- Castello di Fosdinovo

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La stanza è perfettamente quadrata. È enorme, più grande di quanto riesca a misurare con lo sguardo. Al centro, al centro perfetto della stanza, c'è
il letto. Anche il letto è enorme, altissimo, sembra quasi ci voglia un treppiedi per salirci sopra. È a una piazza sola, nel bel mezzo di questa piazza coperta. Quando ti avvicini il letto impressiona per la sua monumentalità. È tutto
traforato dai tarli, avrà tre, quattrocento anni. Mezzo millennio di lento
lavorio, lo sgranocchiare paziente di piccoli insetti, di pulci penetranti, di
termiti, di tarli del legno. Che assaporano, valutano, perforano, voluttuosi.
La massa del letto potrebbe crollare un giorno, le piantane, la testiera intarsiata di fino, i piedi, i pomelli enormi a coronamento del monumento al
sonno dei giusti: cavi, come ossa di pollo. Crollare. Definitivamente.
Il letto è enorme ma pare piccino al centro della stanza. Un lettino di
bimbi, dove farsi cullare, rassicurare, dove farsi raccontare una fiaba, prima
di dormire. Il sonno dei giusti. Il sonno dei puri.
La volta della stanza ha uno stemma al centro. Goccie. Ramate.
Occorrerebbe un esperto di araldica. Gutta sum. Latino, credo, ma la scritta è cancellata dall’umidità, non riesco a leggere il resto.
Al centro della stanza c’è il letto, accartocciato nel letto, come un feto
deforme ci sono io.
Tutto attorno c’è l’acqua.
L’acqua.
L’acqua.
Tutto attorno c’è solo acqua. E io ho paura.
All’ultimo tornante vedo apparire la massa inerte del castello, con la
grazia della merlatura ghibellina, che lo fa rassomigliare a quello delle fiabe
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della mia infanzia. Il tassista non voleva neppure portarmici. È chiuso,
m’ha detto, non c’è nessuno. Lo so, ho risposto, so quello che faccio. Ora
che vedo la vettura allontanarsi nel buio del bosco inizio a ricredermi. Non
lo so cosa stia facendo, per davvero. Lo sto facendo.
Mi avvicino al rivellino; dietro, nella corte, il volume del maschio troneggia. Trionfa, con la sua pietra a spacco grigia. Pietra serena, in contraddizione col timore che dovrebbe incutere la massa tettonica. Una pietra
tranquilla, serena. Friabile. Oltrepasso l’ingresso, marmoreo, candido, mi
dirigo verso la torre. In pietra serena. Calma, tranquilla, serena. Suono e
attendo. Appoggio la mano sul corpo di fabbrica. Suda. Scaglie di pietra mi
restano fra le dita. Le arenarie non sopportano gli sbalzi di temperatura.
L’acqua trova un pertugio, un alveo, si insinua, come un tarlo del legno,
ghiaccia di notte, crea microfratture, che lente, lente, lente, per anni, secoli, fendono, spaccano, frantumano, polverizzano. Come il letto, enorme.
Cavo, prossimo al crollo definitivo. Al centro della stanza. Smisurata.
Ho bisogno di riposo, non ce la faccio più. Questo ho detto alla mia
agente. Sono prosciugato, senza più forze, devo fermarmi, fermarmi davvero. Duecentonovantasei giorni in giro per il mondo: incontri, vernissage,
conferenze, inaugurazioni, presentazioni, festival, premi. Non ce la faccio
più, devo staccare la spina, fermarmi, non voglio vedere nessuno, non
voglio fare niente di niente. Oziare. Un mese, mi ha detto Vittoria.
Conosco un posto perfetto per te. Lo aprono sei mesi l’anno, d’estate, ora
è chiuso, ancora per un mese. È il castello di un amico mio. Vai, non c’è
nessuno, solo la servitù, discreta, silenziosa. Non devi fare nulla. Niente
internet, niente cellulare. Dormi, annusa i fiori, conta le stelle. Niente di
niente, non voglio fare niente. Solo oziare. Godermi il frutto dei miei dodici milioni di copie vendute nel mondo con l’ultimo romanzo. L’ultimo.
La porta si apre. Ad accogliermi è un uomo basso di statura, il colore
della pelle brunito dai geni, un sorriso candido, innocente. Mi presento,
ma pare non serva neppure. Lo sa chi sono. Sorride, ma non dice nulla.
Non è italiano, forse neppure parla la mia lingua. Mi prende la valigia, mi
fa segno di seguirlo. Le mie scarpe rimbombano sulla volta a botte della
sala del trono. Gli affreschi raccontano la gloria della famiglia dei castellani. Origine perduta nella notte della storia, al crollo dell’impero. Guerrieri
che hanno gettato il loro sangue come sperma in ogni zolla di questa terra
oscura per ingravidarla. Gocce di sangue rubizze. Gutta sum. Non riesco a
leggere il resto.
Da una porta camuffata nella parete saliamo per una rampa ripidissima. All’ammezzato l’uomo appoggia la valigia a terra. Come abbia fatto,
mi chiedo, a portarla su queste scale è misterioso. Non sembra neppure
stanco, sorride come se non sapesse fare altro. Siamo arrivati?, gli chiedo.
Annuisce. Bene, quindi mi capisce. Forse è muto. Appoggia la mano sulla
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maniglia brunita dalla ruggine. Bruna come la sua pelle, quasi si confondono, mano e maniglia. Ha la forma di un’ala, no, di una goccia. I cardini scricchiolano, bruniti dal tarlo che mangia il ferro, che ossida il metallo, che sgretola la durezza sorda della materia, che la rende aleatoria.
La stanza è enorme. Enorme. Enorme. Al centro il letto.
L’uomo sorride, mi indica il bagno, gli asciugamani profumati di
lavanda, mi aiuta a mettere in ordine le camicie nei cassetti. Scricchiolanti,
in noce cupo. Traforato come un merletto dai tarli. L’uomo - non so come
si chiama, provo a chiederlo, non capisce, non risponde. È muto, è sicuramente muto. Ma non fa gesti per farmelo capire, sorride, esegue tutto
quello che dico, ma non mi dice come si chiama - l’uomo si inchina cerimonioso - lo chiamo Michele, l’arcangelo guerriero, che scacciò Lucifero
dal paradiso, lo decido lì, al momento - Michele si inchina. Mi lascia solo,
dietro la porta chiusa. Corrosa dai tarli, pronta a disfarsi, a sgretolarsi di
fronte ai miei occhi. Ho sonno.
Sogno l’imperatore del Giappone, nei giardini imperiali di Kyoto,
seduto in contemplazione del tramonto. È il suo dovere d’imperatore, di
sacerdote, di dio shintoista. È il suo obbligo di padre di un popolo.
Osservare la grazia del tramonto, la vertigine della bellezza. L’ultimo raggio verde che indugia a trafiggergli la cornea. I cirri fendono l’aria del cielo
nipponico, la volta celeste si fa rosa come un oleandro profumato.
L’assoluta bellezza del tramonto nei giardini imperiali di Kyoto.
L’imperatore osserva, pieno di stupore. E il tramonto è un occhio enorme
che si spalanca dietro le colline e lo guarda. Un occhio insanguinato.
Conto i giorni, è una settimana ormai. Ho preso le misure a questo
posto. Ci sto bene. Mi sveglio tardi, ci metto una eternità a fare le mie
abluzioni quotidiane, non ho fretta. Il tavolo della colazione è sempre
colmo di leccornie, ma mi accontento di un po’ di caffé, qualche biscotto
artigianale. Li fa Michele, lo so. Fa tutto lui qui. Non so se è solo, se c’è
qualcun altro. Se c’è, è discreto come un fantasma. Passo la mattina buttato su una sedia a sdraio, in un giardino officinale, nel retro della torre.
Al primo refolo che soffia dalla valle vengo investito dagli odori del rosmarino, che cresce vigoroso. Ho imparato a riconoscere il cambio dell’ora, lo
sforzo dei venti che lottano per sopraffarsi, la vittoria della brezza che sale
dal mare che si vede laggiù, ben oltre lo spacco della valle. Sale, si impossessa del giardino, fa un giro di vento e le narici si riempiono del profumo
voluttuoso della salvia selvatica. Quella, ho imparato, è l’ora del pranzo.
Ché mai Michele è venuto a disturbare il mio ozio, ma ha sempre la tavola pronta, il cibo in caldo, cotto alla perfezione, per la gioia del mio palato. Mangio, bevo, faccio tutto, spoglio di ogni significato ulteriore. Vivo
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nella mia nuda evidenza. Le mie deiezioni hanno assunto una colorazione
nocciola. Feci infantili, innocenti.
Ogni tanto, nel pomeriggio, giro per il castello, scopro, di volta in
volta, un nuovo pertugio, una nuova stanza, un letto, una cassapanca, un
ritratto, un divano. Certe volte mi sdraio, lì dove mi trovo. Anche a terra.
Dormo.
Nella stanza enorme il livello dell’acqua sale inesorabile, non ha sfoghi
dove tracimare, riempie lo spazio con una calma indifferente, fa assomigliare la stanza a una piscina al coperto, a un mare privato, domestico, intimo. Al centro c’è un’isola, che pare piccina ma contiene il tesoro del mio
corpo pulsante. L’acqua è il liquido amniotico dove galleggio, feto accartocciato di quarant’anni. L’acqua è ovunque. Calda, evapora, apre i pori
del mio corpo, lo fa piangere di dolore.
Mi dico da due settimane che forse dovrei uscire, una di queste mattine, dal castello, andare giù al paese. Il borgo lo vedo alla perfezione dallo
spalto della seconda torre. Sembra raggrumato ai piedi del gigante di pietra serena. Come in adorazione, in contemplazione. Come all’ombra della
sua mole protettiva. Poi non scendo mai. Li guardo da qui, gli abitanti del
borgo, sembrano cuccioli indaffarati a vivere le loro piccole esistenze. Io
non sto facendo più niente. Non era quello che volevo, in fondo? Dodici
milioni di copie. Una assurdità. Per non contare gli altri romanzi. Le
ristampe. Le riedizioni. Potrei non fare più niente per tutta la vita. Sono
una gallina dalle uova d’oro, la mia agente si occupa ormai solo di me. È
il mio confessore, il mio analista, se serve la mia amante, lo sfogo delle mie
pulsioni sessuali. Soprattutto da quando Maddalena se ne è andata. La
prima crepa nella perfezione del mio miracolo. Non voglio nulla da te, mi
ha detto Maddalena, non so più chi sei, so cosa sei diventato. Tieniti i tuoi
soldi, tieniti la tua gloria. Sono l’unica cosa che hai. Hai tutto, quindi,
ormai, non hai più nulla.
Vittoria vorrebbe un nuovo romanzo da me. Con calma, mi ha detto.
Hai tutto il tempo. Con calma, pensaci. Un’altra tua storia, un altro tuo
intreccio di mistero, sangue, memoria, intrigo, veleni, mostruosità, visioni, perversioni, morte. Morte. Il mio è un talento malato. Cosa sto lasciando di me al mondo? Forse dovrei scrivere di tutt’altro. Almeno una volta
provarci per davvero. Una storia piena di candore, bianca come un bucato appena steso al sole. Dolce come il miele d’acacia, quello che assaporo
ogni mattina, durante la prima colazione.
Spesso giro nudo per il castello. Tutto il mio corpo vibra. Sente le asperità della paglia quando mi siedo sullo sgabello, a colazione, la ruvidezza
del tessuto della sdraio, il solletico dell’erba, il peso dell’aria nelle stanze
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affrescate. Spesso sto immobile, per ore, nel sottotetto buio. Una volta un
pipistrello s’è posato sulla spalla, le sue zampe mi chiedeva udienza.
Fremevo di stupore.
Un giorno, innocente e nudo, ho spalancato le braccia come se volessi abbracciare la valle intera, sullo spalto più esposto al borgo. Da sotto le
donne si facevano il segno della croce, timorose. Un lume ha attraversato
le stanze sopra la mia testa. Buie, accese, buie. È sicuramente Michele.
Non sono solo, devo ricordarmelo.
C’è una leggenda, come ogni castello che si rispetti. L’ho letta nelle
pagine di un depliant che distribuiscono qui, quando il sito si apre allo
sciamare dei turisti, alle domeniche di festa, alle grigliate nel bosco, alle
passeggiate. La figlia del marchese innamorata del suo stalliere, Peppe, scoperta dal padre, rinchiusa in un convento, per pagare la sua temeraria
voglia di amore. Ma la ragazza è giovane, ha la bellezza dei vent’anni.
Giovane e fertile, le suore la rimandano a casa, gravida. Che ne è stato del
bambino la leggenda non lo narra. Leggo il depliant e osservo gli affreschi
sulle pareti: riconosco la ragazza, Gaia, è il suo nome. Occhi neri, affamati d’amore, capelli come il buio senza luna. Il pittore zelante raffigura la
fila di mattoni che sale, l’opera in fieri, crudele, la punizione paterna:
murarla viva, per pagare l’onta del casato. Da una parte del muro sento, lo
sento davvero, con gli occhi, col cuore, lo strazio del suo corpo disfarsi,
riempirsi di piaghe purulenti, evaporare per amore, percepisco finalmente
l’abbraccio della morte pietosa. Più pietosa del padre, crudele e canuto.
