Sono circa 500mila gli alunni con Bisogni Educativi Speciali

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Sono circa 500mila gli alunni con Bisogni Educativi Speciali
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S
di SARA DE CARLI
VITA SETTEMBRE 2013
ono le otto, o giù di lì.
Più di sette milioni
di ragazzi entrano in classe. inspira, espira.
l’entrata e l’uscita da scuola sono il respiro irriflesso della vita che pulsa, fuori da
smartphone e mp3. l’insegnante li scruta,
compiaciuto e sorpreso: una manciata di
settimane e i pulcini sembrano già grandi.
li scruta, sorride, e
ricaccia indietro
quella punta di affanno che lo prende
allo stomaco: sarà
in grado di accompagnare ciascuno
secondo le sue necessità, per metterlo
nelle condizioni di dare il massimo delle
sue potenzialità?
ogni insegnante sa per esperienza che
le classi sono abitate da alunni sempre più
diversi fra loro e per cui è sempre più necessario costruire percorsi individuali.
non si tratta di forme evolute e politically
correct del vecchio “quartiere degli asini”:
c’è marta con la sua dislessia e lorenzo
con la sindrome di asperger. c’è silvia,
che lo sanno tutti che si fa le canne già in
prima media e l’anno scorso è stata sospesa due giorni per bullismo. c’è nadir,
che è qui da sei anni ma con la grammatica
italiana
non ci siamo proprio e questa
chen, chissà come
si pronuncia, che è
arrivata questa estate dalla cina. e lucia,
dal panettiere dicevano che suo papà si è
perso tutto al gioco e sua mamma l’ha cacciato di casa, chissà lei come l’ha presa. e
christian, che in un anno intero avrà detto
sei parole e sta sempre da solo, come si
fa?
Sono circa 500mila
gli alunni con Bisogni
Educativi Speciali
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i numeri ufficiali parlano di 208mila
alunni con disabilità certificate, 350mila
alunni con dsa (disturbi specifici dell’apprendimento), 755mila alunni con cittadinanza non italiana (di cui una buona
metà nata in italia e poco più di 28mila al
primo ingresso nel sistema scolastico italiano), 700mila ragazzi a rischio di dispersione scolastica, 500mila alunni con Bes
(bisogni educativi speciali).
in pratica, andando a spanne, qualsiasi insegnante racconta che in una classe
di 20/25 alunni ce ne sono uno o due con
disabilità certificate, tre con dsa e almeno
cinque che rientrano benissimo nell’ultima definizione coniata dal miur, quei
“bisogni educativi speciali” che debuttano con l’anno scolastico che è appena iniziato, salutati dai prof più attenti come
lo strumento che (finalmente) sancisce
per tutti i colleghi l’obbligo di non chiu-
dere gli occhi davanti ai bisogni di attenzione dei ragazzi, liquidando le persone
con raffiche di brutti voti sui registri.
Parte da questo inappellabile ragionamento numerico il viaggio attraverso una
scuola che sta cambiando pelle, che ha
inteso la necessità vitale di affrontare il
cambiamento.
«i Bes sono un
passo in avanti
nella direzione di
una scuola inclusiva», dice dario ianes, professore di
pedagogia speciale e didattica speciale
all’Università di Bolzano. «È la scuola che
osserva i singoli ragazzi, ne legge i bisogni, li riconosce e di conseguenza mette
in campo tutti i facilitatori possibili e rimuove le barriere all’apprendimento per
tutti gli alunni, al di là delle etichette dia-
gnostiche. È un discorso di equità, che
consente davvero quella personalizzazione spesso rimasta sulla carta. dall’altra
parte dà maggior responsabilità agli insegnanti curricolari, senza deleghe al sostegno».
Quest’ultimo punto è talmente delicato che a giugno,
nelle riunioni di
programmazione
per il nuovo anno
scolastico, sui Bes
e sul collegato PaiPiano annuale per
l’inclusività molti consigli di classe hanno
alzato le barricate, temendo che questo
si rivelerà un cavallo di troia messo in
campo dal ministero per comprimere la
crescita numerica degli insegnanti di sostegno, dettata da quel +49% di alunni
disabili che la scuola italiana ha visto ne-
Dario Ianes: «Un passo
avanti verso una
scuola più inclusiva»
>
SETTEMBRE 2013 VITA
30
La Direttiva ministeriale
e la ragione dei BES
L’espressione Bisogni Educativi Speciali”
(Bes) è entrata nel vasto uso in Italia dopo l’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di
intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica“. La Direttiva stessa ne precisa succintamente il
significato: «L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni:
svantaggio sociale e culturale, disturbi
specifici di apprendimento e/o disturbi
evolutivi specifici, difficoltà derivanti
dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a
culture diverse».
VITA SETTEMBRE 2013
gli ultimi dieci anni. il ministro maria
chiara carrozza ha smentito e rassicurato, senza ascoltare chi dei Bes chiedeva
una sospensione, ma di fatto il miur è
stato costretto a emettere una nota che
parla del 2013/14 come di un anno «per
sperimentare e monitorare procedure,
metodologie e pratiche anche organizzative».
il fatto è che
questa direttiva
sui Bes potrebbe
davvero cambiare
l’impostazione
della scuola in
una direzione che non è più solo ormai
una questione di diritti e di integrazione
di chi ha qualche difficoltà in più, ma
che si inserisce nel trend della education
3.0, per cui l’educazione e il sapere del
futuro saranno un ecosistema in cui gli
apprendimenti si adattano al singolo
bambino e non – come è stato fino ad
oggi – in cui il singolo alunno deve sforzarsi di adattarsi alla scuola.
