Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti

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Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti
PAGINE DI STORIA
Luigi Einaudi e la
trasfigurazione mitica dei ceti
medi in Italia nell’immediato
secondo dopoguerra
di Luca Tedesco
La pubblicazione del Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini nella metà degli anni Settanta inaugurò una stagione feconda
di studi empirici intorno alla consistenza e all’evoluzione dei ceti
sociali e ai loro reciproci rapporti nella storia dell’Italia repubblicana 1. Sono andate così sviluppandosi, anche per quanto attiene
ai ceti medi, diverse piste di ricerca, che hanno scandagliato le
questioni della loro rappresentanza politica, della mobilità sociale
(soprattutto all’interno della grande impresa con la nascita di nuove figure come i quadri e i tecnici) e della pervicace resistenza di
attori socio-economici ritenuti superati dai processi di modernizzazione, quali artigiani, piccoli imprenditori e commercianti al
dettaglio 2.
Le ricerche in tale ambito, però, presentano a nostro avviso
una grave lacuna. Esse lasciano a tutt’oggi senza risposta difatti gli
interrogativi che si poneva nei primi anni Settanta Pizzorno 3 su
quali classi avrebbero tratto vantaggio dalla svolta deflazionistica
dell’estate-autunno del 1947 e se quest’ultima avesse risposto o
meno a un preciso disegno di acquisizione del consenso di determinati segmenti sociali. Per il periodo intercorrente tra il 1950 e il
1974 Pizzorno individuava nella gestione dell’erogazione della
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spesa pubblica e del credito ordinario e speciale gli strumenti attraverso i quali i partiti di governo ampliarono la platea del ceto
medio, facendo di esso una solida riserva di consenso. La centralità dei ceti medi, assumendo di questi la definizione fatta propria
da Sylos Labini e generalmente accettata, vale a dire sostanzialmente la piccola borghesia impiegatizia, pubblica e privata, e
quella relativamente autonoma (coltivatori diretti, fittavoli, coloni, artigiani, commercianti, piccoli professionisti) 4, nella costruzione e nel mantenimento del consenso sarebbe confermata dalla
circostanza che nel corso degli anni Cinquanta tutte le crisi di governo furono determinate dai partners minori della Democrazia
Cristiana, della cui collaborazione questa non si privò neanche
quando, come nella prima legislatura, deteneva la maggioranza assoluta 5; partners minori, il cui elettorato era costituito in larghissima parte per l’appunto dalla piccola e media borghesia 6.
La dirigenza cattolica mostrò allora piena consapevolezza fin
dall’immediato dopoguerra che, a fronte di una classe operaia inevitabilmente bacino elettorale dei partiti di ispirazione marxista,
non sarebbe stato sufficiente per prevalere politicamente assicurarsi la fiducia e il consenso solo del mondo agricolo. Di qui l’opzione per uno «sviluppo guidato dalle preferenze del mercato, e
soprattutto del mercato internazionale, con espansione complementare di consumi moderni interni» e la compressione dei salari. Tale indirizzo comportò uno «sviluppo ritardato delle categorie operaie dell’industria, accompagnato invece da un forte esodo
dalle campagne» e da un’ingente crescita del settore terziario e dei
ceti medi, «sia produttivi che di rendita» 7.
