Vincitori concorso Lettura Pensata 2009/2010 Sezione POESIA

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Vincitori concorso Lettura Pensata 2009/2010 Sezione POESIA
Vincitori concorso Lettura Pensata 2009/2010
Sezione POESIA
Classe quinta Scuola primaria
“Mameli” Dese
di Monika Mirabelli
CIO’ CHE...
Ciò che non sono:
non sono buio che ulula al giorno avvenire.
Non sono solo occhi perchè si può vedere anche col cuore.
Non sono vento che strappa ai bambini il loro cielo.
Non sono diversa perchè il mondo è a colori...
Ciò che non ho:
non ho artigli che scavano nei profondi abissi dei cuori.
Non ho tra le mani la luna o il firmamento.
Non ho rubini o diamanti,
perchè non sono quelli i valori importanti.
Non ho tante cose, ma in compenso ho metafore per le mie poesie...
Ciò che non voglio:
non voglio che l'arcobaleno si distrugga per la diversità.
Non voglio che uno ad uno i petali della libertà secchino.
Non voglio un silenzio assoluto nelle nostre menti.
Non voglio che la nebbia nasconda ogni chicco di sabbia...
Ciò che voglio:
voglio che le foglie formini un giorno che mi racchiuda.
Voglio una stella da toccare con un dito.
Voglio un angelo che sorvegli la mia vita.
Voglio ispirazione per descrivere l'immenso...
Ciò che ho:
ho molte amicizie ancora da far nascere.
Ho il sogno felice che scorre nel mio corpo come un fiume.
Ho il mondo che gira intorno alla solidarietà.
Ho anche molte cose che non hanno valore nelle pagine del mio libro...
Ciò che sono:
sono pima che piano si posa su un albero spoglio.
Sono farfalla leggiadra che vola sopra un cielo nero, nero.
Sono luce che risplende come, specchio, negli occhi miei.
Sono lo scopo per cui la mia vita continua...
Classe seconda Scuola secondaria di 1° grado
IC D'Annunzio Jesolo
di Oleg Prysyazhnyuk
LA VITA
Nascere
è come
vedere
una luce
Morire
è come
accendere
una candela
e poi
spegnerla
con dolore.
Classe quarta
Liceo Scientifico Parini di Mestre
di Marco Maccaferri
NEVE SULL’ AFGHANISTAN
Come fiocchi di neve invernale
cadono ordigni su volti velati;
bambini che corrono e
raccolgono regali di morte
una mano recisa,
un piede,
pezzi di corpo martoriato,
tributi pagati all’implacabile civiltà.
Sinfonia di deflagrazioni
esplode una musica nel vento
come di femmineo lamento,
pianto di donne che furono madri..
SEZIONE “LETTORI IN ERBA” – SCUOLA PRIMARIA
1° CLASSIFICATA
BEATRICE STEFANI, classe 5, D.D. Tintoretto - Venezia
Recensione del libro di PHILIP CAVENER - Sebastian Dark nella città dei briganti
MOTIVAZIONE
L’elaborato si distingue per freschezza comunicativa.
La recensione:
Luperchi, bufanti, giullari che non fanno ridere, re che uccidono i discendenti per rimanere al trono,
guerrieri alti mezzo metro…. Ma dove siamo finiti?! Nella citta’ di Keldron ovviamente, dove
SEBASTIAN e CORNELIUS si sono appena trasferiti e dove abita KERIN una principessina che
ha un vero talento per i guai, indovinate chi dovrà salvarla dalla città dei briganti?????E’ una storia
indimenticabile che consiglio a tutti i lettori di libri d'avventura.
2° CLASSIFICATO
Alessandro Callegaro, classe 1 D.D. Dolo
Recensione del libro di Sue Denim Dav Pilkey - Largo ai Tontoloni!
MOTIVAZIONE
L’elaborato si distingue per la capacità comunicativa.
La recensione:
Per leggere questo libro mi sono fatto aiutare un po’ da papà perché certe volte io sbaglio perché
non capisco bene come si legge una parola perché ho imparato da poco a leggere. I Tontoloni è una
famiglia di tre conigli che si chiamano tontoloni non perché è il loro vero cognome,ma perché fanno
tutto al contrario. Quando sono andati al cinema hanno preso una vaschetta, anzi una vasca da
bagno, di pop corn e non vedevano niente del film: non guardavano lo schermo perché dicevano che
c’era troppa luce ed era troppo piccolo così guardavano il proiettore e avevano creato un’ombra che
si proiettava sullo schermo. Proprio un gran divertimento!Consiglio a tutti i miei amici di leggerlo
così anche loro si fanno un sacco di risate.
3° CLASSIFICATA
Daria Vianello, classe 3 I.C. Nievo – San Donà di Piave
Recensione del libro di Roberto Piumini - Tanti amici per Holly Hobbie
MOTIVAZIONE
L’elaborato fa emergere una lettrice attenta e matura.
