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Gianluca e Marco Serra Capo Granitola Un luogo sospeso tra lo spazio e il tempo 2012 e-book di capogranitola.it Ai nonni Pippineddu e Annita, senza i quali Capo Granitola sarebbe oggi, per noi, solo un punto in una mappa e-book di capogranitola.it Contenuti Prefazione 1. Introduzione: il viaggio comincia 2. Storie di uomini e di tonni 2.1 Alle origini della tonnara 2.2 La tonnara di terra: tra razionalismo ed “abitare e costruire” 2.3 La tonnara di mare: l’agone tra uomini ed elementi 2.4 Gli uomini e le donne della tonnara 2.5 Il calendario della tonnara: tempi e modi del lavoro 3. Lo spirito del borgo 4. “Mamma, li turchi!” 5. Terra di approdi 5.1 Il mancato sbarco degli “Alleati” 5.2 Lo sbarco degli Arabi 5.3 Lo sbarco cartaginese 6. Infidi fondali AVVERTENZA AL LETTORE Per ragioni editoriali il presente e-book include testi ed immagini leggermente diversi da quelli presentati nel sito www.capogranitola.it e-book di capogranitola.it CAPOGRANITOLA.IT e-book Prefazione Un oggetto qualunque, per esempio, un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima e anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago. Giacomo Leopardi, Zibaldone, Recanati, 14 dicembre domenica 1828 Q uando ci si propone di rappresentare un luogo dell'infanzia - quale è per noi Capo Granitola - la tentazione di darne una lettura “romantica” è la prima alla quale occorre sottrarsi per evitare che il racconto si trasformi in nostalgico vagheggiamento di un universo franato nella voragine del tempo. Per chi scrive la tentazione è tanto più forte, esistendo un’appartenenza affettiva prodotta da intime vicende familiari. Non preoccupi il navigatore la confessione di questa empatia: è noto che i fenomeni sociospaziali - diversamente da quelli naturali - non sono dotati di un’autonoma esistenza; al contrario, la possibilità di comprenderli e comunicarli ad altri è obbligata a passare attraverso la “relazione al valore” ed il “vissuto d’esperienza”. Più esplicitamente: senza ancorarci ai nostri valori culturali ed alle nostre esperienze personali, non saremmo stati in grado di sottrarre Capo Granitola all’infinita ed indefinita massa del mondo reale ed investirlo di quel fascio di luce che è il “senso” . Questa contaminazione soggettiva in qualche misura potrebbe aver destituito di affidabilità scientifica il metodo d’indagine adottato. Ce ne scusiamo ma il nostro scopo non era quello di proporci con delle verità a prova di metodo galileiano, piuttosto quello di condividere emozioni e suggestioni che sono la eco di un luogo sospeso tra lo spazio e il tempo: Capo Granitola. G. & M. Serra 1 CAPOGRANITOLA.IT e-book L’equipaggio Gianluca Serra l’autore dei testi Nato nel 1979, nella vita reale si occupa di tutt'altro; il mare gli è amico solo in virtù del principio di Archimede, ma lui lo ama come si possono amare tutte le cose impossibili. Se il mondo fosse un altro, vivrebbe epicamente in un faro della Bretagna! Marco Serra l’amministratore del sito Nato nel 1986, è un biologo marino; oltre al mare, tra le sue passioni ci sono la musica e il computer, praticamente altre due forme di "navigazione". Se fosse possibile invertire le teorie di Darwin, insegnerebbe ai pesci a vivere sulla terraferma! G. & M. Serra 2 CAPOGRANITOLA.IT e-book 1. Introduzione: il viaggio comincia (...) mentre il bello produce direttamente un senso di esaltazione della vita, e perciò si può unire con le attrattive e con il gioco dell'immaginazione, il sublime invece è un piacere che ha una origine indiretta, cioè è prodotto dal senso di una momentanea sospensione, seguita subito dopo da una più forte effusione delle forze vitali e perciò, in quanto emozione, non mostra di essere un gioco, ma qualcosa di serio dell'impiego dell'immaginazione. Quindi il sublime non si può unire alle attrattive; e poiché l'animo non è semplicemente attratto dall'oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo. I. Kant, La concezione del bello e dell'arte C i sono luoghi reali, eppure capaci di un’esistenza distaccata, sospesa. Un’esistenza che trascende le ordinarie coordinate umane dello spazio e del tempo. Lì abita ciò che noi inconsapevolmente siamo: una nostalgia, la semplice nostalgia, in fondo, di un approdo sicuro nella traversata dell’esistenza perché, in fondo, “nous sommes embarqués” (Pascal). Punta (o Capo) Granitola Torretta-Granitola è fra questi luoghi per chi l’abbia incrociata nel viaggio verso la sua personale Itaca. E non importa se la ripartizione territoriale-amministrativa la voglia dal 1955 frazione di Campobello di Mazara[1] (a 12 km di distanza, in provincia di Trapani): Torretta è frazione - nel senso di parte integrante e non di appendice periferica - di molte esistenze… Cuspide sud-occidentale della Sicilia, Capo Granitola scruta dapprima Pantelleria (a sole 55 miglia, le si staglia sull’orizzonte quando il cielo è terso) quindi la sponda tunisina (Capo Bon, la fortezza di Kelibia ad un centinaio di miglia…). [1] Fino a quella data Torretta ha fatto parte del comprensorio amministrativo di Castelvetrano. G. & M. Serra 3 CAPOGRANITOLA.IT e-book La palpebra del bianco faro (38 m.s.l.d.m., 153 interminabili gradini), eretto nel 1862, si apre per tre secondi ogni sette e lancia uno sguardo luminoso che buca l’orizzonte notturno per 23 miglia, allertando i naviganti affinché si tengano alla larga dai bassi fondali. Il Faro di Capo Granitola (progetto originale del faro di Capo Granitola, 1861) Veduta del faro di Capo Granitola dal fronte mare G. & M. Serra 4 CAPOGRANITOLA.IT e-book faro dal froVedute del faro di Capo Granitola (da ponente e da nord) Poco più a levante, al largo delle infide secche di Punta Granitola, il Mediterraneo scatena le sue correnti, quei freddi flussi che, tra luglio e agosto, trascinano i tonni, ormai alla fine del loro viaggio d’amore, nuovamente oltre lo Stretto di Gibilterra. G. & M. Serra 5 CAPOGRANITOLA.IT e-book Veduta aerea deoVeduta aerea del faro di Capo Granitola (la tonnara e il borgo a ponente)o sfondo, a ovest, borgo) Sbarchi di armate cartaginesi e arabe, antiche battaglie campali, torri e postazioni militari costruite per difendere la costa dai saraceni e dagli “Alleati”, fari accesi per proteggere le navi dalle insidie dei fondali, naufragi di tutte le epoche, cave per erigere templi, torri e case. Un universo di suggestioni lontane nel tempo per apprezzare il senso della Torretta-Granitola di oggi. Il selvaggio litorale sabbioso a levante del faro di Capo Granitola G. & M. Serra 6 CAPOGRANITOLA.IT e-book 2. Storie di uomini e di tonni 2.1 Alle origini della tonnara La sola pesca che merita di essere detta abbondante, nel Mediterraneo, è quella del tonno, per quanto breve, solo tre o quattro settimane all’anno, e possibile solo in alcune zone privilegiate che oggi tendono sempre più a ridursi, o a scomparire. Fernand Braudel, Il Mediterraneo, 1949 L a più importante tonnara fissa “di ritorno[1]” della provincia di Trapani ha operato nel mare di Capo Granitola. L’inizio della sua storia ufficiale si può far risalire al tardo Ottocento, epoca in cui il barone Adragna di Trapani[2] ottenne in concessione, con decreto del Ministero della Marina, una porzione di mare per calare gli ordigni da pesca e di costa per realizzare il “marfaraggio”, cioè la struttura deputata ad accogliere le relative attrezzature. L’impianto di Granitola mutuò il suo nome da un più antico sito di pesca del tonno esistito sin dall’inizio del XVII secolo in una limitrofa località: si chiamò, dunque, “Tonnara Tre Fontane”. E’ probabile che in loco si effettuasse anche la salagione delle eccedenze di tonno pescato. Araldo dei baroni Adragna Dopo lo sbarco alleato, nel 1944, un altro esponente della “talassocrazia” trapanese, Attilio Amodeo, incrociò le vicende socio-economiche di Capo Granitola. Fu lui a dare all’impianto la dignità di stabilimento industriale vero e proprio, facendo costruire lungo la costa imponenti e razionali strutture deputate ad accogliere operai, custodire barcareccio ed attrezzature da pesca, ospitare la lavorazione e conservazione sott’olio del tonno. [1] Grazie alla sua posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, la Sicilia intercetta la migrazione gamica extra-oceanica dei tonni in due diversi momenti: l’andata ed il ritorno. Perciò, lungo le coste nord-occidentali e settentrionali, da Capo Lilibeo (Marsala) a Capo Peloro (Messina), venivano calati gli impianti “di corsa” (o “di andata”), specializzati nel catturare, tra maggio e giugno, i tonni diretti verso i siti di riproduzione; mentre, lungo le coste ioniche e del canale di Sicilia, da Capo Passero (presso Siracusa) a Capo Granitola (presso Mazara), si calavano, tra luglio e agosto, gli impianti “di ritorno”, deputati alla cattura dei tonni che, scampati alle trappole “di andata”, avevano raggiunto i “talami nuziali”, obbedito al naturale istinto della riproduzione, e potevano lanciarsi nuovamente verso l’Atlantico. [2] Nel 1908, il barone Adragna risulta co-proprietario, insieme alla famiglia Serraino, anche della tonnara di san Giuliano, presso Trapani. Negli anni ‘50 le tonnare di San Cusumano e di Bonagia annoveravano tra i loro proprietari due diversi rami della famiglia Adragna. G. & M. Serra 7 CAPOGRANITOLA.IT e-book La costruzione dei fabbricati durò qualche anno e fu realizzata con la “pietra bianca” di Favignana, un tufo conchigliare considerato il più pregiato sia per la sua compattezza e grana fine sia per quel colore lunare conferitogli da una maggiore concentrazione di calcio. Qualche anziano ricorda ancora l’andirivieni di “schifazzi”[3] nel porticciolo di Torretta, dove avveniva il trasbordo su carrelli di ferro che venivano, infine, trainati fino al cantiere. Intorno alla metà degli anni sessanta le cave di Favignana facevano ancora parte dell’indotto economico della tonnara torrettese: ad ogni stagione di pesca l’estrazione di nuovi conci di tufo da utilizzarsi come “chiummu” (piombo) per le reti era commissionata ai “pirriaturi” (cavatori) dell’isola egusea; successivamente, l’evoluzione del trasporto su strada fece emergere la condizione insulare di Favignana come fattore economico-logistico negativo per cui si trovò più conveniente fare arrivare il tufo dalle vicine Pirrere di San Nicola, il cui sfruttamento industriale iniziava proprio in quegli anni. Pirreredda nei pressi della tonnara Il labirinto di cavità a cielo aperto posto a sud della piscina olimpionica dell’attuale tonnararesort non fu, dunque, la “pirreredda” (piccola cava) dalla quale si ricavò il tufo per costruire gli stabilimenti Amodeo. Se non si trattasse della cava da cui fu estratta la pietra per costruire il “marfaraggio” della tonnara appartenuta al barone Adragna (oramai inesistente) e per farne “chiummu”, allora si potrebbe addirittura ipotizzare che a Capo Granitola abbia operato, in età greca e/o romana, uno stabilimento per la lavorazione e conservazione del tonno analogo a quelli rinvenuti a San Vito Lo Capo e a Capo Passero. Quelle cavità perfettamente squadrate, in cui i bambini di molte generazioni hanno fantasticato la loro reggia, somigliano tanto ai resti delle vasche (“taricheiai” per i greci, “cetariae” per i romani) in cui, grazie alla funzione antisettica del sale, si realizzava la macerazione del pesce (tonno incluso) al fine di ottenerne una prelibata salsa da condimento (“garon” per i greci, “garum” per i romani) conservata in panciute anfore di terracotta. [3] Lo “schifazzo” è un’imbarcazione storica trapanese, caratterizzata da una o più grandi vele latine, vari fiocchi, e, quando naviga col vento in poppa, una piccola vela quadra di gabbia volante. Era essenzialmente adibita al piccolo carico e serviva su distanze relativamente brevi. G. & M. Serra 8 CAPOGRANITOLA.IT e-book Più verosimile pare la congettura secondo cui, sempre in età antica, in considerazione del ruolo centrale che la città di Makkarà (Mazzara) ebbe sotto la dominazione araba (827-1060), Capo Granitola, allora detta “Ras el Belat”, abbia ospitato una tonnara retta da una consorteria di pescatori siculo-arabi. Che quella zona fosse congeniale per intercettare i tonni diretti verso l’Atlantico, lo si sapeva già prima che il barone Adragna impiantasse la sua tonnara a Capo Granitola. Lo stesso nome che questi aveva posto alla sua impresa -“Tonnara Tre Fontane”- faceva da eco alla storia di una tonnara, forse “spenta” già allora, che aveva a lungo operato più a est, tra Tre Fontane e Triscina, in una località detta “Mirazza” o “Arvulazzu”[4]. E poi ci sono atti notarili dell’inizio del XVII[5] e dell’inizio del XVIII secolo[6] che testimoniano l’esistenza di tonnare su quel litorale, e, rispettivamente, della tonnara di Torre Polluce (presso Selinunte) e di quella, già citata, di Tre Fontane[7]. E ancora, sul finire del Settecento, il marchese di Villabianca, nel suo manoscritto sulle tonnare di Sicilia, censisce una tonnara -ancor oggi di difficile identificazione- che “lavora ne’ mari della costa delli Gigli”. Potrebbe il criptico toponimo “costa delli Gigli[8]” riferirsi al sabbioso lungomare che da Punta Granitola prosegue fino a Marinella di Selinunte, un tratto dunoso in cui fiorisce, tra le barbe di monaco, il bianco e odoroso giglio di San Pancrazio? Certo, siamo già parecchio tempo lontani dalla fase di dominazione araba della Sicilia (8271060) ma nulla porta ad escludere che prima delle testimonianze notarili vi sia stata una qualche storia di tonnare nella zona di Capo Granitola. Il giglio di San Pancrazio [4] Il toponimo “Tonnara Mirazza” è ancora oggi esistente ed individua la contrada del lungomare est di Tre Fontane in cui oggi sorge il parco di divertimenti “Acquaslash” ed il resort “Ramuxara”. Quanto al toponimo “Arvulazzu”, esso si riferisce probabilmente ad un grande albero che segnalava il confine orientale del feudo del principe Pignatelli. [5] 31/1/1622, notar Vincenzo Graffeo. [6] 2/9/1712, notar Pietro Sciortino. [7] Dagli atti notarili risulta che quest’ultima era in concessione ai religiosi della chiesa della Gran Signora di Tre Fontane da parte del principe di Resuttana e duca di Campobello. Il marchese di Villabianca, nel suo manoscritto “Le tonnare di Sicilia” (scritto sul finire del Settecento), conferma quanto emerge dagli atti, annotando a proposito della tonnara di Tre Fontane: “Tonnara che si ha né mari del littorale della terra Campobello Napoli, vassallaggio dei principi di Resuttano nella Val di Mazzara”. Dagli atti e decreti della Sacra Regale visita di Giovanni Angelo de’ Ciocchis per ordine di Carlo III, avvenuta nel 1742, si deduce un’altra importante informazione sulla tonnara di Tre Fontane: essa pagava una decima di 82 onze al vescovo di Mazara, al quale, per volontà espressa dal re Ruggero nel lontano 1144, spettavano “...in perpetuum decimas omnium portuum et tymnariarum”. [8] Ad onor del vero, l’identificazione della “tonnara del pedale” con un impianto operante nei pressi di Capo Granitola parrebbe invalidata dal fatto che il marchese consideri la “costa delli Gigli” come “dipendente dal littorale di San Giuliano”, presso Trapani. G. & M. Serra 9 CAPOGRANITOLA.IT e-book Tutte ardite ipotesi che arricchiscono di fascino un luogo che già custodisce tanta e ben più certa storia; ipotesi che però si scontrano con una difficilmente confutabile determinante geografica: l’infausta esposizione della zona di Capo Granitola, facilmente vulnerabile sia da terra (un’immensa pianura stepposa -detta “ feu”, feudo, si estende a nord) che da mare (i lidi sabbiosi a est dell’attuale faro e le calette rocciose a ovest dello stesso si offrivano agevolmente all’approdo di pirati). Confezione da 5 kg del tonno Amodeo; particolare dei loghi (in basso); per le corrispondenti immagini reali, cfr. foto seguenti Faro Caponitola (foto di Michele Salducco) - sorgente "Tre fontane" - Camini della La denominazione di “Tonnara Tre Fontane” fu conservata anche sotto la proprietà Amodeo, come è testimoniato dalla banda stagnata utilizzata per l’inscatolamento del tonno. Invero, l’impostazione grafica dell’etichetta è alquanto singolare ed eloquente: su uno sfondo rosso (come il sangue del tonno), incorniciati tra due fasce ottonate, si stagliano tre loghi: al centro una vasca liberty con tre sifoni, a sinistra un cerchio in cui è inscritto un faro che getta il suo fascio luminoso su un veliero all’orizzonte; a destra, infine, un altro cerchio in cui si distingue una metafisica struttura costituita da un’arcata semi-diroccata che emerge dal mare e sorregge cinque fumaioli di tonnara. La simbologia è spiegata dalle didascalie che sovrastano ciascuno dei loghi e cioè, nell’ordine: “Tre Fontane”, la “marca depositata”, “Capo Granitola”, il luogo di pesca e lavorazione, Trapani, il distretto produttivo cui afferiva la tonnara, da cui proveniva il suo stesso proprietario e gran parte del personale impiegato. G. & M. Serra 10 CAPOGRANITOLA.IT e-book 2. Storie di uomini e di tonni 2.2 La tonnara di terra: tra razionalismo ed "abitare e costruire" L ’impianto di terra si articola in tre gruppi di fabbricati: - a ovest, tre blocchi di alloggi (le “barracche”) destinati, rispettivamente, alle donne, alla ciurma di terra e, infine, a quella di mare, la casa del rais (la “casina russa”) sovrastata dalla torre d’avvistamento, un primo grande capannone per il riparo delle reti già usate, detto “Camperia”; - al centro, un grande hangar (la “Trizzana”) costituito da due capannoni simmetrici con la funzione di ricovero e cantiere nautico per il barcareccio della tonnara; - a est, il “palazzotto” dei proprietari e le stanze del ragioniere; quindi i vari ambienti che ospitavano le diverse fasi della lavorazione conserviera del tonno: la sala pesatura, macellazione e lavaggio, le celle frigorifere, la cisterna d’acqua, l’impiccatoio per il dissanguamento (detto “Vosco”), le vasche per la salamoia, il locale per l’asciugatura, le due batterie di caldaie per la cottura del pesce e la sterilizzazione delle confezioni, i due magazzini “ri salatu” (per la salagione), i tre capannoni, detti “Sciappante”, in cui si inscatolava sott’olio e si stoccavano le confezioni. Lo sky-line della tonnara Amodeo dopo la ristrutturazione (generale da ponente e dettaglio da fronte mare) G. & M. Serra 11 CAPOGRANITOLA.IT e-book Planimetria generale della vecchia tonnara Amodeo e relativa legenda La tonnara di Torretta non ha certo gli archi arabeggianti a sesto acuto progettati dall’architetto Almeyda per gli stabilimenti Florio di Favignana, né le guglie neo-gotiche disegnate dal Giachery per l’Arenella di Palermo… eppure non si lascia ridurre a mera edilizia: essa è a pieno diritto manufatto architettonico portatore d’una monumentalità essenziale e severa, mediata da un linguaggio geometrizzante in cui volume, ritmo, simmetria parlano al comune senso estetico. Possenti corpi di fabbrica si sviluppano longitudinalmente su un costone roccioso, la cui asperità è temperata dal profilo sinuoso delle volte a botte, dal gioco chiaroscurale di arcate e rosoni che si stagliano su facciate “allattate”, le quali in più punti svelano la sensuale nudità del tufo ocra rosicato dalla salsedine. G. & M. Serra 12 CAPOGRANITOLA.IT e-book Ma la vera chiave per l’interpretazione architettonica dell’impianto di terra rimane la razionalità di ascendenza funzionalista, figlia dell’età tra le due guerre, che, nel caso della tonnara di Granitola, eleva la produzione a principio informatore e organizzatore dello spazio. L’impianto è disseminato di elementi che rivelano la seduzione funzionalista subita da chi lo progettò: gli spiazzi tra gli edifici non sono dei “vuoti a perdere” ma opifici a cielo aperto (e.g. la cucitura delle pezze di rete nella “Piragna”, le operazioni di cottura a vapore dei tranci nella piazzola ad est della “Trizzana”, la salatura in umido e la sterilizzazione delle confezioni graffate nel cortile antistante il “Vosco”) o comunque aree destinate ad accogliere funzioni (e.g. il deposito delle ancore a sud-est della “Trizzana”), le ampie volumetrie degli interni, interrotte solo da pilastri portanti, consentono il deposito di attrezzature ingombranti (barcareccio, reti, cordame, galleggianti…), gli alti soffitti voltati a botte e le numerose aperture favoriscono la ventilazione (necessaria in diverse fasi del processo produttivo, tra l’altro, ad elevato impatto olfattivo e, inoltre, per evitare lo sviluppo di muffe sulle attrezzature di origine organica) e l’irraggiamento naturale (utile per un impianto progettato in un territorio marginale, che solo alla fine degli anni Sessanta sarebbe stato raggiunto rete elettrica nazionale). I capannoni dello stabilimento Amodeo: le ampie volumetrie interne G. & M. Serra 13 CAPOGRANITOLA.IT e-book I capannoni dello stabilimento Amodeo: il sinuoso profilo esterno (prima e dopo la ristrutturazione) Eppure, nonostante lo sforzo razionalizzatore, il disegno originario della tonnara non è rimasto immune da contaminazioni ad opera dello schema architettonico del baglio rurale tradizionale, in cui spontaneamente si realizza una commistione tra spazi produttivi e luoghi della vita quotidiana: le “baracche” dei tonnaroti non costituiscono un “quartiere” a se stante ma sono adiacenti al capannone delle reti; la casa del rais funge da basamento per la torre d’avvistamento, il “palazzotto” dei padroni è quasi addossato al cruento “Vosco”, l’ufficio-alloggio del ragioniere è prossimo al luogo in cui, attraverso la pesatura, il tonno, tributo del mare all’ingegno ed alla fatica dell’uomo, si fa valore economico. L’esperienza, le contingenze economiche e l’evoluzione tecnologica hanno, d’altra parte, fatto emergere esigenze nuove, non prevedibili, neppure dal più accorto progettista; pertanto, successive modifiche ed integrazioni si sono rese necessarie nel tempo: - nel 1954, la disattivazione (per ragioni che saranno precisate più avanti) della filiera per la lavorazione conserviera caducò la tonnara di una funzione importante, comportando ripensamenti strutturali di non poco conto, come la riduzione a inerti magazzini dei capannoni di Sciappante e “di salato”, l’abbandono delle vasche di salagione e delle batterie di forni; - nel 1968, la costruzione di una cabina Enel (a nord della “Trizzana”, lungo il muro perimetrale) esclusivamente dedicata alla tonnara rese possibile l’elettrificazione dei processi, che fino ad allora avevano fatto affidamento solo su un rumoroso gruppo elettrogeno a gasolio (situato a sud-est dello “Sciappante”); - nel 1969, una struttura portuale (comprensiva di molo frangiflutti e banchina d’ormeggio) fu realizzato per essere precipuamente al servizio della flotta della tonnara, fin lì ospitata nell’attuale porticciolo turistico; - nel 1970, due grandi celle frigorifere furono installate all’interno del magazzino adiacente il “Vosco”. G. & M. Serra 14 CAPOGRANITOLA.IT e-book E, infine, vanno segnalate le tante costruzioni, per così dire, “minori”, spiegabili con la formula heiddegeriana “abitare e costruire”: le sei vasche (pile) adibite a lavatoio comune nel cortile est tra i primi due blocchi di “barracche”, le latrine alla turca inserite in ciascun blocco di alloggi, la stanzetta del barbiere nel piccolo promontorio di fronte al magazzino est “di salato”, il bagnetto esterno del “palazzotto” (davvero l’estremità orientale della tonnara di terra)... Il bagnetto del palazzotto Amodeo (scomparso con la ristrutturazione) Fino a poco prima della ristrutturazione, dalla tonnara traspirava addirittura una monumentalità sacra, quasi il sito degli stabilimenti si fosse trasformato, nel suo abbandono, in un’acropoli postmoderna, metafisica, dechirichiana. La monumentalità metafisica dell'ex tonnara Amodeo (dopo la ristrutturazione) in un dettaglio di una veduta da levante G. & M. Serra 15 CAPOGRANITOLA.IT e-book Canna fumaria maggiore della tonnara Amodeo (prima e dopo i lavori di consolidamento che l’hanno visibilmente resa più tozza) L’aere, latore di forti sensazioni olfattive, avrebbe fatto da muta didascalia a luoghi che andavano inesorabilmente perdendo la loro identità: l’odore di cordame impolverato, di legno di rovere infradicito, di bitume decotto, di ferro rugginoso, di “sangazzu ri tunnu” di cui erano profondamente intrise le “chianche” di legno, di tufo sfarinato, appannato d'un biondo ocra dalle sfumature bronzee, di capperi selvatici, di citronella… un odore complessivo che altrimenti non saprei definire se non “odore di tonnara”. Ispirato da questi sentori, avresti potuto attraversare luoghi suscettibili di una trasfigurazione poetica in chiave simbolista: ... l’ara sacrificale delle fornaci di cotto rosso in opus latericium… il fumaiolo, decrepito ma solenne totem slanciato verso i numi superni, padroni dell’alea del mare… Caldaie e camini dello stabilimento Amodeo (incomprensibilmente mai ristrutturati) G. & M. Serra 16 CAPOGRANITOLA.IT e-book ... la torretta d’avvistamento, campanile laico sull’abisso azzurro, dal quale i padroni seguivano, attraverso il cannocchiale, le operazioni della tonnara di mare; “pile”, vasche vaticinali in cui solerti donne scrutavano la “passa” (passaggio) dei tonni attraverso i gorghi di acqua liscivia… La torretta d'avvistamento e la casa del rais (prima e dopo la ristrutturazione) L’atrio delle “pile” tra le "barracche" dei tonnaroti (prima e dopo la ristrutturazione) G. & M. Serra 17 CAPOGRANITOLA.IT e-book ... la mole della cisterna cilindrica di cemento armato atteggiantesi a mausoleo neoclassico uscito dalla matita dell’architetto Boullée… le centinaia di ancore arrugginite (poi svendute al governo di Gheddafi[9]) schierate come falangi di opliti… Ancore nello spiazzo antistante i magazzini c.d. "Trizzana" (in primo piano), serbatoio d’acqua e canna fumaria minore,oggi non più esistente (sullo sfondo) ... il molo, magica protesi della terraferma, con le sue tante crepe colonizzate dagli “aranci pilusi” (granchi) dalle quali avresti udito il respiro abissale di Poseidone… i due capannoni “Trizzana” in cui giacevano, scheletri di elefanti, bitumiche carcasse di una flotta abbandonata da un rais-Ulisse. Forse perché Itaca è qui? O forse perché Itaca, come l’Atlantide raccontata da Platone, è stata risucchiata dal mare e quindi non ha più senso cercarla sfidando venti e correnti, dèi, Lestrigoni e Ciclopi. [9] Potrebbero essere in uso nella tonnara libica di Zilitni, le cui barche provengono dalle tonnare di impianti siciliani “spenti” (“U Siccu” di San Vito Lo Capo, “L’Ursa” di Punta Raisi/Cinisi). Oppure potrebbero trovarsi nelle tonnare di Jejira e Zirega. G. & M. Serra 18 CAPOGRANITOLA.IT e-book I capannoni