Mettere un piede in Africa non è stato facile, né lo é stato vedere
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Mettere un piede in Africa non è stato facile, né lo é stato vedere
Mettere un piede in Africa non è stato facile, né lo é stato vedere concretizzato tutto quello che dal nostro mondo si può solo immaginare. Non é facile immergersi in trenta gradi, non é facile rendersi conto di essere solo un misero puntino di fronte a lande sconfinate e, sopra ogni cosa, non é facile toccare con i propri occhi la povertà. Ma é una tappa che desideravo battere da tanto tempo, perché sapevo che solo passando attraverso di essa, avrei potuto vantare orizzonti ancora più ampi. Ho passato un’intera settimana da quando sono tornata a ricalcolare ogni minimo dettaglio, perché solo studiandolo al meglio e osservandolo da ogni lato, sarei stata capace di descriverlo. Ma tuttora non riesco a trovare le parole giuste, perché ai miei occhi non sembrano abbastanza. La verità é che non siamo abituati a vedere la povertà di fronte, la vera povertà fatta di stracci, taniche da riempire con acqua dopo chilometri di strada, capanne senza né corrente elettrica né ogni sorta di agio a cui siamo avvezzi. Il primo pensiero che ha solcato la mia mente é stato “come posso resistere un solo giorno in questa situazione?” o più genericamente “é tutto questo realmente possibile? E’ lo stesso mondo che calpesto ogni giorno?” Perché é questa la prima vera sensazione, quella di essere sbarcati su un altro pianeta. Non oso immaginare cosa si debba provare nel mettere un piede sulla Luna. La prima volta che si sono avvicinati dei bambini era sulla strada da Addis a Soddo, durante una sosta. Non posso che cucire nella mia memoria quel momento come il primo punto di contatto con “quel pianeta”. Per noi che i silenzi sono imbarazzanti, che ci sentiamo a nostro agio solo se riempiamo ogni attimo di parole, credo che quella situazione sia stata così strana, soprattutto senza una lingua con cui comunicare, con cui farsi capire. Ma da quel primo giorno si é pian piano sedimentata in me l’idea che le parole non sono che l’elaborazione formale di un originario e più forte piano di comunicazione, fatto di sguardi, di gesti e degli incontenibili sorrisi di quella gente, di quei bambini. E seppure fossi imbarazzata dall’idea di non poter dire nulla se non “ciao”, o meglio “saro”, e di non saper realmente come comportarmi, ho iniziato a studiare quegli occhi atavici, profondi, pieni di cose da raccontare, che noi abbiamo ingiustamente perso. Ho rivalutato l’importanza dei gesti, riscoprendo quanto calore può esserci in un abbraccio, in una carezza che passa da una mano bianca ad un piccolo volto nero, quanta energia in una semplice stretta di mano. E ancora quanto il canto possa essere urlato e la danza diventare una giostra vorticosa di emozioni da dedicare a nostro Padre. Tutte cose che nel nostro mondo si sono atrofizzate, rimpicciolite e raffreddate, come se avessimo paura di rompere qualcosa, forse il confine invisibile tra noi e gli altri. E così ho compreso come le parole stesse possano essere mezzo di gioia e come si possa ridere sulle differenze più evidenti. Per tutto il tempo in cui sono stata laggiù non mi é stato richiesto di dire la cosa giusta o fare la giusta mossa, ma ho avvertito come prima di tutto ciò venisse celebrata la bellezza dell’essere presenti. O ancora più semplicemente di essere. E’ così che la stessa miseria sociale,che i tuoi occhi ripassano giorno per giorno, diventa più tollerabile. Ma, mentre questo accade, subentra un fastidio. E’ la consapevolezza di provenire da un “pianeta fortunato” a livello formale. Da un paradiso del benessere. Tutte le volte che ritornavamo la sera nella nostra casa, rivedevo davanti a me quei volti, quelle centinaia di bambini che la jeep aveva ricoperto di polvere e lasciato al loro destino e ancora oggi, quando mi faccio una doccia calda o mangio di gusto, mi sembra in cuor mio di tradirli. Di tradirli per continuare ad assicurare a me stessa quello che loro non possono avere o meglio, che gran parte di loro non può avere. Non credo che molti riescano nemmeno ad immaginare la nostra realtà, ma sono fermamente convinta che avvertano in cuor loro quanto noi abbiamo di più, materialmente parlando. Eppure non c’è segno di invidia o di protesta o semplicemente di disprezzo. Soltanto quelle mani tese per chiederti qualcosa. Moneta o caramella. Aiuto per migliorare un poco quella condizione. Ho persino