La recensione:
Questo libro parla di una bambina di nome Holly che riceve molte lettere da amici diversi e che,
alla fine, gentilmente, risponde scrivendo una lettera uguale per tutti. Il libro mi è piaciuto perchè
esprime pensieri, sentimenti, segreti attraverso la lettera, cosa molto diversa dal parlarsi e che crea
un legame di grande fiducia tra chi scrive e chi risponde. E' molto rilassante leggere una lettera ed è
profondo comprendere ciò che un compagno o una compagna ti scrive. Inoltre ricevere una lettera ti
fa sentire importante, ma anche necessario e utile se la lettera parla di un problema. Ho capito che
quando si scrive a qualcuno si possono esprimere i propri sentimenti , le proprie idee o ancora i
propri dubbi. E' questa la magia della comunicazione più antica e, ad essere sinceri, trovo che sia la
più vera, quella che ti permette di scoprire cose diverse ed emozioni più forti. Ricevere una lettera,
inoltre, può essere anche romantico!
SEZIONE “L’UOMO E LA NATURA” – SCUOLE SECONDARIE DI PRIMO GRADO
1° CLASSIFICATA
Chiara Luria, classe 1 media IC Nievo – San Donà di Piave
Recensione del libro di F. H. Burnett - Il giardino segreto
MOTIVAZIONE
La recensione si distingue per lo stile efficace e per le riflessioni che denotano una lettrice attenta e
matura.
La recensione:
“Il giardino segreto continuava a fiorire, svelando ogni giorno nuovi miracoli” : il miracolo della
vita e della gioia nei cuori. Questo è il messaggio che F:H: Burnett, autrice del libro ‘Il giardino
segreto’ vuole comunicare al lettore: le piantine liberate dall’erba che le soffocava grazie a una
bimba e riscaldate dal sole crescono rapidamente e fioriscono risvegliando negli animi gli affetti
famigliari perduti. Frances Hodgson Burnett nasce in Inghilterra nel 1849 e si trasferisce negli Stati
Uniti con la famiglia nel 1865; a poco a poco diventa scrittrice di successo di romanzi popolari dove
i maggiori protagonisti sono ragazzi normali, ma soli che, grazie all’amicizia, al contatto con gli
animali e le piante riescono a crescere, maturare cambiare il proprio destino diventando persone
serene e aperte al contatto con gli altri. Ed è proprio quello che succede ne “Il giardino segreto”, la
storia di Mary, una ragazza orfana e scontrosa che, dopo la morte dei genitori in India, torna in
Inghilterra per vivere con uno zio sconosciuto nel castello di Misselthwaite, un luogo fosco e
infelice che le riserverà, tuttavia, molte sorprese: un giardino apparentemente proibito, un cugino
malaticcio di cui ignorava l’esistenza, un ‘magico’ pettirosso. Uno dei punti più emozionanti e
significativi del libro è sicuramente la scoperta del giardino, il vero protagonista della storia. Mary
aiutata dal pettirosso riesce a trovare la chiave sepolta da tempo e la porta nascosta da una folta
edera: la bimba ha il cuore che batte forte e le mani tremanti per l’emozione e anche l’inseparabile
pettirosso “cinguettava e saltellava, piegando il capino ora da una parte ora dall’altra, come se
anch’esso partecipasse all’eccitazione della sua nuova amichetta”. Grazie a un semplice uccellino
che canta dolcemente, la bambina scoprirà “il luogo più bello e misterioso che si potesse
immaginare”: le piantine hanno bisogno di lei ed ella donerà loro tutto l’amore possibile per farle
rinascere tanto che “le pareva che decine e decine di piantine…. gioissero con lei”. E il loro nuovo
rifiorire servirà soprattutto a salvare la vita di Colin, il cugino viziato di Mary che tutti considerano
malato, ma che in realtà ha solo bisogno di amore e spensieratezza. Egli su una sedia a rotelle dalla
nascita, comincerà a muovere i suoi primi passi proprio nel giardino segreto ormai rigoglioso e
pieno di vita per lui. L’uomo, purtroppo, a volte si sente onnipotente, rende il mondo grigio di
asfalto e rosso di mattoni, pensando di poter essere felice, in realtà senza il verde degli alberi, il
“buon odore della terra umida”, il colore brillante dei fiori non potrà mai godere pienamente della
magia della vita. Colin dice ai suoi amici “E, ogni volta che, qui nel giardino, ho guardato il cielo
attraverso i rami degli alberi, mi sono sentito il cuore gonfio di gioia, senza sapere il perché”. I
pensieri, le incomprensioni, tutto sembra sparire, mentre camminiamo immersi nella natura, come
se fossimo mille miglia lontano dal resto del mondo. E sarà proprio nel giardino, pieno di colori,
che Colin e suo padre si incontreranno praticamente per la prima volta e ricominceranno a vivere.. Il
libro si conclude con l’immagine del padre che attraversa il prato con il figlio, un ragazzo “dagli
splendidi occhi ridenti”: una storia emozionante, ma soprattutto un inno alla vita in mezzo alla
natura.
2° CLASSIFICATA
Camilla Ferron, classe 2 media Giuliani - Dolo
Recensione del libro di Mauro Corona - L’ombra del bastone
MOTIVAZIONE
Il lavoro dimostra originalità stilistica e mature riflessioni personali.