c.d. "Trizzana" : ricovero per la flotta della tonnara e cantiere navale Oggi la poesia della tonnara risulta più ermetica, mascherata come è dietro gli interventi di ristrutturazione e di riqualificazione del complesso architettonico di proprietà della Regione Siciliana. Per anni un grottesco custode, che sembravauscito da un film di Ciprì e Maresco, si è aggirato tra i fabbricati della tonnara in sella al suo cinquantinosenza targa. Torso nudo e occhiali da sole stile "blues brothers", il personaggio in cerca d’autore usava rispondere con una frase "istituzionale" a quanti fra curiosi e visitatori estivi gli avessero chiesto della ripartenza dei lavori: "chistu è lu settembri giustu!". E di "settembri" ne sono passati davvero tanti dall'inizio degli anni Novanta, quando il cantiere fu inaugurato accendendo nuove speranze per una rivitalizzazione, in chiave diversa, della tonnara di Torretta. In effetti, dal gennaio 1994 fino a tutto il 2007 i lavori sono rimasti in sospeso a causa di modifiche al progetto (e precisamente all’edificio “cantieristica e rimessaggio”, già “Trizzana”) introdotte in fase di realizzazione e, come tali, non autorizzate; la procedura di sanatoria è stata perfezionata nel giugno del 2004 lasciando cadere un alibi burocratico che per un decennio ha paralizzato un luogo che stava cercando di ripensare se stesso, di reinventarsi un senso ed una funzione socio-economica. Una di quelle varianti al progetto che ha tutta l'aria di essere stata creata ad arte per mascherare dietro problemi amministrativi l'incapacità di ultimare i lavori con il budget dato. Quanto alla destinazione funzionale dell'ex tonnara Amodeo, il progetto di recupero che nel corso degli anni è venuto a definizione per addizioni successive appariva, nel 2006-2007, inflazionato e confusionario. Da fonti plurime all'epoca postate su internet si apprendeva che la tonnara, svuotata della sua storica funzione di "industria delmare", sarebbe, ad un tempo, diventata sede del già insediato Consiglio Nazionale delle Ricerche (per la ricerca oceanografica e biologicomarina), sede distaccata dell'Università di Palermo (di cui avrebbe dovuto ospitare un corso biennale di laurea specialistica in Scienze e tecnologie per l'ambiente marino e il turismo), centro di formazione di Italia Navigando per tutte le figure professionali dei porti della rete, centro di ricerche archeologiche subacquee del Mediterraneo, approdo internazionale con ingressi controllati, resort e centro congressi. Oggi la destinazione funzionale della ristrutturata tonnara appare decisamente più chiara con l'insediamento, principalmente nelle strutture di levante, dell'Unità Operativa dell'Istituto per l'Ambiente Marino Costiero del Consiglio Nazionale delle Ricerche, la quale svolge attività di ricerca e formazione su tematiche inerenti le scienze del mare e segnatamente aspetti di biologia, acustica, chimica, fisica e geologia. Dunque, un legame tra tonnara e mare che sembrerebbe ristabilirsi, sia pure su basi diverse: non più nei termini di sfruttamento economico di una particolare risorsa ittica, quale il tonno, ma di studio per la conoscenza e conservazione delle risorse ittiche e della biodiversità dell’ambiente marino. Uno sviluppo, questo, che, tuttavia, non esime da G. & M. Serra 19 CAPOGRANITOLA.IT e-book alcune critiche rivolte a quanti negli enti competenti, a cominciare da quello regionale, non hanno saputo, o voluto, coniugare efficienza economica, sensibilità storico-culturale, pianificazione strategica. La prima e più ovvia critica riguarda lo spreco di denaro pubblico per l’iniziale riqualificazione per finalità turistico-ricettive di un complesso architettonico che è stato poi parzialmente riadattato, con ulteriori investimenti, a centro di ricerca. La seconda critica si lega al degrado cui vanno inesorabilmente incontro le strutture dell’ex tonnara che non sono state prese a carico dall’ente di ricerca marina. La terza critica chiama in causa l’incuria per la memoria storica custodita dalla tonnara. A questo proposito, valga ricordare la ormai quasi totale distruzione del barcareccio di tonnara abbandonato senza copertura all’azione inesorabile degli elementi in un’area in cui operano mezzi pesanti (trivelle, scavatori etc.) che, per conto dell’ente di ricerca, starebbero effettuando prospezioni geologiche su un’area in cui insisterebbe una sorgente geotermale. Si cita, inoltre, l’infedeltà del recente progetto di consolidamento della ciminiera della tonnara, adesso più bassa e tozza, uno snaturamento che non sfugge a chi porta ben iscritto nella propria memoria lo sky-line della costa torrettese ovvero visiti la sede dellaa locale Lega Navale Italiana ove una collezione di foto di struggente malinconia “tiene in vita” la tonnara (sia quella che funzionò sia quella abbandonata nel 1973). L’ultimo anno di attività della tonnara fu, dunque, il 1972. In tutto, la tonnara Amodeo restò operativa per 28 anni. La sua crisi iniziò a manifestarsi già intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando, come già anticipato, si ebbe una vera e propria ristrutturazione tradottasi nella chiusura dell’impianto per la lavorazione e inscatolamento del tonno. Da parte della proprietà e dell’amministrazione si era stimato economicamente più conveniente vendere il pescato ancora fresco a rigattieri che se ne accaparravano le quote all’inizio della stagione piuttosto che trasformarlo in prodotti finiti da commercializzare presso grossisti. Carichi di lastre di ghiaccio, i camion dei rigattieri attendevano la fine di ogni mattanza per riempire il loro ventre di “tunnina[10]” e fare strada alla volta dei più importanti mercati ittici regionali: Mazara, Siracusa e Catania. Le caparre versate da questi ultimi, oltre a fungere da garanzia sul futuro acquisto, rappresentavano, in attesa delle entrate da vendita del pescato, una importante fonte di autofinanziamento, praticamente a costo zero, delle spese variabili della tonnara (in particolare il monte salari della ciurma). L’eliminazione del segmento conserviero dal “ciclo della tonnara” fece venir meno il carattere industriale dell’azienda, la quale ultima rimase, pertanto, una mera impresa di pesca, sia pure di grandi dimensioni. Nei primi anni Sessanta, la chiusura dei vicini impianti di Sciacca e di Torre Polluce (presso Selinunte) fu il campanello d’allarme di una crisi della pesca del tonno che falcidiava le tonnare di piccole dimensioni, incapaci di spalmare convenientemente, “acqua doppu acqua” (di stagione in stagione), gli elevati costi di gestione sui volumi di produzione. A completare la crisi vi fu, inoltre, la maggiore fascinazione esercitata sul capitale da meno rischiose intraprese economiche, specialmente in un contesto storico-geografico in cui la Cassa per il Mezzogiorno favoriva settori industriali che poco avevano da spartire con le vocazioni endogene del litorale siciliano. La tonnara di Capo Granitola, che intanto aveva rilevato gran parte delle attrezzature delle due tonnare morenti, si dimostrò, grazie ai suoi elevati volumi di pesca (circa duemila tonni a stagione), un’impresa finanziariamente sostenibile. Lo sciame di innovazioni tecnologiche (elettrificazione, portualità, refrigerazione, introduzione di attrezzature in nylon e plastica) di fine anni Sessanta prospettò, poi, la possibilità di affrontare con successo il nuovo decennio. [10] Nel siciliano i tonni uccisi cessano di essere chiamati “tunni”; diventano “tunnina”; cambia il significante perché è cambiato il significato: questa operazione è un segno di riverenza dei tonnaroti al loro leale avversario. Il rispetto e la riverenza dei tonnaroti per le loro prede riecheggia nel verso di una cialoma intonata nella tonnara di Pizzo Calabro: “a tutti li tunni circamu pirdunu” (chiediamo perdono a tutti i tonni). A tutt’altra latitudine ed in diverso contesto, lo scrittore Hemingway coglieva l’universalità del sentimento e faceva dire al suo solitario pescatore Santiago de “Il vecchio e il mare”: “Pesce, (…) ti voglio bene e ti rispetto molto. Ma ti avrò ammazzato prima che finisca questa giornata ”; e, più in là gli faceva aggiungere: “Se gli vuoi bene non è un peccato ucciderlo”. G. & M. Serra 20 CAPOGRANITOLA.IT e-book E, invece, nonostante tutti i buoni auspici, nel 1970, Attilio Amodeo dovette far valere le sue amicizie influenti[11] affinché un’impresa pubblica controllata dalla Regione, la Sicil Tonnara, entrasse nel capitale dell’impresa, acquisendone la quota maggioritaria, certo non per spartirsene i profitti ma, in un logica distorta di intervento pubblico straordinario, per ripianarne le perdite a tutela dei margini dei soci privati e dei numerosi posti di lavoro stagionali. Attilio Amodeo restò comunque alla presidenza dell’impianto, che divenne completamente della Regione Siciliana all’inizio del 1972. Il passaggio del testimone dal privato al pubblico rappresentò il formale atto di morte di una giovane e moderna tonnara, chiusa sine die proprio l’anno successivo. Il triennio 1970-1972 fu il peggiore nella breve storia della tonnara di Capo Granitola. Non solo perché furono le ultime stagioni di pesca ma soprattutto perché si trattò di una disastrose stagioni di pesca. Nel 1970, un’ardita innovazione tecnica sperimentata sull’ordigno di reti pregiudicò la stagione, facendo pescare irrisori quantitativi. Ma il peggio doveva ancora arrivare: nel 1971, la tonnara non fu neppure calata; nel 1972, fu calata ma non fu messa in pesca (cioè non si calò il c.d. “corpu”) perché non si erano avvistati tonni all’interno dell’isola. E’ probabile che la “passa” dei tonni abbia risentito del congiunto operare dell’inquinamento delle acque marine costiere (dovuto agli scarichi urbani ed industriali), dello spregiudicato operare delle tonnare “volanti” giapponesi (che intercettano i tonni già prima che questi varchino lo Stretto di Gibilterra), dell’attività sismica sottomarina del Canale di Sicilia (specie nella zona del Banco Graham, di fronte Sciacca). E’ comunque certo che, in quel lontano 1972, la tonnara non solo non pescò un solo tonno ma subì anche ingenti danni a causa del maltempo che impedì il recupero di 150 delle circa 700 ancore che venivano impiegate per ormeggiare i cavi di “summu” al fondale. [11] Nell’aprile del 1951, Attilio Amodeo aveva preso parte alla fondazione del club Rotary International di Trapani, di cui era stato immediatamente eletto vice-presidente. Una lapide affissa nella Chiesa della Madonna di Trapani ricorda la fattiva devozione dimostrata da Attilio Amodeo in occasione del restauro della cappella degli ex-voto nel 1949. G. & M. Serra 21 CAPOGRANITOLA.IT e-book 2. Storie di uomini e di tonni 2.3 La tonnara di mare: l'agone tra uomini ed elementi Q uanto alla storia della tonnara di mare di Capo Granitola, alcuna notizia è disponibile sulla fase che precede l’avvento della proprietà Amodeo. Molte informazioni sono, invece, reperibili -soprattutto attraverso interviste- sulla fase 1944-1972. L’impianto di mare fu sperimentato nell’immediato secondo dopoguerra dal “raisi” trapanese Vito Barraco, il quale la diresse praticamente fino alla morte, nel 1961. Pare, tuttavia, che la vera mente dell’impianto a mare sia stata quella di suo fratello minore Giuseppe (detto “Pippineddu”, 1905-1993), il quale, pur essendo stato più volte “suttoraisi”, non riuscì ad emergere a Granitola sia a causa del suo carattere umbratile e pacato sia a causa del temperamento prepotente e sopraffattore del fratello maggiore. Entrambi si erano formati, negli anni Venti e Trenta, nelle tonnare trapanasi (Bonaria, San Cusumano, Favignana…) ed in quella libica, anch’essa in mano a trapanasi, di Marsa Zuaga[12]; essi facevano, inoltre, parte di un vero e proprio clan di uomini di tonnara, tra i quali si ricordano i fratelli Mommo (“suttoraisi” a Granitola dal 1967 al 1970 sotto la “raisìa” di Pio Renda), Ciccio (“raisi” a Olivieri, ME) e Diego (“suttorais” a Capo Passero, SR). Il cognome “Barraco” portava iscritto nella sua etimologia il destino professionale di chi lo avrebbe portato: “sbàrraco” era detto la repentina rotazione dei fusi argentei dei tonni intenti ad espellere dalle “surre” (le pance) i prodotti delle gonadi; “barracadà” era detta la corda di libbano di sparto in punta alla quale veniva appeso un uncino di ferro per tirare dalle barche i tonni morti impigliandosi nelle reti dell’ “isula”… L’architettura complessiva della tonnara di mare sperimentata dai fratelli Barraco risultava dall’innesto di una rete di sbarramento -detta “costa”- calata longitudinalmente lungo un tratto di circa sei chilometri e mezzo (poco più di 11400 canne[13]) in un grande edificio sottomarino di reti -detto “isula”- disposto ortogonalmente ed avente un volume di quasi 1 milione e 200 mila metri cubi. A nord, la “costa” aveva il suo cominciamento a 10 metri e mezzo di profondità (6 canne) in un punto detto “la rocca”, distante da terra -e precisamente da punta Granitola- all’incirca un chilometro. Procedendo verso sud, la costa si immergeva gradualmente fino a raggiungere, in prossimità della “sicca di Granitula”, una profondità massima di poco meno di settanta metri (circa 40 canne), alla quale si trovava anche l’ “isula”. [12] Negli anni Trenta, tutte le tonnare della colonia di Libia (conquistata con la guerra del 1911-12) erano di proprietà italiana e la maggior parte apparteneva a imprenditori trapanesi; Trapani era il porto di armamento di tutti gli impianti. [13] La canna (corrispondente ad 1,75 metri) era l’unità di misura in uso presso le tonnare siciliane. G. & M. Serra 22 CAPOGRANITOLA.IT e-book La “costa” era una lunga muraglia di reti, spiegate da nord a sud ed atte ad intercettare i branchi di tonni procedenti da est a ovest nel loro viaggio di ritorno dai siti riproduttivi; essa era a maglie relativamente larghe perché non aveva la funzione di catturarli ma semplicemente di deviarne il tragitto, conducendoli dentro l’ “isula”, che era il vero sito di pesca, detto “nautu” o “locu ra tonnara”. Il nome “costa” era, dunque, legato al fatto che essa era concepita per ingannare i tonni, i quali, ritenendo l’ostacolo posto dall’uomo la vera costa, erano portati a seguirla fino a cadere nella trappola. La “costa” si articolava in tre principali segmenti, che, da nord a sud, erano: il “toccu vasciu” (tratto inferiore), il “toccu mediu” (tratto mediano), il “toccu avutu” (tratto superiore), la cui lunghezza poteva variare a seconda della discrezionale valutazione del rais. Ogni “toccu” era, a sua volta, composto da “scole”, tratti di “summu” di lunghezza predeterminata. Una “scola” si congiungeva alla successiva attraverso un anello di ferro detto “marragghiuni”. L’ubicazione della tonnara di Capo Granitola sperimentata dai rais Barraco (nostra ricostruzione). Il “locu” in mare della tonnara di Capo Granitola nella foto d’epoca alla pagina precedente Il “toccu vasciu” culminava a nord nel “pirali”, un complesso di reti a forma di uncino concepito per impedire ai tonni che si fossero imbattuti nella “costa” di procedere in direzione opposta a quella che li avrebbe condotti verso l’ “isula”. A sud, il “toccu vasciu” si congiungeva al “toccu mediu” per mezzo di una struttura di reti -il “campili”- di forma analoga al “pirali” ma di dimensioni maggiori[14]. [14] Il “campili” (come anche il “pirali”) può essere inteso come una camera esterna all’ “isula” e delimitata su tre lati da reti (il lato aperto è quello che guarda all’ “isula”). G. & M. Serra 23 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il “toccu mediu” correva fino all’inizio del “toccu avutu”, il quale era segnato da un secondo “campili”. Il “toccu avutu”, infine, si innestava nell’ “isula” in un punto che è detto “spicu” (spigolo). Questo era sicuramente il punto più sacro dell’intera tonnara perché delimitava a ovest l’ingresso all’ “isula”: lì, a fior d’acqua, veniva innalzato, sopra una base di galleggianti, un crocifisso di legno ricoperto di immaginette sacre, custode dell’immensa basilica sottomarina di cavi e reti. Le reti della costa erano fissate a cavi d’acciaio, detti “summi” (sommitali), i quali erano tenuti in superficie da boe, realizzate con barilotti galleggianti di sottile lamierino, ricoperti di pece per non essere corrosi dall’acqua salmastra[15]. Le reti si disponevano verticalmente fino a raggiungere il fondo grazie al “chiummu” (letteralmente: piombo) costituito da “rusazzi” (conci di tufo). L’intera struttura era stabilizzata grazie a delle ancore, le quali venivano fissate al “summu” con degli ormeggi. Ad ogni “scola” era calata una coppia di ancore: una a ponente e l’altra a levante. In totale almeno seicento ancore tenevano stabile la chilometrica di “costa”, che, per effetto della corrente, disegnava un grande arco la cui concavità era rivolta a levante[16]. L’ “isula” costituiva la vera e propria “parte pescante” dell’impianto di reti ed in prima approssimazione può essere rappresentata come una successione di gabbie sottomarine in cui i tonni venivano fatti transitare attraverso un sapiente gioco di apertura e chiusura di porte fino a che non fossero stati convogliati nella gabbia in cui il loro destino biologico avrebbe ceduto il passo a quello commerciale. L’ “isula” aveva la forma di un quadrilatero irregolare disegnato sull’acqua da”summi”, i cui lati minori -“testa ri livanti” e “testa ri punenti”- misuravano, rispettivamente, 24,5 e 21 metri, mentre i lati maggiori (quelli disposti ortogonalmente alla “costa”) 458,5 (lato settentrionale) e 353,5 (lato meridionale). Man mano che da una delle due “teste” si procedeva verso l’altra, i “summi” meridionale e settentrionale divergevano fino ad un massimo di 61 metri (misurabili in corrispondenza delle due “porte” tra le “cammari” “ranni”, “foraticu” e “urdunaru”) così che, vista dall’alto, l’ “isula” sarebbe apparsa come provvista di un’entasi, cioè, al pari di una colonna greca, leggermente rigonfia a due terzi della sua lunghezza. Analogamente a quanto precisato trattando della “costa”, i “summi” dell’” isula” erano tenuti a galla da boe e fissati al fondale con ancore. Data la posizione foranea e la profondità, l’ “isula” necessitava di circa un centinaio di ancore. La superficie occupata dall’ “isula” era di oltre 17 chilometri. Quest’area era divisa da cavi ortogonali ai “summi” -detti “musazzi”- in otto ambienti quadrangolari (anch’essi di dimensioni irregolari), detti “cammari” (camere). I tonni che avevano risalito la costa entravano nell’ “isula” attraverso la “vucca foraticu”, un varco completamente aperto situato in corrispondenza dello “spicu”. Quand’anche non si fossero inoltrati oltre l’imboccatura dell’” isula”, i tonni, continuando a seguire dall’esterno il lato settentrionale della parte orientale dell’ “isula”, avrebbero presto incontrato un ulteriore sbarramento, il “rivotu”, una specie di uncino a due lati che si distendeva in direzione nord-est a partire dalla “testa ri livanti” settentrionale. Il “rivotu” li avrebbe obbligati a far dietro-front verso la “vucca foraticu”. [15] Cavi d’acciaio e boe in lamiera furono introdotti intorno alla metà degli anni Cinquanta in sostituzione, rispettivamente delle gomene di canapa (“cannapi”) e dei galleggianti di sughero (“suari”). [16] Lo schema riportato a pag. 23 non tiene conto dell’effetto della corrente, per cui si limita ad una stilizzazione geometrica della “costa”. G. & M. Serra 24 CAPOGRANITOLA.IT e-book CAMERE DELL'ISULA (misure tratte dallo schema della tonnara disegnato nel 1954 dal rais Vito Barraco) Lato Lato Lato Lato est ovest nord sud canne metri canne metri canne metri canne metri Cammara ri livanti 14 24,5 32 56 24 42 16 28 61,2 Ranni 32 56 35 5 15 26,25 10 17,5 61,2 Foraticu 35 61,25 35 5 31 54,25 16 28 Urdunaru 35 61,25 32 56 26 45,5 16 28 47,2 Bastardu 32 56 27 5 27 47,25 18 31,5 Cammara ri tunni 27 47,25 24 42 27 47,25 18 31,5 40,2 Bastardedda 24 42 23 5 12 21 8 14 Coppu 23 40,25 12 21 100 175 100 175 Totale 262 458,5 202 353,5 1 canna = 1,75 metri Varcata la “vucca foraticu”, i tonni entravano nella prima omonima “cammara” dell’ “isula”: il “foraticu”. Dal “foraticu” i tonni raggiungevano la “cammara ri livanti” (camera di levante) attraversando la “ranni” (grande), detta anche “ancura” (ancora). Tra “foraticu” e “ranni” e tra “ranni” e “cammara ri livanti” si trovavano “menzi porti” (semi-porte), le quali andavano dal “summu” settentrionale fino a metà “musazzu”; il movimento di “modda e leva” (abbassa e alza) della “menza porta” si ottenava grazie all’ “iruni”, una rete a forma di ventaglio, “cusuta ammazzuniata” (cucita e ammassata) a due lati della porta: il “musazzu” (o meglio metà di esso) e la rete laterale della “cammara”. Una corda, detta “leva”, aveva la funzione di “sciogghiri” (sciogliere) l’ “iruni” e far “muddare” (abbassare), quasi fosse un sipario, la “menza porta”, permettendo ad essa di scendere quasi fino in fondo. La “ranni” doveva il suo nome non già alle dimensioni (invero inferiori a quelle di altre “cammari”) bensì al fatto che costituiva una vera e propria appendice della “cammara ri livanti”, giacché la sua funzione era quella di permettere, nel caso in cui un gran numero di tonni fosse entrato dentro l’ “isula”, che questi ultimi avessero un maggiore spazio in cui potersi muovere. A ponente del “foraticu” si apriva l’ “urdunaru”, confinante col “bastardu”. Due “menzi porti” erano poste, rispettivamente, tra “faraticu” e “urdunaru” e tra “urdunaru” e “bastardu”. Quindi, nel complesso, le prime cinque “cammari” (procedendo da levante) erano messe in comunicazione tra loro attraverso semi-porte. Delle “porte ‘nteri” (porte intere) erano, invece, interposte tra le rimanenti camere di ponente, e precisamente una tra “bastardu” e “cammara ri tunni”, un’altra tra “cammara ri tunni” e “bastardedda” e un’altra ancora tra quest’ultima ed il “corpu”. Il meccanismo di apertura e chiusura delle “porti ‘nteri” era analogo a quelle delle “menzi porti” con la differenza che per ogni “porta ‘ntera” c’erano due “iruna” (uno per lato). Tutte le “porti ‘nteri” (come anche le “menzi porti”) erano realizzate con rete a maglia larga, da cui la denominazione di “porte chiare” (porte trasparenti): i tonni, specie quelli di più piccola taglia, non avrebbero avuto difficoltà a passarvi attraverso. G. & M. Serra 25 CAPOGRANITOLA.IT e-book Faceva eccezione l’ultima porta a ponente, quella posta tra “bastardedda” e “corpu”, la quale era chiamata “porta cannamu”; le sue maglie erano assai più strette, dovendo assolvere alla funzione di chiudere definitivamente ai tonni la via verso levante, bloccandoli nell’area in cui sarebbero stati catturati, cioè il “corpu” (meglio noto come “cammara ri la morti[17]”). Il “corpu” era l’unica “cammara” ad essere provvista di una rete al fondo, per cui, diversamente dalle altre, rimaneva chiusa da cinque lati. L' "isula" della tonnara di Capo Granitola – Legenda: 1. Vucca foraticu, 2. Foraticu, 3. Ranni (o Ancura), 4. Cammara ri livanti, 5. Urdunaru, 6. Bastardu, 7. Cammara ri tunni, 8. Bastardedda, 9. Corpu, 10. Spicu La tonnara di Capo Granitola veniva calata in un tratto di mare soggetto a forti correnti che ne mettevano duramente alla prova la stabilità complessiva e, quindi, la capacità di catturare tonni. Intorno a questa determinante naturale i “raisi” succedutisi hanno dovuto esercitare il loro ingegno e la loro fantasia, immaginando e sperimentando molteplici soluzioni tecniche volte a “imbrigliare” il mare per governarne i capricciosi flussi. Anzitutto, sotto il profilo dell’evoluzione ubicazionale, la tonnara subì, nel corso degli anni, una progressiva traslazione verso levante (un centinaio di “canne” all’anno), cioè verso il più riparato golfo di Tre Fontane. La necessità di mettere l’impianto al riparo dall’alea delle correnti portò presto a rinunciare all’originaria, ed innegabilmente più pescosa, posizione foranea consentita dall’attracco del pedale dirimpetto a punta Granitola; la tonnara subì così un saggio “arretramento tattico” volto a metterla in sicurezza anche al prezzo di un più ridotto pescato: da tonnara “di punta” Granitola divenne una tonnara “di golfo”. [17] Invero, l’evocativa locuzione non era di corrente uso presso i tonnaroti, forse per un sentimento di riverenza (animato da un’inconscia richiesta di perdono) nei riguardi dei tonni, dalla cui morte biologica nasceva la vita economica e sociale di intere comunità. In effetti, più rassicurante e materna appare l’immagine evocata dal termine “corpu”, come se i tonni, entrandovi, non andassero incontro ad un’uccisione tout court ma fossero accolti da un “corpo”, da un ventre, da un grembo nel quale il loro destino biologico trascendeva in una teleologia superiore, perché intimamente legata all’essere vivente più evoluto al mondo: l’uomo. Al di là della notazione a sfondo psicanalitico, le due sillabe di “cor-pu” risultavano sicuramente più pratiche da usare durante le fasi di lavoro, spesso concitate, in mare. G. & M. Serra 26 CAPOGRANITOLA.IT e-book Si cercò di compensare, sia pure parzialmente, il carattere golfitano attraverso un allungamento della “costa”, che in alcune annate portò l’isola su un fondale di circa cento metri. In coerenza con l’obiettivo principale perseguito attraverso lo slittamento ad nord-est, diverse innovazioni tecnologiche ed organizzative furono incrementalmente introdotte nell’impianto di mare: - i cavi d’ormeggio dei “summi” furono allungati per dare maggiore “smannu” (flessibilità) alla struttura, le cui reti, sotto l’effetto delle correnti, tendevano ad “ammassarsi” (accartocciarsi su sé stesse); - il numero di “marragghiuna” (giunti in ferro a forma di anello) che tenevano uniti i diversi tratti di costa fu accresciuto per conferire maggiore tensione alle reti di sbarramento; - si rafforzò ulteriormente la costa fissando grappoli di tre ancore per lato ogni dieci “scoli”; - il numero complessivo di ancore fu costantemente incrementato arrivando a toccare le 700 unità, la maggior parte delle quali provviste di quattro mappe, e quindi con maggiore presa sul fondale; quelle più importanti arrivarono a pesare tra 500 e 900 chili[18]; - si spezzò la costa in tre segmenti attraverso l’introduzione di un secondo campile, in maniera tale che la pressione delle correnti si distribuisse su più punti; - si coprì la parte superiore della “cammara ri livanti” con una rete, detta “cappeddu”, per evitare che, per effetto delle correnti i “summi” si abbassassero facendo fuggire i tonni già entrati nell’isola[19]; - dai primi anni Sessanta, dei subacquei furono regolarmente assunti per monitorare lo stato delle reti e segnalare al rais le riparazioni da