«sciogliamo i lacciuoli burocratici che
bloccavano i professori», spiega raffaele
ciambrone, dirigente dell’Ufficio per
alunni disabili del miur. «si esce dalla logica del “timbro”: davanti all’evidenza
pedagogica, il consiglio di classe potrà
avviare percorsi
personalizzati. Potrebbe trattarsi di
una
difficoltà,
non di un disturbo.
di un bisogno temporaneo. in ogni
caso il baricentro si sposta sul piano educativo e il processo di inclusione diventa
qualcosa che riguarda davvero tutta la comunità educante».
c’è infatti un’area sempre più vasta di
alunni per i quali il principio della personalizzazione dell’insegnamento, sancito
dalla legge 53/2003, indica la direttiva
Intercettare tutti
i bisogni, anche quelli
temporanei
>
BES, per saperne di più
Obiettivo: una scuola inclusiva
Il modello funziona così
di Sofia Cramerotti, Ricerca e Sviluppo – Centro Studi Erickson, Trento
L
a DIrEttIva mInIStErIaLE DEL 27 DIcEmBrE
2012 SuI BES ha certamente suscitato
reazioni contrastanti nel mondo della
scuola e tra coloro che si occupano di inclusione
scolastica. La scuola sente quindi fortemente la
necessità di ricevere indicazioni per essere in
grado di orientarsi e rispondere tempestivamente a questi bisogni, anche in riferimento alla
nota ministeriale del 27/6/2013 nella quale viene precisato che il prossimo anno scolastico
2013/2014 sarà dedicato proprio alla sperimentazione di tali indicazioni.
La cornice concettuale e metodologica di riferimento all’interno della quale suggerisco di
collocare il lavoro di individuazione degli alunni
con Bes è quella del modello bio-psico-sociale
IcF-cY (classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della salute – versione per bambini e adolescenti, Oms, 2007).
Si tratta di un modello di lettura delle difficoltà di «funzionamento educativo-apprenditivo» utilizzabile dagli insegnanti per cogliere in
tempo i vari Bisogni Educativi Speciali e attivare
tutte le risorse possibili secondo i principi della
«speciale normalità», cioè la normalità quotidiana delle relazioni e degli apprendimenti che avvengono nelle classi scolastiche, arricchita però
dalla specificità tecnica che le varie difficoltà richiedono.
IcF-cY si pone quindi come “linguaggio comune” tra professionalità diverse e come quadro teorico di riferimento per l’impostazione di
percorsi realmente funzionali ai Bisogni Educativi Speciali degli alunni in difficoltà. affinché
questo diventi reale, è necessario attivare collaborazioni a più largo raggio, coinvolgendo tutte
le figure che ricoprono un ruolo educativo per
l’alunno in difficoltà nell’ottica di una co-costruzione condivisa, naturalmente nel rispetto delle
prerogative professionali ed educative dei diversi “attori” coinvolti. un’osservazione in prospettiva IcF-cY diventa momento “conoscitivo”
dell’alunno, durante il quale vengono raccolte a
360 gradi le varie informazioni utili per la successiva impostazione di attività e interventi.
Leggendo la Direttiva e la circolare ministeriale con le indicazioni operative (n. 8 del 6 marzo 2013) emergono subito dei precisi concetti
chiave e delle parole «calde» che rimandano a
indicazioni di lavoro concrete, ad approcci metodologici e ad aspetti fondanti della didattica
inclusiva.
uno dei primi concetti esplicitati è quello di
estensione, ossia di un’attenzione che viene
estesa ai bisogni educativi speciali nella loro totalità, andando oltre la certificazione di disabilità, per abbracciare il campo dei disturbi specifici
dell’apprendimento ma anche lo svantaggio sociale e culturale e le difficoltà linguistiche per gli
alunni stranieri. L’ottica è quindi quella della presa in carico globale e inclusiva di tutti gli alunni
che implica innanzitutto, come abbiamo già
avuto modo di accennare, una capacità di individuazione corretta dei BES anche attraverso
l’uso di strumenti specifici.
La recente Direttiva sancisce infatti il diritto
per tutti gli alunni che presentano queste tipologie di difficoltà e di svantaggio di avere un pieno ed effettivo accesso agli apprendimenti.
Questo può essere realizzato solo attraverso
una didattica realmente personalizzata. Ecco
quindi un altro concetto chiave: quello della
personalizzazione, intesa come riconoscimento
delle differenze individuali e diversificazione
delle mete formative volte a favorire la promozione delle potenzialità.
Strumento privilegiato per realizzare tale
obiettivo è il Piano Didattico Personalizzato
(Pdp), all’interno del quale si delineano le strategie, le indicazioni operative, la progettazione
educativo-didattica, l’impostazione delle attività di lavoro, i parametri di valutazione degli apprendimenti e i criteri minimi attesi per l’alunno.
Si tratta quindi di un lavoro che deve necessariamente basarsi su una stretta alleanza e progettazione condivisa, un’elaborazione collegiale
e partecipata tra la scuola, la famiglia e gli eventuali professionisti/figure che seguono l’alunno
in difficoltà.
Si tratta di un lavoro di personalizzazione
che non si basa però esclusivamente sul singolo
alunno, ma prende le mosse dall’idea di classe
inclusiva, concentrando l’attenzione quindi non
tanto sulle modalità con cui un insegnante può
personalizzare la didattica per il singolo studente, quanto piuttosto su come può lavorare in
prima battuta a livello di classe grazie a un’ampia gamma di approcci metodologici che la ricerca e l’applicazione sul campo hanno decretato essere quelli più idonei ed efficaci per realizzare una didattica inclusiva.
mi riferisco, in modo particolare, alle facilitazioni disciplinari e all’adattamento degli obiettivi curricolari e dei materiali didattici, all’apprendimento nei gruppi cooperativi, alle tecnologie
come risorsa inclusiva, all’approccio metacognitivo, alla diversità degli alunni come risorsa, alle
strategie e agli strumenti compensativi.