Dall’altra parte, oltre la fila di mattoni, vedo l’uomo dare ordini, con lo
sguardo vitreo della ragione di stato. Del casato. Gutta sum. Gocce ramate in campo azzurro. Come un cielo colmo di pioggia vermiglia.
Se allungo la mano ormai la posso toccare. Il livello dell’acqua ha raggiunto il giaciglio, inzuppato le lenzuola, infradiciato l’imbottitura del
materasso. Quanto manca ancora?
Un lamento. Un lamento. Devo aprire gli occhi, devo farlo, devo provarci, devo riuscirci. Non è un lamento, è la voce di un bambino, una cantilena, una nenia. Si ripete identica a se stessa, ricorsiva, ossessiva. Devo
aprire gli occhi, superare lo strazio di rinascere di nuovo, ogni volta, tornare alla vita, abbandonare i vapori caldi di questa stanza. Aprirli, scucire
il mio sguardo cisposo. Ecco, le ciglia abbandonano l’abbraccio. Ecco. E
lo vedo, in piedi a filo d’acqua, sospeso, come fosse fatto di vento e di
carne. Il bambino continua a cantare sommesso la sua nenia, ha i capelli
bui come una notte senza luna. Mi guarda. Piange lacrime vermiglie.
Lacrime di sangue. Ho paura.
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Dormo un sonno senza sogni, non ricordo nulla al mattino. Sto bene,
sto in pace, non sono mai stato meglio. Prendo il sole, riposo. Ozio. Non
un pensiero attraversa la mia mente, sono una tabula rasa, una lucertola al
sole. La porta finestra cigola alle mie spalle, mi giro appena per salutare
Michele. E vedo l’ombra di una ragazza passarmi accanto. Ho un mancamento, il cuore perde due colpi. Si presenta. Sono Gaia mi dice. Gli occhi
neri, i capelli come il buio della notte senza luna. Sto impazzendo.
Il bambino mi tocca la mano, solleva i miei polsi. Hai guardato nel
ventre del castello?, mi dice monocorde. Non puoi scappare dalle tue
ossessioni, non puoi fuggire da noi. Abbasso lo sguardo sullo specchio dell’acqua e ci vedo riflesso il volto di un uomo che non conosco. Scendo dal
letto e affondo nel liquido amniotico, i miei piedi sentono il pavimento
spugnoso muoversi, intuiscono tentacoli muschiosi attorcigliarsi attorno
alle gambe, per trascinarmi sotto, più sotto. Nel ventre del castello.
La mano di Gaia è calda e paffuta. È vera. La somiglianza con la sua
antica parente è la battuta ricorrente della sua giovane età. È arrivata oggi,
in anticipo, per l’apertura del castello. Gaia come la sua tris-tris-avola.
Scherzi di una genealogia crudele. Ceno con il ritratto reale di una sepolta viva, che ride, che si interessa del mio lavoro. Mattia Floris? Scusami,
ma non ho mai letto nulla di tuo, ho gusti un po’ retrodatati, mi dice. E
ride nascondendo la fila di perle che scintilla fra le labbra con la mano,
pudica. Il marchese arriva a giorni, mi dice. È tuo padre? Non proprio. O
forse sì. Non ti fidare di lui, mi dice, come di nascosto. Lui è Dio. E gli
dei non ci hanno mai amato.
Nella biblioteca del castello ho trovato le pubblicazioni del padrone di
casa, il marchese. Docente universitario, genetista, eminenza grigia nella
comunità scientifica internazionale. In quarta di copertina una foto: identico al ritratto del padre di Gaia, affrescato quattro secoli prima.
Coincidenze. È il mio sguardo malato che trova una storia anche dove non
c’è. Un uomo con i capelli e la barba grigia è uguale a tutti gli altri uomini canuti di tutto il mondo. Non mi devo lasciare assillare dalle mie ossessioni di scrittore. Devo abbandonare la mia fantasia malata. Voglio una
vita anch’io, fuori dalle parole, dentro le cose.
Sono due giorni che non vedo Gaia. Inizio a dubitare di averla vista
per davvero, di averle davvero baciato il lobo dell’orecchio sinistro, e poi
appoggiato le mie labbra sulle sue. Devo andare via da qui. Devo andarmene. Perché non me ne vado? Non sono mai sceso ai piani inferiori,
quelli scavati nella roccia. Nel ventre del Castello. Il mese è quasi finito,
non ho fatto nulla, eppure mi sento stanco, spossato, disarmato. Neppure
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un pensiero al romanzo che volevo scrivere, al romanzo che mi avrebbe
consegnato alla storia della letteratura, che avrebbe dato un senso alla mia
vita. Che ha tutto e perciò nulla.
Si sta alzando il vento, ma non è quello della salvia selvatica. È un vento
improvviso e impetuoso. La pressione precipita, ho la testa che sembra
colma di piombo fuso. Dovrei alzarmi tornare nelle mie stanze, chiudere le
imposte. La testa è così pesante che non riesco neppure a sollevarla dalla
sedia a sdraio. Le nuvole sembrano rincorrersi aggressive, litigiose. Il cielo è
azzurro e buio. Sento odore di terra nell’aria. Poi un lampo che strappa la
volta, poi uno scoppio fragoroso. Precipita all’improvviso, una pioggia cattiva, dura, che ferisce, che fa male. Piovono gocce calde e solide, lacrime vermiglie dal cielo. Una pioggia di sangue incrosta il mio corpo nudo.
Nell’aria limpida del mattino un uomo, dall’alto della torre più alta,
alza al cielo come un rito antico quanto il castello stesso, lo stendardo della
famiglia. Gutta sum. Mi avvicino a lui ancora intontito dalla notte passata. Ho sognato qualcosa, non ricordo bene. Ma ho sognato.
“Pietro”, mi dice, e allunga la mano verso la mia. “Lei deve essere lo
scrittore, giusto? Me ne ha parlato Vittoria di lei. Gran donna Vittoria,
l’ho conosciuta vent’anni fa, all’MIT.”
"All’MIT?”
“Come?” sorride stupito. “Non lo sapeva che Vittoria è laureata in
cibernetica?”
Non so niente. Non ho mai saputo nulla dell’unica persona che ancora è interessata a me. Che uomo sono? Che senso ha la mia vita?
“Come si trova qui?” mi chiede. “Spero abbia riposato. Adoro i suoi
libri, sa?”
Il pavimento in pietra serena sembra maculato di sangue.
“Ha visto cosa ha combinato la pioggia” mi dice.
“Essì” balbetto, cercando una risposta più articolata che non trovo.
“Ogni tanto succede. La polvere delle cave qua dietro viene trasportata dal vento, abbiamo una terra rossa come il fuoco, sa? Se viene intercettata da un acquazzone sembra che piova sangue. Molto suggestivo.”
“Ieri mi ha colto all’improvviso” dico. “Mi sembrava di stare nel bel
mezzo in un film del terrore.”
“Fa una certa impressione, lo so, ma il vero problema poi e lavare tutto
con lo scopettone.”
“Ci pensa Michele” dico io.
“Chi?”
“Michele, l’inserviente…”
Ride di gusto. “Si chiama Bashir.”
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“Bashir” ripeto. “E Gaia si chiama davvero Gaia?” chiedo, senza un
vero senso logico.
“Come?”
“Gaia…”
“Ha visto Gaia?” sembra irritato. Ma è solo per un istante.
“Due giorni fa. È identica al ritratto della sua antenata.”
“Potenza dei geni di famiglia. Siamo riusciti a non disperderne troppi
nei secoli.”
Il letto naviga come una zattera alla deriva nel mare caldo dell’enorme
camera da letto. Ho le braccia spalancate come un cristo in croce, le mani
affondate nel liquido oscuro, i polsi anestetizzati. Il bambino dagli occhi
di sangue canta ancora la sua nenia. Cosa c’è nel ventre del castello, mi
chiede, cosa c’è nel ventre del castello, insiste.
Mi sveglio di scatto. Ho sognato. Sono sicuro di aver sognato. Mi
ricordo una frase: “Il ventre del castello”. Oggi devo andarmene da qui. La
valigia è già pronta, Bashir è stato zelante, come sempre. Anche troppo,
come se volesse mandarmi via. Faccio la colazione. “Il ventre del castello”,
continuo a pensare. Cosa significa? Ho prenotato al telefono un taxi per il
pomeriggio. Mi farò portare al primo aeroporto, poi a casa. Se ho ancora
una casa, ora che non ho più Maddalena. Passo, valigia alla mano, di fronte al ritratto di Gaia. Mi piacerebbe rivederla, salutarla. Mi piacerebbe raccontare una storia, semplice come un bocciolo di rose, così come è lei. Una
storia senza colpi di scena, senza mostri, senza inquietudini. Una storia
semplice, come una favola per bambini, come una nenia. “Cosa c’è nel
ventre del castello?” Ora lo ricordo, netto. La nenia monocorde del bambino con gli occhi insanguinati. Lascio cadere la borsa a terra, mi appoggio al muro. Sto sudando, il cuore fibrilla. Tasto le pareti come se cercassi
di attraversarle, come un fantasma, come un’anima in pena. Poi trovo il
varco. Una scala a chiocciola mi porta giù, dove non sono mai stato, nella
roccia viva, pulsante. Sento un rumore sordo che si fa sempre più forte,
intenso. Sembra il respiro stesso della montagna.
Poi la porta d’acciaio. È la prima cosa che vedo da un mese a questa
parte che ha gli spigoli vivi, lisci, senza incrinature, senza i segni del
tempo, senza un tarlo, senza un dubbio. Là dentro è la risposta, mi dico.
“Lei non può stare qui” mi dice una voce sconosciuta alle mie spalle.
Poi Bashir mi colpisce sul collo e io vedo solo nero.
Sono nel mezzo di una stanza enorme, legato ad un lettino chirurgico.
Nel bianco. Bianco è anche il camice del marchese, Pietro, anche la sua
barba sembra più bianca del solito.
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“Lascialo andare” sento dire a Gaia. “Non ti ha fatto nulla.”
“È proprio vero che buon sangue non mente.” Risponde sarcastico
l’uomo.
Li sento parlare ma io non posso intervenire. Sono paralizzato, riesco
a malapena a muovere le palpebre.
“Potevi non farlo venire, che bisogno c’era?”
“Il metodo sperimentale, cara mia. Sono uno scienziato, te lo ricordi?”
“Tu sei un mostro.”
“Sono tuo padre, non dimenticartelo.”
“Non sei mio padre. Mio padre è morto quattrocento anni fa.”
L’uomo si avvicina al lettino. “Oh, bene, vedo che ci siamo svegliati…”
Provo a dire qualcosa, ma mi sembra di avere la lingua così gonfia che
mi stupisco di non essermi ancora strozzato.
“Lascialo andare. Non gli crederà nessuno…” insiste lei.
“Ah, questa gioventù senza rispetto” mi sussurra lui, come a cercare
solidarietà. “Cosa crede, caro Floris, che abbia paura di quello che dice la
gente? Lo sa cosa mi farebbero gli abitanti di questo posto se potessero?
Sono mille anni che ci odiano… siamo abituati all’odio. Più alta è la paura
della conoscenza, più alto è l’odio per quello che non capiamo, più nobile è la nostra responsabilità di uomini di scienza, non trova?”
“Io” dico, almeno ci provo. “Io… non… ca.. pis… co…”
L’uomo ha in mano una siringa. Si avvicina al mio braccio. Mi agito,
lo sforzo mi debilita ancora di più.
“Si calmi, Flores. Non le faccio nulla, è un semplice prelievo del sangue. Non avrà mica paura, vero? Con tutte quelle storie che scrive, dovrebbe essere vaccinato a queste cose.”
“C… cosa vuole… da… da me..”
Il marchese osserva la siringa colma del mio sangue, soddisfatto.
“Lei ce l’ha un albero genealogico, Floris?”
“C... cosa?”
Scuote il capo. “Ma figuriamoci… se fa un giro per gli archivi delle
parrocchie uno come lei non arriva neppure a metà dell’Ottocento.
Sangue di pecorai, il suo. Ma non si preoccupi, ho pensato io a lei.”
Avvicina il capo, mi guarda fisso negli occhi, il suo sguardo è d’acciaio,
come la porta d’ingresso a questo incubo. “Stallieri, per la precisione.”
“Cosa sta… dicendo…” La lingua sembra meno gonfia, riesco a formulare meglio le frasi.
“Lei è, come dire… il pro-pro-pro-nipote di uno stalliere, caro il mio
Floris. Non si lasci ingannare dal suo cognome altisonante. Lo ha acquisito agli inizi del Novecento, quando la sua famiglia è migrata più a sud.”
Guardo Gaia, come a cercare aiuto. Una spiegazione, qualcosa. Lei
abbassa gli occhi, piange sommessamente.
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“Lascialo andare” riesce a dire, sottovoce.
L’uomo si inalbera, furibondo: “Non ti ho riportata in vita per un
capriccio, capito?” urla come un pazzo. È un pazzo. Tutto questo è folle.