La recensione:
Questa è la storia di un triangolo amoroso:Raggio con sua moglie e l’amico Zino. Raggio e Zino
sono amici legati da un terribile segreto: hanno ucciso la strega Melissa che si vendica poi di loro e
di tutti quelli che hanno partecipato al suo delitto. Questa maledizione rende quasi pazzo Raggio e
fa innamorare Zino di sua moglie. Così i due amici si trovano l’uno contro l’altro, tanto che la
moglie convince Zino ad avvelenare l’amico. Nemmeno Zino si salva dalla maledizione e finisce
con l’impiccarsi. Sullo sfondo di questa storia vi sono le vicende di altre famiglie, ma soprattutto vi
è l’asprezza del paesaggio, la rigidità del clima e la durezza delle condizioni di vita e di lavoro. Una
nota di dolcezza viene data dalla nascita di Neve, una bambina buonissima che sembra far miracoli
e che per Zino è la parte buona di Melissa che torna in vita. Già dalle prime righe del romanzo, Zino
presenta la sua terra: “selvatica e ripida che non dà niente di buono, solo fatica, ma che a me piace
tanto”. Descrive così la sua montagna che non si fa domare; è la terra in cui è nato e che ama
profondamente, ma, per lasciarlo vivere lì, gli richiede tanto sudore della fronte e tanto sforzo di
muscoli: “lavorò giorno e notte a scarpellare le erte delle porte e delle finestre”. L’ asprezza
dell’ambiente tiene in ostaggio chi ci vive, la terra dona quel poco che è sufficiente per tenerli legati
ad essa, talvolta li porta con sé senza pietà: “videro Toni alzarsi per aria come’na piuma col vento e
in mezzo al fuoco… il fulmine lo aveva spogliato”. È una terra avara di frutti, che non perdona chi
la tradisce. A volte qualcuno tenta di andarsene per cercare condizioni di vita migliori, ma, poi, il
suo cuore piange, la nostalgia lo afferra e il pensiero torna sempre a lei: la montagna. Così il
fuggiasco ritorna perché “quando volti la schiena al tuo paese è da piangere”. L’isolamento della
montagna porta a credere alla superstizione e alla stregoneria, tanto che Raggio diventa pazzo: “aprì
di colpo la spina della caldiera piena di latte pronto per essere cagliato perché gli pareva fusse
sangue anche quello e voleva buttarlo via”. In questo ambiente poco accogliente, nasce,
nell’inverno più freddo, una bambina che sopravvive miracolosamente alla rigidità del clima. È
vista come una speranza, come la vittoria del bene sul male e, per questo, gli abitanti credono nella
santità della piccola che sembra compiere miracoli. “Neve lo aveva fatto diventare buono
fermandogli il braccio col badile quando stava per copare la Storna”. Questo tipo di ambiente forma
nelle persone un carattere molto passionale ed è proprio la passione dei due amanti che domina il
romanzo. Alla fine, però, la montagna fa pagare il conto: Zino viene assalito dal rimorso per il male
che ha fatto e si suicida: “chiedo perdono a tutti e perdono tutti, perché anche io sono stato
maltrattato da altri. Nella pace del Signore e nella sua misericordia divina abbandono questo mondo
e questa vita che mi ha disfatto”. Dopo aver letto il libro e capito il profondo legame che lega
l’uomo alla sua montagna, non ci si stupisce più dei sentimenti di passione, odio e rimorso, o dalla
superstizione, della pazzia e della santità: è tutta opera sua, della montagna.
3° CLASSIFICATO
Andrea Baldo, classe 3 media
Recensione del libro di Aarto Paasilinna - L'anno della lepre
MOTIVAZIONE
L’elaborato, oltre a presentare riflessioni personali, ricostruisce con uno stile accurato la trama del
libro.
La recensione:
Il libro, intitolato “L’anno della lepre” (titolo originale “Janiksen vuosi”), scritto da Arto Paasilinna
(traduzione dal finlandese di Ernesto Boella), è uscito per la prima volta a Helsinki nel 1975 e nel
1994 in Italia. Paasilinna nasce a Kittila il 20 aprile 1942. E’ stato giornalista, poeta e
guardiaboschi. E’ uno degli scrittori finlandesi più conosciuti all’ estero, infatti parte delle sue opere
sono state tradotte in quarantacinque lingue. Questo romanzo è uno di quelli che hanno riscosso
maggior successo all’estero, grazie al quale Arto Paasilinna vinse il premio italiano “Giuseppe
Acerbi” e dal quale hanno tratto due film. I libri di Paasilinna generalmente riflettono la vita
comune finlandese, rappresentata con molto umorismo; in essi si parla molto anche della difesa
dell’ ambiente e della vita naturale. Il protagonista è Kaarlo Vatanen, un giornalista sposato, ma
scontento della sua donna, depresso e deluso dai suoi sogni irrealizzati. Nel romanzo non vi è un
preciso personaggio secondario, ma, nei vari episodi del racconto, sono presenti dei coprotagonisti,
ognuno con una propria caratteristica speciale. All’ inizio il racconto presenta Vatanen mentre, con
un suo amico collega, sta tornando a Helsinki in macchina, di ritorno da un viaggio di lavoro. Il
collega di Vatanen, che sta guidando, investe una lepre, perché il sole al tramonto gli impedisce la
vista. L’ animale fugge dentro la foresta con una gamba spezzata. Vatanen raggiunge la lepre e
decide di fuggire nella foresta insieme all’ animale. Da quel momento taglia i contatti con la sua
vecchia vita e comincia a vagare per la Finlandia, risalendola lungo la Karelia (un fiume di quel
Paese). Vatanen incontra molta gente strana, tra questi dei veterinari che visitano la lepre. Durante il
viaggio Vatanen vive varie avventure: viene arrestato ingiustamente, ma è subito rilasciato; aiuta a
spegnere un incendio e a portare delle mucche in salvo; si addormenta in una chiesa con una lepre