In tutto questo va quindi sottolineato il ruolo
da protagonista assunto dal consiglio di classe,
con una sua valorizzazione in termini di programmazione pedagogico-didattica, soprattutto laddove non sia ancora presente una certificazione clinica o una diagnosi — anche nei casi
di alunni con DSa — ma la scuola sia comunque
chiamata a offrire risposte tempestive ai reali bisogni dell’allievo, bisogni educativi che non possono aspettare.
va sottolineata inoltre la funzione del Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI) al quale compete, tra le varie mansioni, anche quella di redigere al termine di ogni anno scolastico il Piano
annuale per l’Inclusività (PaI).
altro punto nodale di Direttiva e circolare
ministeriale è la questione relativa alla rilevazione, al monitoraggio e alla valutazione del grado
di inclusività della scuola, attraverso precisi strumenti operativi quali l’Index per l’Inclusione
(Booth e ainscow, 2008).
non vanno infine dimenticati il ruolo e le opportunità offerte dai centri territoriali di Supporto (cts) e per l’Inclusione (cti), organismi
fondamentali e strategici per attuare in modo
ottimale le azioni inclusive della scuola anche su
un piano strettamente operativo.
BIBLIOGraFIa DI rIFErImEntO
Booth T. e Ainscow M. L’Index per l’inclusione,
Erickson, 2008
Ianes D. e Cramerotti S. (2013), Alunni con BES,
Erickson, 2013
SETTEMBRE 2013 VITA
31
Sperimentazioni
E a Trento si va
oltre il sostegno
L’intero corpo docente viene coinvolto, per una ventina di classi
a
32
trEntO cI StannO PrOvanDO SuL SErIO.
con questo anno scolastico parte infatti una sperimentazione biennale
che riorganizza modelli e risorse a supporto
degli alunni con disabilità. Semplificando, si
tratta di provare a costruire un nuovo modello di inclusione, non più imperniato sull’insegnante di sostegno ma sull’intero corpo docente. Da rovereto a cles, la sperimentazione riguarderà una ventina classi della provincia di trento (una dozzina della primaria e le
restanti della secondaria di primo grado), più
altrettante classi di controllo, coinvolgendo
complessivamente 600 persone fra dirigenti, docenti, educatori, alunni e familiari.
«L’obiettivo è proprio quello di stimolare i
consigli di classe a farsi promotori di progettualità flessibili e innovative, che superino gli
automatismi attuali e la logica per cui a una
certificazione di disabilità corrispondono tot
ore di sostegno», spiega alessandro monteverdi, referente del progetto per la Fondazio-
ne Giovanni agnelli. «L’insegnante
di sostegno resta, ma non viene
assegnato a un singolo alunno: è
invece una risorsa che il consiglio
di classe decide come usare. Gli
insegnanti poi non saranno soli,
ma verranno affiancati da alcuni
docenti esperti, comandati presso l’assessorato, che gireranno ed
entreranno nelle classi».
monteverdi non fa esempi,
perché «un valore della sperimentazione è
proprio lo stimolo alla progettualità», ma un
possibile esito di questa riorganizzazione,
spiega Ianes, è quello di immaginare per il futuro due diverse tipologie di insegnanti di sostegno: uno che entri nell’organico funzionale - per cui un insegnante di sostegno laureato in lettere affiancherà nell’ottica di una didattica più inclusiva più classi dello stesso
istituto nelle ore di lettere, e lo stesso farà
uno laureato in matematica - l’altro più tecni-
co, un vero specialista, che girerà le scuole
per rafforzare le competenze tecniche di tutti gli insegnanti, curricolari o di sostegno che
siano.
trento prova dunque ad andare oltre la
logica del sostegno: non è forse un caso che
nel decreto ministeriale 706/13 con cui il ministro carrozza autorizza l’attivazione di corsi
per la creazione di 6.398 nuovi insegnanti di
sostegno didattico agli alunni con disabilità,
per il trentino non è previsto nessun posto.
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Il caso della DonMilani2
Inclusione sul campo.
La Lombardia taglia
L’esperimento era partito nel 2010 per combattere la dispersione scolastica più dura
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ra I “PIOnIErI” DEI PErcOrSI EDucatIvI
PErSOnaLIzzatI PEr raGazzInI che non
riescono ad adattarsi a una scuola
standard ci sono anche gli educatori di Exodus, con il loro progetto Donmilani2, nato
per contrastare la dispersione scolastica
più “dura”, quella di chi proprio non riesce a
stare in classe o per cui stare in classe è
dannoso. L’esperimento è partito nel 2010
a Quarto Oggiaro, nella periferia di milano e
ad africo, nella Locride. L’anno scorso, grazie al finanziamento dell’ufficio Scolastico
della Lombardia, si era allargato a crescenzago, Gallarate e Brescia, coinvolgendo
solo in Lombardia una sessantina di ragazzi. «Per questi ragazzi non basta una personalizzazione dei percorsi dentro la scuola,
serve un intervento educativo specifico, un
grande lavoro sulle relazioni», dice Franco
taverna, segretario generale di Fondazione
Exodus. Il progetto doveva essere biennale, ma a giugno l’ufficio scolastico ha so-
«va applicato con particolari accentuazioni in quanto a peculiarità, intensività
e durata delle modificazioni».