Più analiticamente, per quanto concerne la fase politica antecedente la stagione del centrismo, Pizzorno si limita ad indicare la
ragione anche politica sottostante la svolta deflazionistica, vale a
dire la necessità di non danneggiare i ceti medi nei mesi precedenti le elezioni dell’aprile 1948 8. In verità, come è noto, anche le
sinistre si cimentarono nel tentativo di intercettare il consenso di
questi ultimi. I ritardi culturali e gli schematismi ideologici che vanificarono tale operazione, tra le innumerevoli rappresentazioni
storiche d’assieme del periodo, sono stati evidenziati con particolare forza da Simona Colarizi 9. Le cause dell’incapacità di socialisti e comunisti di attrarre i ceti medi risiedevano nella loro visione
sia dell’intera struttura sociale che delle motivazioni e degli umori che attraversavano la media e piccola borghesia, come anche
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dell’evoluzione della realtà economica del Paese. Da una parte difatti le sinistre si attengono a una concezione dicotomica della società, all’interno della quale il ceto medio era fatalmente destinato
a conoscere un destino di proletarizzazione, e interpretano esigenze e afflati di rinnovamento sociale di cui esso sarebbe portatore come inconciliabili con il sistema capitalistico, laddove, come
pure ammette la Colarizi, pur esistendo «settori non marginali di
media e piccola borghesia tendenzialmente favorevoli ad un piano
di sviluppo profondamente riformatore» 10, era assolutamente errato rappresentarli anche solo potenzialmente inclini ad un’alternativa di sistema, come anche considerarli numericamente equivalenti alla ben più corposa frazione di ceto medio attestata su posizioni moderate 11. Dall’altra, la convinzione che una incisiva trasformazione delle strutture economiche fosse impossibile da realizzare all’interno del quadro capitalistico rinviava, agli occhi delle sinistre, ogni proposta diretta a soddisfare gli interessi della piccola e media borghesia al momento successivo alla conquista del
potere politico 12. Tale atteggiamento, con tutta evidenza, non poteva non incontrare l’incomprensione e la diffidenza dei ceti medi. D’altro canto la straordinaria rilevanza di questi ultimi ai fini
delle fortune elettorali dei partiti politici è attestata dalle stime ricavate dai censimenti della popolazione e riprodotte da Sylos Labini nel saggio citato. Da esse appare evidente la crescita tumultuosa tra il 1936 e il 1951 della piccola borghesia impiegatizia
pubblica e privata, e quella più contenuta della piccola borghesia
commerciale, artigianale e dei professionisti, come anche di quella relativa ai trasporti e ai servizi 13. Anche le elaborazioni effettuate da Luciano Gallino dei dati dei censimenti generali del 1931
e del 1951, pur presentando sensibili discrepanze con quelle di
Sylos Labini, a proposito ad esempio del numero dei componenti
la «classe di servizio» (comprendente le figure dedite ad attività di
mediazione tra lo Stato e il cittadino, quali avvocati, commercialisti, notai), che secondo le prime sarebbe diminuito nel lasso di
tempo considerato, confermano la crescita seppure a ritmi non
sostenuti degli artigiani, degli impiegati, dei lavoratori dei servizi,
dei tecnici e della classe medica 14.
Stante l’incapacità teorica e culturale delle sinistre di fare proprie esigenze e aspettative del variegato arcipelago dei ceti medi, è
quindi del tutto legittimo domandarsi quale fu la rappresentazione che di essi diede il partito che ne riscosse politicamente ed elet-
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toralmente i maggiori consensi, vale a dire la Democrazia Cristiana e i suoi alleati minori. In questa sede limiteremo la nostra attenzione al quarto governo De Gasperi (maggio 1947-maggio
1948), comunemente definito della «restaurazione liberista», alla
concezione del ruolo e delle funzioni del ceto medio sposata da
Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, che
proprio sull’esaltazione ed enfatizzazione della rilevanza economica e della centralità di questo segmento sociale ai fini della tenuta democratica delle istituzioni avrebbero raggiunto la più
profonda consonanza di vedute all’interno della compagine governativa, e alle misure che quest’ultima adottò per soddisfare le
richieste della piccola e media borghesia. Proprio l’esame della
produzione legislativa ci consentirà infatti di avanzare la tesi che
la lettura einaudiana e degasperiana dei ceti medi autonomi quali
eminentemente produttivi e insofferenti dell’interventismo della
mano pubblica non fosse sorretta dall’analisi fattuale, come lo
stesso Einaudi dovrà infine amaramente ammettere.
Nel dopoguerra, com’è noto, gli esponenti liberisti godevano in
Italia di una notevole considerazione. La ragione di tale prestigio risiedeva in larghissima parte nell’opposizione, o comunque nella
non adesione, che molti di loro avevano manifestato nei confronti
della politica economica perseguita dal regime fascista, fortemente
imbevuta di spirito dirigistico, autarchico e corporativo, dopo la parentesi «liberista» del ministro delle Finanze De Stefani 15. Il quarto governo De Gasperi aveva visto l’esclusione delle sinistre socialista e comunista e l’assegnazione di Einaudi al dicastero del Bilancio,
di Del Vecchio al Tesoro, di Pella e Merzagora, anch’essi liberisti, rispettivamente alle Finanze e al Commercio Estero.