che lascia palline di sterco dappertutto e suscita la reazione del pastore protestante che gli spara
senza riuscire a colpirla; fa la respirazione bocca a bocca ad un vecchio senza accorgersi che era già
morto; vende dei carri armati sovietici ed uccide un orso oltrepassando il confine con l’ URSS. Lì
viene arrestato, ma è subito riportato in Finlandia per essere processato. Viene incarcerato, ma
riesce ad evadere. Il tema principale del libro è la relazione tra l’uomo e la natura. Vatanen, stanco
della monotonia della vita quotidiana, decide di scappare, e di andare dove il mondo è allo stato
originario. Questo libro, quindi, ricorda all’uomo le sue radici e spiega che, per quanto egli possa
progredire, resta sempre legato alla natura. L’autore fa della lepre il simbolo della natura: il legame
tra l’animale e il protagonista rispecchia la bellezza del rapporto tra la natura e l’ uomo, infatti tutti
coloro che vedono la lepre (la natura) ne rimangono affascinati. Le emozioni umane sono invece
descritte con un umorismo molto originale e a tratti amaro, che caratterizza la personalità del
protagonista. Questo libro mi ha impressionato da subito per la bellezza dei paesaggi descritti e mi
ha fatto crescere l’amore per la natura. L’autore è molto preciso anche nel descrivere i sentimenti di
delusione che provano gli esseri umani. Io, come tredicenne, però, preferisco libri che raccontano
una storia unica dall’inizio alla fine, mentre questo libro è strutturato in tanti piccoli episodi, se non
fosse per questa sua struttura, mi sarebbe piaciuto ancora di più.
SEZIONE “ROMANZO DI FORMAZIONE” – BIENNIO SCUOLE SECONDARIE DI II
GRADO
1° CLASSIFICATA
Giulia Buratto, classe II Liceo Montale – San Donà di Piave
Recensione del libro di Alessandro D'Avenia - Bianca come il latte, rossa come il sangue
MOTIVAZIONE
La recensione si distingue per freschezza e padronanza del linguaggio oltre che per le riflessioni
personali.
La recensione:
Può un sedicenne qualunque, impegnato tra amici, scuola, sport e motorino avere un nemico che
solo la colonna sonora giusta, un bat-cinquantino senza freni e qualche canzone da suonare in
compagnia possono sconfiggere? Si, se quel nemico è il bianco. Un colore silenzioso, che non ha
confini, un niente. Il bianco non è un colore a differenza degli altri, che sono anche emozioni. Il
bianco non è il rosso tempestoso che ti travolge e ti fa crollare. E' il colore del mondo indifferente
ed estraneo che a volte gira attorno ai giovani Il bianco è la forza che atterrisce Leo, studente della
prima liceo di un liceo classico, il capitano della ciurma dei suoi amici. Per lui è il colore
dell'assenza, della privazione e della perdita. L'azzurro è il colore degli occhi di Silvia, la sua
migliore amica e realtà più vicina ma difficile da vedere, affidabile, serena e rassicurante. Il rosso
invece è il colore dei capelli di Beatrice, dell'adrenalina, dell'amore, della passione, del sangue e dei
sogni. Perchè Beatrice è il sogno segreto di Leo. Poi c'è quel supplente di storia e filosofia, il
Sognatore, che racconte le storie delle Mille e una notte, di un uomo umile e povero ignaro di un
tesoro vicino, di viaggi alla ricerca dei sogni che solo un uomo che ha fede in ciò che è al di sopra
della sua portata e che per questo permette all'umanità di compiere dei passi avanti, può fare.
Secondo gli studenti il professore non sa nulla della realtà quotidiana, è solo uno “sfigato”, che però
piano piano li porta a comprendere la vita, spettatore dei loro viaggi verso l'età adulta e la
consapevolezza. Per Leo, ragazzo innamorato con due genitori presenti e attenti, non ci sono molte
filosofie di vita, giri di parole, orari di scuola, obblighi e verifiche. L'unica cosa che conta è la vita,
che a volte è imprevedibile e toglie le proprie certezze e speranze. A volte i sogni si sfaldano per
uno strano e impensabile scherzo del destino e allora tutto esplode lasciandoci soli e basiti. Beatrice
è ammalata di una malattia bianca, la leucemia, e deve morire. Allora Leo spiega il mondo,
accompagnato dagli adulti, il suo pubblico. Un viaggio moderno in cui il protagonista è aiutato
anche dal T9, quell'invenzione del XXI secolo che ti suggerisce moltissime parole, che a volte
capisce ciò che provi, come quando vuoi scrivere “scusa” e viene fuori “paura”, che in fondo è
quella che spesso proviamo. Ma grazie a lui si può provare a comunicare con Dio, e allora esce la
parola Fin, che come soprannome per lui non è poi male, anzi lo fa sentire più amico e vicino. E alla
fine è a lui che ci si rivolge quando tutto cade e gli chiediamo di togliere, di distruggere tutto perchè
ciò che abbiamo perso, la persona che si perde, non potrà più tornare indietro. Ma poi si rinasce, si
capisce che la perdita non lo è fino in fondo perchè ci porta nuove conoscienze, si esce dalla
solitudine e si cerca di trovare uno scopo nella propria vita. E allora si capisce che amare è un
verbo, che cresce, sale, si inabissa, poi risale e sgorga fecondando ogni cosa. Amare è un'azione, a
volte stupida e crudele perchè ferisce. Per i Greci l'uomo, inizialmente sferico, venne diviso e le duè
metà vagano per il mondo cercandosi e, quando alla fine si ritrovano, hanno difetti e debolezze ma
grazie all'amore gli spigoli cercano di combaciare per poi fondersi assieme. Bisogna scavare dentro
di sé, inseguire i propi sogni immortali, comprendere che al dolore segue l'amore, in un circolo
continuo, ma che bisogna avere il coraggio di credere in qualcosa di grande e bello. Un libro in cui i