grazie anche alle nuove tecnologie di
cui la scuola si sta dotando, e che saranno
sempre più presenti nell’insegnamento,
la personalizzazione radicale dell’apprendimento domani sarà la norma. «la sfida
è proprio questa: non si tratta di fare un
programma aggiuntivo per ogni alunno
con bisogni educativi speciali, in
una diversificazione ad excludendum, ma di ripensare e riorganizzare tutta la didattica e l’insegnamento in un’ottica
inclusiva», precisa ianes. È ovvio per
esempio che la lezione frontale, con un
docente che spiega e gli studenti che
ascoltano e prendono appunti, di inclusivo non ha nulla: eppure secondo le ultime
rilevazioni del miur è la modalità prevalente per ancora il 76% delle scuole italiane (miur, 2012), mentre la peer education
è presente solo nel 6,3% delle nostre classi
e il cooperative learning, con i ragazzi che
lavorano in gruppo, ognuno con compiti
stanzialmente fatto retromarcia: per il
2013/14 non pagherà più gli educatori. «Si
tratta di 110 ore di educatori alla settimana
per ogni scuola, proprio perché l’impronta
educativa è il vero cardine del progetto.
L’ufficio scolastico regionale in pratica sta
dicendo che si occuperà di dispersione scolastica in altro modo, dando dei soldi in più
alle scuole, ma la dispersione scolastica ha
più livelli, per i ragazzi che seguiamo noi un
po’ più di osservazione in classe non è sufficiente», spiega taverna. «Stiamo cercando
altre strade, ma in questo momento posso
dire con certezza che Donmilani2 continuerà ad africo e a Quarto Oggiaro, aprirà a Padova, ma probabilmente a Brescia, Gallarate e crescenzago non ce la faremo. vuol
dire 45 ragazzi in meno, con le scuole che essendo il progetto biennale - avevano già
indicato gli alunni da inserirvi».
Dall’esperienza fatta sul campo, la scuola ha moltissimo bisogno di ripensarsi, per
e ruoli diversi, che valorizzano le competenze di ciascuno (non quei gruppi di una
volta, in cui due lavorano e due vanno al
traino) arriva appena al 17%. Per ianes è
una grande opportunità: «la scuola in
questo momento ha l’occasione di sviluppare una nuova intelligenza sull’inclusione, su tre livelli: di classe, con un intero
consiglio di classe che ripensa in maniera
inclusiva l’insegnamento; di istituto, perché tutti i documenti dei singoli
consigli di classe
convergono
nel
gli (gruppo di lavoro per l’inclusione), che gli aggiunge valore ad esempio organizzando gli
orari in modo da liberare risorse per le
comprensenze; del territorio, per creare
dialogo fra servizi sociali, sanità e scuola,
perché oggi un ente non sa cosa dà l’altro.
così arriviamo al punto nodale della
questione, la gestione delle risorse: oggi
di fatto tu premi la scuola che cronicizza
la patologia, dandole più ore di sostegno;
bisognerebbe al contrario premiare le
scuole con maggiore capacità di organizzarsi in ottica inclusiva».
Troppe lezioni frontali.
Il cooperative learning
deve avere più spazio
almeno due ragioni: per un allargamento
del mondo che si trova dentro le aule, che
chiede di garantire a tutti una cittadinanza
effettiva e per i tanti cambiamenti dei linguaggi, di cui è necessario prendere atto,
per cui una scuola al passo con i tempi è di
sicuro una scuola più centrata sulle esperienze e sulle relazioni. Partire da chi ha un
bisogno speciale può – come in tanti altri
settori – generare un beneficio che si allarga a tutti. Dentro al progetto Donmilani2 il
bilancio dell’anno passato è del tutto soddisfacente: su 60 alunni, solo due si sono ritirati, nessuno è stato bocciato agli esami di
fine anno. ma quello che più conta «è il
cambiamento nello sguardo di questi ragazzi, il modo di porsi. Hanno sperimentato
che gli altri non sono solo nemici, e questa
pace con gli altri e con se stessi è il presupposto per ogni apprendimento, perché
apre canali che altrimenti sono chiusi»,
conclude taverna.
Londra pioniera con gli
Special Educational Needs
Di BES si iniziò a parlare in Gran Bretagna
nel 1978, quando è stato lanciato il tema
dei Special Educational needs, entrati poi
nel sistema scolastico nel 2003, all’interno del programma Every child matters.
nell’anno scolastico 2011/ 12 erano 1,62
milioni gli alunni con BES. Di questi
226mila avevavo una certificazione,
mentre 1,39 milioni non l’avevano. Solo la
certificazione (Statement of Special Educational needs) descrive nei dettagli il
percorso individulizzato che viene monitorato e modificato durante incontri annuali con la scuola, la famiglia, l’alunno, e
altri agenti professionali.
Secondo il modello inglese rientrano nei
Bes «bambini o ragazzi che abbiano una
difficoltà nell’apprendimento o una disabilità le quali richiedano risorse speciali».
ma anche ragazzi che hanno una difficoltà di apprendimento «solamente perché
la lingua madre è diversa da quella usata
per istruirlo».
SETTEMBRE 2013 VITA
33
SCUOLA 2.0
SE IL TABLET
FACILITA
L’INCLUSIONE
Si pensa che il suo apporto consista nella produzione
di ausilii. Non è così. Il cambiamento sta nell’utilizzo
didattico di strumenti che danno un ruolo attivo a tutti.