apportare con tempestività. Sempre alla determinante delle correnti marine va addebitata l’impossibilità di far evolvere l’impianto dal tradizionale canone siciliano, che vuole l’isola ripartita in camere, verso quello spagnolo in base al quale l’introduzione di un preciso accorgimento tecnico -la “vucca a ‘nassa”consente di ridurre drasticamente il numero di camere (da otto a quattro) e quindi di porte (da sette a tre) semplificando le operazioni di “calatu”, di pesca e di “salpatu”. Ebbene, nel 1970, a Granitola la “vucca foraticu” fu sostituita dalla “vucca a nassa[20]”, un imbuto di rete che si restringeva man mano che si addentrava nell’isola fino ad un massimo di trenta metri. In teoria, la nuova porta d’ingresso dell’isola avrebbe dovuto impedire, in combinazione col “cappeddu”, che i tonni, una volta entrati nell’impianto, potessero uscirne; tuttavia, in concreto, l’azione delle correnti la fece “iri traversu” (far andare di traverso): la distanza tra i “summi” si ridusse notevolmente, vasi si trasformarono in stretti corridoi, le porte divennero tende flosce aggrovigliate, il “chiummu” si alzò dal fondo per metri, la “vucca a nassa” si ammassò rendendo impossibile l’ingresso di tonni. Quell’anno le catture della tonnara toccarono il loro minimo storico dal 1944: appena 460 tonni. Ma che la tonnara di CapoGranitola, come ogni altra tonnara “di capo”, fosse soggetta alle correnti non era certo una novità; sul punto s’era già pronunciato nel 1816 in modo inequivocabile il duca d’Ossada, il primo grande teorizzatore della pesca del tonno: [18] Gli “assi” di levante e ponente (cioè i quattro grappoli di ancore poste ad ormeggio delle estremità est ed ovest dell’isola) pesavano 500 chili; l’ “ancura sutta u spicu” (posta ad ormeggio del punto di giuntura tra “summu” settentrionale e costa alta) pesava 800 chili; l’ “urdunaru” (ancora posta ad ormeggio del “summu” meridionale, al quale si legava all’altezza dell’omonima camera) pesava 900 chili. [19] Gli inconvenienti del “cappeddu” non sarebbero stati compatibili con l’attuale sensibilità ecologista, dal momento che in tale rete “ammagliavano” anche delfini, tartarughe giganti e, qualche volta, anche “pisci mali” squali. [20] A partire dall’inizio degli anni Sessanta le tonnare siciliane avevano iniziato a sperimentare la “vucca a nassa”, che, insieme all’impiego delle catene, in alternativa o congiuntamente ai “rusazzi”, costituiva un tratto caratteristico della tonnara spagnola. G. & M. Serra 27 CAPOGRANITOLA.IT e-book “ (…) un danno notabile con la perdita de’ Tonni (…) si ritrova nelle Tonnare per cagion delle correnti, e specialmente ciò si avvera, nelle Tonnare, che sono situate in testa dei Capi, e lontane assai da terra[21]”. Branco di tonni [21] Francesco Carlo D’Amico, barone di San Giorgio e duca d’Ossada, oltre ad essere proprietario di tonnare nel messinese, fu autore delle “Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino dei tonni”. G. & M. Serra 28 CAPOGRANITOLA.IT e-book 2. Storie di uomini e di tonni 2.4 Gli uomini e le donne della tonnara D a un lato la tonnara di mare con le sue strutture concrete (fabbricati, fabbriche…), dall’altro la tonnara di mare con le sue effimere architetture (“cammari”, “porti”…): fra questi due luoghi il “fare “ dell’uomo. Anzi degli uomini: in tonnara il lavoro non era mai fatica individuale ma sempre sforzo corale. Ed il “coro”, per funzionare, aveva bisogno di un “direttore”: questi era “u raisi” (dall’arabo “ras”, il capo). Veniva designato prima dell’inizio della stagione di pesca dalla proprietà, che gli conferiva la facoltà di selezionare la ciurma di mare, i veri e propri “tunnaroti” (tonnaroti), dalla cui perizia, impegno ed obbedienza sarebbe dipeso, con il favore di Dio e del mare, l’esito economico dell’impresa. La tonnara Amodeo conobbe, nei suoi cinque lustri di storia il comando (“raisìa”) di tre soli “raisi”, tutti appartenenti alla “scuola” di Trapani: Vito Barraco, il padre fondatore dell’impianto a mare (1944-1961), Luigi Grammatico detto “Giotto” (1963-1965) e Pio Renda (1966-1970). Il nome del “raisi” delle ultime due sfortunate stagioni (1971 e 1972) è stato obliato dai testimoni rimasti di quel tempo; una rimozione dalla memoria forse dettata dall’inconsapevole bisogno di sedare la struggente malinconia per un mondo lasciato spegnersi senza troppi scrupoli. All’ombra dei tre menzionati “raisi” la figura mite e talvolta remissiva di quello che molti continuano a considerare il vero “raisi” di Granitola: Giuseppe Barraco. Quando, nella stagione del 1961, il fratello maggiore Vito lasciò la tonnara nel suo “centru pisca[22]” per tentare un vano “viaggio della speranza” a Milano, Attilio Amodeo affidò il comando della ciurma a Giuseppe. Un atto dovuto, visto che questi era il “suttaraisi”, ma soprattutto sentito, dato il generale riconoscimento del suo talento, oscurato solo dal disprezzo e dai soprusi dell’invidioso fratello, da molti considerato “un crudeli” (persona malvagia). Giuseppe era un uomo che le vicende della vita avevano reso riservato e poco propenso alla ricerca di prestigio e potere: imbarcato per mesi e mesi su navi mercantili, aveva consumato in solitudine gli anni più belli della sua gioventù; per legittima difesa aveva accoltellato un uomo in una barberia di Massaua (allora Somalia italiana), durante la campagna d’Africa, e l’idea di averlo assassinato alimentava in lui un inestinguibile senso di colpa; poi c’era stata la prematura morte della moglie Maria, nel 1950, quando il loro figlio era ancora bambino; quindi un naufragio al quale miracolosamente sopravvisse insieme ai suoi compagni, restando appeso per un’intera notte ai banchi di uno scafo ribaltato dai marosi. Il temperamento introverso ed umile lo trattenne dal proporsi con la necessaria determinazione come successore del fratello Vito, spirato nel capoluogo lombardo per un male incurabile all’intestino. Per dirla tutta, il trapasso dell’autoritario Vito aveva aperto una vera e propria disputa per la successione in seno alla tonnara di Capo Granitola, quasi fosse morto un re. Ad aspirare al comando era il nipote Ignazio Barraco, primogenito di Vito. Nato e cresciuto in tonnara, Ignazio sapeva il fatto suo ed aveva uno spiccatissimo fiuto per gli affari, ereditato dal padre. Riteneva che la carica di “raisi” gli spettasse in virtù di un automatico principio ereditario, come in un casato reale; ma, d’altra parte, riconosceva che senza lo zio Giuseppe, “zù Pippineddu”, non sarebbe stato in grado di mettere la tonnara in pesca procurando guadagni e soddisfazione ai padroni. Così cercò di convincere Attilio Amodeo ad affidargli la “raisìa”; a titolo di garanzia, Ignazio garantì che avrebbe convinto “zù Pippineddu” ad accettare di essere formalmente il suo secondo. Equivaleva a garantire l’esperienza e la professionalità necessarie per conseguire ottimi risultati in termini di catture. [22] Così era detta la fase centrale della tappa di ritorno della migrazione genetica dei tonni. Il termine era in uso anche nelle tonnare di corsa e si riferiva ovviamente alla fase di andata della migrazione. G. & M. Serra 29 CAPOGRANITOLA.IT e-book Chiaramente queste manovre negoziali furono fatte sopra la testa di Giuseppe. Le trame tessute da Ignazio furono così intricate e sotterranee e la personalità di Amodeo di così esiguo spessore[23] che presto una vera e propria crisi scoppiò in tonnara col risultato che l’anno successivo alla morte di Vito, cioè nel 1962, non si calò in mare l’impianto di reti. Era segno che “zù Pippineddu” non aveva accettato il fatto compiuto dell’avido nipote ed aveva preferito allontanarsi da Granitola accettando di fare il “raisi” nella tonnara di Porto Palo di Capo Passero, estremo spigolo sudorientale della Sicilia e più antica e pescosa tonnara di ritorno dell’isola. L’ingaggio era arrivato attraverso i Campisi di Marzamemi, una famiglia di “riatteri” (rigattieri) che ogni anno, da quando era cessata la lavorazione conserviera in loco, si accaparrava gran parte del pescato della tonnara di Granitola. Quel salto di grado era importante per Giuseppe che, nel frattempo, si era risposato ed aveva altre due bimbe da crescere. A Capo Passero, Giuseppe poté portare con sé la sua famiglia, privilegio da “raisi” che per riconoscenza gli era accordato anche a Capo Granitola pur essendo solo “suttaraisi”. Ignazio, che da solo non avrebbe avuto alcun ruolo a Granitola, seguì lo zio nella tonnara siracusana del principe Pietro Bruno di Belmonte. Lo zio evidentemente non era capace di portare rancori e Ignazio poté così trovare una nuova piazza per dar libero sfogo alla sua vocazione per gli affari. Foto di gruppo: si riconoscono Vito Barraco (il secondo in piedi da sinistra), Giuseppe Barraco (il primo in basso a sinistra, in camicia chiara); alle sue spalle, Mommo Barraco. Nel 1963, Attilio Amodeo ricoprì la vacanza della più alta carica della tonnara chiamando come “raisi” Luigi Grammatico, il quale, per la precisione con la quel riusciva a disegnare in mare le volumetrie dell’impianto di reti, era soprannominato “Giotto”. Questi era, tra l’altro, cugino acquisito di Vito e Giuseppe, perché sposato con Teresa Barraco, loro cugina di sangue. In qualche modo, la disputa per la successione a Granitola era stata risolta dentro il casato dei Barraco, attingendo ad un ramo, per così dire, “minore”. Giotto sarebbe rimasto il “raisi” fino al 1965 ed i suoi furono anni importanti per la tonnara di Granitola. [23] “Si facia livari ri chiacchiari” (si lasciava convincere a chiacchiere) è l’espressione idiomatica siciliana che meglio rende lo stato della sua volatile personalità. G. & M. Serra 30 CAPOGRANITOLA.IT e-book Discostandosi dall’impostazione tecnica del suo predecessore, improntata alla massima rigidità della struttura, il nuovo “raisi” procedette all’allungamento dei cavi di ormeggio ed alla riduzione del numero dei “marragghiuna” lungo il “summu” della “costa”. La tonnara poté così rispondere con maggiore elasticità alle sollecitazioni delle correnti. L’ardita soluzione lo ripagò immediatamente con un record di catture: 2850 tonni nel 1963 (in una sola mattanza si tocco la punta di 900 esemplari). Ma la fortuna gli voltò subito le spalle: solo due anni dopo, nel 1965, la corrente fece “iri ri traversu” la tonnara, fece, cioè, accartocciare reti e “summi” e solo l’intervento del cugino Giuseppe Barraco, quell’anno di ritorno come “suttaraisi”, salvò la stagione. Giuseppe intuì che per far tornare la tonnara in pesca fosse necessario rimettere in tensione, con l’ausilio del “rimorchiatori”, gli ormeggi delle ancore che avevano fatto movimento. Il dottore Messina, detentore della quarta parte del capitale della tonnara, decise sua sponte di ricompensare Giuseppe alla stregua di un “raisi”. Nessuno meglio del dottore Messina aveva il polso della situazione in tonnara; ad ogni stagione si trasferiva nel “palazzotto” insieme alla moglie (la signora Rosa), sorella di Attilio Amodeo, e alla numerosa prole. Il socio maggioritario “ia e binia ri Trapani” (andava e veniva da Trapani), dove curava anche altri affari e quindi qualcosa poteva anche sfuggirgli. Di certo non gli sfuggì l’errore commesso da Giotto, il quale, l’anno successivo non fu più richiamato; né, d’altra parte, fu rimpiazzato da Giuseppe, che, a dire il vero, per quanto esperto, notoriamente difettava della capacità di imporsi sulla ciurma, requisito anch’esso necessario della “raisìa”. “Era troppu bonu, un debbuli e pi fari lu raisi ci vulia pusu e a li voti esseri puru autoritari” (era troppo buono, un debole e per fare il rais ci voleva pugno di ferro e a volte anche essere autoritari) qualcuno racconta. La “raisia” risultava, infatti, da due principali componenti: il sapere tecnico e bio-meteomarino, entrambi empirici, e la capacità di organizzare e governare la ciurma. Ad essere designato per la stagione 1966 fu Pio Renda, appartenente alla gloriosa dinastia dei “raisi” di Bonaria (antichissima tonnara di andata nei pressi di Trapani). Egli portò con sé, quale “suttaraisi”, Girolamo Barraco, detto Mommo. Era il fratello del defunto Vito e di Giuseppe, che ora veniva declassato a “capu ri guardia”, incarico che accetto senza risentimento. Ancora una volta un fratello lo eclissava. Ma ancora una volta il destino lo riportava sul proscenio della tonnara: Mommo, colto da un male incurabile, lasciò la tonnara e Giuseppe fu nuovamente “suttariasi” già dal 1967. Quella non fu per niente una buona “acqua” (stagione): un enorme “piscicani” (squalo) infestava le acque del golfo di Tre Fontane e terrorizzò i branchi di tonni già entrati nell’isola; questi caricarono sulle reti delle “cammare” arrecando gravi danni all’impianto e riuscendo a fuggire[24]. La stagione si chiuse con un magro bottino: appena 480 tonni, cioè le catture di una sola mattanza. Sotto il rais Renda, a Torretta fecero la loro comparsa i sommozzatori, principalmente incaricati di consigliare il “raisi” nell’individuazione di un “nautu” il cui fondale fosse “latinu” (piatto, senza scogli, preferibilmente sabbioso o fangoso, per evitare che reti e ancore restassero impigliate), di verificare periodicamente gli effetti delle correnti sulle reti, di ripararne gli squarci, di controllare il movimento dei tonni all’interno delle “cammare”, di recuperare i pesci rimasti ammagliati. Prima dell’avvento dei sommozzatori erano i tonnaroti più giovani a tuffarsi in apnea e senza maschera fino a 10-15 metri di profondità per recuperare un pesce o riparare le reti. I sommozzatori -in genere erano due- costituivano il prolungamento sottomarino della vista di “raisi” e “suttaraisi”. Con l’acqua limpida e nelle prime ore del mattino, questi erano in grado di scrutare l’abisso fino a circa 25 metri di profondità; lo facevano senza neppure bagnarsi un capello servendosi di uno strumento semplicissimo detto “specchiu”, il quale consisteva in una grossa lente di vetro applicata al fondo di un cilindro di rame dotato di due impugnature. [24] Nel siciliano esisteva l’espressione “fari chiù dannu di na fera dintra a tonnara”, italianizzata come “fare più danno di una fera in una tonnara” dal Camilleri de “La mossa del cavallo”. “Fera” (o “bistinu” o “pisci malu”) era ovviamente lo squalo. L’immagine della tonnara sconvolta dalla presenza di uno squalo doveva essere di così forte presa sull’immaginari della gente siciliana da motivare la diffusione della metafora. G. & M. Serra 31 CAPOGRANITOLA.IT e-book Bastava poggiare la pancia contro il bordo della barca e infilare la testa dentro lo “specchiu”, tenendolo con le mani, e facondo in modo che la lente fosse immersa nell’acqua, per essere proiettati dentro il mare. Poiché l’ “isula” era calata su un fondale alto circa cento metri, lo “specchiu” consentiva di coprire con la vista solo un quarto della sua profondità, e di conoscere, dunque, unicamente lo stato dello strato, per così dire, più superficiale delle “cammare”. Per questo l’impiego dei sommozzatori fu una straordinaria innovazione. Anche loro divennero delle figure epiche in tonnara: uno rischiò addirittura di morire trafitto da un pescespada. Un altro, molto amato dai tonnaroti di Granitola, ebbe in sorte di morire nella tonnara di Porto Palo di Capo Passero, dove Giuseppe Barraco lo aveva voluto dopo la definitiva chiusura dell’impianto di Granitola. Si chiamava Sigfrido Zichichi (come lo scienziato trapanese, suo parente) ma tutti storpiavano il suo nome di evidenti origini teutoniche (la madre era tedesca) in “Siggiffridu”. Morì della morte più banale di cui un sommozzatore possa morire in mare: indigestione. Non si trovava neppure in tonnara quando l’improvviso malore rapì la sua giovane vita ma nei fondali dell’Isola delle Correnti, uno scoglio che fa da spartiacque tra lo Ionio ed il Canale di Sicilia. Il giovane aveva appena pranzato quando Ignazio Barraco, diventato socio della tonnara siracusana, lo chiamò per immergersi e recuperare preziosi reperti archeologici dei tanti carichi affondati in età antica in quel tratto di mare così ostico. Quando la notizia della morte di “Siggifridu” giunse a Granitola, dove alcuni ex tonnaroti vivevano, non pochi ebbero ad esclamare: “tale padre, tale figlio!”. In effetti, c’è chi ricorda che anche Vito Barraco, dietro minaccia di licenziamento, chiedeva ai suoi tonnaroti prestazioni che esulavano dal contratto, come effettuare scavi nottetempo in prossimità dei luoghi in cui, durante la costruzione della tonnara di terra, erano state trovate grandi quantità di ossa umane, forse di fosse comuni risalenti ad una battaglia ingaggiata dai bizantini contro gli arabi sbarcati a Capo Granitola nell’827[25]. Invero, già nell’estate del 1947, la tonnara di Capo Granitola fu la prima nella storia delle tonnare di Sicilia, e probabilmente dell’intero Mediterraneo, ad accogliere l’immersione di un ardito “sommozzatore”: il nobile Francesco Alliata, principe di Villafranca, Valguarnera e di altri ventitrè posti. Il principe, nel 1946, aveva fondato la “Panaria Film[26]” ed effettuato le prime riprese subacquee con ingombranti cineprese di propria invenzione; a Granitola, era giunto dopo essere stato respinto dai padroni della tonnara di Trabia, nel palermitano, ai quali si era presentato chiedendo di poter immergersi nel “corpu” e filmare i tonni irretiti. Per scaramanzia e superstizione, la richiesta del principe fu respinta. Nella giovane tonnara di Capo Granitola trovò un ambiente inconsapevolmente più moderno e così la sua macchina da ripresa fu ammessa senza indugio nel sacro recinto della morte[27]. Non fu l’unica occasione in cui la tonnara di Granitola uscì dal mare per entrare nella celluloide. Le cineprese vi fecero, infatti, ritorno nell’estate del 1955. A dirigerle fu Vittorio De Seta, al comando di una troupe di sei, sette tecnici, trasportati per cinque, sei giorni sul sito della tonnara con la barca a motore di un torrettese posta condotta da un giovinotto, Mimì Caleca, che per il disturbo avrebbe ricevuto il favoloso compenso di trentamila lire. [25] Si veda in questo stesso sito alla pagina "Terra di approdi". [26] La casa cinematografica siciliana che avrebbe prodotto anche il lungometraggio subacqueo “Sesto Continente” per la regia di Folco Quilici. [27] Per ammissione dello stesso principe Alliata, la pellicola del documentario girato nella tonnara di Capo Granitola sarebbe andata perduto, insieme a molti altri, con la chiusura della Panaria nel 1956. G. & M. Serra 32 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il regista De Seta non immerse le sue macchine in acqua ma realizzò un documentario in cinemascope di superbo realismo che ancora oggi si lascia guardare con emozione. Alcuna musica, alcun commento sonoro, alcun dialogo artefatto; i pescatori, “contadini del mare”, sono ripresi nel vivo e nel vero di un’epica mattanza, nel fondersi e confondersi di suoni reali, come i canti, le esclamazioni del “raisi” e dei “tunnaroti”, lo sciaquìo.. lo spazzare delle code dei tonni dentro al pagliolo del “vasceddu” irrorato di sangue, il cui rosso è fedelmente reso dal pioneristico uso del technicolor. Epigrafica e solenne, l’unica intromissione del regista all’inizio del docu-film, negli istanti in cui l’immagine è parzialmente coperta da una scritta in bianco: “Al largo delle coste siciliane gli uomini attendono i tonni che, da millenni, seguono una rotta sempre uguale. Quando nella rete affiora il tributo del mare, torna a ripetersi l'alterna vicenda della vita e della morte”[28]. Verso la fine degli anni Sessanta, il “raisi” Pio Renda consigliò ed ottenne che la proprietà, nel frattempo estesa alla Regione, finanziasse il rinnovo delle principali attrezzature da pesca: le boe in lamiera (introdotte negli anni Cinquanta in sostituzione dei “suari” – sugheri) furono rimpiazzate da quelle di plastica, ormeggi e lippe di vacilla furono realizzate in nylon, come anche le reti e parte del “corpu”, fin lì, rispettivamente, in filetto di cocco e canapa. I nuovi materiali resero più agevoli le operazioni di “salpatu”, in quanto il cordame in fibre sintetiche, diversamente da quello in fibre vegetali, non si inzuppava d’acqua aumentando straordinariamente di peso e rendendo più difficoltoso il recupero e trasporto a terra a bordo del barcareccio; le boe, inoltre, non avrebbero più necessitato di manutenzione perché la plastica, diversamente dal ferro, è immune dall’azione corrosiva dell’acqua salmastra. “Raisi” e “suttaraisi” erano le due più alte cariche della tonnara. A loro competeva il governo della ciurma che, fino al 1954, contava circa duecento operai (di cui 50-60 donne) ridottisi, in esito alla chiusura della filiera conserviera, a 130-150 (tutti di sesso maschile). La ciurma era divisa in due “eserciti”: quello di mare, comprendente 80-100 uomini, e quello di terra, che contava 50-70 unità. Alloggi separati, ma qualitativamente identici, spettavano ai componenti delle due ciurme, quasi a rimarcare la differenza qualitativa tra i due mondi, terra e mare, ma al contempo la necessaria coordinazione -e dunque l’equiparazione- tra lavoro a terra e lavoro in mare. Tra il 1944 ed il 1954, la promiscuità tra uomini e donne fu impedita dall’esistenza di alloggi riservati alle signore e signorine che venivano a lavorare il tonno. La ciurma di mare era organizzata in “varchi”, cioè negli equipaggi di ciascuna delle barche che costituivano la flotta della tonnara, di cui si dirà presto. Ogni “varca” aveva il suo “capu ri guardia” (capobarca). A questa classe di sottoufficiali erano sottoposti i “marinara ri parti”, sorta di caporali cui corrispondevano drappelli composti al massimo da sei, sette “marinara semplici”. Chiaramente la gerarchia si estrinsecava in un riparto di responsabilità cui corrispondevano proporzionate retribuzioni. L’unità di misura della paga giornaliera era “ a parti” (la parte). Essa spettava ai “marinara ri parti”. Ai “marinara semplici” competevano ¾ di “parti”, ai “capi ri guardia” una “parti” e 1/4 , al “suttaraisi” due “parti” e al “raisi” quattro “parti”. In valore assoluto, nel 1956, ¾ di parti ammontavano a 550 lire (diventate, per effetto dell’inflazione, 950 nel 1970); si trattava di un compenso di tutto rispetto se paragonato alle 400 lire che un bracciante dell’entroterra si sudava con dodici ore di lavoro; tuttavia, il differenziale con le paghe associate al lavoro salariato del nord Italia era assai pronunciato, se si pensa che, nel 1954, una donna in filanda guadagnava anche 1000 lire al giorno. [28] Si veda in questo stesso ebook, al capitolo "Lo spirito del borgo", nota 1. Nell’agosto del 2005, esattamente cinquant’anni dopo essere stato girato, il documentario è stato proiettato per la prima volta nella piazza di Torretta Granitola, davanti agli occhi commossi degli ultimi “tunnaroti” superstiti (Mimì Caleca e Turi Calamusa) e di un pubblico tanto curioso quanto emozionato di fronte alle immagini di un mondo scomparso. G. & M. Serra 33 CAPOGRANITOLA.IT e-book A livello regionale, i “tunnaroti” rappresentavano, dunque, una specie di “aristocrazia operaia”, anche in ragione del fatto che alla paga base andavano aggiunti: la “panatica” (oggi si direbbe “importo sostitutivo di mensa”), “u migghiaratu”, consistente in un premio di produzione monetario per ogni tonno catturato, e, infine, una razione di vino e il “tunnu a ‘gghiotta”, un premio in natura che scattava ogni 400 catture e consisteva nel più grosso tonno da spartire in porzioni eguali tra tutta la ciurma. Si consideri, inoltre, che il salario era raddoppiato nei giorni festivi, in cui non di rado, per esigenze legate all’alea del mare, era necessario lavorare. Le paghe venivano corrisposte in due tranche dal ragioniere Nino Buonfiglio (originario di Paparella, frazione di Valderice), fidato contabile di Attilio Amodeo che viveva in tonnara con la moglie: un acconto ad inizio stagione ed un saldo alla fine, computando tutte le giornate prestate e i tonni catturati. Per essere assunti in tonnara serviva il foglio di navigazione; veniva stipulato un contratto collettivo “senza orario” (per i lavori di mare non c’è, né può esservi orario) in base al quale poche ma sicure marche contributive venivano versate al competente ente di previdenza sociale; quanto all’assistenza sanitaria, essa era a carico della “Cassa Marittima Meridionale per l’assicurazione degli infortuni sul lavoro e le malattie della gente di mare” istituita, con sede a Napoli, in epoca fascista. La ciurma di terra comprendeva tutti gli operai addetti alle diverse mansioni che si svolgevano a terra: operai non specializzati addetti a lavori meramente esecutivi e ripetitivi (come, ad esempio, lo sbarco dei tonni ed il trasporto delle attrezzature dai magazzini alle barche e viceversa…), operai specializzati addetti a lavori per i quali era richiesta una certa professionalità ed esperienza (come, ad esempio, la cucitura delle reti, lo sventramento, la pulitura ed il taglio dei tonni, la cottura e l’inscatolamento, la riparazione delle boe di ferro, la costruzione di nuove barche e la periodica calafatura di quelle già esistenti…). L’autorità del “raisi” sulla ciurma di terra si affievoliva, per effetto dell’esistenza di una specie di messo della proprietà, detto “amministraturi[29]”, che, a dispetto del nome, non si occupava dell’amministrazione dell’azienda-tonnara (funzione che era per intero demandata al ragioniere) ma semplicemente degli ordinativi e di controllare lo svolgimento delle attività di terra, riferendo direttamente ai padroni. Per tanti anni il trapanese Turiddu Barrabbini ricoprì questa mansione; la sua famiglia viveva con lui in tonnara. Gran parte dei lavoratori della tonnara proveniva dal capoluogo per un semplice motivo: Trapani era il bacino di relazioni parentali e amicali in cui operava la selezione che i proprietari sui “raisi” e “amministratori” e di questi ultimi sulla ciurma, di mare e di terra. Cionondimeno diversi pescatori locali venivano assoldati ogni stagione (i fratelli Calamusa, Nino e Turi, Mimì Calca, ‘Nzulu e Paolo Vaiana…): essi però, finita la giornata di lavoro, tornavano nelle proprie abitazioni. Quando le catture erano abbondanti, anche alcune donne del posto potevano essere chiamate a collaborare, per lo più in nero, con le operaie trapanasi addette a “stivari lu tunnu ‘nt li buatti” (conservare il tonno nei contenitori). Tra queste vi fu Anita Lipari, la giovane diciannovenne che “zù Pippineddu” sposò in seconde nozze nel 1952. La tonnara non era, dunque, solo un tempio del lavoro: anche la vita quotidiana aveva i suoi spazi, visto che si arrivava persino a combinare matrimoni. [29] Nella tonnara di Porto Palo di Capo