Da parte sua la cultura cattolica, nel complesso, a differenza di
quanto avveniva sul terreno istituzionale e amministrativo, aveva
maturato su quello economico-sociale un’idea comune sulla necessità di riformare i rapporti economici tramite l’intervento dello Stato, ma non sulle singole modalità di tale intervento 16. I documenti
elaborati durante la Resistenza e preparatori dei programmi della futura Democrazia Cristiana, infatti, ripetevano pedissequamente i
motivi della dottrina sociale della Chiesa, senza presentare approfondimenti di particolare valore che dimostrassero una conoscenza adeguata della realtà italiana, rivelandosi per questa via incapaci di orientare l’azione governativa nel dopoguerra. La storiografia è poi pressoché concorde nell’indicare come la tematica econo-
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mica fosse estranea all’orizzonte scientifico di De Gasperi, che su
questo terreno, negli anni in cui ebbe responsabilità di governo, si
sarebbe posto quale obiettivo la rinascita del Paese, da realizzare essenzialmente tramite l’iniziativa privata indirizzata dallo Stato a fini
di utilità generale, affidando tale compito a personaggi, quali Einaudi e Corbino, di diversa provenienza e collocazione ideologica 17.
Critiche a tratti aspre circa la scarsa competenza economica di
De Gasperi furono espresse anche da personalità a lui coeve. Togliatti, com’è risaputo, imputava al leader democristiano l’assoluta
mancanza di un «orientamento rinnovatore» nel campo economico 18. La concezione economica degasperiana, sosteneva Togliatti,
tentava di rifarsi a quella tonioliana, di cui però non avrebbe colto il
carattere utopico, che rendeva improponibile l’attuazione del progetto corporativo «medioevale» 19, mentre il programma murriano,
socialmente avanzato, veniva ignorato. Le posizioni espresse nel periodo della «lunga vigilia» vengono così qualificate come un «temperato miglioramento delle condizioni tradizionali dell’ordinamento
capitalistico italiano» 20 e i temi economici ridotti «al lato grettamente amministrativo» 21. La ricostruzione economica, poi, nonostante
le velleitarie proposte di nazionalizzazioni avanzate da De Gasperi
cui accenneremo più avanti, aveva assunto per il leader comunista i
caratteri della restaurazione operata dai vecchi gruppi capitalistici
dominanti 22.
De Gasperi, d’altronde, a differenza della sensibilità prevalente negli uomini della «seconda generazione», fu sempre scettico circa la possibilità di perseguire il «bene assoluto» 23 e, negli anni in cui assunse responsabilità governative, si fece portatore di
una concezione della vita associata che doveva affidarsi ad una
sorta di capitalismo della media e piccola borghesia, temperato
dall’azione dello Stato, onde evitare gli effetti più disgreganti sul
tessuto sociale della dinamica economica. Alla luce di questa elementare visione della società, la tesi che la scelta liberista negli anni della ricostruzione fosse da attribuire alle circostanze storiche
più che ad un intimo convincimento interiore del leader trentino
è da accogliere, purché si aggiunga che per De Gasperi sul terreno dell’azione economica non potevano non essere proprio che le
condizioni storiche a dettare la direzione di marcia. Essendo sua
intima convinzione che l’agire individuale fosse legittimo purché
realizzasse o comunque non ostacolasse il soddisfacimento dell’interesse collettivo, ne discendeva che l’organizzazione degli at-
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tori economici e le prescrizioni di politica economica rispondenti
a tal fine erano destinate a mutare a seconda delle temperie storiche. Assumendo come linee guida nell’opera di riforma sociale le
encicliche e la scuola sociale cristiana dell’economia, De Gasperi
riteneva che nella scelta delle misure da adottare i criteri cui si doveva affidare il governo erano quelli dell’equità, della praticità e
del gradualismo 24. E proprio alla luce di tali criteri, nel quarto governo da lui diretto, egli fece della politica antinflazionistica e della stabilità monetaria gli obiettivi prioritari da conseguire, in
quanto l’inflazione, colpendo i redditi fissi, veniva considerata la
più ingiusta di tutte le tasse, mentre l’aumento dei livelli occupazionali sarebbe stato raggiunto più lentamente tramite l’espansione produttiva 25.