giovani si riconoscono, in cui ai ragazzi alle prese con sesso, canne e differenti sballi si oppongono
adolescenti alla ricerca di solide relazioni, di sogni e che si pongono dubbi su temi come Dio e la
sofferenza. Un libro in cui gli adulti incoraggiano i giovani ad affrontare il futuro, in cui
l'adolescenza è un'epoca straordinaria in cui i giovani scoprono se stessi. Un libro che mescola le
realtà di oggi, come Facebook o le canzoni di Gianna Nannini, con i versi e le opere di diversi
autori, Omero, Dante, Eschilo, Auden, Shakespear, Eraclito. E che soprattutto aiuta a crescere,
perchè ogni anno il primo giorno di scuola nasciamo e poi invecchiamo crescendo in soli duecento
giorni. Anche se la scuola la consideriamo un dovere noioso e non ci rendiamo conto che
principalmente in quel luogo, che assiste ad ogni nostra sconfitta e alla successiva vittoria, che vede
nascere delle tenere e brevi relazioni, gruppi di amici, merende e compiti scambiati, noi impariamo
a crescere e ad affrontare la vita.
SEZIONE “I LEGAMI FAMILIARI” – TRIENNIO SCUOLE SECONDARIE DI II
GRADO
1° CLASSIFICATA
Anna Bortolussi, classe IV Liceo Galilei - San Donà di Piave
Recensione del libro di Gianni Biondillo - Nel nome del padre
MOTIVAZIONE
La recensione si distingue per l’efficacia comunicativa oltre che per le puntuali e originali
riflessioni sul temi affrontati dal romanzo.
La recensione:
Una storia difficile, coinvolgente, intensa, che lascia un ricordo profondo nel lettore. E’ la storia di
Luca, un affermato professionista con una gran passione per la musica e di Sonia, una bellissima
ragazza solare, sempre pronta a ridere, sempre pronta a scherzare e ad affrontare la vita con
coraggio, senza mai aggirare gli ostacoli, capace di vivere ogni momento della propria esistenza con
energia sempre rinnovata. Si conoscono, si amano, si sposano e dalla loro unione nasce Alice, una
bambina stupenda. E’ la storia di un matrimonio apparentemente perfetto, di due persone certe di
amarsi per sempre; poi la vita prende una direzione diversa. Sonia fa cambiare lavoro a Luca, gli
sceglie l’arredamento giusto, i vestiti giusti, tutto giusto, ma costoso. E Luca deve lavorare sempre
di più, sempre di più; torna sempre meno a casa e la vita cambia. Arriva la separazione e con essa
un dramma inaspettato per Luca: l’affidamento dell’amata figlia Alice all’ex moglie Sonia. E’
questo l’argomento affrontato da Gianni Biondillo nel suo ultimo libro”Nel nome del padre”, edito
da Guanda. E’ un romanzo che affronta il tema della sofferenza di tutti gli uomini che si ritrovano
di colpo a diventare non solo ex mariti, ma anche ex padri e, come tali, a non avere talora più diritti,
a non sapere più niente della vita dei propri figli, a non poterli più vedere anche per mesi. L’autore
riesce a coinvolgere il lettore fin dalla prima pagina, quando ci ritroviamo all’interno di una stanza
in disordine, dove Luca, la sera della vigilia di Natale, ubriaco e sconvolto, tiene una pistola in
mano ed è pronto a concludere la propria esistenza. Sembra quasi che il finale sia già scontato, ma
Biondillo ci lascia con il fiato sospeso; la narrazione si interrompe e comincia un’altra storia che ci
aiuta a comprendere come si sia giunti all’epilogo di questa vicenda. Con una prosa accattivante ed
efficace, l’autore utilizza ampiamente una serie di flashback, terribilmente messi a fuoco e allo
stesso tempo lacunosi come la sua memoria, che, ponendo il lettore su due piani temporali distinti,
ripercorre gli avvenimenti che hanno portato a una separazione dolorosa, piena di rancore, di odio,
di rimpianti per una vita che si credeva sarebbe stata serena. E’ una questione complessa e “forte”
quella affrontata da Biondillo, certo non nuova, come dimostra il film “Kramer contro Kramer” che
risale a trent’anni fa, ambientato in una società americana diversa, però, dalla nostra. La novità e la
freschezza di questo romanzo stanno nel non essere scritto “contro la parte femminile”, ma contro
l’idea che il fallimento di una coppia possa essere attribuito solo a una delle due parti. Ciò che più
colpisce di questo autore è il rovesciamento del modo più consueto di affrontare il tema del
divorzio: per una volta viene presa in considerazione la posizione del padre non affidatario. La
tragicità della situazione, analizzata con pungente realismo, colpisce profondamente il lettore. Con
forza narrativa l’autore ci porta a identificarci con tutti i sentimenti dei personaggi che vivono in
questo romanzo. Con la disperazione di Luca e la sua incredulità, con la rabbia feroce di Sonia, con
l’infelicità e la solitudine dei loro amici. E, sopra ogni altro, c’è la piccola Alice, quasi un ostaggio
in questa lotta senza esclusione di colpi, Alice che subisce il rancore degli adulti e non osa
manifestare il proprio disagio, cercando, pur così piccola, di mantenere un atteggiamento
imparziale, quasi “super partes”. E poi ancora Luca, che cerca di far chiarezza in se stesso e nel suo
passato, lottando con rabbia e incredulità, incontrando altri uomini nella sua situazione, studiando in
maniera ossessiva le leggi e cercando di far pagare il meno possibile a sua figlia. Ed il finale porta a
un percorso di crescita che avvicina lettore e protagonista in una storia che appartiene al nostro
mondo di oggi, in cui la strada seguita per dare un senso alla propria quotidianità porta a rivedere i
valori importanti della propria vita e a lottare con fermezza contro schemi, leggi e stereotipi che non
tengono conto dell’individualità delle persone.
