni di km da Saturno) e poi
Giapeto (3,56 milioni di km da Saturno). A meno che lo stesso Iperone non sia un prodotto collaterale di
quel gigantesco impatto….
A questo punto è chiaro che Febe, pur ideale per la sua orbita retrograda, sembra del tutto messo fuori
gioco dai riscontri spettroscopici. A meno che…. A meno che l’ arrossamento del materiale scuro che
ricopre l’emisfero anteriore di Giapeto non sia originario ma acquisito, ossia frutto di qualche processo
locale. Di fatto ci sono forti sospetti che la spolverata iniziale di materiale scuro sì sia in qualche modo
evoluta in loco, fino a diventare sempre più nera. Alcune splendide immagini infrarosse, riprese il 10
Settembre ’07 dalla Cassini tra 9 e 16 micron, hanno infatti permesso di rilevare che la temperatura della
superficie scura supera di almeno 25-30°C quella della crosta ghiacciata pulita: una situazione termica
(-143°C contro -173°C) ) più che sufficiente per far sublimare del ghiaccio da Cassini Regio (facendola
diventare sempre più scura) e per favorirne nel contempo un accumulo nelle regioni polari e nell’altro
emisfero (che così diventano sempre più brillanti). I calcoli dicono che la superficie scura di Giapeto perde
per sublimazione circa 20 metri di ghiaccio ogni milione d’anni, laddove, nello stesso periodo, la superficie
chiara perde al massimo uno strato di 10 cm. E’ quindi sensato dedurre che gran parte del ghiaccio se ne
sia ormai andato dall’emisfero anteriore di Giapeto, giustificandone sia la colorazione estremamente scura
sia (forse) una acquisita tendenza del residuo carbonioso a complicarsi chimicamente, quindi ad arrossarsi.