Da quanto detto, ma su questo punto sarebbero necessarie ricerche più approfondite, non sembrerebbe proprio preoccupazione di De Gasperi interrogarsi su un eventuale rapporto di filiazione del liberalismo, politico ed economico, dalla spiritualità cristiana, preoccupazione che, invece, avrebbe condotto Röpke a sostenere quel rapporto e a giustificare storicamente, quindi, l’antistatalismo cristiano 26. Certamente, la distanza che separava il
pragmatismo antideologico di De Gasperi primo ministro dalle
elaborazioni e suggestioni statal-interventiste del leader cattolico
negli anni della seconda guerra mondiale non può essere sottaciuta. Nel corso del 1943, infatti, De Gasperi redigeva documenti
programmatici che possedevano un forte sapore dirigista e pianificatorio, rispondente peraltro senza elementi di originalità al clima culturale di allora, in cui il riformismo si muoveva tra le stelle
polari di Keynes e Beveridge e, sul versante più specificamente
cattolico, della sintesi tra la tradizionale dottrina sociale cattolica
e il corporativismo fascista 27. In tali programmi alla politica economica veniva posto il rispetto di due condizioni: «la libertà, diritto dell’uomo e la giustizia sociale, missione dello Stato» 28; la libera concorrenza e l’iniziativa privata venivano considerate legittime solo se esercitanti «una funzione utile al bene comune»;
compito dello Stato era quello di «tutelare, promuovere, integrare» il libero gioco delle forze economiche 29. Erano poi enfatizzati
il ruolo della piccola e media impresa e del commercio, e la necessità della loro difesa dalle industrie monopolistiche e dalle
«ambizioni imperialistiche della plutocrazia capitalistica», e stilato un programma che prevedeva il diritto al lavoro, il minimo di
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sussistenza, la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa,
l’eliminazione delle «eccessive concentrazioni di ricchezza» e del
«feudalesimo finanziario, industriale e agrario» che minacciava la
piccola proprietà, la tassazione dei sopraprofitti di guerra e di regime, una politica fiscale progressiva con l’esenzione delle quote
minime che colpisse soprattutto i redditi non reinvestiti produttivamente, il controllo statale delle imprese che tentassero di acquisire posizioni monopolistiche, la «socializzazione» di quelle concernenti i settori elettrico, siderurgico, metallurgico, minerario,
chimico, meccanico, navale, nonché i trasporti marittimi e aerei, il
rifiuto del protezionismo doganale 30.
Eppure, nonostante questo ruolo di assoluto rilievo che negli
anni Quaranta De Gasperi affidava ai poteri pubblici, non è difficilmente rintracciabile un filo rosso che unisce il «liberismo» degasperiano filoeinaudiano del dopoguerra alle speculazioni del
leader democristiano nel decennio precedente. Negli studi sul fenomeno corporativo, infatti, premura di De Gasperi era di segnalare i limiti di quell’esperienza. Se nel XIX secolo tutti i movimenti cattolici europei concordavano nel sostenere il sistema corporativo per le sue finalità sociali miranti a ricomporre il conflitto
tra lavoratore e datore di lavoro, essi divergevano invece in merito agli scopi economici. Nonostante, difatti, personalità quali La
Tour du Pin, Vogelsang, Hitze avessero attribuito al corporativismo il compito di regolamentare produzione e prezzi, De Gasperi ricordava che in occasione del Congresso di Liegi del 1890, che
aveva visto la partecipazione di rappresentanti dei movimenti cristiano-sociali di tutto il mondo, la tesi dei primi aveva suscitato vivaci reazioni da parte dei congressisti, che avevano rigettato finanche il termine corporativo, in quanto richiamante le medievali corporazioni d’arti e mestieri 31.