“Non ho cercato il tuo corpo murato nel castello, non ho estratto il tuo
gene dal sangue rappreso delle tue vesti, dalla tua carcassa, non ti ho clonata per gusto sciocco di vederti gironzolarmi attorno, hai capito?”
“Padre” dice lei.
“Non sono tuo padre. Io sono il tuo Dio! Tu sei un esperimento, hai
capito? E lui, lui” indica verso di me, furibondo. “Lui è la prova. La prova!”
Lei alza lo sguardo verso di me, poi lo guarda, odiandolo. “Ho accettato che mi riportassi in vita, in una vita che non è la mia. Ho sofferto il dolore di rivedere un uomo che è l’inconsapevole erede del mio amore perduto.
Ma una cosa non dovevi farla. Dare vita al feto che mi cresceva nel ventre.”
“Ho dato la vita dove nessuno era mai arrivato. Sono più di un Dio.”
“Tu sei il male” dice una voce infantile alle mie spalle.
Poi l’acqua.
L’acqua.
L’acqua che cresce, che sale. L’acqua che giunge, che si insinua, che
lava, che gonfia le giunture, le spacca. Calda, materna, vorace. Il bambino
dalle lacrime di sangue, il feto mai nato, che cammina sulle acque e con
uno spillone arroventato infilza la giugulare del marchese, che esplode in
una fontana di sangue, che si discoglie nell’acqua. L’acqua che ora ha raggiunto il livello del lettino, che inizia a sommergermi, calda, bagna le
mani, tocca i polsi, li anestetizza. Ho paura e sono felice.
Ho paura. E sono felice.
Ho paura.
Non voglio morire.
Alla terza spallata la porta del bagno cedette. La servitù al piano di sotto
s’era accorta che qualcosa non andava con quell’ospite strano che aveva affittato un intero castello per oziare. Non faceva nulla dalla sera alla mattina.
Ogni tanto scribacchiava qualcosa su un quaderno di appunti, ma poi subito
lasciava perdere. Quando hanno visto il rivolo d’acqua scendere per le rampe
delle scale si sono insospettiti. La porta delle stanza occupate dall’uomo era
chiusa, ma aprirla col passepartout era stato semplice. Non si aspettavano il
bagno serrato da dentro, però. Neppure a farlo apposta, quell’ultimo giorno
di vacanza, erano arrivati al castello il marchese, con una sua cara amica,
Vittoria “qualcosa”. Che poi s’era scoperto era anche l’agente letterario di quel
matto che s’era chiuso in bagno, s’era messo nella vasca e aveva aperto l’acqua
calda. E poi tagliato i polsi. Tagli precisi, verticali, a recidere le arterie.
Vittoria piangeva. La spallata che ha spaccato i cardini l’ho data io,
che, non per vantarmi, sono grosso come un toro. Mentre lo portavamo
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via - vi dico la verità, a guardarlo sembrava più di là che di qua - lei ce lo
ha detto chi era, che dovevamo muoverci, che lui era depresso da mesi, che
non riusciva più a scrivere nulla e io quasi non ci credevo! Il grande Mattia
Floris: io ho letto tutti i suoi libri, mi piacciono le storie di paura a me.
Faccio il volontario sulle ambulanza, ma un giorno me ne vado da questa
fogna di paese. Dei suoi libri era bello quello dell’imperatore giapponese.
Ha venduto un sacco di libri quello lì. Vittoria - bella figa, tra l’altro - dice
che Floris era inseguito dalle sue ossessioni, che non riusciva più a vedere
un panorama o un fiore senza vederci dietro una storia di mostri, una perversione, il nero dell’anima. Io non so che cazzo vuole dire. Uno scrive e
morta lì. Questi artisti se la tirano anche troppo. Sei pieno di soldi che
cazzo ti deprimi a fare? T’ha lasciato tua moglie, la ragazza che hai conosciuto quando eri uno squattrinato poeta di provincia… e allora? Che te
ne frega, sai quanti te ne puoi scopare con tutti i soldi che hai fatto?
Il mio incubo è pagare l’affitto di casa ogni mese, altro che. Ma questo a Vittoria mica glielo dico. M’ha preso in simpatia, dice che se Floris
si salva lo deve a me, che mi farà sicuramente un regalo. Se si salva. Io
spero di sì. In fondo mi è simpatico, poi magari mi fanno pure un articolo sul giornale, e faccio morire d’invidia tutti, qui al paese. Per ora mi
porto a cena Vittoria: capace che ci scappa pure una sveltina.
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PEPPE FIORE
Al quinto piano del Lotto 6, interno 10, nel Parco Parva Domus in Via
Piave n° 4 a Napoli - il palazzo in cui ho trascorso i miei primi diciotto
anni di vita - abitava Silvana Vitale. L’appartamento, 105 metri quadri calpestabili ingombri di tappeti e polvere, era dominato dal grande mobile di
falegnameria con le vetrinette di cristallo che occupava quasi tutto il corridoio nel senso della lunghezza. Dentro il mobile, nella semioscurità ristagnante di broccoli lessi e detergenti per il parquet, era la sterminata collezione in vhs con l'opera omnia di Totò. Qui, in un silenzio quasi perfetto
che sembrava parte integrante della muratura della casa, Silvana Vitale in
un silenzio altrettanto perfetto e in perfetta sincronia con la costellazione
di povere cose della sua vita, è invecchiata.
Al quinto piano del lotto 7, il palazzo accanto ma sempre interno 10,
abitava Carmine Alfieri. L’età era abbastanza indefinibile (plausibile,
comunque, tra i quaranta e i cinquanta) gli occhi minuscoli, la nervatura del
corpo da rettile e la pelle cianotica. Carmine, per come me lo ricordo, aveva
una testa da uccello col grande naso che gli pisciava in bocca, e un’apparenza complessiva da residuo di qualcosa. Viveva con la vecchia madre invalida,
era disoccupato, l’unico sistema di sostentamento era la pensione di lei che
bastava per tutti e due. Carmine trascorreva l’esistenza perlopiù in balcone,
con addosso gli stessi calzoncini da tennista e la stessa canottiera FILA grigia dagli esordi della primavera fino agli estremi strascichi dell’estate.
Trascorreva l’esistenza fumando Ms Mild morbide e non fare un cazzo.
Fino ai cinquantadue anni, Silvana Vitale aveva diviso l’appartamento
con il padre Lucio. Lucio Vitale era un ex pianista da caffè concerto, vedo-
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vo da sempre, gentilissimo con tutti i condomini al limite della caricatura. Veniva incontro alle persone con un’andatura gobba che non si capiva
se fosse una deformazione del corpo o l’escrescenza fisica di questa sua
mansuetudine. Gli ultimi tempi (inizi anni novanta) Lucio Vitale e
Silvana Vitale consumavano a casa nostra, al quarto piano dello stesso
palazzo, il cenone della vigilia e tutta la giornata di Natale. Seduto sul
grande divano di pelle lucida del salone mentre gli altri giocavano a tombola, Lucio Vitale sorrideva a tutti con le mani poggiate sulle ginocchia.
Mi ricordo questo sorriso così fuori luogo nel frastuono di tabelle a cinquanta lire, numeri gridati, molliche di panettoni, parenti rossi in faccia,
il sorriso di uno che sa di essere destinato a soccombere. E infatti il 27 settembre del 1993, alle 7:15 di mattina come ogni mattina, Silvana si mosse
lungo il corridoio del loro appartamento per svegliare il padre con la tazzina di caffè. Lo trovò morto, il corpo era innaturalmente rannicchiato da
una parte del letto, tesissimo, come se gli avessero reciso una per una le
terminazioni muscolari.
Carmine Alfieri si diceva avesse un passato di tossicodipendenza
pesante. Nell’arco di circa quindici anni che è la mia memoria di lui, io
me lo ricordo sempre assolutamente identico nel tempo. Effettivamente,
ripensandoci col senno di poi, qualcosa dell’ex tossico ce l’aveva: nell’usura del corpo, nelle spalle a gruccia e nel fatto che guardava sempre per
terra. Quando mi incrociava nell’androne tra la coppia di grandi azalee
con le foglie di carne, salutava sempre muovendo un poco il mento in su.
Il più delle volte stava spingendo la carrozzella materna, apparentemente
senza nessuno sforzo, sempre con la sigaretta attaccata alla mano che era
attaccata al manubrio della carrozzella: aveva quest’andatura con i piedi a
papera dentro un paio di sandali ortopedici tipo ASL. Specifico senza nessuno sforzo perché la cosa era abbastanza straordinaria: dentro la carrozzella la madre era una cosa enorme senza forma priva di collo, dava l’impressione di essere addormentata anche se aveva gli occhi spalancati (due
pupille chiarissime, quasi bianche). I capelli radi attraverso cui si intravedeva il cranio brillare.
Dopo la morte del padre, la somiglianza della figlia esplose come un
bubbone. Da un lato era come se il lutto avesse ulteriormente rattrappito
Silvana, era un piccolo roditore vestito di camicioni a fiori che andava su
e giù per la tromba delle scale regalando ai condomini crostate (durissime), yogurt fatti in casa (immangiabili), rami d’ulivo (rachitici) la domenica delle palme. Dall’altro lato la stessa spaventosa gentilezza di Lucio
Vitale si era trasferita e amplificata nella figlia, fino a deformarle il carattere. Iniziò l’epoca dei diminutivi (Gabriellina - mia madre - Mariolina -
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la vicina di pianerottolo infermiera in pensione - Michelino - il figlio del
portiere quarantenne ritardato mentale, una vita spesa nella contemplazione del nespolo accanto al cancello elettrico). L’inconscio collettivo del
lotto 6 nel Parco Parva Domus rispose con un automatismo che era in
effetti - dal mio punto di vista - una specie di difesa. Inviti a prendere il
caffè, sedute di ramino alle dieci di sera, perfino qualche scampagnata
(discutibile iniziativa dei coniugi Caggiano). La verità è che durante le
lunghe sessioni di ramino a casa di Maria (Mariolina), gli argomenti principali di Silvana riguardavano il servizio da caffè spaiato che aveva notato
a casa nostra. Mentre prendeva il caffè a casa nostra, ci teneva a raccontare a mia mamma nei minimi dettagli quanto l’appartamento di Mariolina
fosse incasinato e quanto poco Mariolina si curasse delle piante in balcone. Un ingorgo eterno alle pendici di Pescasseroli era l’occasione perfetta
per argomentare in macchina con i Caggiano la teoria che la vedova
Stecchinese, acquartierata al secondo piano e imbattibile negli strudel di
mele, probabilmente beveva. Così Silvana orfana diventò molto più amica
di tutti. E quando, nel maggio del 1996, incontrò Filippo, tutti gli amici
tirarono un sospiro di sollievo.
L’altro grosso impegno nella vita di Carmine Alfieri, dopo la gigantesca madre, era dare da mangiare ai gatti. Il Parco Parva Domus sorgeva
(sorge tutt’ora, immagino) all’inizio di Via Piave, il discesone che unisce il
Vomero a Soccavo. Sorgeva, per la precisione, a ridosso del ponte della
tangenziale (opportunamente schermato da una lunga teoria di pannelli
fonoassorbenti color crema). Per questa particolare disposizione, al tramonto la luce del sole arrivava contro i lotti libera, senza frastagliarsi in
mezzo ad altri palazzi. Così - per pochi minuti o per mezz’ora, a seconda
della stagione - il Parco Parva Domus si trasformava in una gigantesca
quinta teatrale rossa, poi porpora, poi livida, affacciata sulla distesa di tetti
e antenne, difforme e urbanisticamente illogica, di Soccavo. In questo scenario Carmine esordiva dal portone del palazzo col piattino di plastica
degli avanzi. I gatti venivano di corsa. Carmine stava a guardarli, un mucchio di teste feline che facevano a spintoni per gli avanzi, il tempo di una
sigaretta: poi tornava su. Tornava a non fare un cazzo sul balcone, che era
la sua eterna cornice. E, oltretutto, era adiacente a quello di Silvana. Ogni
volta che lei andava ad annaffiare le piante, difatti, Carmine era lì: per anni
non si rivolsero mai la parola, limitandosi a un reciproco cenno del mento.
Il matrimonio con Filippo durò poco, appena due anni. Si conobbero
ad una pomeridiana di Tato Russo al Cilea, presentati da amici comuni:
lui era un cinquantaduenne vedovo, segretario amministrativo in una
scuola media a via Manzoni. Le dichiarò quasi immediatamente la sua pas-
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sione per il teatro e la letteratura, specificò con la massima serietà (con
reciproco imbarazzo, complici gli amici comuni, erano finiti lui e lei da
soli a mangiare una pizza in un posto neanche male a via Petrarca - come
due sedicenni) che in gioventù aveva scritto un romanzo, una storia
d’amore tra un ragazzo imbarcato su una nave cargo e una nobildonna
decaduta molto in là con gli anni che viveva in un castello. Nonostante
l’ipersudorazione, nonostante gli avambracci tozzi e pelosi, nonostante
questa specie di affanno che aveva nel respiro, a Silvana Filippo piaceva.