Passero, si usava il termine “camperi” (campiere), mutuato dal gergo del latifondo, contesto socio-economico in cui designava quella figura addetta alla tutela degli interessi dei padroni. I “camperi” si identificarono spesso con i “mafiosi”. G. & M. Serra 34 CAPOGRANITOLA.IT Vita domestica negli alloggi dei tonnaroti (si noti il basilico nella latta di tonno sul davanzale a destra) e-book Gli alloggi dei tonnaroti dopo la ristrutturazione (ad oggi inutilizzati) Per rendere onore al vero, è bene non idealizzare la vita quotidiana della tonnara: dai toni epici del lavoro in mare si passava repentinamente a quelli triviali della bettola. Non appena tornavano dal mare, i “tunnaroti” si sciacquavano alla meglio nelle “pile” delle “barracche” (delle improvvisate doccie!) e indossavano indumenti asciutti; quelli da lavoro, ogni tanto li lavavano con con qualche poco di sapone e li stendevano lungo i muri degli alloggi. Ovviamente, in quei momenti non si vedeva una donna in giro! Negli ultimi anni, quando la tonnara passò progressivamente alla Regione, i "tunnaroti" dovettero indossare delle divise da lavoro con tanto di logo “Sicil Tonnara”: stridulo canto del cigno! Rivestitisi, tra una sigaretta e l’altra, a gruppi attendevano che il rispettivo “marinaru” di turno -che per svolgere questa mansione iniziava la giornata lavorativa un’ora dopo e la terminava un’ora prima rispetto ai compagni- finisse di preparare la cena. Non vi era un locale che ospitasse la cucina e il refettorio. Nello spiazzo a ovest dell’ultima “barracca”, proprio all’ombra del muro perimetrale che separava la tonnara dalla spiaggetta c.d. Stassi, vi era un’improvvisata batteria di cucine da campo. Si trattava di focolari costituiti da conci di tufo disposti in maniera tale da formare dei piccoli cubi cavi aperti su due facce: quella superiore e una laterale; nell’incavo veniva arsa la legna, la cui fiamma riscaldava il cibo posto sopra delle barre di ferro. Come pentole si usavano delle capienti “buatte” di tonno che lo “stagnaru” (stagnino) aveva provvisto di manici. Il fumo le rendeva praticamente nere, per cui, dopo l’uso, ci si limitava a dare un pulita solo all’interno. Ogni “tunnaroto” portava con sè la propria gamella d’alluminio e alcune posate. Si preparavano piatti semplici: pasta “ca sarsa” (al sugo di pomodoro), pasta con l’aglio soffritto e qualche volta “scamale” (piccoli pesci) bollito, a brodo o arrostito. Si cucinava sempre qualcosa in più da consumare a bordo il giorno successivo. Talvolta, alcuni gruppi di “tunnaroti” non accendevano il fuoco e facevano cena fredda con pane, pesce salato e qualche “cocciu” di pomodoro. L’olio per condire non mancava mai (almeno fino al 1954-55): qualcuno trovava sempre il modo di averne qualche poco di quello usato negli stabilimenti conservieri; l’ “amministraturi” poi, su incarico dei padroni, ne distribuiva qualche litro G. & M. Serra 35 CAPOGRANITOLA.IT e-book alle più alte cariche della ciurma. Neppure basilico e mentuccia mancavano: i “tunnaroti” facevano crescere queste piante aromatiche nelle “buatte” di tonno arrugginite poste sulle finestre e sui muretti dei corridoi esterni delle “barracche”. Le cene importanti erano quelle che facevano seguito alle grandi mattanze, quelle cioè che facevano scattare il premio del “tunnu a ‘gghiotta” e del vino[30]. Era quello un momento catartico, in cui i “tunnaroti” finalmente mangiavano, nel senso materiale del termine, il frutto del loro lavoro; psicanaliticamente si potrebbe dire che lo “interiorizzavano” ricucendo ogni possibile strappo tra sé e quella esternazione di sé che è il lavoro dipendente. V’era in quei momenti un inconscio riconoscimento di sé nel proprio lavoro: un potente anticorpo contro l’alienazione tipica della vita in fabbrica dove l’operaio, posto in un preciso punto della catena di montaggio, avvitava sempre lo stesso bullone su una carrellata di pezzi identici che scorrono anonimamente davanti. La tonnara non era un “falastero” da socialismo utopista, ma tra il lavoro che vi si svolgeva e l’atmosfera di “Tempi moderni” di Charlie Chaplin v’era una distanza siderale. Eppure, qualche segno di alienazione non mancava… Alloggi dei tonnaroti (veduta da nord-ovest) [30] Il “suttaraisi” Giuseppe Barraco raccontava, di un prelibato liquore a base di vino e sangue di tonno (una specie di aenogarum) accidentalmente ottenuto nella tonnara di Marsa Zuaga durante una delle stagioni di pesca che precedettero la metaforica “mattanza” della seconda guerra mondiale. Caso volle che del vino ricevuto come compenso da Giuseppe non fosse consumato subito ma imbottigliato dopo essere provvisoriamente rimasto in un recipiente di legno intriso di sangue di tonno; la bottiglia, o meglio il suo contenuto, invecchiò per circa un anno e all’apertura sorprese, per sapore, colore e consistenza, gli improvvisati sommeliers della ciurma siculo-libica. Opportuno sarebbe che qualche istituto enologico dedicasse un minimo d’attenzione alla segreta alchimia -che trova riscontro in Plinio- che ha avuto come laboratorio quella bottiglia di Tripoli. Del resto, non mancano casi di eccellenti prodotti enologici -si pensi al Marsala dell’inglese Woodhouse- scoperti per puro caso. G. & M. Serra 36 CAPOGRANITOLA.IT e-book Cortile fra gli alloggi dei tonnaroti (dopo la ristrutturazione) Alloggi dei tonnaroti dal fronte mare (dopo la ristrutturazione) G. & M. Serra 37 CAPOGRANITOLA.IT e-book Terminata la cena, che si consumava vivacemente alle ultime luci del giorno su tavoli improvvisati e seduti su panche, i “tunnaroti” facevano strada, ciascuno insieme a coloro che riteneva suoi “cumpari” (compari, amici stretti), per raggiungere la piazza di Granitola. Lì si dividevano tra le due taverne esistenti: quella del “mutulatu” (mutilato)[31] e quella di Marconi, non distante dal luogo in cui sorgeva la Chiesa. Per l’oste la presenza dei “tunnaroti” era una manna caduta dal cielo: il vino scorreva a fiumi. Molti “tunnaroti” scialacquavano in taverna l’intero acconto ricevuto dal ragioniere Buonfiglio ad inizio stagione. Quando era ormai buio pesto e le taverne chiudevano, in pochi riuscivano a ritrovare la strada per il ritorno, cosa che difficilmente poteva accadere negli anni in cui restò aperta, proprio a cento metri dalla tonnara, la taverna di Giorgi. Gli ubriachi, se non riuscivano ad appoggiarsi a qualche “cumpari” più lucido, si adagiavano sul ciglio della strada, “si lanzavanu” (vomitavano) e “s’addummiscianu” (si addormentavano); all’alba un “marinaru” veniva inviato dai rispettivi “capi ri guardia” per andare a recuperare i “caduti” e metterli in condizioni di potersi presentare al cospetto del “raisi”. Quando il ritardo era considerevole, il rimprovero di quest’ultimo era assicurato. Ciascuno era libero di fare ciò che voleva dei propri soldi e del proprio tempo libero, purchè all’orario concordato si presentasse in banchina per salpare o in qualunque altro posto dello stabilimento per svolgere la sua mansione. Il nome dei recidivi e di quelli che lavoravano male o di malavoglia venivano sottolineati con un tratto rosso nel libro paga ed era matematico che l’anno successivo non sarebbero stati richiamati: questo potere competeva al “raisi” che poteva usarlo come efficace deterrente sulla sua ciurma. Dunque, in alcuni casi si poteva parlare di alcolismo cronico, assai diffuso nell’ambiente marinaro, specie tra gli operai di più basso livello. Ma, a parte questo vizio, i “tunnaroti” erano brava gente: la tonnara era frequentata o abitata anche da donne e bambini e mai si è sentito di molestie loro arrecate; anzi, finché non furono costruite le latrine alla turca all’interno delle “barracche”, i “tunnaroti” con molta discrezione facevano i loro bisogni all’aria aperta e se qualcuno si permetteva di orinare in posti in cui potesse essere visto turbando la sensibilità di donne e bambini, veniva prontamente richiamato. Va rimarcato che nei pressi della tonnara alcuna donna svolgeva il più antico mestiere del mondo: v’era il famigerato bordello di Maria Lentini al “Santu Munti” di Campobello di Mazara ma è assai improbabile che, a piedi o con qualche bicicletta di fortuna, i “tunnaroti” vi si recassero dopo una stancante giornata di lavoro. I tredici chilometri di distanza fungevano da freno inibitore per i loro ormoni, che se ne dovevano stare quieti fino ai tre giorni ferie spettanti in occasione dei festeggiamenti per la Madonna di Trapani. Lì, porto di mare, era un’altra cosa: le donnine abbondavano e, tra marinai e militari, erano in tanti a frequentare le loro case. Chi beveva con moderazione riusciva a guadagnare gli alloggi. Ciascun blocco di alloggi comprendeva più “barracche”, stanze di una ventina di metri quadrati in cui erano sistemati tre letti a castello costruiti in loco con tavole di legno e cordame. Il corredo di ciascun “tunnarotu” era essenziale: il materasso imbottito di lana ed un “baullu” (baule) di legno con tanto di serratura contenente indumenti, documenti, soldi e altri effetti personali. Un camion dell’impresa Amodeo trasportava tutta questa “robba” (corredo) da Trapani ad inizio stagione e poi la riportava lì: il centro di raccolta e smistamento era il magazzino della ditta. Ogni anno, vedendo gli operai scaricare materassi e “baulli”, gli abitanti di Torretta con simpatia avevano ad esclamare: “stannu arrivannu li tunnaroti!” (presto arriveranno i tonnaroti). E, in effetti, quell’esercito di trapanesi, oltre ad animare il piccolo borgo, portava reddito con l’assunzione di decine di uomini e donne del posto, con l’attivazione del piccolo indotto delle taverne, una delle quali fungeva anche da “putìa” (bottega) pane, generi alimentari di prima necessità ed aveva la privativa per vendere le sigarette. [31] L’attuale "Barcuzza", già “Bar Canada”, già “Bar 2001”. G. & M. Serra 38 CAPOGRANITOLA.IT e-book 2. Storie di uomini e di tonni 2.5 Il calendario della tonnara: i tempi e i modi del lavoro I tempi del lavoro in tonnara seguivano un calendario preciso, in cui le festività religiose rappresentavano importanti scadenze. Dopo il 2 novembre, “i Morti” (la festa di commemorazione dei defunti), si trasferivano in tonnara il “mastru marina” (maestro d’ascia), accompagnato dalla sua squadra di due “carpinteri” (carpentieri navali) e tre “calafatari” (calafati), ed una ventina di “marinara”. Il “raisi” faceva un sopralluogo in “Camperia” per verificare le condizioni delle reti della passata stagione; quindi, avendo a mente lo schema della sua tonnara, impartiva precisi ordini sulle riparazioni da apportare e sulle dimensioni e caratteristiche delle nuove “pezze” (pezzi) di tre metri da cucire affinché tutto fosse pronto in tempo per il futuro “calatu”. In genere, ogni cinque stagioni, si provvedeva alla sostituzione di tutto il sartiame in fibra vegetale, che per effetto dell’acqua salata e dell’usura inevitabilmente si deteriorava. Se c’erano degli acquisti da fare, il “raisi” lasciava un appunto per l’ “amministraturi” che poi lo faceva autorizzare dalla proprietà che predisponeva la necessaria somma per mezzo del ragioniere. L’ “amministraturi” provvedeva anche agli ordinativi di sale, olio d’oliva, legname, banda stagnata… Il “mastru marina” ed i suoi uomini si occupavano, invece, della manutenzione del “varcarizzu” (barcareccio). Ad ogni “acqua” gli scafi della flotta della tonnara dovevano essere sottoposti a calafatura, cioè nuova stoppa veniva messa nelle fessure del fasciame, poi ricoperto di bitume liquido impermeabilizzante. Quando fu inaugurata nel 1944, la tonnara Amodeo dovette sicuramente utilizzare, previa generalizzata manutenzione, il vecchio “varcarizzu” della tonnara Adragna, rimasta sicuramente in disuso durante gli anni della guerra. Presto, però, nuove e più grandi imbarcazioni furono costruite in loco dal bravo “mastru” Michele Scirè, cugino di Vito e Giuseppe Barraco[32]. C’è chi ricorda l’arrivo in tonnara di enormi tronchi di rovere (il legno utilizzato per costruire la via ferrata), trasportati uno per autotreno. Li si teneva per settimane a bagno affinché le fibre si ammorbidissero quel tanto che consentisse di serrarle a mano per ricavarne tavole da scaldare e piegare con appositi morsetti. I due capannoni “Trizzana” non erano, dunque, dei semplici hangar per il ricovero delle barche ma un vero e proprio cantiere navale. La costruzione del “varcarizzu” di Granitola procedette al ritmo di una barca all’anno, per cui si può ritenere che a metà anni Cinquanta Granitola avesse rinnovato per intero la sua flotta. Ogni due anni, insieme ai “calafatari”, giungeva in tonnara anche un “mastru firraru” (fabbro) con due operai addetti alla manutenzione ordinaria delle ancore e delle boe di lamiera: entrambe, infatti, necessitavano di essere regolarmente trattate con un liquido adesivo che li proteggesse dalla ruggine. A Granitola le si impeciavano. La straordinaria manutenzione veniva fatta in corso di stagione: qualche marra risaldata al suo braccio, qualche pezza di lamiera per rattoppare una boa… Nei giorni invernali vivere in tonnara non doveva essere facile: il forte vento di maestrale spazzava tra gli stabilimenti, entrava attraverso i rosoni e ogni apertura che fosse priva d’infissi, si infilava nei corridoi ululando; i flutti del mare, esplodendo contro gli scogli, nebulizzavano l’aere. Indossando abiti pesanti di lana, si lavorava in “Camperia” ed in “Trizzana”. Tra le montagne di reti e cavi della “Camperia” non mancavano famigliole di pasciuti ratti che gli operai cercavano di catturare col vischio. Ve ne erano anche alcuni di colore bianco e dal muso lungo e affusolato: pare fossero topi africani sbarcati da una bettolina arenatasi a Granitola sul finire della guerra del ’40. In inverno, la vita sociale era più raccolta: si cucinava al chiuso con cucinotti ad alcool (“spiritere”) o a gas e si mangiava al chiuso affollando le “barracche” libere. Il calore, del fuoco ed umano, era proprio necessario. Ci si scaldava anche con bracieri, ricavati ancora una volta da “buatte” di tonno. [32] I Barraco annoveravano nella loro famiglia anche l’apprezzato “mastru marina” Nardu Barraco. G. & M. Serra 39 CAPOGRANITOLA.IT e-book Dopo il lavoro, si frequentavano le solite taverne e, se sa un lato, si era più invogliati che in estate a bere vino rosso per regolare il termostato su una più elevata temperatura corporea, dall’altro si era inibiti dall’ubriacarsi perché con quel freddo non ci si poteva permettere di perdere la strada del ritorno e magari addormentarsi da qualche parte per terra all’aperto. Le boe, dopo la definitiva chiusura della tonnara, ammassate nei locali in cui cominciava la lavorazione conserviera del tonno Dopo il 19 marzo, il giorno di San Giuseppe, una seconda modesta ondata di operai si univa alla prima imprimendo una significativa accelerazione alle operazioni di preparazione degli ordigni di rete, la cui fattura e dimensioni erano costantemente verificate dall’attento “raisi”; la ciurma era al completo verso la fine di maggio con l’arrivo di una terza grande ondata di manodopera che sarebbe stata impiegata in attività che non potevano essere anticipate perché imprescindibilmente legate al ritorno dei tonni dalla migrazione genetica. Il 13 giugno, festa di Sant’Antonio, si iniziava il “calatu[33]”, cioè la disposizione in mare dell’impianto di pesca. Ogni giorno le barche, i bordi bassi per il peso di ancore, sartiame e “rusazzi”, erano portate sull’ “isula” e a sera, cariche di soli uomini intenti a gettare acqua per ripulire i paglioli dalla ruggine e dalla polvere delle attrezzature, ricondotte a terra. “Si calava dapprima l’ “isula” e si proseguiva con la “costa”, dal “toccu avutu” fino al “pirali”. In tutto erano necessarie due settimane scarse per calare l’intera tonnara, la quale entrava in pesca, con la cucitura del “corpu” il 28 giugno, festa di San Pietro e Paolo. In quella stessa data si chiudeva la stagione di pesca delle tonnare di andata, rispetto alle quali v’era, dunque, una sincronia perfetta. Invero, era sufficiente il “calatu” del “toccu avuto” perché la tonnara, pur senza “corpu”, “fussi anniscata”, cioè cominciassero ad entrare i primi tonni nella sua “isula”. Era il segnale che anche quell’anno si sarebbe pescato: potevano essere chiamate in tonnara le donne che avrebbero prestato la loro opera nella filiera conserviera. Si trattava dell’ultima ondata di arrivi. L’ “acqua” di Granitola terminava il 13 di agosto, giorno dell’antivigilia della festa dell’Assunta. Allora si “purtava u corpu ‘nterra e la tunnara unn’era chiù ‘npisca”, cioè si smontava il fondo mobile della “cammara ri la morti” e non era più possibile fare mattanze. Quindi ai “tunnaroti” venivano dati tre giorni di ferie, di cui i trapanesi facevano volentieri uso per tornare in città dalle rispettive famiglie e prendere parte ai festeggiamenti per la festa della Madonna di Trapani. [33] Nelle tonnare di andata si era soliti cominciare il 23 aprile, il giorno di San Giorgio. G. & M. Serra 40 CAPOGRANITOLA.IT e-book Usavano il treno che faceva scalo nella stazione di San Nicola, qualche chilometro a nord di Torretta. Al loro ritorno, il 17 di agosto, iniziavano le operazioni di “salpatu”, cioè di disarmo e trasporto a terra della tonnara di mare. A fine settembre il “salpatu” era ultimato e tutti gli operai licenziati. Quindi, solo ad ottobre la tonnara rimaneva completamente chiusa, sorvegliata da un custode. Il dismesso scalo ferroviario di San Nicola In sintesi, durante ogni stagione, tre principali fasi di lavoro si susseguivano: - la fase preparatoria (3 novembre-12 giugno); la fase operativa (13 giugno-13agosto); la fase conclusiva (17 agosto-30 settembre). Sulla fase preparatoria non resta alcunché da aggiungere a quanto sopra raccontato. Meritevoli di approfondimento sono, invece, le due fasi successive. Il “calatu”, la mattanza e il “salpatu” costituivano i momenti dei momenti di lavoro interamente svolti in mare, a bordo del “varcarizzu”. Quest’ultimo si componeva di dodici natanti, le cui caratteristiche strutturali erano tali da renderli inadeguati ad una qualsivoglia funzione che fosse diversa da quelle connesse al “calar tonnara”[34], per la quale erano precipuamente concepite e costruite sulla base di un sapere empirico non codificato che i “mastri marina” gelosamente si tramandavano da secoli di generazione in generazione e che si arricchiva e maturava grazie alla collaborazione dei “raisi”. [34] Una ventina d’anni fa, la muciara del “raisi” di Granitola fu incautamente venduta dal guardiano (illegittimo proprietario) ad un privato che volle allestirla come imbarcazione da pesca. La vicenda ebbe due risvolti: sul piano giudiziario, la denuncia delle parti della transazione e, sul piano tecnico-nautico, l’immediata scoperta, da parte dell’acquirente dell’impossibilità di convertire l’imbarcazione a natante da pesca. Dal 1994 i sette “barconi” superstiti della tonnara di Granitola sono stati sottoposti dalla Sovrintendenza provinciale di Trapani a vincoli di interesse etnoantropologico in quanto “strutture di archeologia industriale” (D.A. n. 3276 del 22-9-94) ai sensi e per gli effetti della Legge 1989/39. Si tratta di una tutela di tipo meramente “passivo”: non potrà essere un decreto assessoriale che impone obblighi di “non fare” a salvare il tipico “varcarizzu” di tonnara, la cui persistenza esige fattivi interventi di restauro e conservazione. Solo uno dei parascarmi della flotta di Capo Granitola è messo al riparo all’interno di uno degli ex magazzini di salato destinato a diventare museo ma alcun intervento di restauro è stato finora realizzato. Le poppe pensili sullo scosceso pendio, gli altri sei barconi giacciono sul promontorio est della tonnara completamente abbandonati a sé stessi: l’alternarsi del cocente sole estivo e delle abbondanti piogge invernali li stanno praticamente riducendo ad un insignificante cumulo di legna e ruggine in cui crescono sterpi e trovano riparo i conigli allevati allo stato brado dal custode. G. & M. Serra 41 CAPOGRANITOLA.IT e-book In questo senso può dirsi che il “varcarizzu” costituisce un tratto etno-antropologico unico e distintivo della civiltà delle tonnare. I legni della flotta della tonnara di Granitola erano: - un “rimorchiaturi” (rimorchiatore) dotato di un potente motore entrobordo; due “vasceddi” (vascelli) detti “capuraisi” e “primu”, i quali misuravano rispettivamente 20 e 16 metri; due “parascarmi” (palischermi) o “varcazze” (barcacce) o “rimorchi” (rimorchi) di 14 metri di lunghezza; una “bastarda” e un “urdunaru” di 10 metri; due “muciare” di 7 metri; un “varvaricchiu” di 5 metri. “Vasceddi” e “parascarmi” erano privi di un qualsivoglia tipo di armo che conferisse loro un’autonoma navigabilità, ragion per cui dovevano necessariamente essere trainate dal porto sino al sito della tonnara; il “rimorchiaturi” Bilancella San Pietro provvedeva a tale funzione con la potenza dei suoi 150 cavalli; lo conduceva un capitano affiancato da un motorista e un “marinaru”. Avendo iniziato ad operare in epoca relativamente recente, la tonnara Amodeo non ebbe modo di conoscere l’impiego di due rimorchiatori a remi, detti “rimorchi”, azionati da sei, otto coppie di “’bbuatura” (vogatori). Eppure la memoria storica di queste barche era conservata in uno dei sinonimi coi quali venivano spesso designati i “parascarmi/varcazze”: “rimorchi” appunto. “Vasceddi” e “parascarmi” avevano una struttura che sacrificava la dinamicità alla stabilità: poppa quadrata, poppa e prua verticali, ruote dritte, stellatura minima, fondo piatto, due controchiglie ai fianchi della chiglia principale. Questi espedienti tecnici, unitamente alla quasi assenza di pontatura (ridotta al carabottino di prua, detto “tamburetto”, e ai bagli[35]), consentivano una capacità di carico fra le 40 e le 50 tonnellate. In effetti, oltre che al trasporto di tredici uomini (un “capu ri guardia”, un “marinaru ri parti” e 11 “marinara semplici”), i “vasceddi”, essendo dotati di un grande argano a mano, erano adibiti all’alaggio ed al “salpatu” delle pesanti ancore e al carico dei tonni mattanzati. I “parascarmi”, d’altra parte, erano preposti al trasporto dei vari cavi (“summi”, “musarzi”, “lippie”, “ormiggi”…), delle reti, delle boe, delle ancore e delle “rusazze”. “Bastarda” e “urdunaru” erano praticamente identiche, così che a Granitola c’erano “tunnaroti” che indistintamente le chiamavano “bastarde”: si trattava di due imbarcazioni, munite di tre coppie di remi, e preposte ai lavori nelle omonime “cammare” dell’ “isula”. Su ognuna prendeva posto un equipaggio composto da un “capu ri guardia” (in questo caso detto “capu bastarderi”), un “marinaru ri parti” e sette “marinara semplici”. Le due “muciare”, entrambe provviste di tre coppie di remi, costituivano i ponti di comando sulla ciurma di mare: una, la “muciaredda”, accoglieva il “suttaraisi” e l’altra, la “muciara”, il “raisi”, ciascuno affiancato da un “capu ri guardia” (in questo caso detto “capu muciara”), un marinaru ri parti e sei, sette “marinara semplici”. Il “varvaricchiu” era una lancia a due remi, usata per piccoli spostamenti all’interno dell’ “isula” e per accogliere il solo “raisi” all’interno del “corpu” durante la mattanza. I tratti strutturali delle “bastarde” e delle “muciare” erano analoghi a quelli di “vasceddi” e “parascarmi”, benchè la capacità di carico fosse minore. In altre tonnare ed in epoca precedente, “bastarde” e “muciare” montavano una vela latina che assicurava di aggiungere autonomamente il sito della tonnara, con considerevole sgravio per i “’bbuatura”; a Granitola, queste barche erano prive di vela perché la motorizzazione del “rimorchiaturi” risolveva alla radice il problema. [35] Strutture leggermente arcuate di collegamento tra i rami della costola e di supporto per le pareti superiori. G. & M. Serra 42 CAPOGRANITOLA.IT e-book La fase di “calatu” comprendeva due sotto-fasi: il “calatu” dei summi”, detto anche “cruciatu”, e il “calatu” della “rizza” (rete). Nella prima sotto-fase venivano impiegati il “vasceddu capuraisi”, i due “parascarmi”, l’immancabile “muciara” del “raisi” ed ovviamente il “rimorchiaturi”. Quest’ultimo trainava la flotta di “cruciatu” nel sito che il “raisi” aveva precedentemente scelto scandagliando il mare con un rudimentale attrezzo costituito da una corda culminante in un peso di piombo e graduata per mezzo di nodi. “Summi”, “musazzi”, “lippie”, “urmiggi”, ancore e reti venivano portati sulla banchina di imbarco per essere stivate nei ventri dei barconi. Il “raisi” controllava che ogni attrezzo fosse caricato in modo razionale per evitare perdite di tempo all’atto di metterlo in mare. Nel primo giorno di “calatu”, la ciurma di mare costruiva la struttura portante dell’ “isula”: il “cruciatu ri l’isula”. Scelto l’ideale centro geometrico dell’ “isula”, il “raisi” da lì dava ordine ai “parascarmi” di procedere, al traino del “rimorchiaturi”, verso levante, fino al punto in cui, legati ad “ormiggi” da 120 canne (210 metri), sarebbero state calate le due “assi ri livanti”, cioè le due ancore a quattro “mappe” e da mezza tonnellata che avrebbero tenuto in tensione il lato orientale dell’ “isula”. All’altra estremità degli “ormiggi” si legavano i due “summi” d’acciaio da 28 mm di diametro che avrebbero costituito gli altrettanti semi-lati settentrionale (o di sottovento) e meridionale (o di sopravento) dell’ “isula”. Delle boe, posizionate ad intervalli regolari, tenevano a galla i due pesanti cavi che venivano messi in tensione con l’argano del “capuraisi”. I due semi“summi” venivano fatti convergere verso il centro, in cui era ormeggiata la “muciara” del “raisi” che li univa con un “marragghiuni” (si veda riquadro 1). Quindi, il “raisi” dava ordine alle barche di dirigersi verso ovest per ripetere la stessa operazione (si veda riquadro 2). Calati anche le due “assi ri punenti” e stirate le altre due metà dei “summi”, anch’essi agganciati con un “marragghiuni”, il “raisi” compiva il primo gesto “fondativo” della tonnara di mare; congiungeva, cioè, a mezzo di un terzo “marragghiuni” i due anelli precedentemente applicati. In quel preciso istante, una croce di Sant’Andrea era disegnata sulla superficie del mare: era il “cruciateddu” (si veda riquadro 3). Ecco che sull’angolo meridionale del “cruciateddu” veniva legato l’ “urmiggiu” (ormeggio) di una quinta ancora a due “mappe” (“bastimintali o “lisciuni”), l’ “urdunaru”, da 900 chili, che avrebbe retto il “summu” meridionale dell’ “isula” (si veda riquadro 4). A quel punto, i cavi avevano raggiunto la tensione adeguata affinché il “raisi” potesse procedere al secondo importante passo verso la “fondazione” della sua tonnara: “u spartutu ri lu centru”, cioè l’apertura del centro attraverso lo sganciamento del “marragghiuni” che teneva uniti i quattro semi-“summi”. Nel dettaglio, i due semi-“summi” settentrionali (uno di levante e l’altro di ponente) venivano agganciati, costituendo l’intero “summu” di sottovento; analogamente, si univano i due semi“summi” meridionali (cui era legato l’ “urmiggiu” dell’ “urdunaru”) che davano forma all’intero “summu” di sopravento (si veda riquadro 5). Per reggere il “summu” di sottovento si calava l’ “ancora suttu u spicu”, a due “mappe” e da 800 chili, dalla parte interna dell’ “isula” e dirimpetto all’ “urdunaru” (si veda riquadro 6). Nel punto in cui quest’ancora era ormeggiata al “summu” sarebbe stata innestata la “costa” e si sarebbe aperta la “vucca faraticu”. La struttura fin lì ottenuta veniva stabilizzata calando per ogni “assi” e per l’ “urdunaru” sei “ancuri compagni” a quattro “mappe” e da 500 chili. Quindi, il “raisi”, fondata l’ “isula”, impartiva l’ordine di “spartiri li cammari”, cioè di dividerla in camere stendendo trasversalmente, da nord a sud, i “musazzi”. Il primo “musazzu” ad essere calato era quello tra i punti di in cui gli ormeggi dell’ancora “sutta u spicu” e dell’ancora “urdunaru” si saldavano ai “summi” (si vedano riquadri 7 e 8); esso dava larghezza all’ “isula”. Per ogni “musazzu” erano calate due ancore a quattro “mappe” da 500 chili, ormeggiate nei punti in cui questo toccava i “summi”. Nell’ “isula”, come anche nella “costa”, gli ormeggi delle ancore erano direttamente “’ncudduriati” (legati) ai cavi con un nodo che veniva stretto e rafforzato attraverso i “muscedda”, fasci di piccole corde; ogni ancora, inoltre, era segnalata in superficie da un’apposita boa, cui era legata per mezzo di una “lippia” (grippia). G. & M. Serra 43 CAPOGRANITOLA.IT e-book In genere, tempo permettendo, il “cruciatu” dell’ “isula” si concludeva in una giornata ed il lavoro procedeva tanto più speditamente quanto più il “raisi” era stato accorto nel disegnare su carta la sua tonnara e nell’impartire ordini sulle precise misure con le quali dovevano essere confezionati i cavi; cruciale era, inoltre, il modo in cui ogni elemento veniva stivato sui “rimorchi”: la stratificazione delle attrezzature nei loro ampi paglioli doveva essere l’esatto rovescio dell’ordine col quale sarebbero state utilizzate. Completato il “calatu” delle strutture portanti dell’ “isula”, si procedeva al posizionamento, vicino alla boa dell’ancora “urdunaru”, del “fanfalu”, una zattera quadrata realizzata con fusti galleggianti, sulla quale venivano issati pali di ferro che avrebbero sostenuto due fanali luminosi, uno rosso ed uno verde, azionati ad intermittenza da due grosse batterie che venivano sostituite ogni sera. Le imbarcazioni in transito avrebbero riconosciuto il segnale e sarebbero passate al largo dalla tonnara per tutto il tempo che questa fosse rimasta in mare. Il giorno successivo iniziava a “cruciari” la “costa”. Schemi di "calatu" (da 1 a 6): ricostruzioni rese possibili dalla preziosa testimonianza dell'ex capo-barca don Mimì Caleca, sistematicamente raccolte nella tesi di laurea in antropologia culturale della figlia Maria Pia, “La tonnara di Torretta-Granitola”, a.a. 1996-1997 (relatore prof. Aurelio Rigoli). Il “cruciatu” della “costa” durava una decina di giorni in tutto. Si cominciava dallo “spicu” calando il “summu”del “toccu avutu” e si procedeva, passando per i due “campili” (tra i quali era compreso il “toccu mediu”), fino al “pirali”. L’argano del “capuraisi” consentiva di stirare ogni “scola” di “summu”, delimitata da due “marragghiuna” e da due coppie di ancore contrapposte. “Cruci” (croce) era detto il punto in cui gli ormeggi di ogni coppia di ancore erano legati al “summu”. Nel “toccu avutu” una “scola” misurava 16 canne (28 metri), lunghezza che saliva nel “toccu mediu” ad una ventina di canne (circa 35 metri); nel “toccu vasciu” aumentava ulteriormente fino a 32 canne (56 metri). La progressiva riduzione della lunghezza della “scola” man mano che dal “pirali” si procedeva verso lo “spicu” era un espediente tecnico correlato al graduale innalzamento del fondale e, conseguentemente, all’intensificazione della forza delle correnti G. & M. Serra 44 CAPOGRANITOLA.IT e-book sottomarine. Le ancore dei “tocchi avutu e mediu” erano a quattro “mappe” (di ci due facevano presa sul fondo) e pesavano da 450 a 500 chili; quelle del “toccu vasciu”, invece, dovendo far presa su fondali più bassi e fronteggiare, quindi, correnti meno impetuose, recavano, due “mappe” (di cui una sola agganciava il fondale) e pesavano da 150 a 200 chili. Quale che fosse il “toccu”, ogni dieci “scole”, si calava un grappolo di tre ancore, che, come anche quelle dei “campili” e del “pirali”, fungevano da contrafforti per la lunghissima muraglia. Schemi di "calatu" (6 e 8) Terminate le operazioni di “cruciatu”, le fondamenta della tonnara erano gettate e si poteva, così, procedere alle rifiniture, cioè il “calatu” della “rizza” che impegnava la ciurma di mare per una settimana. Si cominciava dall’ “isula” e precisamente dalla “testa ri livanti”: un “vasceddu” si posizionava sul lato sottovento e l’altro sul lato sopravento e sincronicamente andavano spostandosi verso ponente, calando la “rizza”. Quest’ultima era costituita da “pezze” superiormente ed inferiormente bordate con un cavo di manilla, detto “armatu”, e tenute assieme attraverso cuciture, dette “custure”, preventivamente effettuate a terra con filetto di cocco; in corrispondenza di ogni cucitura, in superficie, era legata una boa, mentre, in profondità, un grappolo di “rusazzi”. Il peso di queste ultime ed galleggiamento delle boe conferivano la giusta tensione alle pareti di “rizza”. Una perfetta divisione del lavoro fra i due equipaggi di venti “tunnaroti” a bordo dei “vasceddi” era necessaria per la corretta applicazione della “rizza”: issato a bordo il “summu”, c’era chi vi “impoternava” (attorcigliava) il cordame in modo che l’acciaio non lacerasse la rete per effetto delle correnti, chi calava a mare le “pezze”, chi ne cuciva l’ “armatu” superiore ai “summi impoternati”, G. & M. Serra 45 CAPOGRANITOLA.IT e-book chi sistemava i galleggianti e chi legava all’ “armatu” inferiore le “rusazze”, chi tirava a forza di braccia il “summu” per far procedere innanzi la barca. Quando i due “vasceddi” giungevano in corrispondenza di un “musazzu” iniziava il “calatu” della “menza porta” o “porta” che fosse. Per applicare ciascuna delle quattro “menzi porti”, era sufficiente una sola “muciara” equipaggiata con sei, sette “tunnaroti”. Si cuciva dapprima la rete a ventaglio dell’ “irune”: un lato su mezzo “musazzu” e l’altro sulla parete; all’ “irune” si applicava poi la “rizza”; Per applicare ciascuna “porta ‘ntera”, l’operazione era più complessa: si utilizzavano entrambe le “muciare” che in sincrono procedevano dai “summi” verso il centro del “musazzu”, cucendo dapprima i due “iruna” e applicandovi, in seconda battuta, le due semi-porte, unite a metà “musazzu”. Il “calatu” della “rizza” dell’ “isula” si considerava completato con la “porta bastardedda”: il “corpu”, infatti, sarebbe stato cucito successivamente. La “rizza” della “costa” veniva calata da un solo “vasceddu” con venti uomini. Talvolta era sufficiente posizionare la rete del solo “toccu avutu” perché l’ “isula” intrappolasse i primi tonni. Già allora la tonnara si poteva considerare “anniscata” (innescata) e, a discrezione del “raisi”, senza attendere che fosse ultimato il “calatu” della rete costiera, si poteva cucire il “corpu” (e la relativa “porta cannamu”) per fare mattanza. Tuttavia, il cerimoniale tecnico imponeva che la rete di canapa a maglie strette fosse cucita all’estrema “cammara” occidentale dell’ “isula” solo dopo che l’ultimo tratto di rete fosse stato applicato all’uncino del “pirali”. Una croce di legno alta almeno tre metri e ricoperta di santini, sormontata da un ciuffetto di palma[36], veniva issata in corrispondenza dello “spicu”: essa avrebbe benedetto permanentemente la tonnara; il fatto che sotto l’effetto delle correnti s’inabissasse, totalmente o solo in parte, ne faceva, poi, uno strumento utile al “raisi” per valutare la tenuta della tonnara e fare ipotesi sulle dinamiche dei branchi di tonni. Trascendenza e senso pratico si condensavano, dunque, in questo oggetto. La mattanza era il rito in cui culminava il lavoro della tonnara, il punto di fuga di ogni sforzo. La decisione di fare mattanza competeva al “raisi” e difficilmente veniva presa estemporaneamente: il tonno nuota col favore delle correnti (tecnicamente si dice che è un animale retropico negativo): per questo i “raisi” delle tonnare di ritorno temevano il maestrale che, soffiando da nord-ovest, fa allontanare i branchi dalla costa geografica, e le correnti di ponente che li respingono dalla “costa” di reti; specularmente, attendevano lo scirocco che, spirando da sud-est, li sospingeva verso la costa geografica, e le correnti di levante che li invogliano a guadagnare la “costa” di reti. Costanti sopralluoghi (talvolta due al giorno) erano fatti dal “raisi” sulla sua “isula” per verificare se e quanti tonni avessero varcato la “vucca foraticu”. Il loro numero era cruciale: occorreva che si raggiungesse una massa critica tale da rendere conveniente la straordinaria mobilitazione di mezzi e uomini che la mattanza implicava. Necessaria era, dunque, la conta dei tonni intrappolati: finché non furono introdotti i sommozzatori, di tale operazione si occupava il “raisi”. Con la sua “muciara”, varcava il recinto dell’ “isula” e attirava i tonni entrati al centro della “cammara ri livanti” servendosi di un rudimentale, ma efficace, attrezzo chiamato “calaturi[37]”: una corda, cui era legata una pezza bianca, era mandata a fondo per mezzo di un piombo; quindi veniva lentamente tirata in superficie col risultato che i tonni, attratti dal bianco, da loro creduto una preda (forse un calamaro), risalivano dalle profondità portandosi a ad una quota alla quale potessero essere scorti con lo “specchiu”. [36] La “cruci” (croce) era pertanto apostrofata dai pescatori anche con la sineddoche “parma” (palma). [37] In altre tonnare, come ad esempio quella di Bonaria, era più coloritamente chiamato “calamaru” (calamaro), per via della sua forma. Se il numero di tonni era reputato tale da legittimare una mattanza, il “raisi”, tornato a terra, dava disposizioni alla ciurma affinché fosse pronta a salpare per la mattina del giorno successivo. Sempre in base alle condizioni di vento e corrente, il “raisi” era in grado di prevedere se i tonni sarebbero “muntati” (passati) a ponente, nella “cammara” che porta il loro nome (“cammara ri tunni”). G. & M. Serra 46 CAPOGRANITOLA.IT e-book "Varcarizzu” al traino Se, poi, la corrente era così forte da fare affondare l’intera tonnara col rischio che i tonni intrappolati nell’estremo vaso orientale, fuggissero via, il “raisi” impartiva l’ordine di legare il “cappeddu”, una rete orizzontale a maglie larghe posizionata in superficie, fra “summi” e “musazzi” della “cammara ri livanti”. Per stenderla venivano impiegate “muciaredda”, “bastarda” e “varvaricchiu”. La “bastarda” con la rete si posizionava sul “musazzu” ovest della “cammara” e i marinai la legavano allo stesso con delle corde, dette “venti”; delle cime venivano legate ai lembi del “cappeddu”: il “varvaricchiu” era incaricato di recarle alla “muciaredda” che era posizionata sulla testa di levante: il suo equipaggio le tirava e il “cappeddu” si svolgeva sull’intera “cammara”, coprendola; quindi veniva legato anche ai “summi”. Il “cappeddu” era tenuto a galla da sugheri, poi sostituiti dalle boe in lamierino. Per fare mattanza, l’intera flotta usciva al traino della Bilancella San Pietro alle primissime ore dell’alba, in modo da essere sul sito dell’ “isula”, dopo poco meno di un’ora di navigazione, quando il sole non si era levato troppo in alto nel cielo e lo sguardo potesse spingersi più in fondo possibile per seguire i capricciosi e vorticosi movimenti dei tonni tra una “cammara” e l’altra[38]. Mentre le altre barche attendevano fuori dall’ “isula”, “suttaraisi” e “raisi”, a bordo delle rispettive “muciare”, controllavano, rispettivamente, la “cammare” orientali e quelle occidentali, per capire se e quanti tonni fossero “muntati” a “punenti” e quanti ne fossero rimasti a “livanti”. [38] “…questa preziosa pescaggione che dee farsi sul mattino del giorno e mai dal meriggio perché essendo il sole nel suo Zenit forma nel mare quasi un parelio e parisole”, Marchese di Villabianca, “Le tonnare della Sicilia”, fine del Settecento. G. & M. Serra 47 CAPOGRANITOLA.IT e-book Se un adeguato numero di pesci fosse entrato nella “cammara ri tunni”, dopo aver attraversato “ranni”, “foraticu”, “urdunaru” e “bastardu”, il “raisi”, trasferitosi sul “varvaricchiu”, avrebbe fatto alle barche il segnale per entrare in tonnara. Esse si disponevano nel seguente modo: - le due “bastarde”, poppa contro poppa, lungo il “musazzu” della “porta cannamu”, un “rimorchio” sul lato sopravento dell’ “isula”, l’altro “rimorchio” sul lato sopravento dell’ “isula”, il “vasceddu primu” sulla “testa ri punenti” dell’ “isula”, la “muciaredda” sul “musazzu” della “porta bastardedda”. Resti del "vasceddu capuraisi" . Si noti lo "stiratu" adiacente al bordo destro del barcone e gli anelli ai quali veniva "ammusciddatu" il "corpu Gli equipaggi di sopravento e di sottovento tiravano a bordo i rispettivi “summi”; analoga operazione faceva l’equipaggio di ponente col rispettivo “musazzu”. Era la prima fase dell’ “incastiddatura”, cioè la disposizione a “quadratu” (quadrato) delle barche attorno al “corpu”. Quindi il “raisi” ordinava di “muddare” (aprire) le “porte” “bastardedda” e “cannamu”. Iniziava un’attesa di durata indefinita, durante la quale qualcuno si concedeva anche il lusso di addormentarsi, cullato dalle onde, su banchi di una ventina di centimetri. Quando il branco catturato avrebbe spezzato il giro nella “cammara” e i tonni sarebbero “muntati” nella “bastardedda”, il “suttaraisi” avrebbe allertato i suoi “muciaroti” affinché “livassiru “(chiudessero) l’omonima “porta” impedendo ai tonni di tornare indietro. Quando i tonni sarebbero “muntati” nel “corpu”, il “raisi” avrebbe, a sua volta, gridato “leva, leva, levaaa!” agli equipaggi delle “bastarde”; la “porta cannamu” si sarebbe chiusa intrappolando i pesci definitivamente. G. & M. Serra 48 CAPOGRANITOLA.IT e-book Fasi dell' "incastiddatura" - Legenda: 1 “vasceddu primu”, 2 “rimorchi”, 3 “porta cannamu”, 4 “bastardi”, 5 “porta bastardedda”, 6 “muciaredda”, 7 “vasceddu capuraisi” I tonnaroti iniziano ad "assummari" G. & M. Serra 49 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il “raisi” ordinava allora di procedere alla seconda fase dell’ “incastiddatura”: il “vasceddu capuraisi” subentrava alle due “bastarde” che si spostavano dalla “porta cannamu” ai laterali dell’ “isula”, poppa contro poppa, coi “rimorchi”. Il “raisi” chiedeva quindi alla sua ciurma di “assummari” (issare) il “corpu” dai quattro lati del “quadratu”, affinchè il fondo salisse in superficie, restringendo progressivamente lo spazio a disposizione dei tonni catturati. Per “assummari”, i “tunnaroti” si disponevano in piedi sui bordi delle barche; intonando una “cialoma[39]” (canto), coordinavano gli sforzi, in modo che i quattro lati salissero sincronicamente e la morsa del “quadratu” si chiudesse sul prezioso tributo del mare all’ingegno ed impegno dell’uomo. Il “raisi” con ampi gesti dirigeva la manovra. Man mano che il “corpu” saliva a galla, lo spazio vitale dei tonni si riduceva, al punto che questi cominciavano a nuotare convulsamente sul pelo dell’acqua; urtavano con violenza contro le barche, sbattevano le code sollevando pungenti spruzzi d’acqua, facevano increspare il mare nel disperato e vano tentativo di riconquistare la libertà, sicché pareva che dentro il “quadratu” si fosse scatenata una tempesta. Quando il “corpu” affiorava in superficie, veniva comandato di “ammusciddari”, cioè di legare alle barche le sue estremità. Dal lato della “porta cannamu” l’estremità del “corpu” prendeva il nome di “utimu” (ultimo). Il bordo inferiore della “porta cannamu” era cucito, a ponente, all’ “utimu”, e, a levante, alla “suttana”, una rete a maglie strette che, congiungendo il “corpu” alla “bastardedda, assolveva ad una funzione importantissima: impedire ai tonni che fossero rimasti nei vasi di levante durante la mattanza di passare sotto il fondo del “corpu”, oramai affiorante in superficie, e sfuggire così alla trappola della tonnara. La mattanza poteva iniziare. Quattro “rimiggi” (squadre di sei “tunnaroti”) si disponevano, armati di “corchi” (arpioni), in altrettanti alloggiamenti ricavati nello “stiratu”, il corridoio laterale del “capuraisi”. In ogni “rimiggiu” i due “marinara” centrali erano armati di arpioni montati su aste cortissime, “corchi ammazza menzu”, coi quali avrebbero dovuto colpire il tonno vicino alla “liddra” (gola); lateralmente al nucleo di “marinara ammazza menzu” si disponevano due “mascaioli”, cioè “tunnaroti” che con arpioni applicati su aste più lunghe, “masche”, avrebbero colpito il tonno in corrispondenza della “surra” (pancia); infine, lateralmente ai “mascaioli”, prendevano posto due “spittaioli”, cioè marinai che, con un arpione posto all’estremità di un’asta lunghissima, avrebbero colpito il tonno nella parte caudale (“cura”). Il coordinato sforzo delle tre coppie del “rimiggiu” era necessario per issare bordo un tonno di due, trecento chili; esso, “con grandi occhi sbarrati privi di intelligenza” avrebbe riversato “la vita pulsante contro il fasciame della barca” colpito dai “rapidi colpi vibranti della coda veloce[40]”. La mattanza è un rito cruento, consumato coralmente tra incitazioni e grida, spruzzi d’acqua e fiotti di sangue. Vale riportare il passo di straordinaria forza espressiva, in cui Eschilo, narrando la storica battaglia di Salamina (480 a.C.), paragona ad una cruenta battuta di pesca al tonno la strage di Persiani fatta dai Greci: “Il mare scompare sotto un ammasso di corpi sanguinanti, i Greci colpiscono i Persiani come i tonni nella rete, gli spezzano le schiene con tronconi di remi e pezzi di relitti” (Persiani, 952). [39] Il termine cialoma potrebbe derivare dall’arabo “salam”, formula di saluto che significa indica la pace spirituale e la misericordia; una tale etimologia comproverebbe l’importanza, anche in età araba (827-1060), dell’elemento religioso -islamico- all’interno della vita della tonnara. [40] Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare. G. & M. Serra 50 CAPOGRANITOLA.IT e-book Dettaglio dei tonnaroti che "assummanu" Al termine della mattanza, il “corpu” era rigettato in mare; i “tunnaroti”, in piedi sui bordi delle barche, erano invitati dal “raisi”-sacerdote a ringraziare “Jesu” (Gesù) per la pesca. Fine della mattanza: “raisi” Vito Barraco a bordo del “varvaricchiu” all’interno del “quadratu” I paglioli ricolmi di “tunnina”, il corteo di barche rivolgeva la prua verso tonnara di terra mentre la Bilancella San Pietro dava fondo a tutti i suoi centocinquanta cavalli per trainare l’accresciuto carico. I volti, scavati dal sole, ed intrisi di sale e sangue, i “tunnaroti” sedevano sui banchi, i più fortunati si stendevano sul “tamburetto” dei “vasceddi”; tutti, carezzati dalla brezza, guadagnavano la riva -il meritato riposo- con lo sguardo. Finchè non fu introdotta la radio, tutte le manovre effettuate dal “varcarizzu” per compiere l’ “incastiddatura” erano seguite da terra dai padroni. Essi, dall’alto della torretta imbasata sulla G. & M. Serra 51 CAPOGRANITOLA.IT e-book “casina russa” del “raisi” -moderno thynnaskopeion[41]- scrutavano a levante attraverso la lente del cannocchiale. Quando le barche si disponevano a “quadratu”, un liberatorio “incastiddaru” usciva dalle loro soddisfatte labbra: era buon segno, era segno che ci sarebbe stata mattanza. Al termine di quest’ultima, poi, il “raisi” avrebbe dato ordine di issare su un’asta un drappo bianco, “bannera”, ogni cinquanta tonni catturati: così i padroni avrebbero saputo quantificare la loro soddisfazione e l’ “amministraturi” avrebbe avuto contezza di quanti, fra la ciurma di terra, mobilitare per lo sbarco e l’avvio delle operazioni di lavorazione conserviera del tonno. Nel 1952-53, l’introduzione della radio rivoluzionò questo primitivo ma efficace modo di tenere in contatto mare e terra, “raisi” e padroni. La stazione radio della tonnara di Capo Granitola consisteva in un baracchino alloggiato nel cabinato della “Bilancella San Pietro”; a terra, il segnale era ricevuto da un omologo apparecchio collocato a bordo del San Marco, un piccolo “rimorchiaturi” tirato in secco di fronte ai capannoni “Trizzana”. I “vasceddi” carichi di “tunnina” erano rimorchiati fin dentro il golfetto della tonnara di terra per essere sbarcati. Il resto del “varcarizzu” proseguiva a remi verso il non lontano approdo antistante piazza Duca degli Abbruzzi, dove i “vasceddi”, una volta svuotati, li avrebbero raggiunti. La costruzione del molo, nel 1969, avrebbe consentito alle barche di approdare direttamente nel golfetto della tonnara. Dato il forte dislivello tra la linea del mare ed il costone roccioso su cui sorgevano i luoghi della lavorazione conserviera, un complesso sistema assicurava i tonni alla terraferma; esso funzionava alla stregua di una teleferica e consisteva di quattro elementi: - un verricello sistemato in capo ad un traliccio di ferro a tre piedi fissato al costone in prossimità dello strapiombo; - una carrucola posta in cima ad un analogo traliccio imbasato su d’una piattaforma quadrata di cemento armato affiorante al centro del golfetto della tonnara; - un cavo d’acciaio sospeso tra il verricello e la carrucola; - un piano inclinato, detto “scivulu” (scivolo), tra i due livelli da porre in connessione. Dello sbarco dei tonni si occupavano per lo più gli uomini della ciurma di terra. Direttamente a bordo dei “vasceddi” ogni pesce, oramai esanime, veniva agganciato per l’occhio; il verricello inizialmente azionato a mano ma ben presto elettrificato- iniziava ad avvolgere il cavo d’acciaio che lo avrebbe trainato fin sul costone; nell’ultima parte del suo “volo”, il tonno era incanalato nello “scivulu” e raggiungeva l’apertura del parapetto in cui sarebbe stato sganciato e caricato su un carrello iniziando il suo tragitto verso la “buatta”. Alle spalle del verricello si aprivano i quattro archi del portico sotto il quale avvenivano le primissime fasi di lavorazione: anzitutto, la pesatura dell’esemplare sulla basculla[42], in secondo luogo, su banconi di legno, una squadra di quattro operai provvedeva allo sventramento, l’eviscerazione e la decapitazione. Un operaio più esperto recuperava le parti interne -“ova” (ovaie), “lattume” (sacca spermatica), “cori” (cuore)…- da essiccare nei due adiacenti magazzini "di salato". [41] In età antica, il paradigma tecnologico per la pesca del tonno era, nel Mediterraneo, la tonnara volante a vista. Al segnale di un’apposita vedetta posta su d’un punto sopraelevato -thynnaskopeion- una rete da circuizione, tenuta per un capo dai pescatori a terra, veniva rapidamente calata in mare con l’ausilio di una barca. Un ruolo centrale giocava, nell’ambito di questa tecnica di pesca, il “raisi di terra”, cui competeva avvistare (skopein in greco antico) dall’alto i riflessi metallici del branco di tonni in transito a fior d’acqua sottocosta. [42] Bilancia a bracci diseguali formata essenzialmente da una piattaforma sulla quale viene collocato il corpo da pesare, equilibrata da un contrappeso di massa nota attraverso un sistema di leve opportunamente disposto. G. & M. Serra 52 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il portico: esterno da sud-est: si notino i resti del traliccio di ferro a tre piedi (poggiato sul terzo arco a destra) ed il quarto arco murato (a destra in adiacenza al “palazzotto” Amodeo) Il portico, interno da est: si notino la basculla (in primo piano a sinistra), il binario sospeso (proprio davanti ai tre archi), e le sagome in ombra dei pilastri del “vosco” (in fondo, oltre l’arco centrale) G. & M. Serra 53 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il magazzino di salato di ponente Quindi la carcassa veniva lavata con un getto a pressione d’acqua salmastra proveniente dall’enorme cisterna cilindrica sopraelevata posta poco più a ovest. Un sistema di canalette, frequentatissime da mosche e zanzare, consentiva all’acqua ed al sangue di defluire verso il mare. Atrio: a sinistra i tre archi del "Vosco"; quindi il binario sospeso che congiunge la parte centrale del "Vosco" con la cella frigorifera Dal porticato i tonni passavano, lungo un binario sospeso, verso il luogo più caratteristico dell’impianto di terra: il “vosco” (bosco). Questo locale traeva il suo metaforico nome dalla particolare struttura interna: una pluralità di pilastri tra i quali erano sospese delle travi di legno; a queste ultime erano agganciate per la coda le carcasse sventrate e acefale, affinché potessero, per effetto della forza di gravità, dissanguarsi prima delle ulteriori fasi di lavorazione. Il G. & M. Serra 54 CAPOGRANITOLA.IT e-book dissanguamento durava un’intera notte; già al mattino, i corpi esangui erano deposti dall’impiccatoio posti sulle “chianche” (pianali di legno) e tagliati a tranci con precisi colpi di mannaia assestati da erculei operai. I pezzi di tonno erano immediatamente sottoposti a disidratazione in salamoia. La salagione a umido era propedeutica alla conservazione sott’olio, in quanto conduceva ad una quasi completa disidratazione delle carni; infatti, immersi nella salamoia, per osmosi, i tessuti del pesce tendevano a liberare acqua verso l’ambiente a maggiore concentrazione salina. Il trattamento avveniva in tre grandi vasche collocate nell’angolo nordorientale del cortile interno, cui si accedeva attraversando il “vosco”. La quantità di sale da sciogliere nelle vasche andava attentamente dosata per ottenere il risultato prefisso. Vasche per la salamoia Raccolti dalle vasche con dei retini (“coppi”), i tranci erano portati nel locale adiacente all’ufficio del ragioniere in cui venivano riposti in cestelli di cannuccia, a loro volta adagiati sopra dei bancali, affinchè, complice un’adeguata ventilazione, potessero asciugare. All’interno di cassette di legno caricate su carrelli sospinti lungo un binario di ferro, i tranci asciutti erano trasportati alla batteria di dodici forni, con annesso camino, alimentati a carbone; lì venivano cotti a vapore; riposti nuovamente nelle cassette, tornavano sui carrelli del binario e proseguivano