Negli anni della seconda rivoluzione industriale, così, alla
«controrivoluzionaria» Association catholique si opponeva Perin,
convinto che dell’esperienza rivoluzionaria francese andassero accolti gli ideali di libertà ed eguaglianza civile, mentre in Germania
era il Centro a fare proprie le tesi dello Hertling, che sottolineava
le degenerazioni monopolistiche del corporativismo medievale 32.
Se poi si consideravano il partito cristiano-sociale viennese e il
movimento cattolico belga che fin dall’epoca dei moti d’indipendenza si era alleato con quello liberale, si poteva concludere che
«verso la fine del periodo prebellico la maggioranza dei cattolici
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militanti non concepiva la funzione politica dell’ordinamento corporativo che nel senso di correggere il sistema rappresentativo dominante ed il regime democratico, non nel surrogarlo con un regime nuovo» 33. Come aveva teorizzato Toniolo, la «ricostruzione
cristiano-sociale» doveva respingere da una parte l’economia «individualista» e liberista, dall’altra quella «panteista o il socialismo
di stato» 34. D’altronde, è stato sottolineato, l’inclinazione degasperiana per le «virtù dell’empirismo» e della «concretezza» e la
sua cautela nei confronti delle «valutazioni generalizzanti» e
schiettamente teoriche appartenevano pienamente a quel cattolicesimo trentino a cavallo tra Otto e Novecento in cui De Gasperi
era cresciuto, e che si segnalava per una non comune capacità
operativa e una sostanziale assenza di riferimenti teorici e dichiarazioni programmatiche 35. Se, poi, negli anni universitari viennesi De Gasperi era stato certamente influenzato dal cristianesimo
sociale di Karl Lueger, borgomastro nel 1897, e dal socialriformismo del barone Karl von Vogelsang, acceso sostenitore del corporativismo, è pur vero che successivamente egli avrebbe guardato
con indulgenza al proprio passato da «ardito interventista» e
«scolaro, attraverso gli epigoni, del Vogelsang» 36.
Già, dunque, nel primo discorso pubblico tenuto all’indomani della Liberazione di Roma al teatro Brancaccio il 23 luglio
1944, De Gasperi indica in modo elementare ma efficace la libertà
che, qualunque sia l’«esperienza sociale» che il Paese voglia compiere, non può essere calpestata; quella di «esser padroni in casa
propria, dunque proprietario o almeno mezzadro e affittuario» e
di «poter allevare i figli secondo le proprie condizioni e il poter risparmiare per loro: libertà del risparmio trasmissibile» 37. La tesi
del ceto medio indipendente e risparmiatore quale nucleo fondante il nuovo regime democratico riceve in questa occasione la
prima esplicita formulazione 38. In seguito esso, espressione più
compiuta dell’«energia della iniziativa» e della «libertà dello sviluppo dell’individuo», viene contrapposto all’«antica costellazione plutocratica» dei grandi settori industriali che aveva sostenuto
il fascismo 39. Il 18 maggio 1947, nell’intervento commemorativo
della Rerum Novarum presso la Basilica di Massenzio, De Gasperi attribuiva ai poteri pubblici una funzione suppletiva dell’iniziativa privata. Se difatti la Chiesa invocava l’intervento dello Stato
per rispondere alle esigenze delle classi meno abbienti, il Presidente del Consiglio aggiungeva: «Però, badate, bisogna ricordare
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un altro pensiero di Leone XIII, che è giusto anche oggi: non bisogna aspettare tutto dallo Stato e dal Governo [...]. Accanto agli
organi dello Stato, e meglio degli organi dello Stato, devono agire
gli organi della libera iniziativa consorziata, associata; sono le società edilizie, le società di costruzione, le società di miglioramento
agrario, le società cooperative di ogni forma; sono le società che
devono prendere le iniziative e mettersi al servizio della causa popolare per attuare quello che è il programma del Governo. Senza
di queste, senza questa concordia con la lotta di partito nell’agire,
né il Paese, né il comune, né la provincia si salvano ormai più» 40.