Le piaceva l’idea di uno spirito nobile che però resta solidamente attaccato alla terra, alla scuola media a via Manzoni, ai faldoni con i verbali dei
consigli di classe, alla sua stazza da animale da scrivania. Le piaceva così
tanto che gli confessò quasi subito l’inconfessabile: e cioè che alla morte
del padre aveva ripreso lo studio del pianoforte. Glielo disse come regalandogli un segreto preziosissimo: in realtà, il segreto preziosissimo era ormai
noto a tutti i condomini del lotto 6, che subivano in silenzio i pomeriggi
interminabili dei suoi esercizi. Ancora a quattro anni dalla morte del
padre, My Way - la canzone preferita dal buonanima - rappresentava per
lei uno scoglio insormontabile.
Poi, quando, due sere dopo la pizza a via Petrarca, Silvana sentì la grossa lingua di Filippo strofinarsi contro la sua lingua, le tornò spontaneamente alla memoria un’immagine di tanti anni prima: la minuscola cicatrice - forse il residuo di una varicella - sulla guancia sinistra del ragazzino
Michele Pultrone, cinquant’anni prima, in un salone pieno di sole nella
vecchia casa dietro Piazza Dante, mentre lui, Michele, apriva la bocca per
incollarla alla sua.
Il balcone di casa di Carmine, come il balcone di casa di Silvana, affacciava sulla zona morta che stava tra i lotti e il muraglione del convento del
Sacro Cuore di Corso Europa. Una striscia buia di terra incolta, inaccessibile, occupata da piccioni fetenti e gatti, che anno dopo anno è andata scivolando in una specie di vecchiaia permamente, sempre uguale nel tempo.
Questo era il panorama che Carmine vedeva affacciandosi, lo stesso che vedeva Silvana (la quale, al contrario, aveva per le piante del suo balcone una cura
maniacale, pari forse soltanto alla cura maniacale che aveva per le cassette dei
film di Totò, di cui conosceva a memoria tutti i dialoghi). In una regione
remota della coscienza, Silvana sentiva che in qualche modo il degrado della
zona morta del Parco corrispondeva oscuramente a Carmine. Aveva anche
provato a formalizzare il pensiero, una volta, solo una volta, a Mariolina senza riuscirci. Chissà perché, sembrava che la cosa la disturbasse moltissimo.
La lingua di Filippo invece era un grosso pezzo di carne pigro. Quando
le stava in bocca, Silvana semplicemente chiudeva gli occhi e lasciava fare,
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senza muovere neanche la sua. Rimanevano così per qualche minuto, lingua su lingua, come due molluschi atrofizzati. Per lei era tutto molto strano: non era facile decifrare la massa di sentimenti che sentiva per quell’uomo. Era un misto di tenerezza, senso di protezione, umanità, affinità e
anche giustizia. Sì, giustizia: in qualche modo Silvana - che stava per andare in pensione, che lavorava da quando aveva 24 anni, che aveva perso da
poco l’amatissimo papà, che si era rimessa coscienziosamente a studiare il
pianoforte - sentiva che l’ingresso in punta di piedi di Carmine nella sua vita
era una cosa giusta. L’amore a sessant’anni era soprattutto una cosa giusta,
prima ancora che bella, e dunque andava fatta. La prima volta che lui venne
al Parco Parva Domus, trascorsero mezzo pomeriggio in salone: lei gli suonò
una versione particolarmente storta di My Way e poi alcune marcette zoppicanti che stava studiando in quel periodo. Filippo ascoltò tutto diligentemente, reggendo in mano un bicchiere di Fanta quasi vuoto. Dopo l’ultima
nota, appoggiò il bicchiere su un tavolino di cristallo basso che c’era accanto alla poltrona e si avvicinò e le prese in mano una tetta. Senza dire una sillaba, guardandola fissa negli occhi. Restarono così per un tempo che a
Silvana sembrò lunghissimo e brevissimo assieme. La prima volta che fecero l’amore, quel pomeriggio, era la prima volta che Silvana faceva entrare un
cazzo nel suo corpo dopo ventisei anni. Il cazzo di Filippo era corto e tozzo,
di un colore quasi marrone, eretto aveva qualcosa come un’espressione. La
cosa che la sorprese più di tutto fu l’impressione di avere una sensibilità
anche in quel posto. Quel posto era un posto che non frequentava mai, fino
a quel pomeriggio era come se il suo corpo in mezzo alle gambe smettesse
di esistere. Ora era come scoprire di avere un braccio supplementare sulla
schiena, un arto inutile che però, misteriosamente, c’era. Oppure un abbozzo di coda in fondo alla schiena, come a volte succede. Anche questo rientrava in quell’ingegneria della giustizia che gli aveva insegnato Filippo.
Per qualche ragione che non avrebbe mai saputo spiegare, qualche
minuto dopo la penetrazione, quando erano stesi uno accanto all’altro con
gli occhi sbarrati al soffitto, Silvana raccontò a Filippo di Carmine.
Quest’individuo che consumava l’esistenza sul balcone. Senza un lavoro,
senza una donna. A esercitare la vita al suo grado zero, in ozio perpetuo.
Proprio l’opposto di te, gli disse. Ma a quel punto Filippo s’era già addormentato. Fu esattamente in quel momento che Silvana, vedendolo la sua
grande pancia pelosa sollevarsi ed abbassarsi nel sonno, decise che era
innamorata di lui.
Una volta a settimana Carmine andava dal tabaccaio in fondo a Via
Piave, angolo con Via Epomeo a comprare le sigarette. Il tabaccaio era gestito da una signora con la faccia cascante, anche lei - questa signora dalla lunga
faccia - aveva un non so che di manifatturiero, come un grosso sigaro venu-
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to male. Carmine prendeva sempre una stecca di Ms Mild morbide e poi
sempre, regolarmente, spendeva cinque euro al videopoker del bar accanto
al tabaccaio. Questa del videopoker una volta a settimana era l’unica infrazione che Carmine faceva alla sua prassi di pura sopravvivenza.
Venne fuori che anche Filippo, come tutte le cose, aveva un retro. La
prima volta accadde a cena, a casa di Silvana, per una questione di sale
nella pasta. Erano sposati da tre mesi: lei ormai aveva convenzionalmente
definito l’amore dentro il perimetro della persona di suo marito. Davvero
l’amore nella sua forma pura non era nient’altro che questo: un uomo con
una grande pancia morbida che ti ascolta suonare il pianoforte, e ha scritto in gioventù una storia d’amore tra un ragazzo imbarcato su una nave
cargo e una nobildonna decaduta molto in là con gli anni che viveva in un
castello. Secondo lui Silvana si era dimenticata di mettere il sale nell’acqua
di cottura. Lei il sale invece ce l’aveva messo, se lo ricordava benissimo:
infatti la pasta andava bene. No, diceva lui, la pasta è sciapa. Macché sciapa, è giusta, diceva lei. Continuarono così per un po’ - è sciapa, è giusta,
è sciapa, no è giusta - finché Filippo di punto in bianco prese dal collo la
bottiglia di vino che stava in tavola accanto alla zuppiera, la spaccò sulla
sedia, e la agitò infranta contro Silvana, come si vede nei film di Bud
Spencer. Quindi cominciò a schiumare dalla bocca.
Vincesse o perdesse al videopoker, Carmine Alfieri spendeva sempre
cinque euro giusti, non sgarrava mai di un centesimo. Quindi, con la stecca di Ms sotto l’ascella, affrontava di nuovo ciabattando la salita di Via
Piave. Arrivato a casa, bussava al campanello ma apriva con le chiavi, poggiava la stecca sulla brutta consolle di formica nell’ingresso e andava nel
soggiorno. Lì, sul divano a fissare il pavimento, c’era la mamma. Qualche
volta lui le aggiustava i capelli sul cranio, sottilissimi, al limite della trasparenza. Lei gli sorrideva.
Certo era difficile far rientrare nel congegno universale della giustizia
l’episodio della bottiglia. Come pure tutti gli altri che seguirono: ci fu un
tentativo di stroncare la mano destra di Silvana con una forchetta, un televisore spaccato con un calcio, un ficus divelto dal vaso, una vetrinetta in
frantumi. Filippo dopo gli attacchi di nervi quasi sempre iniziava a piangere e le diceva che aveva bisogno d’aiuto. Le parlava con una vocetta da
figlio a mamma. Silvana non chiese il divorzio, sentiva l’edificio della giustizia scricchiolare pericolosamente ma resistette. Non sapeva quanto
poteva durare tutto questo, intanto era andata in pensione, lui si era trasferito da lei. Per un periodo dormirono in letti separati. In fin dei conti
l’ictus fulminante fu una specie di vittoria ai rigori.
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Qualche volta, quando cominciava a fare caldo, Carmine finiva per
addormentarsi sulla sedia a sdraio in balcone. Visto così, ad occhi chiusi
sotto al sole, sembrava davvero una forma di rettile. Era un’immagine che
a Silvana risultava disgustosa. E ancora di più, mille volte di più, dopo la
morte di Filippo.
Dopo la morte di Filippo, Silvana Vitale fece di tutto per rimettersi in
carreggiata: ormai aveva sessantacinque anni, ma la sua architrave morale
continuava a basarsi, nonostante tutto, sulla convinzione che le cose, semplicemente, accadono. E, se è vero che accadono, è perché così deve essere, punto. Eppure faceva sempre più fatica a incastrare gli eventi: il padre
che la abbandona, il marito pazzo, il pianoforte che dopo anni di lezioni
ancora non riusciva a suonare decentemente. Visto a posteriori il passato
le cominciava a sembrare un paesaggio incongruo, un po’ sballato, zeppo
di errori di prospettiva. E questo, fatalmente, rendeva un po’ stonato
anche il presente: dappertutto potevano annidarsi meccanismi che non
funzionavano. La guarnizione della moka si era bruciata: perché? Le era
spuntato un neo sulla spalla: perché? Ogni tanto si svegliava di soprassalto alle tre di notte con la testa completamente sgombra di pensieri, senza
inquietudini, ma non riusciva più a prendere sonno: perché?
Nonostante questo, riuscì a includere in qualche modo anche Filippo nel
quadro di un disegno generale che doveva pur esserci da qualche parte, anche
se in buona misura le sfuggiva dove. E tornò a frequentare gli appartamenti
del lotto 6, che nei suoi due anni da moglie aveva trascurato. I condomini
accettarono con rinnovata, santa pazienza di nuovo le crostate, i giri a ramino, i caffè, l’infinita teoria del pettegolezzo che si dispiegava da quella donnina che aveva reagito spaventosamente bene al lutto. Così bene che, anzi, sembrava che la morte di Filippo ne avesse amplificato la gentilezza, l’acume a
notare le tazzine sbeccate, e la fame di parlare di tutto e di tutti. In particolare, la sua attenzione si concentrava adesso su Carmine, che sembrava diventato l’oggetto di gran lunga preferito. Non ci aveva mai scambiato mezza
parola, eppure Silvana pareva sapere tutto di lui: la mamma, il videopoker, il
passato da tossico. Il modo osceno in cui si addormentava sulla sdraio. Il fatto
che usava giochicchiarsi schifosamente le dita dei piedi. L’ostinato, imbarazzante, pornografico non fare un beneamato cazzo dalla mattina alla sera.
Una volta, prima e forse unica volta nella sua vita, parlando di
Carmine le era sfuggita una bestemmia, con grande imbarazzo dei coniugi Caggiano e con grandissimo imbarazzo suo. Non si capiva da dove le
venisse fuori tutta questa rabbia.
Non lo sapeva neanche lei. Ma mese dopo mese la vista di Carmine in
balcone, e poi anche solo il pensiero dell’esistenza di Carmine, le cominciarono a risultare insopportabili. Silvana era riuscita rimettere in piedi la
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sua vita esattamente com’era prima di Filippo. Il pianoforte, i film di Totò,
le visite ai vicini, tutto era identico a prima, anche se - adesso - tutto conservava una specie di vuoto, che era appunto Filippo. Ma poteva funzionare lo stesso, Silvana di questo ne era sicura. Bastava essere metodici, eseguire con cura maniacale la partitura delle abitudini e tutto avrebbe funzionato. Non ci sarebbero stati altri errori, pensava, anzi: non c’erano mai
stati errori. Tutto era andato sempre come doveva andare, punto. E adesso lei era una tranquilla insegnante di liceo in pensione che si godeva la
molle vita da single. Per questo, Carmine in balcone, era una specie di
rumore di sottofondo, un disturbo della percezione che, se ci avesse pensato troppo, avrebbe potuto far impazzire il sistema.
Ed effettivamente il sistema impazzì. Impazzì, per la precisione, un
mercoledì di maggio, alle nove meno un quarto di sera circa. Silvana sentì
qualcuno suonare alla porta. Era Mariolina, completamente spiritata, che
le si imbucò in casa di corsa. Mariolina trascinò Silvana davanti alla tele.
Sul RaiUno c’era Affari Tuoi, un programma che Silvana doveva aver visto
tre o quattro volte al massimo in vita sua: sapeva che c’erano i pacchi da
scartare, che era pura questione di culo e che si poteva vincere mezzo
milione. Però Bonolis, che all’epoca presentava, le stava molto simpatico:
le piaceva soprattutto quando usava dei modi di dire di Totò, cosa che
faceva abbastanza spesso.
Quella sera Carmine Alfieri non vinse il mezzo milione da Affari Tuoi.