La testimonianza dei prof digitali conferma
34
conosce come Profdigitale, dal nome del suo blog.
lui insegna con la gamification, che utilizza nella didattica le dinamiche proprie dei giochi come livelli,
punti e premi e la flipped classroom, un ribaltamento
del modello tradizionale: oggi l’insegnante spiega,
gli alunni studiano e fanno esercizi, l’insegnante verifica; nella flipped lesson la spiegazione dell’insedi Sara De Carli
gnante diventa il compito da fare a casa, perché il
prof l’avrà caricata ad esempio su Youtube, mentre
in classe i ragazzi approfondiscono e fanno ricerche
in rete, singolarmente o in gruppo, e l’insegnate da
He rUolo Possono avere le nUove tecnologie
detentore del sapere diventa tutor e mediatore. «la
nel rendere la scuola più inclusiva? e
tecnologia rende gli alunni più protagonisti del proquanto la scuola italiana, al di là dei giochi
cesso educativo, prima al centro c’era l’insegnante»,
di forza sui libri digitali, sta già vivendo il
dice.
futuro? lim, blog di classe, flipped lesMaurizio Zambarda, maestro elementare alla scuosons, app didattiche sono già pane quotidiano per
la di arco, in provincia di trento, è l’ideatore di Pcinmolti alunni, come hanno testimoniato anche i quasi
tasca: «mi viene la pelle d’oca quando sento parlare
200 insegnanti che a fine luglio si sono ritrovati in sidell’informatica come di una disciplina. la tecnologia
cilia per il primo meeting nazionale dei docenti virè uno strumento da usare accanto alla carta e alle fortuali e insegnanti 2.0. molto tuttavia c’è ancora da
bici». Un paio di anni fa lui ha portato la robotica in
fare (fatta eccezione per trento, dove la lavagna inteuna seconda elementare, facendo programmare ai
rattiva multimediale è diffusa capillarmente e per la
bambini delle piccole api robot, mentre la scorsa prisardegna che ha appena lanciato un programma per
mavera i suoi alunni di quarta, unici in italia, hanno
portarne una in ogni classe, la media italiana è di una
toccato con mano, in classe, quel che si può
lim per istituto, spesso confinata in un labofare con una stampante 3d, realizzando blocratorio, mentre il ritardo sulla rete wireless è
chetti di lego con un filo di mais.
complessivamente spaventoso).
e per tutto l’anno sul blog cheproblema.
Anna Rita Vizzardi insegna lettere alle meLavagne interattive. In media ce n’è
blogspot.it
si sono sfidati a colpi di matemadie di sestu, in provincia di cagliari e tiene il
una per istituto in Italia
tica con i colleghi della scuola di rivoli, seguiti
blog lavagnataquotidiana: tutti gli alunni delle
da un’altra influencer dei digital prof, Paola
sue due nuove prime quest’anno avranno un
netbook, un tablet, un notebook o uno smarLimone: «Hanno fatto molti più esercizi di
tphone. in una classe sono i netbook ereditati
quelli che avrei potuto assegnare come comBring you own devices. Esperienze di
dal progetto cl@asse 2.0 del miur e dati in copiti, con più coinvolgimento», dice zambarda.
tablet acquistati dai genitori
modato d’uso agli alunni, nell’altra sono stati
la didattica così si fa anche più inclusiva:
acquistati dai genitori (si chiama Byod, “bring
«dando per scontate le cose straordinarie che
your own devices”). lei utilizza da alcuni anni
la tecnologia fa per i ragazzi con dsa o disabila metodologia itec, «con una learning story
lità, il fatto stesso di creare un piccolo gruppo
articolata in learning activites in cui i ragazzi
che lavora su un robottino o su un tablet scarSpaventoso il ritardo della scuola
sono veramente artefici del proprio apprendidina i ruoli: al centro dell’attenzione c’è il roitaliana sulla connessione in rete
mento: si confrontano, scelgono, progettano,
bottino, non il compagno in difficoltà e questo
realizzano, contattano esperti, documentano. senza
consente di creare nuovi rapporti». insomma, sbaglia
connessione, a casa e in classe, manca l’ampio respiro.
chi pensa che l’ict favorisca l’inclusione perché proil miglioramento è notevole soprattutto nei ragazzi
duce ausilii: il cambiamento sta nell’utilizzo didattico
con scarsa propensione per la scuola, a livello di modi strumenti che, dando un ruolo attivo a tutti, fanno
tivazione, capacità comunicative e metodo di lavoro».
meglio emergere e valorizzare le potenzialità di ciaAlessandro Bencivenni invece ha 33 anni e insegna
scuno, e riservando ai professori - chi l’ha provato è
lingue alle superiori, in provincia di arezzo: il web lo
pronto a giurarci - parecchie sorprese.
C
LIM
BYOD
WIFI
VITA SETTEMBRE 2013
Tecnoscuola Sì
Tecnoscuola No
Ma quelle 18 ore
sono un anacronismo
Senza dati sono
solo chiacchiere
Intervista a Giovanni Biondi, Capo dipartimento di Indire
Intervista a Roberto Casati, filosofo della scienza
c
oberto casati è uno che va controcorrente. Filosofo trapiantato a Parigi, dove dirige il centre national de la recherche
Scientifique all'Institut nicod, dopo aver fatto incetta di premi con libri sui buchi e le ombre, la scorsa primavera ha dato una
scossa alla retorica della rivoluzione 3.0 con il suo Contro il colonialismo digitale (Laterza). Dove ha scritto che i nativi digitali non esistono (ma se esistessero la scuola farebbe meglio ad aiutarli a guardare
fuori degli schermi) e che «non ha senso parlare dell’introduzione del
digitale nella scuola senza un progetto pedagogico. mettere un tablet nelle mani di ogni alunno non significa nulla se non si elabora un
ragionamento su quello che si fa con quel tablet. vedo anzi un’abdicazione alla dimensione del progetto sulla scuola e a questo proposito posso citare due punti critici».