Ma l’azione del quarto governo De Gasperi, che si sarebbe articolata essenzialmente sui tre cardini della fine dell’inflazione, del
ritorno alla stabilità monetaria e del risanamento del bilancio statale, non è a nostro avviso pienamente intelligibile se non la si considera anche alla luce dell’elaborazione intellettuale compiuta da
Luigi Einaudi nella prima metà del Novecento, al centro della
quale vi era la convinzione che solo l’esistenza di ceti medi moralmente ed economicamente solidi ed indipendenti dallo Stato fosse una sicura garanzia di stabilità sociale e di progresso civile.
Fin dagli anni del take-off giolittiano, infatti, i numerosi interventi di Einaudi su La Riforma sociale, L’Unità di Salvemini e il Corriere della Sera di Albertini testimoniano l’esigenza di un rinnovamento della borghesia e dei ceti produttivi che si affidasse ai meccanismi della libera concorrenza e della competizione. Al contempo
durissima era la requisitoria nei confronti dei capitalisti «parassitari», che ricorrevano agli strumenti del protezionismo e delle commesse statali per garantirsi la sopravvivenza, capitalisti che venivano
sprezzantemente definiti trivellatori in un articolo del 1912, con evidente allusione non solo alle perforazioni in territorio libico, ma anche ai «saccheggi» perpetrati a danno del bilancio dello Stato 41.
La caduta dei «pilastri» del successo economico delle nazioni
civili, ovverosia i valori della «parsimonia» e dell’«operosità» individuali, era stata poi per Einaudi definitiva all’indomani della
conclusione del primo conflitto mondiale, allorquando tutti i ceti
sociali, e quello imprenditoriale in misura perfino maggiore di
quello operaio, avevano iniziato ad «elemosinare» aiuti e provvidenze a carico delle casse statali 42. Di fronte alla prassi invalsa che
vedeva lo Stato sopperire ai costi degli errori degli industriali mediante alti prezzi di fornitura e sussidi, «impallidivano – difatti –
le esorbitanze dei cooperatori e dei leghisti rossi, se pure anch’es-
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si decisi all’assalto della pubblica pecunia» 43. A tale assalto i ceti
produttori che non avevano nello Stato il proprio committente,
quelli che Einaudi definisce le «antiche classi indipendenti» 44 costituenti «il volto di una democrazia rurale e cittadinesca» 45, non
si erano opposti, palesando la loro estraneità alla vita della comunità nazionale. Mancava nei ceti medi indipendenti la consapevolezza «di esser essi medesimi lo stato, che fa considerare ingiuria
propria quella arrecata allo stato» 46. La «maggioranza, laboriosa,
ma passiva ed ignara [...], la solita maggioranza che fatica e tace»
aveva poi assistito impotente non solo all’assalto perpetrato ai
danni della finanza pubblica delle classi maggiormente organizzate, ma anche all’invasione delle terre e all’occupazione delle fabbriche da parte di contadini e operai, «incitati dall’esempio dei capi dell’industria e della finanza» 47.
L’origine della crisi veniva individuata in fattori di ordine etico, non economico. Il «veleno» che corrodeva l’Italia nel primo
dopoguerra, scriveva l’economista piemontese, «era morale e
operò per vie morali, che si chiamano invidia, odio, superbia, lussuria, rapina, miseria, vendetta, ignoranza» 48, ed era un prodotto
del conflitto bellico, che «aveva inoculato nelle classi dirigenti e
nel popolo germi di malattia morale più distruttivi di quelli che
producevano guasti economici» 49. Il «collettivismo» bellico, grazie all’inflazione monetaria, aveva reso popolare l’idea, che «in
germe esisteva già prima, dello stato garante della felicità e della
sicurezza per tutti» 50. Da qui la tentazione da parte dei vari ceti
sociali, operai e contadini, industriali e banchieri, di «rinunciare
alla propria indipendenza economica» e di «associarsi allo stato
nella vana speranza di accollare» a quest’ultimo «i rischi della propria impresa, conservando per sé i benefici» 51.