Però 250.000 euro tondi sì, alla fine di una partita tutto sommato in discesa. Per mezz’ora le due donne non si dissero una parola, lo guardarono
interagire con Bonolis a monosillabi, sempre con quel mezzo sorriso di
cazzo in faccia, l’aria da scoria umana. A tutte e due, in modi diversi e con
opposte risonanze emotive, sembrava semplicemente impossibile che il
vicino di casa stesse lì. La cosa che fece impazzire Silvana era che a metà
gara, Carmine aveva scelto di cambiare di pacco. Una rotellina nella testa
di lei la convinse che i 250.000 euro se li era andati a scegliere lui.
Quindi passarono un paio di giorni in cui Silvana perse quasi completamente il sonno. In pratica questo nullafacente si era messo su un treno,
era andato a Roma più volte (perché per giocare ti devono estrarre tra i 20
rappresentanti delle regioni d’Italia), e si era preso i 250.000 euro senza
colpo ferire, senza gioia, come se fossero i suoi da sempre. Quella prima
rotellina nella testa di Silvana innescò un meccanismo che fece scricchiolare tante altre rotelline. E Silvana cominciò a vedere rotelline impazzite
un po’ dappertutto.
Ironia della sorte, il primo ad accorgersi che c’era qualcosa sul retro del
palazzo che non era come al solito - era il corpo di Silvana sconnesso dal
volo - fu Carmine Alfieri. Era uscito in balcone dopo il primo caffè della
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mattina. Rinunciò ad accendersi la sigaretta che aveva già tra le labbra,
tornò dentro, si grattò la testa. Rimase immobile in cucina, non sapendo
che fare. Poi andò a sedersi sul bordo del letto e rimase così, nella penombra grigia delle tende d’organza, per un tempo infinito.
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CALMA. MOLTO CALMA,
PRIMA UNA COSA POI UN’ALTRA.
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Ricordo ancora che latravano come delle deficienti.
“No! Anche le scarpe di Christian Loubutin”, Laura era isterica e continuava a vociare, mentre con le altre si stava spartendo, come un antico
cavaliere, il bottino di Maddalena Rossetti: cinque scatole colme di scarpe, borse e abiti da sera, completi da barca, parei e infine giacche e giacchette in tutte forme e colori.
Inaccessibili simboli del nostro tempo.
“Cazz... le Jimmy Chou”.
Tra le mani avevo la sua agenda di serpente rosa e la sfogliavo avanti e
indietro, i mesi già passati, quelli da venire e i primi tre dell’anno venturo
e mi rimbombavano in testa le sue parole di quel pomeriggio a Fosdinovo.
“Provai vergogna per la mia condizione, ma poi subito dopo, tra le
porte e i muri della nostra città, non ebbi più pudore della mia volontà
tanto repressa”.
Lavoravo da sei mesi alla MAGDA S.p.a., mi occupava di pubblicità e
immagine insieme a Maddalena, e cercavo di dare il massimo, di lavorare
anche oltre l’orario, anche oltre la stanchezza. Lo volevo da sempre, da
quando mia madre, operai specializzata addetta al controllo dei capi in
cashmere, mi raccontava bambina la leggenda dei Rossetti che da maglificio all’estrema periferia di Perugia avevano messo in piedi una fabbrica e
poi factory con tanto di filosofia “Rendere il lavoro più umano, mettere
l’uomo al suo centro”.
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GAIA MENCARONI
Marchio in tutte le più importanti boutique del mondo e riconoscimenti non solo dal mondo della moda, ma anche dai sindacati come
“Impresa umanistica, per aver dato all’impresa un senso che andava oltre
il profitto, e aver reinvestito per migliorare la vita di chi lavora”.
Ma quel giorno di metà luglio il cavaliere Pietro Rossetti, presidente e
fondatore della MAGDA S.p.A, lo ricorderà sempre come il giorno nero,
quello nefasto, quello inspiegabile, soprattutto per chi come lui era venuto
dalla povertà. Era stato uno dei primi a capire che il successo si ottiene con
la ricerca e da semplice commerciante di seta aveva investito ed essendo stato
operaio, aveva cercato di rendere l’ambiente di lavoro il più bello e più a
misura d’uomo possibile: per lui niente anonimi capannoni industriali, ma
un borgo umbro, dove i suoi ragazzi potesse lavorare in pace, niente mense,
ma cucine dove ognuno potesse cucinarsi qualcosa durante la pausa pranzo,
palestre, corsi di lingua, più giorni di vacanze e il sogno dell’imprenditore
umbro era divenuto realtà: capi in cashmere colorato, l’unico al mondo in
grado di produrli, commercianti in tutto il mondo a prezzi stellare.
Mina, la segretaria del cavalier Pietro, se ne andava in giro scuotendo
la testa e con le sue gonne troppo corte e i suoi body troppo attillati per
un corpo che da tempo aveva smesso di essere magro, con l’ennesima sigaretta in bocca, mentre non riusciva neanche più a respirare.
“Sara”, aveva da sempre con me un tono di comando “puoi per favore
ripetere parola dopo parola cosa ti ha detto Maddalena?”.
“Ha detto solamente “La tartaruga. Calma. Molto calma, prima una
cosa poi un’altra” e ha chiuso”.
“È ‘l troppo bene sta’”. Lo disse in dialetto e tornò angosciata nello studio del cavaliere, sbattendosi la porta dietro le spalle, mentre si sentiva un
gran vociare, un imprecare, uno smadonnare come si dice in Umbria, del
sor Pietro che rendeva difficile immaginare che dietro quella porta vi fosse
proprio l’industriale, definito da studiosi e giornalisti, “affine agli antichi
maestri dell’anima come Socrate, Seneca”, quello che nell’ultima campagna pubblicitaria, commentava con la sua voce roca lo scorrere delle
immagini in bianco e nero con uomini e donne bellissime, girate tra le
rotoballe della campagna umbra “Ho sempre coltivato un sogno, quello di
un lavoro utile per un obiettivo importante. Sentivo che il profitto da solo
non bastava e che doveva essere ricercato un fine più alto, collettivo. Ho
capito che a fianco del bene economico si pone il bene dell’uomo, e che il
primo è nullo se privo del secondo”.
I mesi successivi Mina veniva spesso nel mio ufficio, sentivo i suoi tacchetti appuntiti picchiettare prima sul parquet poi sul cotto ed entrava
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senza bussare proferendomi in modo imperante “Chiamala”. “Cercala”.
“Chiedile”. “Telefonale”.
“Domani devi andare a Fosdinovo a parlare con Maddalena per la
nuova campagna pubblicitaria. Questa è la strada. Uscita a Sarzana, segui
la direzione Ipercoop e poi Pam, al Pam di Sarzana devi girare a sinistra e
poi proseguire, oltrepassare una villa settecentesca e poi magari chiedi.
Capito?”. Terminò più acida del solito lei, che era molto più di una semplice segretaria, subiva in modo diretto e privato la sofferenza del Rossetti,
che non riusciva a comprendere la decisione di Maddalena, quella che lui
aveva definita in mia presenza, passandosi le mani tra la sua ancora folta
criniera grigia “Una provocazione. Nient’altro che l’ultima spregiudicatezza di mia figlia”.
Impiegai quasi due ore dall’uscita dell’autostrada fino al castello e nel
giardino delle Ortensie trovai Maddalena, lì bella e curata in un vestito
bianco.
Ci sedemmo intorno ad un tavolino e non ebbi neanche il tempo di
chiedere che lei, saggiandomi con lo sguardo, iniziò a spiegare.
“Corsi per Perugia alla ricerca di una stupida cosa, girai e mi affannai,
sapendo che in giro per i diversi negozi del centro non l’avrei mai trovata.
Questo rese ancora più forte il mio desiderio. Fui spinta a correre per tutta
la città, dietro a qualsiasi passo: annusavo, ansavo, ritornavo su me stessa
e giravo, sparendo da un luogo dietro l’altro. Dovetti fermarmi a riprendere fiato e mi sedetti su uno scalino vicino a una piccola fontana, quando ebbi l’impressione che arrivasse qualcuno: una grossa tartaruga, mansueta, come se anch’essa cercasse l’acqua. In quel momento capii che la
mia parte era un’altra, era il mio corpo che si stava ribellando: da oltre
dieci anni ero riuscita a zittire la mia mente. Provai vergogna per la mia
condizione, ma poi subito dopo, tra le porte e i muri della nostra città,
non ebbi più pudore della mia volontà tanto repressa. Mi voltai, volevo
avere quella tartaruga e non la vidi più, poi feci quella via e le altre ancora, finché arrivai a Porta Sole. Era lì. L’aria mi scoprì e tutto mi parve chiaro: afferrai quella testuggine e la misi in borsa. A casa, nella giallognola
penombra, per superare l’affanno mi misi a dormire come dentro una
cava. Sentii le voci e i suoni della mia vita “Carissima, come stai?” e i
discorsi dei miei fine settimana in Sardegna con gente dello spettacolo, del
cinema, scrittori, tutti a loro modo molto ambiziosi “Non ti preoccupare,
Magda cara, se non hai capito il mio libro, non tutti ne hanno colto l’essenza di questa opera che mi ha permesso di superare Dostojevskij, sei in
buona compagnia”. Il rumore del phon dal parrucchiere, le corse con la
mia Porsche, i continui voli Perugia-Olbia. Mi svegliai. Ero dentro, disperata, sola, isolata, ma dentro. Dentro la struttura, dentro la classe. Mi voltai sull’altro fianco e accanto a me vi era la tartaruga, che lenta e tenace era
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GAIA MENCARONI
uscita dalla mia borsa. Non ho avuto più dubbi: ho fatto quello che credo
che ogni essere dotato di ragione avrebbe fatto nella mia situazione”.
Era la prima volta che la vedevo triste, malinconica.
Ammiravo Maddalena, perché era determinata e sapeva quello che
voleva dire e ne aveva i mezzi per dirlo, soprattutto. Non riuscivo nondimeno a comprendere, così massimo e sbandierato.
“L’ozio estremo è un’arte suprema. L’ozio estremo inizia laddove chiudi con il lavoro, là dove decidi di rimandare qualunque occupazione, là
dove nessuno riesce ad interferire con la tua placida determinazione ad
abbandonarti. Ho frequentato per tre anni un centro di Milano, fondato
da un ex-manager stressato, ho persino seguito il sentiero della senza fretta e una maestra di meditazione dai piedi grassi. Ho messo in atto qualche
consiglio pratico per iniziare a rallentare: liberarsi delle carte di credito ed
eliminare almeno tre cose non essenziali, piantare sul terrazzo verdure o
fiori di cui prendersi cura e svegliarsi cinque minuti prima per farsi con
calma la doccia. È durato per un po’ e poi con l’ozio creativo mi sono
ritrovata ad avere fine settimana pieni di impegni e a ribalzare come una
palla da una parte all’altra, ad essere in continuo movimento e ad essere
attiva e pimpante grazie a qualsiasi “passatempo”. Ora desidero un ozio
opposto al negotium, sottratto al giro degli affari, al circuito immediato
della produzione e del consumo: un ozio concepito al modo degli antichi
e non una fuga dal lavoro, ma, al contrario, un fare libero e più esattamente un modo d’agire proprio degli uomini liberi. Stare qui, in questo giardino pieno di ortensie per un tempo indeterminato, sedersi di sopra in
salotto o sdraiarsi su un prato, facendo vagare lo sguardo tra le nuvole”.
“Ma ti annoierai?”. Mi venne spontaneo, non mi figuravo, come del
resto tutti gli altri, Maddalena Rossetti, con i suoi i fine settimana, con i
suoi perenni spostamenti, giri e amicizie, a starsene lì, senza uno scopo,
senza un obiettivo.
“È proprio questo che desidero più di ogni altra cosa: gestire la noia.
Ho sempre fatto tante cose contemporaneamente, per questa specie di horror vacui per cui cinque minuti di vuoto mi creavano il panico. Il problema per me non esisteva, quando mai non c’era niente da fare! Se avanzava
del tempo, potevo per esempio girellare in un centro commerciale, o incolonnarmi in una fila di macchine per recarmi in un luogo di divertimento,
o praticare esercizi sportivi per neutralizzare gli effetti della mia vita sedentaria, o consumare vite più interessanti della mia guardando un film”.
Lo disse sbuffando, come se troppi e troppo spesso avessero già chiesto questo.
“Voglio innamorarmi, frequentare una scuola di circo, tornare a suonare il mio amato Sebastian Bach e forse ristrutturare con il tempo anche
questo meraviglioso castello, ma senza ambizione. Guarda la brama, dove
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LA TARTARUGA
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ha portato mio padre: alla frenesia, all’attivismo, al produrre per consumare, a un consumare spesso definalizzato e perciò da un produrre per il produrre. Di qui un lavoro obbligato, costretto com’è nei ritmi della produzione, insieme a un consumo senza gioia. A fronte dell’imperativo della
produzione, mimetizzato nelle parole “crescita” e “sviluppo”. Compra e
vende immobili e poi li lascia andare in malora come questo castello. L’ha
comprato da un custode poco fedele e da un padrone troppo signore per
un universo delirante e stranito come il nostro”.
Ero già in auto e Maddalena mi bussò sul vetro.