’è un soggetto in Italia che ha per statuto quello di studiare e
promuovere le innovazioni nella didattica: è l’Indire e Giovanni Biondi ne è il capo dipartimento dall’aprile 2013, dopo essere stato capo di gabinetto al miur e aver seguito, negli ultimi mesi,
il concorsone con i test preselettivi dei suoi 320mila candidati, il debutto del plico telematico agli esami di maturità e le prime iscrizioni
online alle scuole statali d’Italia. Dal punto di vista didattico, le azioni
di Indire sono volte ad innovare le strategie di insegnamento ed apprendimento, colmare la distinzione tra apprendimenti formali, non
formali ed informali attraverso le opportunità fornite dal Life Long
Learning e avvicinare le pratiche didattiche alla vita di tutti i giorni.
A che punto è la scuola italiana quanto a innovazione tecnologica?
Quest’anno arriveremo a 100mila Lim nelle aule e a 2mila classi i cui
studenti utilizzeranno un tablet. È un percorso graduale che porta il
digitale nella didattica di tutti i giorni. Le nuove linee guida per le architetture interne delle scuole (varate ad aprile da Profumo, ndr)
sono un ulteriore passo avanti, in una vision che disegna le scuole del
futuro, funzionali a un nuovo modo di fare lezione, dove i ragazzi non
sono più lì per ascoltare ma per una sorta di laboratorio permanente
a cui partecipare attivamente.
Cambierà l’aula o la scuola?
L’intera scuola, perché dovrà essere concepita per essere abitata per
tempi più dilatati rispetto agli attuali, con un nuovo ruolo dei docenti. L’ex ministro Profumo aveva siglato un accodo con il maxxi per far
progettare a giovani architetti queste scuole del futuro. Faremo un
bando in autunno.
Se la scuola è aperta tutto il giorno, magari anche la sera, servirà mettere mano al contratto…
certo, un ccnl ritmato sulle 18 ore di lezione in classe non è più coerente con il ruolo che gli insegnanti dovranno avere. È un nodo che
dovrà essere affrontato.
Come è possibile pensare di costruire nuove scuole se non ci
sono soldi?
I soldi non li avremo per molti anni, ma ciò non significa che non si
debba fare nulla. avevamo impostato l’idea dei fondi immobiliari, a
cui gli enti locali conferiscono una scuola da riconvertire: lì si accende
un mutuo in cassa depositi per costruire una scuola nuova, mentre la
vecchia poi verrà venduta cambiandone la destinazione d’uso. Il comune di Bologna lo ha fatto. noi abbiamo ricevuto 400 domande da
parte degli enti locali, l’interesse c’è, una graduatoria delle domande
non ancora.
È una sconfitta il rinvio del libro digitale?
Il decreto a mio giudizio era equilibrato. Il rinvio dell’introduzione del
libro digitale è un rallentamento dell’agenda digitale di tutto il Paese,
perché un ragazzino che torna a casa da scuola con un tablet innalza
immediatamente le competenze digitali di tutta la famiglia, dai genitori ai nonni.
r
Quali?
Si cerca di introdurre il digitale nelle scuole perché si tratta di qualcosa
facilmente misurabile: ho tot scuole a banda larga, tot Lim, tot tablet.
È facile, è comprensibile a tutti. ma questo dato non misura nulla, se
non la quantità di prese elettriche nelle scuole. che ci fai con quei tablet? I ragazzi che li usano apprendono di più? non ci si pensa nemmeno. Il secondo punto critico è l’introduzione massiccia di questa tecnologia: proviamo, va bene, ma facciamolo con una sperimentazione seria, con classi test e classi di controllo, non con un salto nel buio.
Che ne pensa invece della tecnologia come aiuto per i ragazzi
con disabilità?
Questo è tutto un altro discorso, perché la tecnologia come strumento
di rimediazione dell’handicap è molto utile, penso ad esempio alla discalculia o alla disprassia dove il supporto digitale rimuove completamente l’handicap rispetto ai suoi compagni. Lì però ci sono dietro progetti educativi specifici.
La tecnologia favorisce gli apprendimenti?
non lo sappiamo, perché non sono state fatte sperimentazioni. È questo il problema. I pochi macrodati che abbiamo sono sconfortanti, dicono che il digitale migliora un po’ gli apprendimenti all’inizio e in particolare aiuta chi è già bravo (tipicamente figli di famiglie socialmente
più avvantaggiate o figli di insegnanti), ma aumentandone l’uso e prolungandolo nel tempo le performance degli studenti scendono, in una
sorta di u rovesciata. Lo strumento quindi sembrerebbe distrattivo. Insomma, la scuola è dura, non ci sono scorciatoie. Si ignorano i risultati
a cui sono già giunte le scienze cognitive e le scienze dell’educazione,
che ci dicono già cosa fare: ad esempio che cose semplici e a costo
zero, come cambiare l’ordine con cui sono fatti i manuali, migliorano
con certezza le performance degli studenti. voglio dire che esistono
già soluzioni interessantissime, a cui non si presta attenzione perché
siamo affascinati dai tablet.
Quindi meglio lasciar perdere il digitale nelle scuole?
no, dovrebbe essere una fortissima sfida a ripensare la scuola, a farla
meglio anche con i mezzi che già abbiamo. Per i Dsa hanno fatto studi,
progetti pedagogici e hanno prodotto meravigliosi strumenti compensativi, molto efficaci: perché la stessa cosa non la si fa con il latino?