2° CLASSIFICATA
Giulia Zornetta, classe V Istituto Lazzari - Dolo
Recensione del libro di Carlo Sgorlon - La carrozza di rame
MOTIVAZIONE
La recensione si distingue per lo stile stringato ed efficace.
La recensione:
La storia si svolge a Malvernis, paese pedemontano del Friuli. Protagonisti sono la giovane
Valentina appartenente ad una famiglia patriarcale, i De Odorico, e Alain, un giovane innamorato
perdutamente di lei. Il giorno del matrimonio Alain prende la sua carrozza color rame ma per una
serie di disavventure giunge in ritardo alle nozze: inspiegabilmente, quando ormai tutto sembra
perduto, la situazione si risolve ed il matrimonio viene celebrato. La mattina seguente, però, parte a
galoppo e nessuno saprà più niente di lui. Tutto questo viene ricordato da Emilio, frutto dell’amore
tra Valentina ed Alain. Solo alla fine si scoprirà il mistero di Emilio……… quale sarà? Ci sarà una
spiegazione a tutto questo? Un romanzo travolgente, che lascia con il fiato sospeso, ricco di fascino,
magia e mistero.
SEZIONE “LEGGIAMO I CLASSICI”
SEGNALAZIONE
Anna Finozzi, V Liceo XXV aprile, Portogruaro
Recensione del libro di Euripide - Le troadi
MOTIVAZIONE
Il lavoro si distingue per l’accuratezza formale e per l’approfondita analisi dei personaggi e delle
tematiche presenti nella tragedia.
La recensione:
[Avvertenza. I caratteri greci, per una questione di formattazione, sono stati resi con i caratteri correnti]
Le mura distrutte della città fanno da sfondo alla spiaggia dove, tra le tende degli Achei, la regina di
Troia Ecuba e le altre prigioniere attendono l’esito del sorteggio dei Greci riguardo il proprio
avvenire, straziate dalla perdita dei cari e dalla rovina della città rasa al suolo. Ecuba è distesa a
terra in una posizione di intenso dolore, quasi ad impersonare lei stessa Troia, di cui non rimangono
che macerie. Così si aprono “Le Troadi” dell’ateniese Euripide, tragedia messa in scena alle Grandi
Dionisie nella primavera del 415 a.C., inserita in una trilogia cui seguiva un dramma satiresco. La
critica si è trovata in difficoltà nell’attribuire ad Euripide la volontà di far corrispondere un
determinato avvenimento alla tragedia, se all’assedio di Melo del 416 a.C. o se alla spedizione in
Sicilia dell’estate del 415 (di cui le Troadi sarebbero una “anticipazione” della quanto mai
prevedibile vittoria ateniese), ma più o meno tutti concordano nel riconoscere in questa tragedia la
denuncia della guerra del Peloponneso, confermando così l’interesse del poeta alla realtà del suo
tempo. Egli ricalca quelle angosce, quei dubbi, quel profondo e sofferto cambiamento che la guerra
comporta in ogni ambito della vita umana, in ogni settore della società e in ogni coscienza di
cittadino. Euripide mette in scena queste problematiche, relegando gli dei nello sfondo e non
presentando azioni mitiche, ma lasciando uno spazio amplissimo al dolore, alla distruzione fisica e
interiore di chi, sconfitto, cerca una giustificazione alle proprie sofferenze. La tragedia si articola in
quattro episodi, quattro quadri concatenati tra loro grazie alla costante presenza in scena di Ecuba.