pensato talvolta che fosse una maschera per ingraziarsi l’uomo bianco. Ma la loro spontaneità mi ha avvisato ogni istante che stavo andando fuori strada e così l’hanno fatto la sincerità di quei sorrisi, la bellezza di quei volti solcati dalla sofferenza e rassegnati al cerchio della vita, l’affetto dei loro gesti antichi, la corsa forsennata dei bambini dalle loro capanne per farti un saluto. E’ come se avessero accettato da tempo e senza troppe inquisizioni le differenze che intercorrono tra noi e, anziché ripagarci con l’invidia o l’odio, ci ripaghino col sorriso. Incredibile a vedersi é la curiosità dei bambini, il vero volto dell’Africa, che ti scrutano come un alieno, che osservano la tua pelle bianca, che aspettano che tu faccia una mossa qualsiasi per poi ribattere allo stesso modo. Bambini che camminano scalzi, che badano il gregge, che lottano per arrivare al giorno seguente, per raggiungere l’acqua, bambini di strada, bambini che devono sopportare l’umiliazione del bastone perché venga contenuta la loro ingenua ed evasiva eccitazione. In dieci giorni ho visto centinaia di bambini e mi sono chiesta “chi penserà alla loro fame, alla loro sete, alla loro salute? Chi si curerà dei loro sogni? Chi li alzerà sulle spalle per fargli vedere il mondo dall’alto? E chissà se anche loro sognano di vederlo, il nostro mondo, di diventare qualcuno o molto più semplicemente di leggere una storia, di comprare un giocattolo. Chissà cosa passa nella loro mente e se quando soffrono fanno i capricci come i nostri bambini viziati oppure restano in silenzio a guardare il cielo, chiedendosi se mai qualcuno li ascolterà e cucirà sulle loro schiene un paio di ali.” La più grande lezione che l’Africa ti dà, oltre a saper convivere col dolore, con la povertà, é imparare a piantare anche nel deserto più insopportabile, nella più totale inedia, il seme della gioia di vivere e vedere che attecchisce e porta frutto molto più in quella terra rossa che nei nostri campi, impregnati di fertilizzanti e agenti chimici. Ed io che amo fotografare ho anche appreso che in una terra come l’Africa non hai obiettivi da selezionare, devi usare tutte le lenti, rimpicciolire per vedere meglio paesaggi sconfinati, albe e tramonti rosso fuoco, specchio della terra, e ingrandire per poter ammirare ogni piccolo dettaglio, ogni colore, le pieghe dei volti, la vividezza di quei grandi occhi neri, lo credo che noi tutti veniamo da lì, che la terra africana sia la culla dell’umanità, custode del mistero dell’esistenza e che più ci allontaniamo geograficamente, più ci proiettiamo nel futuro,un futuro pieno di progressi e vittorie, ma in cui siamo ingessati emotivamente, in cui siamo chiusi ognuno nella propria stanza senza riuscire più realmente a comunicare se non con l’ausilio dei social network. La nostra pelle ha perso colore, così come le nostre emozioni e gli stessi edifici che le contengono. Tornare e toccare con mano il luogo dal quale veniamo, solo questo può davvero aiutarci a capire quali sono le priorità e di cosa abbiamo davvero bisogno per vivere, prima di tutto il resto. E’ innegabile il fatto che, tornando in questa realtà, si avverta la mancanza della condivisione, di quella gioia che non può non strapparti un sorriso, di quel calore che é solo umano e di nessun altro. E’ innegabile quanto il nostro sia un paradiso artificiale e completamente esteriore, quanto si sia soli anche in mezzo a tante persone,quanto si avverta il peso della vita su certi volti e in certe affermazioni. Quanto il tempo scorra più rapidamente. Mentre là, nonostante ci sia una realtà per noi infernale e a buon diritto, si avverte un paradiso interiore ed un vero approccio interpersonale. Quando sono tornata, un giorno, camminando in centro con le treccine in testa, ho attirato l’attenzione di un senegalese che vendeva i soliti oggettini abusivamente. Mi ha salutato ed è corso verso di me ed é stato davvero bello poter ricordare l’Africa insieme a lui, che, mi ha confessato, sente la mancanza di quel calore nel nostro mondo. Ed é stato in quell’attimo che ho compreso che non sarebbe stato facile rientrare in questa nostra realtà e che quel paradiso, quella ricchezza interiore, quell’assoluta libertà di essere sé stessi non possono essere oscurate. Così mi sento quasi obbligata a portare un pezzetto di quel sorriso eterno e limpido in questo mondo, nella mia casa, nella mia stanza e alle persone che mi circondano. In attesa, un giorno, di tornare. Silvia Lazzari (Etiopia 2015)