verso i capannoni “Sciappante”: previo condizionamento e rassodamento, i filettoni di carne erano sottoposti a pulitura; si eliminavano la pelle, le spine e la buzzonaglia, recuperata per essere conservata a parte. Capannoni "Sciappante" G. & M. Serra 55 CAPOGRANITOLA.IT e-book Si selezionavano i tranci di migliore aspetto e consistenza, da stivare alla base e nella parte sommitale delle “buatte”, così che all’apertura si potesse immediatamente apprezzare la qualità del tonno Amodeo. Quindi si versava il liquido di governo: olio extravergine d’oliva e le “buatte” da cinque e dieci chili erano gaffate con un apparecchio meccanico azionato elettricamente. Le “buatte” ermeticamente chiuse andavano sul binario e tornavano nel cortile antistante il “vosco”: a ovest delle vasche per la salamoia era una batteria di due forni, con annesso camino, alimentati a carbone; due enormi caldaie erano portate ad ebollizione e le “buatte” vi venivano immesse affinchè lo sviluppo microbico fosse impedito (appertizzazione). A sterilizzazione avvenuta, le “buatte” venivano stoccate in una parte dello “Sciappante”, dove, al termine di un periodo di maturazione, sarebbero state pronte per essere trasportate ai grossisti. Fatta eccezione per le operazioni più onerose e pericolose, come ad esempio lo sventramento e la cottura, lungo la linea di produzione il lavoro era di competenza di squadre di donne, al cui comando era posta una “capurali”. La stagione di pesca terminava col “salpatu”, che iniziava con la disapplicazione, da parte dell’equipaggio del “vasceddu capuraisi”, del “corpu” e della “porta cannamu”; due ore di lavoro in tutto per rendere la tonnara praticamente inoffensiva. Dopo la brevissima pausa a cavallo di Ferragosto, la ciurma di mare salpava le reti dell’ “isula”: un giorno per le “cammare” di ponente ed un giorno per quelle di levante. Poi toccava alle reti della “costa”: si procedeva in senso inverso rispetto al “calutu”, cioè dal “pirali” al “toccu avutu”. La rete veniva scucita dai cavi d’acciaio e tagliata a tratti in modo da poterla più facilmente trasportare a terra; i “rusazzi” venivano sganciati e lasciati scivolare verso il fondo del mare. Smontate le reti, la tonnara si riduceva al “cruciatu”, cioè “summi” e “musazzi” ormeggiati al fondale mediante le ancore. Per potere ritirare anche i cavi del “cruciatu” bisognava prima salpare le ancore. Se ne occupavano gli equipaggi dei “vasceddi” azionando a mano un sistema di leve comprendente un grande argano di legno posto nella parte anteriore della barca ed una lungo e robusto braccio mobile di legno applicato a poppa e culminante in una carrucola, detta “cani”. Otto marinai spingevano le quattro travi dell’argano alla cui base si avvolgeva l’ormeggio; questo, fuoriscendo dal mare, scivolava, guidato da una cima di prolungamento, lungo il “cani” finché l’ancora non fosse risalita in superficie. Braccio di legno (a sinistra) e argano (a destra) utilizzati per il "salpatu" delle ancore In quel momento essa veniva “abbuzzata” (legata) al braccio mobile, il quale era sollevato e quindi ribaltato in modo da rovesciare l’ancora nella parte interna del “vasceddu”. Slegata, l’ancora veniva trascinata verso il centro della barca e il braccio tornava nella posizione iniziale per poter essere nuovamente utilizzato in combinazione con l’argano. Liberati dalle ancore, i tratti di “summu” potevano essere smontati insieme alle rispettive boe. Per completare il “salpatu” erano G. & M. Serra 56 CAPOGRANITOLA.IT e-book necessari circa venticinque giorni di lavoro. A terra, le ancore venivano disposte a schiere nello spiazzo a sud-est della “Trizzana”; cordame e reti, dopo essere stati ripuliti da alghe e concrezioni, erano lasciati per qualche giorno all’aria aperta e, una volta asciugati, venivano trasportati, nella “Camperia”; le boe, invero assai ingombranti, trovavano riparo nella parte più interna del porticato. Struggenti immagini di decadenza della gloriosa flotta della tonnara di Capo Granitola G. & M. Serra 57 CAPOGRANITOLA.IT e-book 3. Lo spirito del borgo O ltre le mura perimetrali della tonnaraacropoli, ecco svilupparsi l’asty, cioè, fuor di similitudine con la polis greca, il piccolo centro abitato. Richiedendo un apporto relativamente ingente di forza lavoro, la tonnara, luogo di fatica corale, fu, come in altre località siciliane (ad esempio Mondello e Marzamemi), motrice di urbanizzazione. Veduta aerea del borgo di Torretta Granitola dal fronte mare sud (alla destra del porticciolo la “Punta Sicca”) G. & M. Serra 58 CAPOGRANITOLA.IT e-book Veduta aerea del borgo di Torretta Granitola dal fronte mare sud-est (in alto a sinistra si distingue la torretta di Mazara, mentre in alto a destra la strada delle Pirrere) Il porticciolo oggi (da terra) G. & M. Serra 59 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il porticciolo oggi (da mare) Dal 1857, una borgata prese forma di fronte al porticciolo naturale nell’ex feudo Campana, allora proprietà del principe Diego Aragona Pignatelli Cortes. La simmetrica disposizione delle case (allora circa 150) lungo ampie strade, attorno all’estesa piazza, fu pianificata, su incarico del principe, dall’ingegnere agronomo Antonino Viviani da Montevago. Il borgo negli anni Quaranta del secolo scorso (veduta fronte mare, particolare da foto d'epoca) G. & M. Serra 60 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il porticciolo negli anni Quaranta del secolo scorso in una cartolina d'epoca (veduta dal promontorio della “Punta Sicca”; sulla sinistra i il barcareccio della tonnara e alcune ancore; in fondo a destra il profilo della torre Saurello) Mandria al pascolo nel golfetto del porticciolo in una foto d’epoca (sullo sfondo la “Punta Sicca”) G. & M. Serra 61 CAPOGRANITOLA.IT e-book Versante di ponente del golfetto del porticciolo in una foto d’epoca Il principe, avendo a cuore le anime dei torrettesi, donò loro un terreno sul quale potessero edificare una chiesetta. Auto-tassando le transazioni aventi ad oggetto la compravendita delle sarde, i pescatori realizzarono una cappella che fu intitolata a Maria Santissima delle Grazie, alla quale già dal 1587 i Padri Predicatori avevano dedicato la prima chiesa di Campobello (l’attuale matrice, dal 1715 intitolata a “Santa Maria ad Nives”). E proprio da Campobello un cappellano, di nomina principesca, veniva a Granitola per celebrare la messa tutti i giorni festivi; poi, durante la Settimana Santa, conduceva i fedeli fuori dal suolo consacrato, lungo una Via Crucis, culminante nel vecchio Calvario, costruzione ancora oggi esistente, seppure indegnamente abbandonata, tra i filari del vigneto che costeggia il pericoloso incrocio in cui la via che risale dalla piazza di Torretta si innesta nella provinciale Mazara-Campobello. Lo scambieresti per una nicchia votiva pagana per la sua collocazione tra i vitigni, la quale potrebbe addirittura suggerirti un’improbabile intitolazione a Bacco-Dioniso. G. & M. Serra 62 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il Calvario ieri ed oggi: struggenti immagini di decadenza L'antica chiesetta di Torretta non è più esistente: nel 1959, in seguito al crollo della copertura, fu ceduta dalla competente parrocchia a privati in cambio di un più decentrato terreno in via Torricelli. Sul sito della vecchia chiesetta sono state costruite abitazioni private attualmente di proprietà del professor Galfano. Della statua della Madonna, delle due campane e dell’arredo sacro tutto si era persa ogni traccia; mentre qualcuno ancora ricorda che i conci di tufo della chiesa furono reimpiegati per costruire i muretti che delimitano la piazzetta dal porticciolo. Su scala ridotta e con movimento inverso (dal sacro al profano), avvenne quello che era toccato in sorte ai marmi del Colosseo riutilizzati nella fabbrica di San Pietro. Resta comunque suggestivo immaginare che il porticciolo di Torretta è incastonato in una cornice di pietre impregnate di sacro che perennemente benedice le barche ormeggiate ed i pescatori. Nel 2007, per volontà del sindaco del Comune di Campobello di Mazara - e nell'incuranza della Curia di Mazara, presa da "altre priorità" - è stata costruita, la nuova chiesa di Torretta, intitolata a Maria Santissima Stella del Mare. Per quasi quarant'anni, a Torretta si era celebrata messa, specie nelle domeniche estive, in luoghi di fortuna: in abitazioni private, in piazza, nei bungalow multifunzionali all'imbocco della via sterrata per le Pirrere. Il prefabbricato, sito in via Torricelli, certamente non eccelle per fattezze architettoniche, al punto che lo stesso parroco, con chiara allusione ai testi sacri lo ha apostrofato "la tenda", termine che ha il merito di cogliere, sul piano dei significati simbolici, due sfaccettature dello stesso tema: il carattere effimero dei beni materiali e la precarietà del nostro esistere. Per quanto umile, la costruzione merita (e suscita) rispetto per quello che rappresenta: la rinascita di un luogo sacro e di un nucleo spirituale stabile che gode dello status di parrocchia. La spontanea restituzione di una delle due antiche campane da parte dello storico sensale del posto, Don Totò, è emblematica di questo rispetto. Se i torrettesi poterono permettersi il lusso di auto-imporsi una tassa per la chiesa da pagarsi con i proventi della vendita delle sarde, è evidente che la pesca e la salagione di queste ultime, di cui è ricco il mare tra Mazara e Sciacca, rappresentarono delle attività assai remunerative. E, infatti, esse furono capaci di attrarre a Torretta uno sciame di piccoli pescatori-imprenditori palermitani. Almeno un centinaio di barche era impegnato nella menaida (o tratta) e la domanda locale di sale era tale che quest’ultimo arrivava direttamente via mare stivato sugli “schifazzi” provenienti dalle saline ubicate tra Marsala e Trapani. La sagra del pesce azzurro, "celebrata" quasi ogni estate, riecheggia, sia pur con ridotta epica, gli antichi fasti dell'alieutica torrettese. G. & M. Serra 63 CAPOGRANITOLA.IT e-book Preparativi per la sagra estiva del pesce azzurro G. & M. Serra 64 CAPOGRANITOLA.IT e-book Poco più di un secolo dopo, negli anni del boom economico, il borgo prendeva a svilupparsi assumendo, col progressivo dissolversi delle attività alieutiche, la sua attuale configurazione di luogo per la villeggiatura estiva. Fortunatamente a Torretta è stato risparmiato il desolante destino urbanistico della limitrofa “sorellastra” Tre Fontane (anch’essa frazione di Campobello di Mazara), la quale è cresciuta per addizioni e giustapposizioni ignorando ogni logica funzionalista e criterio paesaggistico. Oggettivi vincoli contribuivano a contenere la pressione antropico-urbanistica sul litorale di Capo Granitola: tra i fattori umani va ricordata l’esistenza di una zona militare controllata dalla Marina e corrispondente alla “via del faro” (dalla tonnara verso sud-est); tra i fattori naturali, il principale freno era costituito dal litorale roccioso, i fondali algosi, la relativa freddezza dell’acqua, anche in estate, per via delle correnti. Comprensibilmente, Torretta non piaceva alla massa di campobellesi emigrati in Germania, Svizzera e nel triangolo industriale (circa 2000 tra il 1961 ed il 1971): essi preferivano trascorrere le poche settimane di ferie estive su un litorale sabbioso e baciato da acque basse e calde. Tre Fontane, con il suo chilometrico arenile dunoso e il tepore delle sue pozze pseudo-lagunari, era per loro l’ideale. L’affollata spiaggia di Tre Fontane in pieno agosto G. & M. Serra 65 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il litorale roccioso di Capo Granitola Il litorale roccioso di Capo Granitola (foto di Maria Pia Gino, a sinistra, e di Andrea Catarinicchia, a destra G. & M. Serra 66 CAPOGRANITOLA.IT e-book A Torretta decidevano di costruire la casa di villeggiatura solo quelle famiglie che con il luogo conservavano un rapporto intimo e che non necessariamente avevano preso la via dell’emigrazione. Torretta, rispetto a Tre Fontane (ed anche a Triscina, frazione di Castelvetrano) rappresenta, pertanto, un unicum urbanistico oltre che sociologico. Fa eccezione il villaggio turistico di Kartibubbo edificato senza scrupoli paesaggistici nel corso degli ultimi quattro decenni sulle selvagge dune fra il faro di Capo Granitola e il Pozzitello. Un'enorme struttura in cemento armato parzialmente completata - un eco-mostro si direbbe - testimonia lo scempio consumatosi in un tratto di litorale sul quale le amministrazioni competenti non hanno saputo vigilare. L’ecomostro di Kartibubbo (in primo piano nella foto in alto e sullo sfondo nella foto in basso) G. & M. Serra 67 CAPOGRANITOLA.IT e-book Scorcio del porticciolo da ponente Panorama dalla balconata della spiaggetta “Stassi” G. & M. Serra 68 CAPOGRANITOLA.IT e-book Scorci dell'architettura residenziale torrettese Così, sull’onda del boom, il borgo marinaro, irradiandosi a partire dal porticciolo, si è esteso, a macchia di leopardo, lungo tre principali direttrici: verso la tonnara, verso la strada per Campobello di Mazara (costruita nel 1878) e, infine, verso la virtuale linea di confine disegnata, sul versante mazarese, da due antiche torri, credute “saracene” dalla gente del posto ma, in realtà, erette, sotto il dominio spagnolo, in funzione anti-saracena. Da esse il borgo trae il suo secondo, e più famoso, nome: “Torretta”. Lo spirito profondo di questo borgo, sito su una punta “minore” della Trinacria, risiede nella sua identità tonnarota. Un’identità che anno dopo anno si fa sempre più fioca, come stella che si allontana nello spazio, un’identità di cui le mattutine battute di bolentino sono solo una miniatura. Nella tonnara, fino a quarant’anni fa, non avresti trovato il solitario Santiago descritto da Hemingway ne “Il vecchio e il mare”: quella dei tonnaroti era, al contrario, una comunità, un piccolo esercito con una tanto di struttura gerarchica (rais, sotto-rais, capi-barca, tonnaroti, faratici) ed organizzazione: il rais era il generale, l’autorevole stratega di un periodico confronto ingaggiato con la natura marina per catturare il pesce storicamente più prezioso del Mediterraneo: il tonno. G. & M. Serra 69 CAPOGRANITOLA.IT e-book Tonnara di Capo Granitola: preparativi per la mattanza (foto d’epoca) Giova prendere a prestito la chiave di lettura che, già dal titolo (“Contadini del mare”), propone il docu-film che Vittorio De Seta girò proprio nelle acque di Granitola nel lontano 1955[1]. La pellicola racconta, in una decina di minuti, i toni epici della mattanza: il cruento atto dell’accisa dei tonni, quando vascelli e parascarmi fanno quadrato attorno al coppo che inizia ad essere “assummato” all’atavico ritmo dell’ayamola; poi in quella “camera della morte” i “corchi” dei tonnaroti si scatenano contro i tonni che invano guizzano e sbattono le code in una schiuma resa sempre più rossa (la pellicola è a colori!) del loro sangue. E allora comprendi la forza espressiva di quel passo in cui Eschilo, narrando la storica battaglia di Salamina (480 a.C.), paragona ad una cruenta battuta di pesca al tonno la strage di Persiani fatta dai Greci: “Il mare scompare sotto un ammasso di corpi sanguinanti, i Greci colpiscono i Persiani come i tonni nella rete, gli spezzano le schiene con tronconi di remi e pezzi di relitti” (Persiani, 952). Ma a darti il senso dello “spirito torrettese” non è tanto la nevrotica scena dei tonnaroti che, in mezzo al fragore di voci arpionano i fusi argentei dei tonni, li sollevano a bordo con erculeo sforzo per poi farli scivolare, fiottanti di sangue, nel ventre dei vascelli, quanto piuttosto le immagini della snervante attesa che precede il liberatorio, catartico atto della mattanza. Silenzio, sciacquìo del mare, imbarcazioni ondeggianti, volti tesi, rughe solcate dalla salsedine, corpi immobili pronti a scattare; chi fuma, chi ripara una rete, qualcuno mangia, qualcuno bucolicamente riposa, il rais scruta il mare per decidere quando impartire l’ordine per l’assalto. [1] Distribuito da Cinecittà International, il documentario (35 mm, colore, 10 min., cfr. http://www.youtube.com/watch?v=GlkeP1ktIJY) è stato girato nel 1955. Nel 1956 è stato insignito del primo premio per il documentario al Festival di Mannheim. Tra il 19 ed il 23 aprile 2004, l’Associazione Apollo 11 di Roma ha curato nell’omonimo cinema una retrospettiva su Vittorio De Seta (dal titolo “La poesia del reale”) presentando le pellicole del regista restaurate dalla Filmoteca Regionale Siciliana. G. & M. Serra 70 CAPOGRANITOLA.IT e-book Un’attesa così ben dipinta da restituirti, al di là della troppo sbrigativa (ed errata similitudine con la corrida spagnola) il vero significato della mattanza: un preciso momento, nel ciclo dell’anno, in cui “i contadini del mare” raccolgono un pesce che sentono di avere “coltivato” nei campi marini, tanto è stato il lavoro di preparazione a terra e sospesi sul pelo dell’acqua. Un momento tra gli altri momenti della vita costiera, che è anche vita rurale: la mietitura a giugno, la vendemmia a settembre, la raccolta delle olive a novembre, le arance a dicembre… “Questo pescatore (…) non vive solo sulla sua barca, tra le sue lenze e le sue reti. E’ anche un contadino esperto, attento, che coltiva il suo orto e il suo campo” (Fernand Braudel, Il Mediterraneo, 1949). La presenza dei bagli rurali nel territorio limitrofo testimonia la forza di questo nesso socio-economico (e anche mentale-culturale) tra terra e mare. Torretta era addirittura sede di una importante “istituzione” deputata a regolare lo scambio economico dei frutti della terra (uva principalmente) attraverso la misurazione del loro peso: “u bilicu”. Esso sorgeva all’inizio della strada, oggi asfaltata, che congiunge Torretta a Kartibubbo: una villetta privata ne ha preso il posto eclissandone per sempre la memoria. Baglio diroccato nella zona di San Nicola G. & M. Serra 71 CAPOGRANITOLA.IT e-book Vestigia del baglio Ingham presso le Cave di Cusa Resti di un’abitazione rurale nella zona del Pozzitello G. & M. Serra 72 CAPOGRANITOLA.IT e-book La campagna di Capo Granitola fra sinuose “trazzere”, covoni di canne, traversine della ferrovia riutilizzate come pali di sostegno dei filari di vite E poi quell’ultima sequenza di immagini in cui i tonnaroti, allineati in piedi sulle barche, si levano il cappello e alzano un ringraziamento collettivo a “Jesu”. Una pallida eco di quella devozione la ritrovi nella processione del giorno dell’Assunta, in cui la statua della Madonna percorre le vie del borgo dopo una gita in mare sul peschereccio più grande di Granitola, il “Nino C.” dei Coppola. Una pesca, quella del tonno, capace di richiamare tanta fede, tanta fede quanta è l’alea del mare. G. & M. Serra 73 CAPOGRANITOLA.IT e-book Immagini della Madonna portata in processione sul motopeschereccio “Nino C.” nel giorno dell'Assunta (sullo sfondo, rispettivamente, il faro e la tonnara). Tanta fede ma anche tanta superstizione. Tuttavia, a giudicare da un emblematico aneddoto, quest’ultima pare non abbia avuto grande seguito nella tonnara di Torretta: nel 1947, i Vaccara, gli amministratori dell’epoca, concessero al giovane Francesco Alliata, già respinto da altre timorate tonnare siciliane, di effettuare riprese dentro il sacro recinto della “camera della morte”, un altare invilabile nel quale il dio-tonno viene sacrificato e subito dopo gli si chiede perdono. Quella pellicola fu poi abbandonata ed il suo ricordo sopravvive solo nella testimonianza diretta dell’autore, al quale è riconosciuto il merito di essere stato il pioniere della cinematografia subacquea[2]. [2] Si veda “Il cinema e le tonnare”, articolo di Francesco Alliata di Villafranca, pubblicato su www.cosedimare.it il 14/02/2005. G. & M. Serra 74 CAPOGRANITOLA.IT e-book 4. “Mamma, li turchi!” Panoramiche delle due torri "saracene" di Capo Granitola F in dalla seconda metà del XIV secolo, anche a seguito del venir meno della poderosa flotta navale dei Templari, tutto il perimetro costiero siciliano aveva cominciato a subire danni e molestie ad opera dell’attività piratesca del naviglio turco. L’entità del pericolo esplose con la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453. L’evento, ultimo atto dell’Impero Romano d’Oriente, ebbe più risonanza di quella che da lì a poco sarebbe stata la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo (1492) e, a giusta ragione, suscitò in Europa un’enorme impressione ed un’ondata di panico. Nel quadro delle relazioni internazionali dell’epoca, la Sicilia, avamposto della cristianità in un Mediterraneo che vedeva l’Impero Turco Ottomano al culmine della sua espansione territoriale, venne a trovarsi in una posizione geo-politica scomoda. Incursioni sempre più frequenti e dannose lanciate dai covi nord-africani di Jerba, Tunisi, Biserta, Algeri, Orano… lasciavano presagire, nella prima metà del XVI secolo, l’imminenza di una seconda invasione islamica dell’isola, dopo quella araba cominciata, proprio qui, nel IX secolo. Nel 1522 la situazione precipitò con la caduta della piazzaforte di Rodi (strappata ai Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni): la rotta del Mediterraneo centrale, e quindi della Sicilia, si aprì ai turchi. I successi di Carlo V sul Barbarossa a Tunisi (1535), del gran maestro Jean de la Vallette su Dragut a Malta (1565) e di Don Giovanni d’Austria su Mehemet Pascià a Lepanto (1571) non fecero venir meno la priorità strategica di potenziare e perfezionare le difese costiere contro le incursioni dei corsari barbareschi che nel frattempo si erano sostituiti ai pirati turchi[1]. I barbareschi erano impropriamente chiamati turchi perché formalmente sudditi dell’Impero Turco Ottomano; essi provenivano dalla Barberia (l’attuale Algeria) e si riversarono nel Mediterraneo in seguito all’indebolimento del legame politico tra Istanbul e i regni nordafricani. [1] E’ bene precisare la distinzione tra pirateria e attività corsara. La pirateria, assai più antica della guerra di corsa, era puro brigantaggio praticato al di fuori di qualsiasi norma giuridica o morale (dilictum iuris gentium); quella corsara, al contrario, si configurò, a partire dal XVI secolo, come un’intrapresa economica con tanto di autorizzazione (e addirittura sostegno) da parte di tutti i regnanti europei (ivi incluso il sultano turco) durante un evento bellico. G. & M. Serra 75 CAPOGRANITOLA.IT e-book Ipotetica ricostruzione del sistema di corrispondenze visive tra le torri del territorio In questo contesto storico va collocata, intorno alla metà del XVI secolo (tra il 1553 ed il 1554), la costruzione delle due torri di Capo Granitola. Una, nota come “Torretta di Mazara” è più addentrata, ed ha la forma di un cilindro che si innesta su una base a tronco di cono. L’altra, chiamata dal Camilliani “Torre Saurello” (dall’antico nome del promontorio su cui sorge[2]) ha forma tronco-conica e di essa qualcuno ha anche ipotizzato la funzione, giù dal XV secolo, di faro, cui deve essersi poi addizionata quella di torre d’avvistamento[3]. Ubicazione delle due torri (veduta da levante) E’ legittimo domandarsi il perché di due torri d’avvistamento nella stessa località e a brevissima distanza l’una d’altra. Un’ipotesi da sottoporre a verifica potrebbe essere la seguente: forse la preesistente torre-faro, data la sua ubicazione, riusciva a corrispondere solo con il castello di Mazara (sul versante nord-occidentale) mentre le restava occlusa la visuale sul versante costiero nordorientale (Torre di Tre Fontane e, proseguendo, Torre di Polluce, presso Selinunte). Per tale motivo, si sarebbe reso necessario l’imbasamento, in posizione più addentrata e leggermente più elevata, di una seconda torre -Torretta di Mazara- che potesse gettare lo sguardo verso nord-est (cioè verso la Torre di Tre Fontane) per ripetere i segnali trasmessi dal castello di Mazara a Torre Saurello [4]. [2] “Saurello” potrebbe essere il diminutivo di “sauro”, un pesce che abbonda nelle acque di Granitola. [3] G. Purpura, “Porti e scali della Sicilia Occidentale" in VII Rassegna di Archeologia Subacquea, Giardini, 16-18 ottobre 1992. [4] In alternativa si può ipotizzare che il Castello di Mazara comunicasse direttamente con Torretta di Mazara e che Torre Saurello svolgesse, in autonomia, la funzione di faro. Opportuno sarebbe, al fine di fugare ogni dubbio, eseguire delle triangolazioni virtuali (da debite altezze) tra i punti interessati. G. & M. Serra 76 CAPOGRANITOLA.IT e-book Resti del Castello di Mazara (a sinistra) - Torre Polluce presso Selinunte (a destra) Resti della torre di Tre Fontane Casotto della Guardia G. & M. Serra 77 CAPOGRANITOLA.IT e-book E’ probabile, inoltre, che la corrispondenza visiva tra la Torretta di Mazara e la Torre di Tre Fontane non fosse diretta ma mediata, nell’entroterra, da una terza postazione, identificabile con il “Casotto della Guardia”. La ragnatela di comunicazioni si estendeva fin nell’entroterra raggiungendo, dalla Torre di Tre Fontane, il Castellaccio di Campobello, sito sul monte Cozzo (oggi Santo Monte)[5], e almeno due torri “appadronate[6]” possedute dalle famiglie Cusumano e Scuderi. Torre "appadronata" presso Campobello di Mazara In caso di avvistamento di navi nemiche, una torre costiera poteva ingaggiare uno scontro a fuoco a distanza per scoraggiare lo sbarco e, aspetto ben più strategico, era in grado di chiedere rinforzi allertando le altre torri rientranti nel suo campo visivo attraverso segnali che consistevano in fumi di giorno e fuochi di notte. [5] In un fosso poco profondo rimangono riquadrature con detriti di quelle che furono le sue fondamenta. [6] Così venivano dette le torri ricadenti all’interno di fondi di proprietà privata. Le torri costiere erano per lo più demaniali ma i loro torrari e cavallari erano armati dai signori dei feudi limitrofi, i quali per primi ne traevano vantaggio in termini di sicurezza. Scrive Mario Tumbiolo nel foglio 144 del Libro Rosso della città di Mazara: “A Capu Feto corrispondente a lo castello di Mazara si fa la guardia: la paga lo Episcopo di Mazara. A lo castello di Mazara corrispondenti cu la turri di Granituli si fa la guardia. La paga lo castellano di Mazara. A la turri di Granituli (Torretta di Mazara? NDR) corrispondenti a Tri Funtani si fa la guardia: la paga la chita di Mazara. A tri Funtani corrispondenti cu la turri di Xacca si fa la guardia: la paga lu baruni di perrybaida.”