A seguito del monologo di Poseidone e del suo dialogo con Atena, inizia la monodia di Ecuba, cosa
singolare poiché tradizionalmente il canto era proprio del coro: questa innovazione è espressa
tramite l’aggettivo “akoreutous” che indica la mancanza del coro sul piano drammaturgico ma
anche l’assenza di ogni gioia, legata all’immagine del coro e della danza, quindi l’estrema
sofferenza che pervade le parole. Euripide mette in bocca ad Ecuba la teorizzazione di una poesia di
ampio respiro che può essere “mousa tois dustenois”, poesia per gli infelici, poesia del lamento e
del pianto tesa all’evasione tramite la ricercatezza e la raffinatezza delle immagini, di cui Euripide
mostra di essere maestro. Segue poi l’ingresso del coro e la parodo commatica, dialogo tra Ecuba e
il primo semicoro, il quale interroga la regina riguardo le cause dei suoi lamenti, e che unito al
secondo semicoro intona un canto disseminato di dorismi, in cui le Troiane esprimono la speranza
di non finire a Sparta ma in luoghi a vario titolo felici, in Tessaglia, ad Atene o in Sicilia. Infine
viene annunciato l’arrivo di Taltibio, messaggero dei Greci, il quale rivela ad Ecuba l’esito tanto
atteso del sorteggio: essa finirà prigioniera di Odisseo, Andromaca di Nottolemo, Cassandra,
sacerdotessa di Apollo votata alla verginità, sarà destinata alle nozze con Agamennone. Per quanto
riguarda la fine di Polissena, l’altra figlia di Ecuba, Taltibio rimane vago e ambiguo e le sue parole
sono imbevute di ironia tragica, ironia che comporta l’uso di espressioni ambivalenti e di termini
che alludono a campi semantici diversi e molto spesso contrastanti rispetto a quelli del discorso
principale. Solo nel secondo episodio Ecuba verrà a sapere che Polissena è stata sacrificata sulla
tomba di Achille. Durante il dialogo Ecuba mostra di disprezzare Odisseo, campione del logos,
quindi ingannatore. Dietro questo intervento si può scorgere una critica ai Sofisti oltre che il
rovesciamento della qualità tradizionale dell’eroe divenuto infido astuto. Il primo episodio vede
l’entrata di Cassandra, la quale sopraggiunge in preda al delirio con in mano una fiaccola, intonando
un’invocazione a Imeneo, dio delle nozze, per il matrimonio forzato al quale è stata destinata.
Subito viene inserito il tema del “makarismos”, ovvero della felicità che due novelli sposi si
augurano di avere dopo il matrimonio. Cassandra dichiara ironicamente “makaria d’ego”, “ben più
felice io”, spia formale dell’estrema tragicità del canto. La presenza dell’invocazione a Ecate, dea
della luce ma anche dell’Ade, esemplifica efficacemente l’ambivalenza delle parole di Cassandra,
giocate tra il motivo delle nozze e quello della cupa previsione sulla fine del matrimonio appunto.
Un altro elemento di ambiguità sono i riferimenti ai deliri delle Baccanti e la frase “conduci tu,
Apollo, ora (la danza)” che allude alla non detta presenza di Dionisio nella parte precedente.
Tornata in sé, inizia il monologo nel quale prevede con amara felicità l’esito disastroso delle nozze
con Agamennone e la rovina che si abbatterà sulla casa degli Atridi. La parte più significativa è il
confronto tra i Greci e i Troiani che si configura come un vero e proprio discorso epidittico, volto a
dimostrare (“deixo”) la superiorità dei vincitori sui vinti: i Troiani infatti sono morti in patria e sono
stati sepolti dai loro cari, hanno combattuto per difendere la loro città e non per una donna, Elena.
Nell’epilogo la guerra viene considerata come un male da evitare per chi è assennato, ma da
affrontare se risulta inevitabile. L’onore (“kalos”), valore principe dell’eroe omerico, dev’essere
conseguito in caso di necessità, ma non essere ricercato come fine a sé. Andromaca, entrando su un
carro con il piccolo Astianatte in braccio, da’ inizio al secondo episodio. Andromaca ed Ecuba
iniziano un dialogo definito “dissoi logoi”, discorso a due voci riguardante lo stesso tema: meglio
morire o rimanere in vita? Per Andromaca morire è preferibile a vivere situazioni di tale sofferenza,
poiché è costretta a sposare Neottolemo e a dedicare tutte le sue virtù al nuovo marito, distruttore di
Troia. Ecuba invece sposa la tesi della speranza: chi vive può ancora sperare e anche se per lei la
sorte si presenta come insuperabile e catastrofica, ad Andromaca rimane Astianatte, figlio di eroi. A
questo punto ritorna Taltibio che, diversamente dalla prima comparsa, ora si mostra in tutta la sua
sensibilità, poiché riesce a dare lo straziante responso solo dopo aver cercato di attutirne l’impatto:
Astianatte dovrà essere gettato dalle mura di Troia. Qui inizia il commovente commiato di
Andromaca, al quale risponde con pianti il figlio, personaggio muto ma decisamente significativo,
ritenuto dai Greci pericoloso perché figlio di Ettore. E’ proprio in questo contesto che i Greci
vengono definiti inventori di “crudeltà barbariche” e quindi barbari essi stessi. Euripide attua qui il
rovesciamento più grande e rivoluzionario di tutta la tragedia, oltre che comporre uno dei brani
patetici più belli di tutta la letteratura greca. Il terzo episodio vede l’entrata di Menelao, che
finalmente può riprendere Elena, la quale , avendolo tradito, si merita l’uccisione, o sul posto o
dopo il ritorno in patria. Menelao subisce la demitizzazione: tradizionalmente eroe viene presentato