SETTEMBRE 2013 VITA
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L’INTEGRAZIONE
AFFINATI:
«DO DA BERE
L’ITALIANO»
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Lo scrittore con sua moglie Anna Luce Lenzi ha fondato
la Penny Whirton, una scuola in cui si insegna la nostra
lingua a chi è appena arrivato nel nostro Paese. Il metodo
è innovativo: lezioni quasi a tu per tu. Tra gli insegnanti
anche giovani di seconda generazione. «È la scuola da
sogno. Non c’è finzione pedagogica, perché lì c’è lo
studente che ti sollecita»
di Marco Dotti
S
ed È – doPo QUattro
– QUalcosa Più di Un
“esPerimento”. «È il sogno che coltivo nel
concreto», la definisce eraldo affinati, insegnante e scrittore (il suo ultimo libro si intitola Elogio del ripetente, edito da mondadori), che l’ha
fondata insieme alla moglie, anna luce lenzi. si tratta di una scuola composta da insegnanti volontari,
«disposti a mettersi in gioco insegnando la nostra lingua agli studenti stranieri», spiega affinati.
studenti che spesso sono orfani, che arrivano come profughi e non conoscono una sola parola di italiano… «Per loro imparare l’italiano significa diventare
cittadini di questo Paese». la scuola è strutturata secondo un percorso di insegnamento che non avviene
i cHiama
PennY Wirton,
anni di intensa attività
Eraldo Affinati, 57 anni, romano.
È scrittore e insegnante. Sull’esperienza alla
città dei ragazzi ha scritto anche un libro.
VITA MAGGIO 2013
secondo la classica divisione “gruppi-classe”, ma a
tu per tu. Per ogni docente ci sono al massimo due o
tre allievi. nel ruolo di docenti sono stati coinvolti
anche “ripetenti” e giovani di seconda generazione.
Un concetto di integrazione totale che va al di là
dei luoghi comuni. «ecco allora che coloro che si trovano in difficoltà nella prima scuola, l’istituto professionale, trovano l’opportunità di mettersi alla prova assumendo una responsabilità inedita: quella dell’insegnante. gli studenti della Penny Wirton sembrano spugne, tu versi acqua e loro assorbono tutto:
eccolo il sogno di un’altra scuola. Fuori dalla finzione
pedagogica: far finta di insegnare, far finta di ascoltare come spesso accade… lì non c’è più finzione pedagogica, perché questi ragazzi vengono da te con
una richiesta precisa: “insegnami a dire forchetta”,
“insegnami a dire piatto”, “come si fa a trovare un
lavoro”, “pane e acqua, vino”… lì hai lo studente
modello, eccolo dunque il sogno concreto di un’altra
scuola: lo studente che ti sollecita».
Affinati, lei già lavorava su una frontiera e si è andato a
cercare altri guai con questa idea della scuola iper-integrata. Perché la scelta di una didattica che ribalta in
modo così radicale i concetti di studente, insegnante,
insegnamento?
io insegno ancora oggi alla città dei ragazzi, in una
succursale di un ipsia statale (il “carlo cattaneo”).
sono insegnante di stato e, avendo il mio istituto una
succursale dentro la città dei ragazzi, ho chiesto di
andare lì. a un certo punto ho però colto la necessità
di insegnare la lingua italiana ai ragazzi stranieri che,
quando arrivano in italia, non possono essere immediatamente iscritti a scuola. devi, in qualche modo,
intervenire con una sorta di “pronto soccorso linguistico”. Parlandone nelle scuole o nel corso delle presentazioni dei miei libri ho colto molto entusiasmo.
io e mia moglie abbiamo così pensato di cercare un
luogo per dare spazio a questa bella energia e abbiamo trovato l’ospitalità dei gesuiti di san saba, sull’aventino. loro non ci hanno chiesto nulla: né affitto,
né altro. abbiamo iniziato in 6-7 persone e venivano
da noi i ragazzi dei centri della caritas: minorenni
senza alcun certificato. ora siamo in centinaia di persone tra insegnanti e allievi. io e mia moglie abbiamo
anche scritto un manuale tratto da questa esperienza,
è Italiani anche noi. oramai ci sono scuole che si ispirano al nostro modello un po’ ovunque, dal Piemonte
alla calabria, regione molto attiva e vitale al contrario
di quanto molti potrebbero pensare. È un messaggio
positivo, un modello che fa presa. Quando vado nelle
scuole a parlarne incontro insegnanti coraggiosi che
vogliono fare qualcosa di simile, ma si sentono soli.
non siamo soli, non siamo mai soli. dobbiamo provocare un contagio, dando luce a un’italia più bella e
più vera di quella che vediamo tutti i giorni illuminata
dai riflettori dei media. È giusto che venga invece alla
ribalta la tensione etica che attraversa quest’altra italia. Un’italia che non soccombe alla brutalità e alla
volgarità del nostro tempo.
Il suo libro ha un titolo che potrebbe apparire provocatorio, Elogio del ripetente. Che messaggio vuole trasmettere?
Questa riflessione sul “ripetente” nasce dalla mia
esperienza biografica. io insegno a ragazzi ritenuti
“difficili” che arrivano all’istituto professionale come
se fosse l’ultima spiaggia. Questi miei studenti spesso
sono già stati bocciati all’istituto tecnico o al liceo.
sono, in altri termini, ragazzi difficili. eppure, proprio
loro ti fanno capire quanto sia profonda e diffusa una
crisi etica generale, di cui la scuola raccoglie cocci e
conseguenze. il “ripetente” diventa, così, un frammento che la società vorrebbe allontanare da sé, ma
che in realtà illumina e spiega molte cose di quella
medesima società. i ragazzi “difficili”, i “ripetenti”
sono quasi dei “frantumi” di questo Paese. Frantumi
che cadono in basso e che a noi tocca raccogliere.
Come è possibile stabilire un contatto, una comunicazione che rompa una barriera di indifferenza che sembra fin troppo spessa?