“Conosci il secondo Paradosso di Zenone contro il movimento?”.
“NO”. Urlai.
“La tartaruga vince sempre, Achille non la raggiungerà mai”.
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VALERIA PALUMBO
È scesa alle tre e mezzo del pomeriggio. Che razza di orario. Stavo solo
cercando di eseguire gli ordini e quindi di non far nulla: oziavo su commissione, guardando fuori dalla finestra. Mare bicolore in lontananza. Lei
si è scossa dalla cornice, ha controllato che il filo di perle fosse in ordine,
ha scrollato un po’ lo scialle azzurro e se l’è risistemato: “Che polvere qui”,
ha mugugnato. Non volevo apparire subito scortese. In fondo mica capita tutti i giorni che una vestita come la Gioconda scenda da un quadro e
parli. Ma mi è uscito dal cuore: “A me pare che sia polveroso il colore con
cui l’hanno dipinta”. Solo in quel momento si è accorta di me. “Ah, lei è
quella che stamattina a pranzo mi ha dato della crosta”, non c’era neanche
troppo disprezzo nella sua voce. “Accidenti che udito”, ho balbettato. Mi
è sembrato che aggiungere “Guardi che l’ha detto il padrone di casa”
avrebbe solo peggiorato le cose. E ho abbozzato, tentando di riparare: “Si
sente bene?”. Mi ha guardato, stupita: “Anchilosata, ci crederebbe?” e ha
ridacchiato. “Non sono un’antenata dei Malaspina”, ha aggiunto. “Ma
questo lo sa, vero? Le hanno già detto che riempio i buchi dei furti? A
me… non mi ruba nessuno: crosta”. Mi è dispiaciuto. Volevo dirle che
quell’aria bisbetica con cui l’avevano dipinta non era così male e che le due
signore che le stavano di fronte, con quel loro collarino bianco seicentesco
e l’aria fessa, erano peggio. Mi piaceva di più la santa che le stava accanto:
c’era qualcosa di malinconico nel suo sguardo che mi aveva attratto già
dalla prima sera. Ero così stanca che lei non l’avevo proprio notata. Ma
quella santa, ammesso che poi fosse una santa, mi aveva incuriosito. “Pura,
pudica, pia” ha ironizzato lei come se mi leggesse nel pensiero. “Ma è quello che c’è scritto in un’invocazione alla Madonna, incisa su una casa sotto
il castello”, ho esclamato. Ha sorriso, come per dire: “Anche le croste
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VALERIA PALUMBO
conoscono il mondo”. Ho ricambiato il sorriso, realizzando che tra
Madonne, annunziate o assunte, e antenate, vere o finte che fossero, avevo
visto soprattutto donne nelle chiese del paese e alle pareti del castello.
Allora è venuta a sedersi accanto a me. Si è aggiustata le pieghe dell’abito
a righe: “Bruttino, eh”, mi ha quasi domandato. E poi: “Non mi guardi
così il naso, lo so è lungo”. Ho cercato qualcosa da dire. Mi ha prevenuto:
“L’originale era così, in questo il pittore ci ha preso”. Abbiamo sospirato
insieme. “Due passi?”, mi ha suggerito. “Due passi”, ho accettato, “sa sono
qui per riposarmi. Teoricamente”. Abbiamo risospirato entrambe. E allora le ho raccontato la scena di due giorni prima.
In redazione la solita giornata di marasma. Sette impaginati da chiudere ed era successo di tutto: le foto in alta definizione che non arrivavano, un articolo incastrato nel server, una redattrice accasciata in lacrime
perché aveva scoperto che il fidanzato la tradiva con una “tacco 12 cm” e
la lavatrice perdeva; una grafica a casa con il gatto ipertiroideo; l’ufficio
correzione bozze in tilt e un intero vasetto di yogurt rovesciato sulla tastiera del mio computer. Era stato questo a farmi esplodere, a dire il vero: non
riuscivo più a inserire le maiuscole. Avevo urlato per un po’ ma poi mi ero
calmata. Solo che a quel punto era arrivata la chiamata: “Anna, dal direttore!”. Ogni volta entro nel suo ufficio con un po’ di angoscia. E non soltanto da quando c’è la crisi e tagliano posti. Mi sembra sempre che mi
manchi un bottone, anche quando indosso solo una t-shirt. “Siediti”, mi
ha invitato. Ahia, ho pensato. “Sei stressata”, ha iniziato. “Perché urlavi
prima?”, ha aggiunto preoccupato. Non gli volevo raccontare la storia
dello yogurt. “Secondo me devi prenderti due giorni di stacco totale”.
“Be’, domani è venerdì: sabato e domenica siamo a casa”, gli ho ricordato.
“Ottimo”, ha constatato. “Così non si perde tempo, siamo in chiusura.
Però cerca di staccare davvero, con la testa dico. Due giorni al mare no, mi
torni ancora più isterica”, ha riflettuto. “Collina, collina. Mare solo in lontananza. Due giorni a guardarlo da lontano”. Eccitante, ho pensato. Poi ha
aperto una cartina geografica: “Qui”, ha detto, e mi ha indicato
Fosdinovo. Doveva avere qualcosa in mente. “Qui?” ho chiesto. “Lì”. La
conversazione era conclusa. Mi sono alzata. “E portami una storia”, mi ha
scaraventato dietro quando ero già sulla porta. “Che storia?”. “Una storia”.
Ci ha pensato un po’ su e poi ha ribadito: “Una storia”. Sono tornata nella
mia stanza a ripulire gli ultimi resti di yogurt nella speranza di rianimare
le maiuscole.
“Tutto qui?”, mi ha domandato delusa la crosta. “Tutto qui”. “Gliela
racconterò io la storia”, mi ha promesso improvvisamente vivace.
“Davvero?”, ho ironizzato: “Saremo sulla notizia!”. “Non sono così vecchia”, ha ribattuto risentita. “Mi scusi, ma è che davvero non vorrei sentire le solite storie di fantasmi del castello, di marchesine murate vive con
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un cane e un cinghiale perché innamorate di uno stalliere…”. Ha fatto un
cenno, come per dire “Uff, gli stallieri…”. “Ma non voglio nemmeno sentire di aristocratici assassini e altri fattacci di cronaca: mi sono appena
occupata dello speciale I gialli per l’estate, mi cola sangue dalle dita a forza
di scriverne”. Ha sorriso. “Bel colore”. “Quale?”, ho chiesto. “Il sangue,
ovviamente. Le piacciono i colori?” mi ha chiesto. Ero sorpresa: lei era
sbiadita, polverosa, scura. L’antitesi del colore. “In particolare”, ha ripreso,
“lei sa dirmi che colore ha il vento?”. “Che colore ha il vento? Ma che razza
di domanda?!”. Mi ha guardato con un certo compatimento.
Ormai eravamo arrivate alla base dello scalone. I pochi turisti che si
aggiravano con quel caldo non sembravano prestarle molta attenzione. Mi
è anche sorto il dubbio che la vedessi solo io. Stressata, in fondo, lo ero
davvero. Mi sono ricordata che solo tre giorni prima avevo chiuso per sbaglio il cellulare in frigorifero e, quando si era messo a suonare, avevo preteso di parlare attraverso lo sportello per evitare di disperdere il freddo.
Una sorta di confessionale siberiano. E mi è venuto in mente, leggendo
l’invito dell’assessorato all’ambiente di Fosdinovo di spegnere le luci quando non servono, che ultimamente tendo a chiuderle quando entro in una
stanza. Mi faccio buio. Può essere che significhi qualcosa, di filosofico o di
karmico, voglio dire. Ma di certo sono confusa. “L’ho notato”, mi ha detto
la crosta cercando di acchiappare qualche raggio di sole che le rinvigorisse
le tinte. “Una volta salì qui una pittrice”, ha iniziato. “Una volta?”. “Al
tempo dei macchiaioli”, ha spiegato con pazienza. “Ma lei all’epoca non
era qui!” ho obiettato. “In un certo senso”, ha ammesso. “Ma mi lasci finire. Da quassù, come vede, si guarda lontano. La pittrice apparteneva in
qualche modo alla scuola di Piagentina: conosceva Silvestro Lega, era stata
amica di Virginia Batelli, la sua compagna. Quella morta di tisi…”. Ci ha
pensato un attimo su: “Lei dice che se avessi avuto la tisi mi avrebbero
dovuto almeno dipingere le guance più rosse?”. Non sapevo che dirle: la
storia della mancanza di colore l’assillava. “Comunque, nel 1868, era
rimasta folgorata da due quadri di Lega, che poi sono i più belli: La visita
e Il pergolato. Ha presente?”. Ho annuito. “Sa perché sono così interessanti?”, ha aggiunto, “Non per la tecnica. Certo nel primo Virginia è ritratta
come un triangolo nero, i colori coincidono con le forme, nella struttura
sembra un quadro del Quattrocento toscano, e via dicendo, e nel secondo
la grata del pergolato disegna la luce regalandoci un’alternativa
all’Impressionismo”. Mi precedeva, come se temesse che snocciolassi le
solite litanie dei manuali d’arte. “E dunque?”, mi spazientivo. “Perché in
quei quadri c’è una domanda, c’è un’attesa. Tutto si svolge nell’ozio più
totale: alcune donne si fanno visita in campagna, oppure prendono il caffè
dopopranzo, non accade nulla e si suppone che loro non aspettino nulla.
E invece…”. “E invece?”, non capivo. “E invece non c’è vento”, concluse
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soddisfatta. “Ma che vuol dire?”. L’avevo delusa, ma non si arrese: “La
morte incombe, da lì a due anni Virginia morì di tisi e prima di lei era
scomparsa la madre, poi sarebbero morte le sorelle. E Lega non poteva fare
nulla, capisce?, era impotente. Virginia, la sua adorata Virginia, moriva e
lui sperava di fermare quell’attimo. Però è riuscito solo a dipingere l’attesa della morte. L’afa. L’immobilità di un ozio senza speranza. Quelle
donne sono prigioniere della morte. Sono quadri disperati, mi creda”. “Sta
scherzando?”, sono saltata su. “Quei quadri, secondo i critici, esprimono
invece il suo ideale idillico della pace della famiglia e della campagna, la
via intima alla pittura di macchia… Lega non dipingerà più così, arriverà
la depressione, la malattia agli occhi…”. Mi ha fatto un cenno, come se
stesse per rinunciare. Poi: “Li riguardi”. “Ma la pittrice?”. “La pittrice
l’aveva capito. Per uscire da quello stallo bisognava dipingere il colore del
vento. Lei conosce La sposa del vento?”. “Ovvio”, risposi petulante: “Il quadro di Oskar Kokoschka che ritrae lui e Alma Mahler in una barca trascinati dalla tempesta…”. “…E dall’amore che spezza la morte. Kokoschka
ha dipinto il colore del vento”. Il tutto mi sembrava troppo romantico e
anche inutilmente azzardato: “E la pittrice?”, la incalzai. “La pittrice venne
al castello e passò qui una notte…”. “Con lo stalliere?”, non era una battuta felice. Mi guardò triste: “Con il vento. E lo osservò cambiare il paesaggio, non solo la luce, e capì che questo era il problema della pittura di
Lega: nel fermare il tempo, l’uccideva. Solo se tutto fosse stato trascinato
e trasformato dal vento sarebbe sopravvissuto. Cambiando colore”. “Sta
scherzando?”, ma non avevo argomenti. Mi chiedevo solo come diavolo
fossi capitata a discutere con una crosta, vestita da Gioconda, che parlava
come Buddha. “Niente ozio, allora?”, cercai di conclundere. “Niente ozio
fermo: non l’attimo, ma i colori del suo mutare”, mi corresse. “E la pittrice dipinse il vento prima di Kokoschka?”. “Lo dipinse, ma era donna e
nessuno se lo ricorda”. Sospirammo insieme. “Non è una storia”, conclusi. “Lo immaginavo”, ammise.
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La vecchia Volkswagen si allontanò sollevando un polverone lungo il
vialetto di terra e ghiaia. Il cancello elettrico si richiuse subito dopo. La
luce gialla che segnalava il movimento si accese e si spense ancora per qualche secondo.
I suoi genitori avevano deciso di partire quando era ancora buio, come
ogni agosto negli ultimi anni, per evitare le ore di caldo. Suo padre aveva
proposto più volte di cambiare macchina. Avrebbe voluto acquistare
un’utilitaria con il condizionatore e i freni più sicuri, ma sua madre l’aveva sempre convinto di lasciar perdere. Non facevano lunghi viaggi, a dire
il vero non ne facevano affatto, se non per quelle due settimane all’anno
che iniziavano a programmare già da giugno.
Quando tutto ritornò a fare silenzio, Luca si mise a sedere sul divano
letto del salotto. Osservò per qualche secondo il puntino rosso della tv, poi
si alzò in piedi. Quando era piccolo gli piaceva, il mare. Gli piacevano i preparativi della partenza. Cominciava a organizzare la borsa con i giochi una
settimana prima. Si ricordò di quell’anno in cui gli zii gli avevano regalato
una scavatrice. Con quella, dissero, si scavavano fossati in pochi minuti. I
fossati erano importanti, e ogni vero costruttore di castelli lo sapeva bene.