. G. & M. Serra 78 CAPOGRANITOLA.IT e-book Alle comunicazioni ottiche si aggiungevano quelle acustiche: il suono della brogna (conchiglia) e gli spari di mascolo (cannoncino). Apposite squadre di militari e civili, i torrari, custodivano le torri e maneggiavano l’artiglieria. Essi erano coadiuvati da un sistema di vigilanza mobile: soldati a cavallo, noti come cavallari, battevano le marine delle coste col precipuo scopo di allertare, in caso di pericolo, i soldati di stanza nei vari castelli (Mazara e Campobello). Un ruolo, per inciso, analogo a quello svolto in epoca recente -fino agli anni Settanta- dalla Guardia di Finanza, la quale, con le sue due brigate di Capo Granitola e Tre Fontane, controllava la costa, oggetto di sbarchi da parte d contrabbandieri di sigarette. "Pirreredde" presso Torre Saurello G. & M. Serra 79 CAPOGRANITOLA.IT e-book Cavità rocciose ai piedi di Torre Saurello Si favoleggia, infine, sull’esistenza di un tunnel sotterraneo tra le due torri di Granitola con un ingresso a mare attraverso una grotta scavata nella roccia tufacea. E in effetti, nel costone roccioso ai piedi della torre si aprono delle caverne, di qualche metro di profondità, perfettamente squadrate… ma si tratta, probabilmente, delle cave (pirreredde) da cui fu estratto il tufo per la costruzione delle due torri. Al di là della leggenda, di certo rimane il nome che questi manufatti architettonici hanno impresso alla località: Torretta appunto. Trattandosi di costruzioni militari, le due torri risultano prive di qualsiasi ornamento esterno, l'unica eleganza architettonica è conferita loro dalla severità delle linee. In comune hanno la pianta circolare, caratteristica delle torri spagnole di “prima generazione” (quelle di seconda -tra le quali rientra la torre di Tre Fontane, 1585- hanno pianta quadrangolare), articolata su più elevazioni: la base, il piano abitabile e la terrazza (o astraco); Torre Saurello presenta anche un secondo piano. La base della Torretta di Mazara risulta priva di ingresso e potrebbe aver ospitato una cisterna d’acqua prima di un probabile riempimento occorso per consolidare la statica dell’intera struttura. Alla torre si accedeva, pertanto, da un’apertura del primo piano, raggiungibile grazie ad una scala di legno o di corda che veniva ritirata dopo l'uso. La scala esterna in muratura che oggi ritroviamo potrebbe essere stata aggiunta in epoca successiva. Anche alla terrazza, luogo della ronda, delle segnalazioni e della posa di qualche pezzo di artiglieria leggera (come testimoniato dai quattro tagli simmetrici a parapetto), si accedeva con scale retraibili. Torre Saurello si approvvigionava d’acqua piovana attraverso una grondaia di tufo posta sulla corona superiore, dalla quale veniva poi convogliata con un sistema di canali in terracotta (la cui traccia è ancora visibile dal lato mare) in una cisterna sita sotto il pianterreno. G. & M. Serra 80 CAPOGRANITOLA.IT e-book Torre Saurello (a sinistra) e Torretta di Mazara (a destra) Particolari delle due torri di Capo Granitola in collage fotografico G. & M. Serra 81 CAPOGRANITOLA.IT e-book 5. Terra di approdi 5.1 Il mancato sbarco degli Alleati L’eccessiva esposizione marittima (e la conseguente vulnerabilità) di Capo Granitola trova conferma non solo nell’edificazione delle due torri anti-saracene ma anche nel più recente sistema di postazioni fisse che furono presidiate dalla 202ma Divisione Costiera dell’Italia fascista per respingere in mare un eventuale sbarco degli Alleati. Bunker della seconda guerra mondiale presso Capo Granitola Una decina di bunker, scorticati dal tempo (e per fortuna non dalle bombe), mestamente ricorda il passaggio della seconda guerra mondiale da queste parti; la stessa Torre Saurello subì un’ulteriore fortificazione a mezzo di strutture in cemento armato: il restauro conservativo effettuato in anni recenti ha coperto i segni di quell’intervento. Poi, in realtà, lo sbarco delle forze britanniche, americane e canadesi (la celebre “Operazione Husky” diretta dai generali Montgomery e Patton) avvenne più a est (tra Licata e Siracusa ), il 9-10 luglio 1943, per cui la zona di Capo Granitola fu interessata solo da un’intensa “frequentazione” aeronavale. L’unico eclatante episodio di guerra “di terra” che si ricorda ebbe come teatro il baglio Campana in località San Nicola (qualche chilometro a nord di Torretta); i tedeschi lo avevano requisito ed adibito a polveriera: una volta in ritirata, in ossequio al copione tattico della “terra bruciata”, lo fecero brillare. L’esplosione fu così potente da far tremare le case del borgo di Torretta. G. & M. Serra 82 CAPOGRANITOLA.IT e-book "Timpuneddu" presso la spiaggia del faro di Capo Granitola Quanto alla guerra aerea, qualche anziano ancora ricorda la picchiata di uno spitfire della Royal Air Force sulla batteria contraerea da 88 millimetri posta a presidio del faro: tre soldati tedeschi restarono uccisi, mentre i tre italiani presenti nel distaccamento miracolosamente scamparono all’incursione. Pare fossero settentrionali ed un dato assai curioso lo proverebbe: la presenza botanicamente assai insolita - intorno al bunker della spiaggia del faro di un gruppo di pioppi bianchi, tipici di zone interne e montagnose; aggrappati alla sabbia finissima e a parziale riparo dalla salsedine dietro le dolci rotondità della casamatta (“tiumpuneddu”), essi sono ancora lì e quando soffia lo scirocco pare che il loro fruscio bisbigli la eco delle voci di chi in quel posto attendeva la fine della guerra tra struggenti ricordi legati al tempo di pace… magari di un incontro amoroso tra i pioppeti padano-veneti. Il campo di aviazione di Castelvetrano durante l'ultima guerra mondiale G. & M. Serra 83 CAPOGRANITOLA.IT e-book Foto aerea del campo di aviazione di Castelvetrano nel gennaio 1942 Se la dovette cavare anche l’equipaggio del trimotore bombardiere-aerosilurante SavoiaMarchetti 84 della Regia Aeronautica, il quale, in dirittura di arrivo verso il campo di aviazione di Castelvetrano, esaurì il carburante e ammarò, forse per guasto meccanico, a 5,6 miglia e 153° est dal porticciolo di Torretta. Il relitto giace a 33 metri di profondità, ad un miglio e mezzo dalla linea di costa. E’ stato scoperto diversi anni fa da un appassionato sommozzatore dei Vigili del fuoco che villeggia a Torretta; il sito gli era stato indicato dai pescatori locali che lo avevano annotato sulle loro carte nautiche come escrescenza rocciosa dalla quale tenersi alla larga per la pesca a strascico. Ma evidentemente non si trattava di rocce. Inizialmente il relitto era quasi integro (a conferma dell’ipotesi dell’ammaraggio di fortuna) ma col tempo qualche strascicata deve averlo mutilato, strappandogli la parte caudale. Profili laterale e frontale del trimotore Savoia-Marchetti G. & M. Serra 84 CAPOGRANITOLA.IT e-book Particolare del trimotore Savoia-Marchetti ammarato a Capo Granitola (a sinistra). I comandi del trimotore recuperati dalle profondità marine (a destra). La caratteristica fusoliera a sezione rettangolare, i motori Alfa Romeo, le mitragliatrici Scotti, la gobba dorsale creata dalla torretta girevole a 360°, il vano bombe, un siluro, gli estintori di rame placcati in bianco, una bombola di ossigeno, un armadietto ancora chiuso, la stazione radio: tutto è ancora ben visibile sullo strano “podio” di conci di tufo su cui l’aereo ha concluso il suo volo. Per un’irreplicabile coincidenza la carcassa del velivolo è, infatti, adagiata sul sito di cala dell’antica tonnara di Tre Fontane. Il sistema di fissaggio delle pareti retie al fondale marino (il c.d. “chiummu”) era tradizionalmente realizzato con grappoli di pietre (“mazzari”) ovvero conci di tufo (“rusasi”) estratti da tagliatori in piccole cave di arenaria (pirreredde) site in prossimità dell’impianto di terra; mazzari e rusasi, una volta conclusa la stagione di pesca, erano abbandonate nei fondali, sia perché, avendo assorbito acqua, il loro peso si era notevolmente accresciuto, sia perché l’ampia disponibilità di altra pietra non ne rendeva necessario il parsimonioso riutilizzo. Ma le coincidenze non finiscono qui: da uno scambio di mail su altro soggetto con il professor Gianfranco Purpura, è casualmente emerso un particolare a dir poco sorprendente. Per anni il docente, nostro prezioso collaboratore, ha aiutato un anziano condomino, il professor Licari, a compilare il modello 740; un giorno, raccontando di aver riscontrato parti di un aereo caduto proprio nella zona di Granitola, Purpura è rimasto stupito nell’apprendere che proprio quel vecchietto era stato il pilota dello sfortunato trimotore della regia aeronautica di ritorno dal Nord Africa, dove aveva imbarcato gerarchi fascisti. L’esibizione del libretto di volo confermava inconfutabilmente il sito dell’ammaraggio. Il Savoia-Marchetti non fu l’unico aereo a precipitare in zona; gli anziani ne ricordano almeno altri due: un cargo ammarato nelle acque prospicienti Quarara, tra Torretta e Mazara, ed un non meglio precisato velivolo piaggiatosi nella zona di Kartibubbo e distrutto dalle onde in due, tre anni. Del cargo si sa che trasportava, tra le altre cose, biciclette: lo hanno scoperto ancora una volta i pescatori che con meraviglia ne hanno “catturata” qualcuna nelle loro reti da strascico. La guerra frequentò anche il mare di Capo Granitola, il quale fu minato per ostruire il transito della flotta Alleata. Vittima ne fu l’HMS Tetrarch, sommergibile britannico della Classe T, varato nel 1939 e operante in Mediterraneo nella base di Malta. Il Tetrarch era salpato il 26 ottobre 1941 da La Valletta per far ritorno in Gran Bretagna via Gibilterra: affondò il giorno dopo in seguito alla collisione con una mina galleggiante al largo di Capo Granitola. E’ probabile che il suo relitto G. & M. Serra 85 CAPOGRANITOLA.IT e-book giaccia a 52 metri di profondità nel c.d. “mari di mezzu”, a 3,5 miglia e 173° est dal porticciolo di Torretta. In quella zona di mare esiste un punto, che i pescatori chiamano “ai carrelli” (termine che si riferirebbe alla ipotetica presenza di chiatte affondate) in cui l’ecoscandaglio rileva una strana discontinuità: non si tratta di una roccia ma forse della carcassa della nave abissale, oramai diventata una grande nassa d’acciaio per le aragoste. Il sommergibile HMS Tetrarch affondato al largo di Capo Granitola (Foto: Royal Navy History) Nel 1945, quando la guerra volgeva oramai al termine, una bettolina (rimorchio da carico) lunga almeno 30 metri, che per conto del genio militare alleato trasportava travi in legno di tutte le dimensioni e casse di chiodi, forse relative ad un ponte prefabbricato, si arenò proprio sulla spiaggetta adiacente il porticciolo di Torretta: lo “scalone” (cfr. foto in basso) da dove oggi i bambini fanno i tuffi rimane a perenne ricordo di quell’arenamento… Per due mesi i torrettesi furono assoldati per trasbordare, per conto del Console americano stabilito a Castelvetrano, il legname e depositarlo nel terreno del signor Marconi, dove sarebbe stato sorvegliato da soldati delle truppe alleate. La bettolina rimase arenata per almeno due anni durante i quali degli enormi topi bianchi (forse africani) dal muso allungato si potevano vedere scendere e salire dalle cime di ormeggio. Fu rimessa in mare solo dopo che l’acqua delle stive fu aspirata così che potenti rimorchiatori potessero trainarla via da quell’infausto approdo. Lo "scalone" rimasto a perenne memoria dell'arenamento della bettolina presso la spiaggetta del borgo G. & M. Serra 86 CAPOGRANITOLA.IT e-book 5. Terra di approdi 5.2 Lo sbarco degli Arabi L ambita -per fortuna- dalla seconda guerra mondiale, Capo Granitola può però vantare un ruolo da protagonista rispetto ad un altrettanto cruciale ed imponente sbarco militare. Uno sbarco avvenuto nell’evo antico. Proprio da questi rocciosi lidi, al principiare del secondo quarto del secolo IX del Signore, ebbe inizio la conquista araba della Sicilia, episodio inaugurale di una dominazione che sarebbe durata circa tre secoli (fino al 1060) e che avrebbe lasciato segni, materiali e culturali, ancora oggi impressi nell’isola e nelle sue genti. Il 17 giugno dell’827, doppiata Punta Granitola, dal mare avresti potuto vedere un’immensa nube nera avvolgere la rocciosa costa di Quaràra e il fumo farsi più denso verso il promontorio del Saurello. Alcune fra le possibili cale dello sbarco arabo a Capo Granitola G. & M. Serra 87 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il lungomare roccioso di Quarara Avvicinandoti, l’odore di legna arsa e di pece bruciata si sarebbe fatto sempre più forte, insopportabile: gli occhi avrebbero iniziato a lacrimare, avresti respirato con difficoltà sempre maggiore, avresti tossito, avresti bagnato un panno e lo avresti usato come filtro per i tuoi polmoni. E quando ti saresti fermato, allora, stupito, avresti visto il falò di centinaia di vascelli all’ancora, dai ponti le fiamme levarsi alte e avvolgere alberi e antenne, e le ampie vele in cui lo Scirocco aveva soffiato fino a qualche ora prima. Avresti potuto immaginare -sbagliandoti però- un novello Archimede bizantino dalla costa manovrare con perizia specchi ustori. Ma non era stato l’esercito bizantino a ridurre quelle navi in una cenere che il mare subito diluiva nelle sue acque attraverso le correnti. L’ordine di dare alle fiamme il naviglio arabo -paradossale a raccontarsi!- era partito stando al racconto del Fazello - dal generale arabo Al-Haedelkum, il secondo del comandante supremo della stessa flotta, tale Sinàn Ibn al-Furàt, teologo di Qairawàn. I loro uomini, un’armata di 10.000 cavalieri e 700 fanti –per lo più mercenari assoldati in Arabia, nella Berberia (Algeria), nel Sudan e in Andalusia- li puoi immaginare appena sbarcati, lì in quella che oggi –quasi inconsapevolmente- si chiama “cala dei turchi” o “approdo dei saraceni”, li puoi immaginare lì, privati della speranza di fare ritorno nei lidi di partenza, quale che fosse stato l’esito della battaglia contro i bizantini. Li puoi immaginare incolleriti verso il loro incendiario condottiero, ma soprattutto li devi immaginare mentre, di fronte all’evidenza che non ci sarebbe stato alcuno scafo ad attenderli, realizzavano l’idea che oramai il loro destino era stato scritto lì, e che si sarebbero dovuti battere per vincere, per fare di quella terra la loro terra, la terra dei loro figli, visto che nella terra dei padri non ci sarebbe più stato modo di tornare. Forti di questa motivazione, ben più incisiva della promessa di denaro, le truppe del generale al-Furàt sbaragliarono i reparti posti a guardia della costa e marciarono verso nord-ovest su Mazara del Vallo, sfondarono le difese bizantine e la città fu subito presa. G. & M. Serra 88 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il Gorgo Medio, probabile teatro dello scontro fra Arabi e Bizantini Il generale bizantino Balath riorganizzò le truppe e lanciò una massiccia controffensiva: un epico scontro campale avvenne tra arabi e bizantini, a quasi un mese dallo sbarco dei primi, il 15 luglio dell’827. I due schieramenti pugnarono –racconta l’Amari- su un pianoro acquitrinoso a breve distanza dal mare: e il pensiero corre dritto al Lago Preola e ai tre Gorgi Tondi (laghetti del Cantarro), stagni palustri che si aprono sul tratto costiero a sud di Mazara. Balath fu sconfitto e probabilmente anche ucciso in duello: la memoria del suo nome sarebbe stata onorata dai vincitori che posero all’attuale Capo Granitola il nome di “Ras-el-Belat”. E’ anche possibile che Ras-el-Belat non significhi “Promontorio/Capo/Punta di Balath” ma assai più semplicemente “Promontorio pianeggiante e roccioso”; “Belat” potrebbe, infatti, derivare dal nome comune “Balatah” (da cui anche il siciliano “balata”) che significa sia spianata/pianoro che pietra/masso/roccia. Storia (il nome proprio “Balath”) o geografia (il nome comune “Balatah”), gli arabi avrebbero per quasi trecento anni ricordato che da quel tratto costiero aveva avuto inizio la loro colonizzazione siciliana. G. & M. Serra 89 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il lago Preola, probabile teatro dello scontro fra Arabi e Bizantini Narrano i vecchi del posto che quando si aprì il cantiere per la costruzione degli stabilimenti della tonnara Amodeo - intorno al 1945 - dagli scavi emersero molte ossa umane. Pare che la stessa cosa si sia ripetuta qualche anno fa durante i lavori di riqualificazione della vecchia tonnara e precisamente in occasione dello scavo della piscina olimpionica… ma sono solo voci ed è suggestivo stabilire un cortocircuito mentale tra quelle ossa e le vittime bizantine dello sbarco arabo del 17 giugno 827. Di più certa connessione con quell’evento militare è invece quanto emerso, nel gennaio del 1878, da uno scavo effettuato nel feudo Guardiola, in Contrada “Chiusa del Pellegrino”, a circa un chilometro da Campobello di Mazara. Una squadra di operai stava ponendo dei segnali sul tracciato della ferrovia che avrebbe rammagliato le province di Trapani e Palermo, quando dalla terra emerse un vaso di terracotta ricolmo di manufatti tutti in oro: una coppia di orecchini a cerchio, tre collane, un diadema, una borsetta e circa cinquecento monete in cui è rappresentata la serie ininterrotta di tutti gli imperatori bizantini dal principio (Tiberio V Absimaro, 698-705) quasi fino alla fine del secolo VIII (Costantino V, 741-775). Quel tesoro –oggi custodito al Museo Nazionale di Palermopotrebbe essere stato nascosto nei giorni immediatamente successivi allo sbarco del 17 giugno 827, quando da Granitola giunse ai signori bizantini dell’entroterra campobellese la notizia che un’orda di infedeli si apprestava a razziare il territorio. E te la immagini la moglie del ricco signore bizantino spogliarsi dei suoi gioielli per riporli nell’anfora, dare un ultimo commosso e preoccupato saluto alla croce in lamina d’oro pendente dal fermaglio di una delle tre collane, a quella croce in cui è incisa una Madonna in piedi con le braccia e le mani aperte e sormontata da una chiara iscrizione: “hapiamapia” (Santa Maria). E immagini pure le suppliche che quella donna rivolgeva alla sua “hapiamapia”, pregandola di rigettare in mare l’orda di infedeli che da lì a poco, dopo la battaglia dei Gorghi Tondi del 15 luglio 827, avrebbe attraversato il territorio di Campobello e marciato anche verso nord-est, alla volta di Selinunte, i superstiti della cui resistenza sarebbero stati G. & M. Serra 90 CAPOGRANITOLA.IT e-book bolliti - secondo il Fazello - in caldaie di rame, forse su ordine dello spietato al-Haedelkum, affinché le altre città, terrorizzate, capitolassero senza tentare di difendersi. E poi immagini, suo marito, con qualche fedelissimo servo, uscire di casa, in piena notte, con quell’anfora ben avvolta in una qualche coperta, dirigersi verso l’aperta campagna, scegliere un punto nel terreno, scavare una buca e riporvi quel piccolo tesoro con la flebile speranza di tornare un giorno per dissotterrarlo. E riesci ad immaginarti anche la splendida villa rustica dei signori bizantini, i cui resti sarebbero stati identificati, una trentina d’anni fa, in contrada Corsale, a duecento metri dall’abitato di Campobello: un grande fabbricato con cortile interno (probabilmente porticato), scuderie, cisterna granaria, vasca per la raccolta dell’acqua pluvia, sottorraneo, stanze e vani che dovevano essere finemente addobbati… Il Gorgo Basso, probabile teatro dello scontro fra Arabi e Bizantini Ma perché quello sbarco arabo a Capo Granitola/Ras-el-Belat? La spiegazione storica ufficiale – e più risaputa- è quella che - senza scomodare sentimenti e passioni umane - sottolinea per l’ennesima volta un incontestabile dato geo-politico: la posizione strategica della Sicilia al centro del Mediterraneo, testa di ponte per l’Europa continentale. Ma c’è un’altra storia, meno conosciuta, che vale la pena raccontare perché riempie quello sbarco del 17 giugno 827 di nuovi significati, facendoci conoscere un personaggio -un eroe romantico a tutto tondo- fin qui rimasto nell’anonimato: Eufemio da Messina. Costui fu un autentico patriota siciliano, un Salvatore Giuliano ante litteram. Colto e ricchissimo esponente di una blasonata e decadente élite greco-bizantina autoctona, Eufemio fu nominato ammiraglio della flotta siciliana dal governatore bizantino Costantino Suda. Tanti e tali furono i suoi meriti e tale il suo carisma da offuscare, agli occhi dei siciliani, l’immagine del governatorato e della stessa Bisanzio, lontana capitale dell’Impero Romano d’Oriente. Proprio da lì partì l’ordine di costruire ad arte false accuse per screditare il valoroso ammiraglio e spianare la strada ad una sua rimozione dall’incarico. Al fine di demolire la sua pubblica immagine, le bigotte autorità bizantine strumentalizzarono l’amore sincero di Eufemio per una novizia che da tanto tempo aveva turbato il suo cuore; tale incontenibile sentimento aveva portato il valoroso amante al rapimento della sua diletta, presa subito in moglie a coronamento di un sogno per tanto tempo bramato. L’imperatore e la sua corte condannarono gravemente quella “fuitìna” e ostracizzarono Eufemio. L’invidia ed il timore di essere eclissati da questo signore indigeno li aveva portati a tanto. Ma Eufemio godeva di estesa e sincera simpatia presso il popolo siciliano: in lui vedevano la possibilità di un riscatto da un destino storico avverso, fatto di eserciti stranieri che mettevano piede sull’isola come liberatori e che, subito dopo, indossavano le vesti di oppressori. I G. & M. Serra 91 CAPOGRANITOLA.IT e-book bizantini erano invisi alle popolazioni locali, in ragione della loro politica fiscale vessatoria: Eufemio cavalcò quest’onda, questo risentimento popolare, questo conato indipendentista. Egli radunò i suoi fedelissimi, organizzò un esercito e sbarcò a Siracusa: sbaragliò le milizie di Costantino e le incalzò fino a Catania. Fu allora acclamato imperatore di Sicilia ma il suo regno fu effimero. Uno dei suoi ministri, tale Balath, già macchinava un vile tradimento: radunò dei mercenari e, con la simpatia di Bisanzio, mosse all’improvviso contro le truppe di Eufemio, il quale fu costretto a riparare con la sua famiglia nel Nord Africa. Ed è lì, proprio lì, che ha inizio, in perfetta continuità con l’antefatto fin qui narrato, l’organizzazione dello sbarco a Capo Granitola/Ras-el-Belat. Il mai sopito desiderio di emancipare la Sicilia dai bizantini, portò Eufemio al cospetto degli emiri arabi, cui chiese una flotta e oltre diecimila uomini per riprendersi la Sicilia; in cambio, promise lauti compensi che sarebbero stati erogati a vittoria avvenuta. Eufemio, accecato dalla passione libertaria, peccò di ingenuità, commettendo un grave errore di calcolo: sarebbero stati di parola quei capi musulmani che più volte, dal 652, avevano tentato di insinuarsi in Sicilia? Nel 669 avevano messo a ferro e fuoco di Siracusa, nel 700 avevano espugnato Pantelleria, nel 740 le loro truppe avevano quasi strappato l’isola ai bizantini, quando furono improvvisamente richiamate in Africa per sedare l’ennesima rivolta berbera. Ebbene, Eufemio fu ingannato: la sua strategica conoscenza delle difese costiere bizantine e degli approdi meno protetti fu sfruttata dagli emiri per aprirsi un varco nell’isola. Il resto della storia è già stato raccontato: la flotta di al-Furàt che veleggia sospinta dallo Scirocco verso Capo Granitola, lo sbarco di cavalieri e fanti presso la “cala dei turchi” il 17 giugno 827, l’incendio delle navi arabe da parte del cinico Al-Haedelkum, la quasi immediata presa di Mazara, lo scontro con l’esercito bizantino di Balath -il traditore di Eufemio- sul pianoro dei Gorghi Tondi, la marcia su Selinunte attraverso la razziata campagna di Campobello, le fosse scavate dai bizantini per seppellire i loro morti e per occultare gli ori con le effigie dei loro imperatori e della loro “hapiamapia”. Alla fine di questa storia, la tradizione popolare, che molto semplifica, avrebbe ricordato Eufemio da Messina come il bizantino che aveva tradito i siciliani vendendo la loro isola agli arabi infedeli e non come colui che in tutti i modi aveva tentato di restituire loro la libertà e la dignità di un popolo. Antica moschea a Mazara del Vallo Sotto gli arabi, Mazara fu eletta capitale dell’omonimo Vallo, la più estesa delle tre circoscrizioni amministrative in cui fu ripartito il territorio (le altre due erano il Val Demone e il Val di Noto). Quegli arabi infedeli che, sbarcando a Ras-el-Belat, si erano macchiati dei più atroci misfatti, contribuirono all’elevazione socio-economica della zona: l’agricoltura beneficiò dell’introduzione di nuove varietà (come gli agrumi) e dell’ingegno degli ingegneri idraulici arabi, i quali, con un sistema di gebbie e canali, portarono l’acqua laddove era mai arrivata prima. A nordovest Campobello gli arabi costruirono un vasto caseggiato –ancora oggi esistente anche se rimaneggiato nei secoli- il cui nome, “Birribayda” (letteralmente “casa bianca”) avrebbe, con G. & M. Serra 92 CAPOGRANITOLA.IT e-book l’avvicendamento normanno, dato il nome alla locale baronìa. Dell’antichità del casale Birribayda i campobellesi sono ben consapevoli, al punto che la tradizione popolare locale la vuole “la prima casa” di Campobello. Mazara - per gli arabi Makkarà (lo rocciosa) - divenne un fiorente centro portuale, commerciale, produttivo e culturale. Sotto il governo di Ibn Mankut, fu sede di un importante centro di studi islamici per l’insegnamento della letteratura, della poesia, del diritto e naturalmente della religione. Il "feu" di Torretta Perché escludere che, durante la dominazione araba, Makkarà irradiò il territorio di Ras-el-Belat col faro del suo progresso. Perché non ipotizzare che, in epoca araba, Ras-el-Belat abbia ospitato, magari in continuità con un precedente impianto, una tonnara retta da una consorteria di pescatori siculo-arabi? Del resto, non è forse lo storico arabo Idrisi a raccontare di una tonnara situata in una certa “costa dei gigli” assimilabile, per ragioni botaniche, al litorale sabbioso che da Punta Granitola prosegue fino a Marinella di Selinunte. Un’ ipotesi fascinosa che arricchisce di storia un luogo che già ne custodisce tanta e ben più certa; ipotesi che però si scontra con una determinante geografica difficilmente confutabile: l’infausta esposizione della zona di Capo Granitola, un andito facilmente vulnerabile sia da terra (un’immensa pianura stepposa, “u feu”, si estende alle sue spalle) che da mare (i lidi sabbiosi a est dell’attuale faro e le calette rocciose a ovest dello stesso si offrono comodamente all’approdo). G. & M. Serra 93 CAPOGRANITOLA.IT e-book 5. Terra di approdi 5.3 Lo sbarco cartaginese E poi, quel territorio, già prima dello stesso sbarco arabo dell’827, aveva avuto esperienza di eventi bellici capaci di sconvolgerne ogni attività, ogni tipo di organizzazione socio-urbana. Per rendersene conto basta spostarsi a circa nove chilometri da Granitola, percorrendo