ora come uomo mediocre, comune, incapace di prendere una decisione. Elena entra in scena senza
presentazioni e chiede di potersi difendere: ha dunque inizio un “agon logon”, un dibattito tra Elena
ed Ecuba costituito da due discorsi della medesima durata (esordio, argomentazioni, epilogo). Elena
attribuisce la colpa prima ad Ecuba e a Priamo che non hanno soppresso Paride nonostante fosse
nato sotto infausti auspici, poi ad Afrodite, che l’ha usata come “merce di scambio”, infine allo
stesso Menelao che ha fatto entrare Paride nella reggia. Ecuba a sua volta accusa Elena con un
discorso estremamente razionale: Elena ha seguito Paride per pretese di lusso, non per amore e
neanche per colpa delle tre dee. Il dibattito si conclude con la decisione di Menelao di riportare
Elena in Grecia. L’ultimo episodio si ricollega al secondo: Taltibio porta ad Ecuba il cadavere di
Astianatte sullo scudo di Ettore. Ecuba è stata incaricata da Andromaca di dare gli onori funebri al
piccolo. Il compianto è quanto mai straziante: la regina si rivolge prima allo scudo, poi alle parti del
corpo (mani, bocca) del bambino accostando alle attuali immagini raccapriccianti, ricordi di grande
tenerezza, poi nuovamente allo scudo con un raffinato uso della poesia, fondato sul realismo e la
ricercatezza dell’elaborazione espressiva. Il momento culminante viene raggiunto con l’ipotesi
dell’epigrafe cui segue l’espressione molto forte “aiskron poupigramma g’Elladi” , “vergognoso
epigramma per i greci”. Negli ultimi versi dell’intervento di Ecuba viene espressa l’idea della
precarietà della vita dell’uomo. La fortuna viene paragonata ad un individuo capriccioso, a un pazzo
che “salta di qua e di là”: i Greci non devono gioire troppo perché nessuno gode in eterno della
sorte favorevole, che può cambiare da un momento all’altro. Successivamente il cadavere viene
ricomposto e ricoperto con modesti ornamenti. La tragedia si conclude con l’amaro saluto ed i
pianti inconsolabili di Ecuba e delle troiane che si incamminano verso le navi greche mentre la città
viene data alle fiamme. Prima ancora di essere una tragedia di guerra, le Troadi di Euripide si
configurano come uno straccio di umanità, lacerata dalla violenza e dalle armi, dall’empietà dei
vinti, nell’irrazionalità di una situazione che risulta estremamente moderna. Le rovine della guerra e
le catastrofi da essa causate sono ciò che Tucidide definiva “cose che accadono e sempre
accadranno fintantochè la natura degli uomini rimarrà la stessa”. Ed è su questo principio che
possiamo costruire il parallellismo tra l’opera euripidea e ogni altra situazione analoga, in cui tra
vinti e vincitori non vi è differenza, poiché da entrambe le parti molti saranno i morti, molte le
mogli rimaste senza marito, molti i vecchi padri senza figli. La guerra e la violenza appaiono del
tutto irrazionali e tragiche, come tragica e irrazionale è la condizione di miseria ed estrema
sofferenza in cui si trovano le troiane, distrutte dalla perdita dei loro uomini e della loro patria,
disperate per l’avvenire ignoto e terribile al quale sono destinate. Non potendo neanche aggrapparsi
agli dei, le troiane vengono travolte irreversibilmente dalla sorte. Il rapporto tra l’uomo e la divinità
che traspare è conflittuale, come tutto il resto della realtà e non c’è ateismo nel pensiero euripideo,
come criticato dagli uomini del suo tempo, ma piuttosto la consapevolezza tormentata della vanità
delle decisioni umane di fronte al Dio. Basti pensare al momento in cui Ecuba intona una preghiera
particolare a Zeus, facendo seguire al nome del dio non un consueto epiteto ma la messa in
discussione della sua esistenza. Euripide in questo inno coinvolge inoltre le teorie del suo tempo,
“necessità della natura” (Eraclito) e “intelligenza dei mortali” (Anassagora). La realtà desolante che
le donne troiane si trovano a vivere diviene ancor più cruda per la mancanza di certezze: da una
parte la figura enigmatica di Taltibio che è portavoce del destino ignoto che esse dovranno
affrontare e dall’altra la completa assenza di un riferimento religioso. Estremamente non
convenzionale la scelta di Euripide di mettere in scena delle donne barbare e vinte; donne perchè
sono relegate ad un ruolo assolutamente marginale non solo nella sua contemporaneità storica, ma
anche e soprattutto nelle tragedie precedenti (Eschilo e Sofocle); barbare perché sono troiane e
Troia è la prima nemica dei Greci; vinte perché la vittoria dei Greci su Troia è stata l’argomento
celebrato da Omero e dall’epica classica. Qui la vittoria, oltre a sembrare assolutamente vana e
precaria (come Mimnermo: “le cose vanno e vengono”) è lo stravolgimento della tradizione che
culmina nella frase espressa da Ecuba “Greci barbari”. La vittoria è illusoria sia per quanto riguarda
il compenso (morti da entrambe le parti), sia per quanto riguarda lo stratagemma meschino con cui
è stata ottenuta: un cavallo di legno che Euripide sembra voler attribuire non all’astuzia di Odisseo,
ma alla bassezza a cui l’uomo arriva per raggiungere la predominanza. Nelle Troadi Euripide mette
in scena l’uomo, analizzandone la psicologia, l’uomo che cerca di giustificare gli orrori della
guerra, che ne cerca razionalmente le cause ma che alla fine si rassegna di fronte alla dolorosa
irrazionalità della vita.