Per quanto riguarda il lavoro con i ragazzi c’è una
cosa da fare: ti devi mettere in gioco. consideriamo
che spesso questi ragazzi non hanno mai incontrato
qualcuno nella loro vita che si mettesse in gioco per
loro. Un adulto, intendo, che cercasse di cogliere le
ragioni profonde della loro intemperanza, della loro
rabbia e della loro indisciplina. se questo riesce ottieni grande soddisfazione. ci sono anche le sconfitte
e le difficoltà, ma questa è la bellezza dell’insegnamento di frontiera. l’educatore è uno che si ferisce.
d’altronde, se ti metti in gioco e ti coinvolgi non puoi
che ferirti.
È un ruolo doppio e delicato, quasi da amico e da maestro…
esattamente. Fai l’amico quando ti metti in gioco e
intercetti il loro livello. ma fai il maestro quando cerchi di incarnare il limite che loro non devono superare. se tu fai tutto questo rischi molto, perché chiami
in gioco anche i tuoi problemi. devi sempre essere
lucido e equilibrato. il momento educativo è un momento complesso che chiama in gioco anche la “gioventù dell’educatore”. non devi essere un eterno giovane. ma questo richiede un duro lavoro che devi
fare anche dentro te stesso.
La scuola di oggi ci ha abituati a numeri, standard, test
a risposte multiple e a trabocchetto. Nella scuola che
lei sta “immaginando” restano centrali invece i volti, i
nomi. Quanto c’è di didattico in tutto questo?
cercare il volto, cercare la persona è fondamentale.
se c’è motivazione, per esempio, anche il ripetente
escluso dalla scuola tradizionale può attivarsi e diventare docente, può vivere un’esperienza del dare
e del ricevere. cercare il volto è la vera responsabilità
a cui siamo chiamati. la responsabilità del prendersi
in carico lo sguardo altrui.
Spazi scolastici
A Mantova la classe
senza muri
Accade all’Istituto Fermi. Ecco come funziona
S
E cI SI PEnSa BEnE, La ScuOLa È FOrSE L’unIcO LuOGO SOcIaLE rImaStO ImmutatO Da SEcOLI. tutto fuori è cambiato, ma la scuola come spa-
zio fisico è identica a se stessa, separata da ciò che la circonda:
lunghi corridoi, banchi in file parallele, qualche laboratorio in cui è confinata quella piccola parte di sapere per cui si ammetteva che il libro di
testo da solo non bastasse. non è sempre stato così, basta cercare nella memoria qualche ricordo dei peripatetici, di Platone e di aristotele,
ma da quando è tramontata l’epoca delle botteghe, le nostre scuole
sono sempre state strutturate attorno al libro e al sapere simbolico. Se
oggi però il protagonista dell’apprendimento deve davvero diventare
l’alunno, quelle vecchie aule con i banchi in fila e la cattedra appoggiata sul piedistallo rialzato sono il simbolo di una contraddizione. riflessioni, progetti ed esperienze ce ne sono: il problema sono i soldi.
L’aula del futuro sarà uno spazio policentrico, senza cattedra, con
postazioni interattive, modulari e riaggregabili in maniera diversi a seconda delle attività. La scuola stessa dovrà avere ampi spazi per il confronto e la collaborazione, alternare zone di relax a postazioni per lo
studio personale, pensata per stare aperta per tempi molto più lunghi
di quelli attuali.
una manciata di scuole in Italia ha già queste aule 3.0, in un progetto che vede coinvolti l’Indire, il massachussets Institute of technology
(mit) e European Schoolnet: l’istituto Fermi di mantova (1.800 alunni
per due indirizzi, Istituto tecnico Settore tecnologico e Liceo Scientifico delle Scienze applicate, con tanto di test d’ingresso) è uno di questi. Ha inaugurato a marzo la sua prima aula teal e durante l’estate ne
ha attrezzate altre dieci. «non possiamo aspettare di muoverci solo
quando ci sono i soldi del miur: hanno contribuito i genitori, moltissimo regione Lombardia, qualche azienda del territorio… noi dirigenti
dobbiamo imparare a fare fundraising», dice la dirigente cristina Bonaglia. così se ogni classe del Fermi ha Lim e wifi, ciascuna delle nuove
aule ha quattro videoproiettori, quattro schermi, quattro lavagne tradizionali, in modo che ogni gruppo di lavoro – come pure ogni singolo
alunno – possa proiettare e interagire con tutti.
E al posto della cattedra? c’è un maxi touch screen. «L’obiettivo
non è la tecnologia in se stessa ma creare un ambiente funzionale a un
apprendimento attivo. I ragazzi oggi sono abituati ad apprendimenti
personalizzati, indipendenti dal docente, al problem solving, all’apprendimento top-down e lavorano molto bene in équipe. Lo spazio
non può essere neutro rispetto a tutto ciò. La quarta meccanica dell’anno scorso era difficilissima, nell’aula teal hanno ritrovano il loro ambiente, si sono trasformati. Si introduce la tecnologia perché è cambiata la didattica o per cambiare la didattica? Direi la seconda, anche se i
prof stessi spesso sono imbrigliati in strutture vecchie».
al Fermi così hanno smantellato il nesso aula-classe e l’aula è diventata un piccolo condominio dove tre o quattro docenti della stessa
disciplina aspettano i ragazzi: «Il passo successivo è quello di andare
anche oltre al gruppo classe, permettendo di lavorare con il cooperative learning per livelli di apprendimento, in sottogruppi di classi diverse, per progetti», dice la dirigente. L’anno scorso l’hanno sperimentato
con sei prime, che su italiano, matematica e inglese avevano un’ora alla
settimana in comune. Il progetto si chiama no w@ll class, che è pure
una buona sintesi di come dovrà essere la scuola del futuro. Senza
muri, in ogni senso. così che tutti possano starci dentro. E starci bene.
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