la strada provinciale per Campobello, e raggiungere contrada Latomie (termine greco che significa “cave”), nell’ex feudo del barone Cusa, una zona chiamata dagli arabi “Ramuxara”. Lì, c’è la scena pietrificata di un cantiere di 2500 anni fa, un cantiere in cui, dalla metà del VI secolo a.C. alla fine del V, si estraevano i cilindrici “rocchi” calcarenitici per la costruzione dei colossali templi G, C ed F della colonia greco-siceliota di Selinunte. Ve ne sono alcuni pronti per essere estratti, circondati da un profondo canale di frantumazione; altri michelangiolescamente ancora dentro la madre-roccia: appena un circolo, scavato sulla linea tracciata da un rudimentale compasso di corda, te li indica. Infine, ve ne sono alcuni - come il “rullo della vecchia” alle spalle del baglio vinicolo Hopps - appena estratti e posizionati all’inizio di quella “via delle pietre”, un tragitto ondulato, di circa 10 km, passante anche in vicinanza di una palude (le “Acque lorde”), che il viaggiatore Jean Houel ancora alla fine del Settecento poteva percorrere e disegnare. Cos’è accaduto qui? Perché improvvisamente un giorno del 409 a.C. questo cantiere fu abbandonato dalle centinaia di uomini, tra tagliatori di pietra, schiavi addetti al trasporto e guardie, che vi lavoravano? Ecco che il territorio di Capo Granitola incrocia la storia antica delle rivalità commerciali esistenti tra le città-stato della Sicilia antica. Fondata tra il 628 (Tucidide) ed il 650 (Diodoro Siculo) a.C. dai coloni provenienti da Megara Iblea (nei pressi di Siracusa) e dalla madrepatria greca di Megara Nisea, Selinunte avvertì, già all’inizio del IV secolo a.C., l’insufficienza del territorio compreso entro il quadrilatero irregolare delle odierne Mazara-Sciacca-Salemi-Poggioreale: ardì, pertanto, aprirsi la strada verso settentrione, in direzione della vicina Segesta, città elimo-punica antichissima, fondata - secondo Virgilio - dagli esuli di Troia (XII secolo a.C.). Segesta era fin lì stata un importante partner commerciale per Selinunte ed addirittura un’alleata nella guerra divampata nel V secolo a.C. tra greci-sicelioti e cartaginesi. Adesso Segesta diventava una città nemica: l’obiettivo selinuntino doveva probabilmente essere quello di ampliare la rete dei commerci, fondando un emporio sul Tirreno (nell’attuale Golfo di Castellammare). Le implicazioni geopolitiche di un tale progetto erano evidenti: prendere Segesta significava separare Mozia ed Erice da Panormo e Solunto ed infrangere, in tale maniera, la continuità territoriale del dominio cartaginese in Sicilia. Ai conati espansionistici della tirannica Selinunte, Segesta rispose con una politica estera di alleanze: dapprima, nel 416 a.C., con l’Atene e, qualche anno dopo, con Cartagine. Guidata da Annibale, la poderosa armata cartaginese sbarcò a Lilibeo nel 409 a.C. e da lì, congiungendosi con le milizie segestane, mosse verso Selinunte. Con una tempestiva manovra prese la fortezza selinuntina posta a presidio dell’emporio alla foce del fiume Mazaro; poi proseguì verso est. Ed è in quel preciso momento che le Latomie furono abbandonate in tutta fretta dalle centinaia di persone che vi lavoravano: un violentissimo scontro campale si profilava all’orizzonte, su un pianoro che a tal punto fu intriso di sangue che i romani lo avrebbero chiamato “campus belli” (campo di guerra), da cui Campobello. Quella dello scontro non doveva essere una zona del tutto spopolata: in contrada Celso (l’Helcetium romana?) aveva presumibilmente luogo il borgo rurale in cui dimoravano i latomòi, i cavatori delle Latomie. G. & M. Serra 94 CAPOGRANITOLA.IT e-book Vinta la battaglia delle Latomie (o, se si preferisce, di Campobello), Annibale marciò su Selinunte e, dopo nove giorni d’assedio, la città capitolò. Tra saccheggi e devastazioni fu un massacro in cui persero la vita 16.000 persone. "Rocco" cilindrico e relativo canale di frantumazione Sulla "via delle pietre" G. & M. Serra 95 CAPOGRANITOLA.IT e-book Le rovine di Selinunte Le rovine di Selinunte G. & M. Serra 96 CAPOGRANITOLA.IT e-book Selinunte passò allora sotto il dominio cartaginese ma non fu più restituita al suo pristino splendore: i nuovi padroni si limitarono a fortificare l’acropoli abbandonando il resto della città all’oblio. Poi, quando la nuova linea di faglia geopolitica del Mediterraneo si aprì tra Cartagine e Roma, Selinunte fu deliberatamente distrutta dagli stessi cartaginesi (250 a.C.), i quali ne deportarono la popolazione a Lilibeo, convinti che la difesa della Sicilia dall’assalto romano sarebbe stata possibile concentrando le forze in un unico punto. La storia successiva di Selinunte fu una storia di desolazione: i romani la abbandonarono alla rovina; un timido ripopolamento, sempre nella zona dell’acropoli, si ebbe coi bizantini ma poi, quando gli arabi sbarcarono a Granitola e bollirono quei pochi bizantini, al sito non restò che il desolante toponimo –tramandatoci da Idrisi- di “Rahl-al-Asnam”, cioè “Casale degli idoli” (o “dei pilastri”). Nel XVI secolo, Selinunte fu integrata nel sistema di torri costiere siciliane: vi fu costruita la torre antisaracena di Polluce (corrispondente con la Torre di Tre Fontane), sotto la quale operò l’omonima tonnarella. Pirrera presso Capo Granitola Nei secoli successivi alla distruzione di Selinunte, si continuò ad estrarre pietre nella zona: le mutate esigenze costruttivo-architettoniche non rendevano più necessario l’utilizzo dei possenti blocchi di roccia calcarenetica delle Latomie e aprivano la strada all’impiego di mattoncini di tufo arenario, più friabile ma anche di più facile lavorazione. Come già accennato, la presenza di almeno due piccole cave (“pirreredde”) è evidente proprio sulla costa di Torretta: una sotto la tonnara Amodeo e l’altra, ben più antica, sotto la Torre Saurello. Ma le “Pirrere” per antonomasia si trovano nell’entroterra, procedendo verso Nord, verso il vecchio scalo ferroviario di San Nicola. Lì per decenni, grossomodo dal boom edilizio degli anni Sessanta del secolo scorso, si è cavato il tufo con tecniche industriali: circondati da collinette di detriti, vasti canyon profondi decine di metri, larghi e lunghi centinaia, interrompono la monotonia del paesaggio stepposo del “feu”, dominato dalla palma nana e dalle vipere. In una di quella “Pirrere”, fino a qualche tempo fa, in estate, i ragazzi di Torretta, si incontravano al tramonto per giocare a calcio animando una scena che avrebbe potuto dirsi tratta da un film di Gabriele Salvatores, “Marrakech express” o “Mediterraneo”. G. & M. Serra 97 CAPOGRANITOLA.IT e-book 6. Infidi fondali “...digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito” (A. Baricco, Oceano mare) "... sulle coste deserte e pericolose il popolo accendeva fuochi che attiravano come falene le navi fiduciose... verso gli scogli. Con la bassa marea questi pirati della costa riuscivano a procurarsi le proprie personali miniere arenate e rapidamente depredate" (da C. Paolini, I guardiani dei fari, 2007, p. 15) T ra rocchi calcarenitici e tufi arenari, di roccia, da queste parti, se ne è estratta davvero tanta. E ne deve essere transitata una discreta quantità anche di fronte a Capo Granitola, stipata sui vascelli - naves lapidariae - facenti spola tra i porti dell'Asia Minore (come Afrodisia) e le fastose città che la Roma imperiale andava edificando nel Mediterraneo occidentale. Le insidie del mare di Capo Granitola: forti correnti e affioramenti rocciosi G. & M. Serra 98 CAPOGRANITOLA.IT e-book Le infide secche del litorale del Puzziteddu Il pozzo (a sinistra del rudere) dal quale potrebbe essere derivato il toponimo “Puzziteddu” Il carico di una navis lapidaria giace a bassa profondità, a circa duecento metri di distanza dalla battigia, grossomodo di fronte alla stradina sterrata che delimita a est il villaggio turistico di Kartibubbo. Il sito è oggi noto a pescatori e diportisti come “le colonne”. Conoscendo la zona, non è difficile ricostruire le ipotetiche circostanze di quel naufragio. G. & M. Serra 99 CAPOGRANITOLA.IT e-book Sito di arenamento della navis lapidaria (foto acquisita da Google Earth) Riferimenti da terra per l’esatta localizzazione del sito di arenamento della navis lapidaria G. & M. Serra 100 CAPOGRANITOLA.IT e-book Dovremmo essere tra il 180 ed il 300 d.C.[1], tra giugno e settembre, perché - parafrasando l’Esiodo de “Le opere e i giorni” - solo tra il solstizio d’estate e l’equinozio d’autunno, in età antica, il Mediterraneo si offriva sicuro alle chiglie. Una nave romana lunga poco più di trenta metri, larga otto (alla linea di galleggiamento), dal peso complessivo di almeno tre tonnellate e mezzo, ha appena doppiato Capo Granitola, un gomito roccioso che fa da confine tra due tratti di costa: la spiaggia del faro, a ovest, e il chilometrico arenile di Tre Fontane, a est. Eccola proprio al centro del Puzziteddu[2], una zona di mare insidiosa, in cui le correnti provenienti dalle due opposte direzioni si scontrano originando vortici capaci di inghiottire i bagnanti e mettere in difficoltà le imbarcazioni (oggi è uno spot per surfisti di richiamo internazionale). La nave trasporta almeno centocinquanta tonnellate di marmo proconnesio venato d’azzurro (il più antico conosciuto, formatosi nel Paleocene inferiore), estratto nella cava di Saraylar, nella lontana Isola del Mar di Marmara, tra gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli[3]. Rilievo del carico della navis lapidaria e ipotesi su forma dello scafo e posizione di arenamento (adattamento da immagine Archeogate) [1] La datazione del relitto, e quindi del naufragio, è stata resa possibile dal fortunato rinvenimento, tra i blocchi di marmo, di un collo di anfora vinaria di fattura egea (di un tipo non comune: Kapitän II) probabilmente adibita per usi di cambusa. Letto in combinato disposto con analoghi carichi naufragati nel III secolo d.C. lungo le coste siciliane (Capo Taormina, Isola delle Correnti, Marzamemi, Camarina) il frammento potrebbe anche aiutare a ricostruire una plausibile ipotesi sulla rotta seguita dalla nave. [2] Il tratto di mare avrebbe mutuato la denominazione “Puzziteddu” da un toponimo della dirimpettaia terraferma; in base alla preziosa testimonianza di un anziano torrettese (il signor Domenico Caleca), proprio di fronte al Puzziteddu esisteva un antico pozzo artesiano (“a la leva”) al quale la gente della zona attingeva acqua. Nel 1952-53, il pozzo sarebbe stato occluso ma il suo nome avrebbe continuato ad indicare la zona, specie quella di mare immediatamente limitrofa alla costa. [3] E’ durante il II secolo d.C. che il proconnesio si afferma nelle province occidentali dell’Impero Romano come tipologia di marmo bianco d’importazione per la decorazione architettonica. L’arco di Settimio Severo e le terme di Caracalla sono, a Roma, esempi emblematici di strutture decorate con marmo proconnesio. G. & M. Serra 101 CAPOGRANITOLA.IT e-book Il carico è composto da cinquantanove blocchi disposti su otto file, per un volume totale di cinquantacinque metri cubi: tra i monoliti appena intagliati di forma parallelepipeda o trapezioidale vi sono anche tre podii destinati a sorreggere statue onorarie, forse evergeti; probabilmente vi sono anche dei capitelli, quelli tempo addietro recuperati dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Mazara ed ora esposti nell’acropoli di Selinunte forse in ragione di una semplicistica sovrapposizione dell’ipotesi sulla destinazione al dato della vicinanza geografica con l’antica colonia magno-greca. Il reperto- chiave per la datazione della navis lapidaria (foto Archeogate) Panoramica sui blocchi della navis lapidaria (foto Archeogate) L’equipaggio è composto da una decina di uomini. Li possiamo immaginare in affanno mentre manovrano le vele e i remi-timone per riguadagnare il largo: un vortice, in zona Puzziteddu, deve aver fatto perdere al comandante il governo della nave, che adesso i flutti di libeccio spingono verso la spiaggia del faro. E’ alla deriva: prosegue la sua corsa mentre il fondale si fa sempre più basso. D’un tratto si fa troppo basso per il pescaggio dello scafo: l’attrito di una secca sabbiosa ne arresta il convulso tragitto. Gli uomini, scaraventati in mare, riescono a trarsi in salvo perché l’acqua è alta poco meno di un metro. Il comandante impreca. Gli altri, ammutoliti, osservano dalla spiaggia i frangenti, lo schiaffo del mare. La nave e il suo carico sono oramai perduti… G. & M. Serra 102 CAPOGRANITOLA.IT e-book Podio in marmo proconnesio e monolite (foto Archeogate) Il carico di marmo è noto all’accademia degli archeologi dal 1977[4] ma è difficile pensare che sia sempre stato ignorato dal giorno del naufragio. 1500-1600 anni fa, il sito di arenamento si trovava, verosimilmente, in corrispondenza dell’allora linea di costa. Certo, lo scafo ligneo non deve aver resistito a lungo all’instancabile azione dei flutti, ma il suo pesante carico, di compattissimo marmo, è probabilmente rimasto lì, in quel limbo terri-marino in cui gli oggetti vengono di continuo coperti e scoperti dalle maree. Anfore di età antica rinvenute nei fondali di Capo Granitola [4] Gianfranco Purpura, “Un relitto con un carico di marmo a Capo Granitola (Mazara)”, Sicilia Archeologica, X (33), pp. 55-59, 1997. A.J. Parker, “Ancient shipwrecks of the Mediterranean and the Roman Provinces”, British Archeological Reports, DLXXX, Oxford, 1992. G. & M. Serra 103 CAPOGRANITOLA.IT e-book E forse, con quel “Granitolis”, l’umanista G. G. Adria, senza andare troppo per il sottile sulle tipologie di marmo, si riferiva al carico (che oggi, grazie ad analisi petrografiche, sappiamo non essere di granito) della navis lapidaria. Oppure - cosa che ci si può attendere da un umanista - il toponimo Capo Granitola (“Caput Granitolis”, con “Granitolis” nella sua accezione mineraria in senso lato, ad indicare più che altro le rocce tufacee dell’era quaternaria) è la traduzione di quella locuzione araba “Ras-el-Belat” (capo roccioso) il cui cruento ricordo doveva suonare ancora fastidioso. Il relitto di Kartibubbo è una specie di mausoleo sottomarino in cui ogni monolite commemora un naufragio, uno scafo ingoiato, “digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito”. Un tratto di mare navifago, capace di usare le sue indomabili correnti e i suoi bassi fondali come trappole mortali per i legni in transito. Già in epoca greca, intorno al V secolo a. C., una nave carica di zolfo sarebbe naufragata tra Kartibubbo ed il Puzziteddu; alcune parti della sua chiglia con chiodi di rame ed il carico di anfore frantumate sarebbero state individuate dal professor Gianfranco Purpura. In epoca romana, oltre alla navis lapidaria, qui conclusero il loro tragitto almeno due navi: una probabilmente durante la battaglia delle Egadi (249 a.C.), e l’altra, in età imperiale, nel II-III secolo d.C.. Storie tragiche raccontano i cocci d’anfora ed i pezzi di piombo (coi quali si equilibravano gli scafi ovvero le ancore) che di tanto in tanto il cestello di qualche raccoglitore di ricci riporta in superficie. fondale Barra di piombo di età antica rinvenuta a Capo Granitola (zona spiaggetta Stassi): il peso era probabilmente applicato con apposita chiodatura (i fori sono visibili) al fusto di legno dell’ancora al fine di consentirne l’abbattimento sul fondale Non meno periglioso è stato il mare in epoca moderna. Il naufragio più suggestivo resta indubbiamente quello del galeone spagnolo di un certo capitano Gomes, avvenuto in un’imprecisata data tra l’ultimo scorcio del XVI e l’inizio del XVII secolo. In un’epoca in cui la sensibilità pubblica per la conservazione dei beni storico-archeologici era ancora lungi dal formarsi, il comandante ispanico, probabilmente un reduce della disfatta subita dalla Envencible Armada nelle acque della Manica ad opera degli inglesi (estate del 1588), scorazzava per le acque del G. & M. Serra 104 CAPOGRANITOLA.IT e-book Mediterraneo, depredando le vestigia di città antiche per poi piazzarle nei mercati portuali d’Europa, ove non pochi estimatori erano disposti ad esborsare laute somme[5]. Gomes “frequentava” anche l’antica colonia greca di Selinunte, riscoperta nel 1551, tra dune di sabbia e fittissima vegetazione, dal frate domenicano Tommaso Fazello. A Selinunte Gomes giungeva direttamente dal mare, penetrando, con agili lance, sin dentro il fiume Modione, allora navigabile; i piccoli scafi ormeggiavano proprio dove anticamente sorgeva il porto commerciale della colonia megarese ed il loro equipaggio, con tutta calma, sotto il complice sguardo dei torrari di Polluce, prendeva ad insinuarsi nella macchia mediterranea. A est del Modione la rocca dell’acropoli con i resti di colossali templi ed edifici pubblici, a ovest il santuario della Malophoros (la Fecondità): una straordinaria quantità di manufatti - capitelli, colonne, podii, metope di fregi, statue - si offriva, come in un grande “discount delle antichità”, alle squadre di improvvisati archeologici. Il bastimento del capitano Gomes alla foce del Modione presso Selinunte (ricostruzione immaginaria) Foce del Modione presso Selinunte [5] La vulgata locale vuole che alcuni resti di colonne di templi selinuntini siano stati utilizzati per adornare edifici spagnoli. G. & M. Serra 105 CAPOGRANITOLA.IT e-book Ma le secche sabbiose di Capo Granitola non mancarono di attuare la loro nemesi contro l’irriverente impresa di Gomes: la sua nave, forse troppo appesantita dal carico di blocchi trafugati a Selinunte, dovette arenarsi mentre dal Modione procedeva verso Lilibeo, da dove avrebbe potuto lanciarsi per la Spagna. Le circostanze del naufragio furono verosimilmente analoghe a quelle immaginabili per la navis lapidaria romana: una violenta libecciata impedì al bastimento di allontanarsi dalla linea di costa quel tanto che le avrebbe consentito di veleggiare sicuro verso la sua destinazione intermedia. Compreso il rischio cui andava incontro ed intenzionato a salvare a tutti i costi almeno lo scafo, Gomes decise, dopo aver doppiato la torre di Tre Fontane, di alleggerire la nave e cominciò, pertanto, a liberarsi della preziosa “zavorra” che trasportava: le delicate metope del fregio di un tempio furono le prime ad essere gettate in mare; poco più a ovest fu la volta di pesanti capitelli in marmo bianco (ovviamente non intagliati nelle cave di Cusa ma d’importazione); quindi toccò ai cannoni e al corredo di munizioni: centinaia di palle di basalto. Di fronte all’attuale villaggio di Kartibubbo, Gomes procedette all’ultimo disperato tentativo per riprendere il largo e doppiare la punta rocciosa su cui sorge l’attuale faro: le ancore e le rispettive catene di ferro furono lasciate scivolare in mare. Ivan Aivazovski (1817-1900), Tempesta davanti a Nizza: la tela del pittore russo-armeno si presta a rappresentare il naufragio di Gomes Il repentino alleggerimento rese, tuttavia, più instabile la nave, che le mareggiate fecero arretrare, verso est. Poco oltre il sito della navis lapidaria, la chiglia della nave si incagliò inesorabilmente nelle secche sabbiose, si mise d’un fianco ed i frangenti presero a spezzare gli alberi e a distruggere lo scafo… Un sommozzatore del posto conosce palmo per palmo i fondali di Granitola e dintorni ed è in grado di tracciare sulla carta nautica l’ultimo tragitto della nave di Gomes. Lui è la fonte della storia "apocrifa" narrata ed il certificato di credibilità gli deriva dall’esperienza diretta e dalle numerose prove che può esibire. G. & M. Serra 106 CAPOGRANITOLA.IT e-book Egli ha collaborato con le competenti autorità, nel 1988, per il recupero di tre capitelli corinzi, due ionici e tre basi di colonne in marmo bianco (reperti che sono in parte esposti al Museo del Satiro di Mazara del Vallo) da lui ascritti al naufragio di Gomes piuttosto che ad un secondo relitto di navis lapidaria, come più autorevolmente vorrebbe il professor Patrizio Pensabene[6]; due anni prima aveva, inoltre, assistito l’archeologa Maria Luisa Famà, oggi direttrice del Museo Pepoli di Trapani, nel recupero di sei grossi cannoni ferrosi[7] ad una ventina di metri dal sito dei ricordati capitelli: la così esigua distanza tra le due tipologie di reperti irresistibilmente espone alla tentazione di stabilire una connessione logica col naufragio di Gomes! Capitelli e base di colonna in marmo bianco (foto Museo del Satiro di Mazara del Vallo) La nostra fonte conosce, inoltre, la posizione esatta in cui si troverebbero ulteriori capitelli e almeno altri due cannoni, centinaia di palle litiche, le catene e la polena che le correnti continuamente scoprono e ricoprono, gelose custodi del loro tragico mistero. Pare abbia recuperato autonomamente qualche pezzo di valore, come un elmo o un archibugio… e un giorno mi ha mostrato, in foto, alcuni pezzi di fasciame e alcune palle di basalto. Il diametro di queste ultime non sembrerebbe, tuttavia, coerente con un ipotetico uso, in età moderna, come palle di cannone; invero, maggiormente pertinente appare il loro impiego, in età romana, come proiettili di una speciale catapulta a torsione - onagro - applicata su navi da guerra. Palla di cannone (?) e resti di fasciame (attribuibili al bastimento del capitano Gomes?) [6] Patrizio Pensabene, “La diffusione del marmo lunense nelle province occidentali”, Acta apuana, II (2003), pag. 88; e “Sul commercio dei marmi in età imperiale: il contributo dei carichi naufragati di Capo Granitola (Mazara)”, Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di E. De Miro, Roma, pp. 533-541. [7] I pezzi d’artiglieria sono stati soggetti ad una inspiegabile diaspora museale: due, ben restaurati, sono ora esposti al Museo del Satiro di Mazara, due si trovano al Museo “Baglio Anselmi” di Marsala e due, infine, dovrebbero trovarsi nel parco archeologico di Selinunte. G. & M. Serra 107 CAPOGRANITOLA.IT e-book Gli si illuminano gli occhi quando ricorda quel giorno di tanti anni fa, in cui, durante una battuta di “pesca con le bombe”, la sabbia di Tre Fontane svelò a lui, che attraverso uno specchio guardava dalla superficie, una metopa raffigurante una quadriga, molto simile a quella che trasporta Helios e Selene esposta al museo palermitano “Antonio Salinas” e proveniente dal tempio “C” di Selinunte. Ricostruzione di un onagro per il lancio di proiettili sferici di pietra Metopa con quadriga del Tempio C di Selinunte (foto Museo A. Salinas di Palermo) G. & M. Serra 108 CAPOGRANITOLA.IT e-book Col naufragio di Gomes la spoliazione di Selinunte non si arrestò: soltanto nel 1779, re Ferdinando Il di Borbone, per decreto, vietò il prelievo delle pietre dalla città antica; ma i controlli restarono assai blandi e Selinunte continuò a subire saccheggi. Fino a qualche decina d’anni fa gente si è arricchita depredando i tesori della necropoli di Timpone Nero… Il professor Purpura, genius loci scientifico ed anch’egli appassionato frequentatore degli abissi, ritiene la storia del “naufragio strisciante” di Gomes “un collage tra un tentativo di spiegazione erudita e lo stupore per il rinvenimento di reperti eterogenei”. I pezzi d’artiglieria individuati potrebbero, essendo di ferro (e non di bronzo, lega tipica del XV-XVI secolo) appartenere secondo il professore - al corredo di 18 cannoni di un brigantino da guerra della marina britannica naufragato con i suoi 86 uomini (tutti tratti in salvo da un mercantile a seguito, il Kent) il 6 gennaio 1804 tra Tre Fontane e Granitola. Si tratterebbe della Raven[8] capitanata da Spelman Swaine (1768-1848), già distintosi per aver accompagnato, a bordo della Discovery, tra il 1790 ed il 1794, l’ammiraglio Vancouver nell’esplorazione della Columbia britannica. Purpura avrebbe localizzato i resti del relitto del Raven presso il Puzziteddu, dove si è imbattuto in una testa d'argano, dei frammenti di lamina di rame, utilizzata per rivestire gli scafi ed un contenitore cilindrico (rimasto in situ) a forma di colonna scanalata -di chiaro stile neoclassico- con tanto di sportellino e pieno di carbone pietrificato (forse una stufa o una cucina di bordo). I cannoni del capitano Gomes o del Raven? (Museo Baglio Anselmi di Marsala, in alto, e Museo del Satiro di Mazara del Vallo, in basso) Di altri naufragi apprendiamo attraverso gli archivi notarili; in ordine cronologico, ricordiamo: un vascello francese carico di mercanzie (25 ottobre 1658), la polacca francese di un certo capitano Cutillier, carica di bovini e pecore barbaresche (29 marzo 1770), il vascello di un certo capitano Giorgio Papastauro proveniente da Idra, isola di levante (22 aprile 1810). Poi vi è anche il bollettino di Tre Fontane: vascello olandese nel 1719, fregata olandese nel 1720, brigantino maltese e polacca francese nel 1805, vascello inglese nel 1809… Una nave si arenava e subito il suo capitano si rivolgeva ai torrari; testimone il notaio, li pagava affinché custodissero il carico in attesa del suo trasbordo in altra nave. E sempre il notaio era l’autorità designata per dare alle fiamme gli scafi arenati ed il legno vomitato dal mare. Queste circostanze spiegano perché proprio i notai custodissero la memoria dei naufragi. [8] Dall’archivio storico della Marina Britannica si apprende che il brigantino fu ribattezzato “Raven” nel 1800 a Plymouth, dopo essere stato strappato ai francesi (sotto i quali si chiamava Arethusa) nell’ottobre del 1799; era lungo 51 metri e la sua larghezza arrivava a 9 metri per un volume complessivo di circa 920 metri cubi. Sotto il comando di Swaine, il Raven trasportò dapprima truppe in Nord America (a Jersey) e fu poi impiegato nel Mediterraneo come corriere per dispacci tra Tangeri, Algeri, Tunisi, Tripoli e la Valletta; nel 1803 ebbe l’onore di guidare la flotta dell’ammiraglio Nelson attraverso le Bocche di Bonifacio. Quello di Granitola non fu l’unico naufragio per il capitano Swaine, il quale, nel febbraio del 1815, perse la nave Statira al largo di Cuba. G. & M. Serra 109 CAPOGRANITOLA.IT e-book Sulla memoria di tutti questi naufragi deve essere stato eretto il bianco faro (dai vecchi chiamato “a lanterna”) di Capo Granitola (1856-1862) e, almeno quattro secoli prima, Torre Saurello, l’antico faro funzionante ad olio. Ricordo un falò di Ferragosto di qualche anno fa: sulla bacchica spiaggia del faro incendiammo quel che rimaneva di uno scafo parzialmente insabbiato sulla riva. Su quel barcone, qualche mese prima, dei disperati partiti dalle coste dell’Africa avevano seguito, sospinti da un entrobordo a nafta, la stessa rotta seguita da al-Furàt nell’827. Anche loro in viaggio verso un sogno di conquista, anzi verso la conquista di un sogno… Arenile del faro: resti di un battello di fortuna utilizzato da migranti clandestini G. & M. Serra 110