Gli anni della grande depressione avrebbero poi portato Einaudi ad identificare sostanzialmente keynesismo ed esperienza
corporativa fascista e a rafforzarsi nella convinzione che uno sviluppo equilibrato risiedesse nella piccola impresa, meglio se familiare, e non nelle grandi imprese tendenti al monopolio. Rivelatore in questo senso è un articolo dell’autunno 1932, in cui l’economista piemontese ipotizza che il flusso annuo del reddito nazionale sia frutto non tanto della grande impresa «regolata, disciplinata, vincolata», bensì di quella piccola e media avente il suo fulcro
«nella infrangibile unità familiare» 52. È stato giustamente osservato che è proprio la crisi degli anni Trenta a far incontrare Ei-
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naudi e gran parte della cultura cattolica sul terreno del rifiuto
della nuova realtà industriale mono-oligopolistica statunitense,
giudicata da entrambi pericolosamente massificante e livellatrice
dei gusti e dei consumi 53. La resistenza a identificare «sviluppo
capitalistico e grande dimensione taylorizzata – quindi –, secondo
lo stereotipo che è divenuto dominante nella cultura europea tra
le due guerre, rendeva il modello einaudiano estremamente idoneo a interpretare una fase di sviluppo orizzontale dell’economia
del paese, quale si produrrà dopo il 1945» 54.
Una delle prime misure che adottò Einaudi nella sua veste di
ministro del Bilancio fu quella di ripristinare nel luglio 1947 il comitato interministeriale per il credito e il risparmio che, varato
dalla legge bancaria del 1936, era stato abolito nel 1944, e che aveva come compito quello di vigilare in materia valutaria, di tutela
del risparmio e di esercizio della funzione creditizia. Tale comitato decise nell’agosto l’introduzione, a partire dal 30 settembre
successivo, di un sistema di riserve bancarie obbligatorie 55.
Il ministro del Bilancio difendeva la sua decisione di procedere a una contrazione del credito, appellandosi alla necessità improrogabile della «tutela dei risparmiatori», concepita come fine principale dell’azione di governo 56. «Le banche – scriveva sulle colonne del Corriere della Sera – hanno il torto di incolpare il Tesoro e la
Banca d’Italia di una restrizione di credito che è il risultato fatale
della condotta da esse tenuta nei 14 mesi decorsi: avendo dato alle
industrie tutto e, anzi, qualcosa di più di tutto ciò che esse hanno
ricevuto dai depositanti, le banche sono giunte ad un limite d’impiego [...] che sarebbe pericoloso, anzi folle, superare» 57. Già pochi giorni prima di entrare a far parte della compagine governativa
Einaudi aveva ricordato come il conflitto bellico e la successiva
svalutazione monetaria avessero colpito duramente i redditi di
«milioni di medi e piccoli risparmiatori» 58.
In occasione del «prestito della ricostruzione», varato nell’autunno del 1946 e conclusosi nel gennaio 1947 con il consenso
pressoché unanime di tutti i partiti, aveva poi affermato che il suo
successo fosse da ascrivere a «quelle api dal ronzio sommesso che
si chiamano “risparmiatori”». Se la realtà aveva superato non solo
il «probabile» ma anche il «verosimile», ciò andava attribuito a
quello che veniva solennemente definito il «patriottismo dei sottoscrittori» 59. In effetti, tramite questa operazione furono raccolti 231 miliardi tra denaro liquido e buoni del tesoro, un risultato
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non disprezzabile, anche se al di sotto delle necessità finanziare
indispensabili per la ricostruzione.
In un intervento parlamentare dell’ottobre 1947 il ministro
del Bilancio tesseva un altissimo elogio dei meriti storici dei risparmiatori ed affermava lo strettissimo legame esistente tra il risparmio e l’opera di ricostruzione in cui era impegnato il Paese:
«Il risparmiatore italiano, con i suoi mezzi, ha provveduto a che
si ricostruissero le ferrovie, si rifacessero le strade; ha compiuto
un’opera che, domani, quando sarà considerata nel suo complesso, dovrà essere definita grandiosa. Esso, bisogna riconoscerlo, non avrebbe potuto ricostruire – risparmiare vuol dire ricostruire, è la premessa e la sostanza medesima della ricostruzione – se non fosse stato aiutato nel frattempo a vivere, a mangiare e vestire, dai soccorsi americani. Ma gli italiani non si sono
adagiati passivamente ai soccorsi altrui. Se ne sono dimostrati
degni, faticando a ricostruire, risparmiando, per potere in avvenire fare da sé» 60. Tramite le misure di restrizione dei crediti all’industria e al commercio e di drastica riduzione della liquidità
bancaria promosse dal governo nell’ottobre 1947, la velocità di
circolazione della moneta rallentò e gli industriali furono costretti a riversare sul mercato le scorte, contribuendo così a raffreddare i prezzi.