Quando il mare si alzava, lo facevano restare in piedi. Gli altri bambini si
preoccupavano di rinforzare le torri, ma lui l’aveva capito: il segreto stava in
solide fondamenta, e in un fossato largo come le mani di suo padre.
Erano dieci anni che non andava più con loro, e dieci anni che dormiva in quel salotto. La sua camera, al piano di sopra, era sempre chiusa. Per
una regola che nessuno aveva deciso, era proibito entrare, anche se ogni
tanto, forse due o tre volte all’anno, sentiva sua madre aprire un cassetto
della cucina, quello dove teneva le posate buone, rovistare per qualche
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secondo e tirare fuori una chiave. Era diventato bravo, a distinguere i
rumori. Il suono della chiave che apriva la porta della sua camera era più
sordo di quello delle posate in argento che tintinnavano fra loro.
Il primo anno in cui decise di non andare in vacanza con i suoi genitori, appena sentiva la macchina allontanarsi era corso in cucina a cercarla. Aveva rovistato tra le forchette, i coltelli, aveva tolto dal piccolo scomparto i cucchiaini da caffè, e li aveva posati sul lavabo, ma niente. Sua
madre, con tutta probabilità, l’aveva portata con sé. Salì lo stesso al piano
di sopra e si fermò davanti alla porta. Girò la maniglia, quasi per gioco, e
non si stupì a sentirla bloccata. Restò per qualche momento a guardare il
legno della porta. Era un legno vecchio, come il resto della casa. Provò a
girare la maniglia una seconda volta. La riaccompagnò lentamente, con un
certo dispiacere. Quando stava per togliere la mano, sentì un click, come
di un ingranaggio che salta.
Trascorrere due settimane di vacanza in quella camera. Questo era
diventato, da dieci anni, il suo mare.
Era tutto come lo aveva lasciato. Il letto ancora da rifare, con le coperte ammucchiate sul bordo, il diploma di laurea appeso sopra la scrivania,
un libro di Fitzgerald aperto sul tappeto. Non aveva mai saputo com’era
andata a finire, quella storia.
La sera dell’incidente stava tornando da casa di Dalia. Si erano conosciuti la prima volta due anni prima, e per quasi due anni non si erano più
rivisti. La vita li aveva portati a camminare in direzioni diverse. Lei andò
a studiare in un’altra città, e lui era appena salito a bordo di una storia con
pochi colori, che l’avrebbe spedito in pochi anni davanti all’altare. Ma
certe direzioni diverse, poi capì, a volte finiscono sullo stesso sentiero. Si
conobbero una seconda volta alla festa di un’amica comune. Parlarono a
lungo, poi lui glielo disse.
“Penso che mi sposerò”.
Lei restò a guardarlo qualche istante, quasi tentasse di decifrare il
mondo dietro a quelle parole, e non disse niente.
Quella stessa sera, appena arrivò a casa, Luca stracciò a uno a uno i trecentoquarantotto inviti e li gettò nella spazzatura. Poi prese un foglio bianco, e cominciò a scrivere. Una lettera al giorno, per un mese. Le imbucava
ogni mattina prima delle otto. Raccontò tutto, in quelle lettere. Quello che
aveva fatto nei suoi venticinque anni di vita e i milioni di cose che ancora
gli mancavano, del vento di Bali, che non aveva mai sentito soffiare, e dei
prati in Irlanda che si allungavano sul mare in lingue di terra sempre più
piccole, fino a scomparirci dentro, del suo nascondiglio sulla quercia, quando era bambino, e delle stellate in Giordania che ancora doveva vedere.
Quando fu di nuovo a casa, dopo aver imbucato la sua trentesima lettera, suonò il postino e gli consegnò una busta. Era di Dalia. Dentro c’era
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un foglio bianco, con scritto solo: Il mio ragazzo non è per niente convinto,
ma a me l’idea della Giordania piace parecchio.
Si incontrarono a casa di lei che era la fine di ottobre. Dalle finestre del
salotto si vedevano i cespugli di ortensie che riempivano il giardino.
“Le ha piantate mio padre” disse Dalia. “Sono i miei fiori preferiti”.
Gli spiegò che in quella stagione i fiori da rosa diventavano rossi, e di
lì a poco sarebbero caduti, insieme alle foglie.
“Anch’io ho un piccolo cespuglio di ortensie in giardino” disse Luca.
Si vedeva dalla finestra della sua stanza, ma lui non ci aveva mai fatto
molto caso.
Si misero d’accordo per incontrarsi la settimana successiva. Lei gli
regalò un libro di Fitzgerald, lui imparò la curva della sua bocca quando
sorrideva. Passò un’altra settimana. Quando si videro ancora, Luca entrò
in casa sventolando due biglietti per la Giordania, lei gli corse incontro
abbracciandolo, e non ebbe problemi a tenere il suo tra le mani, visto che
il suo ragazzo, per niente convinto dall’idea di quel viaggio, non era più il
suo ragazzo. Quella volta Luca si fermò fino a notte fonda. I fiori delle
ortensie erano caduti, e così le foglie.
Nella strada per il ritorno i sentieri, ancora una volta, presero direzioni diverse.
La sua memoria aveva ricominciato a funzionare alcuni mesi dopo, da
quel divano letto in salotto. La corsa in ospedale, i chirurghi, la sala operatoria, quello gliel’aveva raccontato sua madre, molte volte, senza mai
scendere nei particolari.
I primi mesi restò a letto, immobile. Sua madre diceva che ci sarebbe
voluto tempo, per guarire. Veniva nutrito da un tubo che gli scendeva in
gola, e una flebo con le medicine non gli faceva sentire il dolore.
Fu in quel periodo che cominciò a distinguere i movimenti dei suoi genitori e degli oggetti dai rumori che facevano. Il suo sguardo era fisso sul soffitto per molte ore al giorno. Con quella cosa in gola non riusciva a parlare.
Un giorno dall’ospedale portarono una carrozzina e finalmente poté sedersi.
Il mondo sembrava tornato diritto, e questo lo fece sentire un po’ felice.
Il medico veniva a visitarlo ogni settimana. Si raccomandava di non
fargli fare troppi sforzi. Nonostante quelle raccomandazioni, Luca si convinse che doveva rimettersi in piedi.
Inizialmente, ogni tentativo di riprendere possesso del suo corpo era
inutile. Ma poi, un poco alla volta, riuscì a mettersi seduto sul bordo del
divano letto. Lo faceva sempre di notte, quando non lo vedeva nessuno.
Una di quelle notti suo padre si era addormentato sulla poltrona lasciando la tv accesa. Non si svegliò nemmeno quando il segnale si fece più
debole, forse per via del forte vento che faceva oscillare l’antenna, e un
fastidioso fruscio usciva dagli altoparlanti. Il telecomando era su un tavo-
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lino, vicino a Luca, ma si era rotto tempo prima e nessuno l’aveva sostituito. Luca con molta fatica si mise a sedere sul bordo del divano letto,
come sapeva fare, e dopo un grandissimo sforzo e numerosi tentativi si
alzò in piedi. Mise un passo davanti all’altro, raggiunse la tv e finalmente
riuscì a spegnerla.
La mattina successiva suo padre si svegliò di buonora. Non appena si
riprese dal torpore guardò lo schermo con un’espressione interrogativa, e
con la stessa espressione si girò verso suo figlio, steso, che girò gli occhi
verso di lui, per salutarlo. Poco dopo sua madre scese dalla scale. Le chiese se fosse stata lei a spegnere la televisione. Rispose di no, e suo padre si
convinse che forse l’aveva fatto lui prima di addormentarsi.
Luca riuscì a essere sempre più padrone del suo corpo. In quella casa,
di notte, girava indisturbato, e ascoltava i rumori. Sentiva scorrere il silenzio, fuori dalla finestra. Intuì le forme del vento dal muoversi delle foglie.
Era sicuro che in poco tempo avrebbe potuto incontrare di nuovo le persone che conosceva. Sua madre gli aveva spiegato che per il momento era
meglio che non lo vedessero. Era più opportuno rimandare a quando sarebbe stato bene. Lui, che stava attento a rimanere immobile per non darle
preoccupazioni, muoveva gli occhi su e giù per dire che sì, era giusto così.
Ma le due settimane di agosto in cui i suoi genitori andavano in vacanza, quella, per lui, diventava la vera libertà. Dalla finestra della sua camera guardava per ore il cespuglio di ortensie. In dieci anni di notti e in tutte
quelle estati, il riposo che si era preso dal mondo diventava una cosa sola
con il mondo stesso. Era anche riuscito a uscire, ma si era allontanato solo
di poche decine di metri.
Quell’estate, invece, decise che le cose dovevano cambiare. Quel riposo, continuo, l’immobilità che lui non aveva deciso, l’avevano convinto
che un altro anno di attesa sarebbe stato interminabile. E il mondo, era
così grande. Dai fiori rosa che vedeva dalla finestra scese fino alle piccole
foglie verdi, al gambo, di un verde appena più scuro, al terreno in ombra,
che le faceva crescere forti. Percorse il giardino della sua casa ed entrò in
altri giardini, e altri ancora, fino alla casa di Dalia, ma lei, da quelle parti,
non c’era più. La cercò, giardini, centinaia di giardini. Aveva una nuova
casa, adesso, anche lì era pieno di ortensie, e accanto alle ortensie l’intonaco che sapeva ancora di fresco, la porta e le finestre al piano terra, e poi su
per la grondaia, il vetro, da cui si vedeva la sua camera. Dormiva accanto
a un uomo, ma era girata dall’altra parte, gli dava la schiena. Guardò la sua
schiena, era come la ricordava, e si fermò sul viso. Dieci anni, Dalia, e
dieci nuove rughe, ma era ancora lei. La salutò, come si saluta una promessa, e andò nella stanza vicina, un respiro leggero, impercettibile, poco
più grande delle mani di un padre, di un fossato che circonda un castello
di sabbia, appena più piccolo della culla che lo conteneva. E se ne andò,
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in quei giorni, a vederle, tutte quelle cose che non aveva visto, il vento di
Dubai, caldo, più caldo dei venti che passavano per il suo giardino, la
Grecia, la sabbia nera di Santorini, di nuovo la sua stanza, le pagine di
Gatsby, che è ora di saperlo, come va a finire, e via ancora, i fiordi, su in
Norvegia, la nebbia dell’Irlanda che copre i piedi nel primo mattino, e giù,
veloce, un’ultima notte, finalmente, la stellata della Giordania, immensa
come dieci anni di stelle nostre messi insieme, lì, a guardarla, che pareva
non finisse mai e invece anche quella finì, in un’alba.
Sentì la macchina arrivare nel vialetto e fermarsi. Sistemò velocemente il suo letto sfatto, chiuse il libro e lo poggiò sulla scrivania. Aprì la finestra, per far entrare un po’ d’aria. Suo padre e sua madre scesero, e sua
madre disse: “Siamo arrivati”. Suo padre aprì il portabagagli e la portiera
posteriore.
Era ora di scendere in salotto. Luca attraversò il piccolo corridoio che
portava alle scale. Ebbe il tempo di fermarsi davanti allo specchio. Guardò
il suo volto, soddisfatto. Aveva trentacinque anni e ne dimostrava dieci di
meno. Appena i suoi entrarono con la carrozzina, dalla cima delle scale guardò quel corpo seduto sopra, e scosse la testa. Aveva il volto pieno di cicatrici e i capelli diradati. Lui, di anni, ne dimostrava almeno venti di più.
È ora di ritornare a bordo, pensò.
I suoi genitori liberarono il corpo dalle cinghie e lo stesero sul divano
letto. Luca si distese a sua volta. Ci mise un po’ a riadattarsi. Provò a muovere gli occhi, per vedere se tutto era a posto. Nelle due settimane precedenti sua madre si era preoccupata, perché non li aveva mai mossi. Lo
interpretò come un gesto di contentezza.
Aveva imparato molto, in quelle due settimane. Aveva attraversato solo
pochi giardini, prima di allora, ed era la prima volta che aveva spostato
così tanti oggetti. Era sempre riuscito a spostare solo piccole cose, come le
posate, la maniglia della sua camera, o gli spazzolini.
Quando sua madre salì le scale, la seguì con lo sguardo fino a che ne
fu capace. Probabilmente si sarebbe fatta più di qualche domanda, davanti alla porta spalancata della camera. E poi, c’era la lettera. Iniziava così:
Lettera numero 31. Cara Dalia, perdonerai la mia assenza, ma a volte, scrivere lettere, è difficile quasi come attraversare il mondo.
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Preferisco stare in ozio che rinchiuso in un negozio a inscatolare spazio
(Wolfango)
Alla fine, l’Ozio si arrese.
La stanchezza gli frustava la quotidianità.
L’evanescenza della propria missione, perdeva forza ogni anno di più.
Non era più l’Ozio di una volta, doveva ammetterlo a sé stesso: prima
o poi, con l’età bisogna fare i conti, e se vedi che sei in perdita, non hai
tutto il tempo che vuoi per rimettere in pari il bilancio. Se vuoi ammortizzare i danni insomma, pensava l’Ozio seduto nella sua cucina totalmente digitalizzata, devi muoverti in anticipo sulla probabile futura tragedia.
Non lo sapeva ancora, ma dentro di sé stava incominciando a bruciargli come una sensazione.
Doveva sbrigarsi.
Sentiva che se avesse ancora ritardato quella scelta definitiva, di definitivo ci sarebbe stato altro.
Scappò al crepuscolo dell’alba, quando la sua più temibile nemica
ancora non si era destata. Preparò le valigie con cura e, prima di uscire,
fece un breve resoconto mentale dei compiti che si era obbligato ad assolvere per non lasciare dietro di sé qualcosa in sospeso.
Serrare porte, finestre e armadi, regalare le azalee ai vicini, chiudere il
gas.
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No.
Non s’era dimenticato nulla
Si tastò le tasche.
Aveva tutto ciò che gli sarebbe potuto servire nella sua prossima vita.
Ancora un’ultimo passaggio prima di concedersi completamente allo
stress di una fuga senza meta e sarebbe stato pronto sul serio: doveva ricordare a Zia Inedia di non assecondare l’edonismo di Placebo, l’obeso felino
randagio che, pur godendo dei privilegi riservati al gatto dell’Ozio, amava
pasciarsi all’ombra delle coccole di qualsiasi estraneo disposto a concedergli leccornie di ogni tipo, in cambio della propria prostituzione sottoforma di fusa.
L’Ozio respirò un ultima volta l’aria consistente della metropoli.
Poi, entrò nel taxi, e chiese all’autista di essere portato in stazione.
Lungo la strada che stava percorrendo, nelle sagome ombrose dei grattacieli e nei profili delle fabbriche che definivano lo skyline dell’opprimente capoluogo in cui aveva abitato negli ultimi sette lustri e da cui ora evadeva intimorito e deluso, l’Ozio scorgeva in controluce i podromi della sua
decisione.
Già a metà dell’Ottocento aveva provato a scendere a patti con
l’Urbanizzazione; dimostrandosi un signore d’altri tempi aveva cercato di
aprire un dialogo maturo con lei per convincerla almeno ad ascoltarlo:
chiunque avrebbe compreso la logica di natura di cui si faceva portavoce
l’Ozio: vivere non significava totale abnegazione al lavoro. Un concetto
che sarebbe stato lampante per chiunque, tranne che per lei.
L’Urbanizzazione, infatti, aveva altri obiettivi e, gli accordi che aveva stretto con il Capitalismo, ancora bebé ma già influente, la resero più sorda che
mai al raziocinio della slow life propostale.
Mentre lasciava l’Ozio alle sue fantasie bambine, le pupille le brillavano rilucenti e si sentiva amata da quel futuro in apparenza così intrigante
da cui si era lasciata sedurre, un futuro che si chiamava Rivoluzione
Industriale, un domani intrigante, misterioso, oscuro nelle sue azioni,
maniacale nelle sue mire. L’Urbanizzazione se ne fotteva dei biasimi e della
diplomazia che l’Ozio aveva profuso negli incontri intercorsi tra loro. La
sua testa era altrove, eccitata dalle magie conturbanti della catena di montaggio, dalla voluttuosità del surplus, dalla mascolina aggressività con cui
uno dei suoi più fervidi amanti, il Progresso, irretiva il proletariato stordendolo con le promesse di un avvenire migliore grazie al nuovo scenario
occupazionale che si andava tracciando.
Per l’Ozio, fu difficile accettare la sconfitta.
A differenza di quanti potrebbero pensare, l’Ozio, infatti, aveva avuto
miniere spesso incontenibili di consenso nelle ere antiche, che, per controparte, avevano comportato per lui full immersions demenziali di superla-
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voro. A essere onesti, l’Ozio, com’è chiaro, non stravedeva per l’operosità
ma non aveva scelta: se voleva aumentare il proprio audience, lo sforzo era
fisiologicamente inevitabile. In certi casi, però, i riscontri erano tali che
delle fatiche l’Ozio non ricordava nemmeno la forma. L’ozio, lungimirante com’era nell’analizzare le situazioni, preferiva sfinirsi di lavoro che subire i rifiuti dei suoi eventuali partners leggasi Urbanizzazione spocchiosa.
Dopo il periodo d’oro romano, in cui il suo certosino lavoro di marketing
aveva dato frutti insperati, l’Ozio era stato messo in cassa integrazione
dalle invasioni barbariche ed era dovuto sopravvivere disoccupato al basso
medioevo prima di poter ritrovare un posto a tempo indeterminato nel
Rinascimento; i suoi nuovi clienti furono esseri illuminati disposti a seguire il culto di cui si sentiva profeta indiscusso, un culto per cui aveva
rischiato personalmente esili, torture e bollature di eretico negli anni in cui
l’Inquisizione faceva tendenza.
La religione che l’ozio predicava aveva un solo comandamento, fruibile e praticabile da chiunque: non fare mai nulla che non sia fare nulla. Una
così particolare confessione, com’è presumibile, difficilmente aveva attecchito in quelle stagioni della Storia anche recente che si fissano nella
memoria collettiva per le incomprensioni planetarie tra civiltà che li
hanno caratterizzati, decadi di devoto e unanime impegno sociale profuso
nell’odio reciproco, brani di tempo all’apparenza infiniti che l’uomo ha
dedicato con assiduità quasi ascetica alla proliferazione di guerre intestine,
carestie e morte, pezzi di passato che poco inclini avrebbero reso chiunque
nei confronti della pigrizia conclamata. Non ultimo il secolo appena trascorso, ci sono stati tranci di passato in cui c’era troppo da fare per sopravvivere che stare ad ascoltare l’agente monomandatario della comodità che
bussa alla tua porta per cercare di convincerti che oziare sia la soluzione
più corretta per smorzare la pressione del presente.
La frenata improvvisa fece riavere l’Ozio.
Le sue elucubrazioni si dissolsero come pipistrelli abbagliati.
Pagò il dovuto, ringraziò il tassista, e, tra il confuso e il terrorizzato, si
diresse alle Informazioni.
L’uomo in divisa era tenuto in ostaggio dal caldo.
Sognava il mare, un’amante meno ossessiva, dei figli già grandi.
Poi, entrò l’Ozio, e fu come mettersi a parlare con la pace nel mondo.
L’Ozio mise i suoi timori nelle mani del dipendente FS.
Gli chiese un consiglio, un buon ritiro, un luogo dove la sua irriducibile nemica, la Frenesia Cittadina, insieme alla sue crudeli sorelle, la
Smania Consumistica e la Massificazione Forzata, non lo avrebbero mai
potuto stanare.
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Il sorriso del cinquantenne dall’altra parte del bancone lo convinse che
Miss Fortuna non lo avesse del tutto abbandonato.
Ringrazio per il dépliant sconosciuto che il mentore fortuito gli stava
passando e corse al binario.
Erano quasi le otto.
Dentro di sé, era convinto di farcela ancora.
Il treno era in ritardo, ma una premonizione del genere non sarebbe
mai stato in grado di farla comunque.
Era meglio che evitasse di rimproverarsi per questo.
Ora, l’unica cosa saggia che poteva fare era pregare con vigore il Dio
che aveva creato a propria immagine e somiglianza.
Il suono delle campane distanti gli uccise la fede.
Allo scoccare delle otto, si vide come un vampiro ormai spacciato.
L’Ozio chiuse gli occhi, rassegnato.
Il rumore aumentava.
La velocità di quel rumore aumentava.
Non era il treno, purtroppo.
All’orizzonte, l’incubo che da sempre aveva temuto diventò un reality
dell’orrore che lo aveva già eletto vincitore prima ancora che lo show avesse inizio.
L’orda di zombie procedeva indomita verso di lui.
Non gli era mai capitato di uscire di casa all’ora di punta, all’ora in cui
i mostri uscivano dai loro loculi per diffondere il contagio ovunque.
Gli appestati lo avrebbero circondato in pochi attimi.
Gli sembrava di essere tornato ai tempi della Rivoluzione Industriale,
in cui l’Urbanizzazione, dopo averlo emarginato, aveva deciso di bandirlo
e trasformarlo in un abietto lebbroso.
I malati di lavoro sembravano puntare implacabili verso di lui.
Ne era certo.
Lo avrebbero infettato prima ancora che il panico per l’accaduto riuscisse a sfiorarlo.
I servi della Frenesia Cittadina e delle sue Sorelle si moltiplicarono
d’improvviso, palesandosi con evidenza nel giro di un respiro.
All’orizzonte, simile al sesto cavalleggeri, l’Intercity, appena uscito
dalla galleria, aveva emesso il suo muggito caratteristico come un avvertimento.
Come un consiglio.
Che l’Ozio non ci mise un secondo a mettere in pratica, capendo che
era l’unica via di salvezza che l’immanente gli avrebbe mai concesso.
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Ancora adesso, l’Ozio non si pente della sua follia.
Salire su quel treno, sarebbe stato comunque un suicidio.
Non considerò nemmeno l’ipotesi di trovare riparo in qualcuna di
quelle carrozze che di solito non sono preda della Fretta e della Brama
Stakanovista degli uomini contemporanei.
L’Ozio preferì una scelta radicale, gloriosa, in qualche modo eroica.
Farla finita, ammazzarsi.
Dichiararsi sconfitti ma impedire la soddisfazione al vincitore, la gioia
arrogante di vantarsi dell’omicidio, di esibire in piazza il cadavere.
In fondo, alle soglie della senilità, l’Ozio aveva ponderato che la cosa
migliore che potesse fare un vecchio, specie un vecchio come lui, era investire il tempo che restava per lasciare un buon ricordo di sé.
In quei pochi baleni che lo separavano dalla dipartita volontaria, mentre il treno rallentava ma non abbastanza da evitare l’impatto, concluse
remissivo che intanto aveva già vissuto abbastanza, più di chiunque altro
comunque, e un ultimo gesto eclatante sarebbe valso come anni di sforzi,
magari vani, tesi a costruire per l’immaginario comune un profilo di sé
che, poi, era possibile, alla fine, si sarebbe rivelato essere semplicemente un
ridicolo simulacro di ciò che era stato in realtà per il mondo.
Sorridendo, l’Ozio cercò di interleggere i confini della Gorgona in lontananza.
Da lassù, la vista toglieva il fiato anche a un defunto in tormento come lui.
Non avendo mai creduto in Dio, per non peccare di ipocrisia, l’Ozio
ringraziò il cielo genericamente.
La sua ventura, infatti, fu che, comunque, il suo spirito, non sapeva
bene da chi, fu destinato al luogo che l’angelo delle Fs gli aveva indicato
come Paradiso in terra. Come un vero cherubino del folklore cattolico,
sotto mentite spoglie umane, quel dipendente pubblico aveva traghettato
il destino dell’Ozio verso il luogo perfetto che da sempre uno come lui cercava per chiudere in bellezza la sua carriera.
L’Eden in questione si trovava tra le colline della Lunigiana, e aveva la
forma di un castello.
L’Ozio prese casa tra quelle mura, e, ogni notte, da quella orribile mattina, l’Ozio diventò il fantasma di cui le cronache e le giunte locali si fanno
vanto, un ectoplasma, si dice, felice per la sua dimora ma inquieto per
l’umanità. Durante il giorno, l’Ozio dorme in un’armatura nella Sala
d’Ingresso per sfuggire ai visitatori e all’occhio curioso degli amici dei
Marchesi Torrigiani Malaspina proprietari del Maniero. Di notte, quando
tutta la valle si bea nel riposo, l’Ozio vaga angosciato lungo i corridoi della
rocca imponente, e piange. Piange per il mondo, per gli uomini, presuntuosi e sordi, come bambini sconsiderati che credono di avere la verità in
tasca e poi, quando si fanno male a causa delle loro connaturate leggerez-
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ze, si maledicono per non aver ascoltato gli adulti; vi odio, idioti ipovedenti, sembrava berciare l’Ozio, accusandoli con quelle grida, di continuare a essere orbi schiavi devoti alla routine, alla reverenza per l’ansia da prestazione, alla dipendenza ossessiva e masochistica dalla Frenesia Cittadina.
L’Ozio, ancora oggi, ogni volta che cala il sole, si accartoccia disperato e
risorge dall’armatura, carico di un misto di rabbia e impotenza come dopo
uno stupro, preda della sindrome del Messia fallito che è stato negligente
e non è riuscito a testimoniare a nessuno la sua buona novella e ha lasciato che la violenza dei suoi avversari diventasse legge indiscutibile.
Singhiozza acuto l’Ozio mentre vaga nei meandri del Castello Malaspina,
furente che una razza come quella umana che si vota scriteriata alla Fatica,
e ha questa foga furibonda di esistere a tutti i costi e di farlo più velocemente possibile, vive male e muore peggio. È la malinconia a invadere lo
spirito travagliato dell’Ozio allo stremo che non troverà pace e continuerà
a vagare come sbronzo di dolore tra le stanze del castello fino a che le sue
urla penose non possano giungere così lontano che tutti i figli del globo
terrestre si sveglino sgomenti, assillati da quel gemito, e tra le pieghe screpolate della tribolazione di quel fantasma decrepito, improvvisamente
intravedano, come riflesse dopo una folgorante aurora ancestrale, le crepe
di un’esistenza consacrata allo Stress.