Le ragioni che avevano convinto Einaudi ad adottare tali
provvedimenti, ripetiamo, sono pienamente comprensibili solo se
si tiene a mente la funzione vitale che egli assegnava alla figura del
risparmiatore nel salvaguardare una società economicamente sana. «È troppo comodo – ammoniva il ministro del Bilancio nell’intervento parlamentare citato – conservare in beni reali il frutto
dei propri utili e poi chiedere allo stato direttamente o indirettamente sovvenzioni in lire per l’esercizio della propria azienda
principale. Il meccanismo è chiaro: chiedendo sovvenzioni, quando si sa che le sovvenzioni non possono essere date se non col
mezzo dell’aumento della circolazione, si è praticamente certi che
quella sovvenzione, quando sarà restituita, se era di un miliardo
come potenza di acquisto, sarà restituita in un miliardo nominale,
ma quel miliardo nominale varrà soltanto un mezzo o magari un
terzo di miliardo come potenza d’acquisto. Si sarà verificata una
trasposizione di fortune, da chi a chi? Dalla povera gente che ha
risparmiato, che ha depositato i denari, che ha comperato i titoli
del debito pubblico [...] a favore di coloro i quali hanno trovato la
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elegante maniera sovradescritta di sovvenire ai bisogni delle proprie aziende senza proprio sacrificio» 61.
Fin dall’aprile 1945, in un articolo apparso su Risorgimento liberale, l’economista piemontese aveva illustrato i terribili effetti di
disgregazione sociale prodotti dal fenomeno inflazionistico. Da
una parte, infatti, «c’è chi resta con le piante attaccate alla terra e
sono i percettori di redditi fissi, i pensionati privati, coloro che
hanno redditi vincolati. Costoro avevano cento di reddito e, restando con lo stesso reddito, fanno la fame, con i prezzi moltiplicati per dieci, per venti, per cinquanta»; dall’altra vi «sono i borsari neri o commercianti improvvisati, che ad ogni giro di merce
guadagnano grosse percentuali di profitto. In mezzo stanno coloro che hanno redditi aumentati, ma taluni meno e taluni più dell’aumento dei prezzi [...], tutti si lamentano: i primi a ragione ed i
secondi perché invidiosi di coloro che guadagnano di più e timorosi di vedersi portar via quel che hanno guadagnato» 62.
L’inflazione equivaleva quindi per Einaudi a «tragedia sociale», «lotta fratricida», «caos sociale». Ad essa erano infatti principalmente da addebitare la distruzione dei ceti medi, ossatura
di ogni società democratica, e l’affermazione dei regimi dittatoriali. Nel 1946 l’economista piemontese avrebbe riaffermato con
forza la definizione di inflazione come flagello, «perché distrugge i ceti medi, perché arricchisce senza merito gli uni ed impoverisce senza colpa gli altri; perché crea l’odio e l’invidia fra classe e classe ed è alla radice delle convulsioni caratteristiche del
tempo nostro» 63.
Quasi a parafrasare il Marx del Manifesto, esaltante la funzione storica di quella classe borghese che aveva fatto ben più delle
piramidi egiziane, degli acquedotti romani e delle cattedrali gotiche, Einaudi scriveva con linguaggio immaginifico che il ceto medio aveva prodotto «la grandezza delle città greche nell’antichità,
delle città medievali italiane e fiamminghe e forma ora il nerbo
della civiltà occidentale» 64.
E proprio alla svolta deflazionistica, secondo gran parte della
letteratura in materia, dovrebbe essere ascritta la salvezza della
moneta italiana dalla rovina iperinflazionistica che aveva colpito
all’indomani del primo conflitto mondiale il marco tedesco 65. Ed
infatti il processo inflattivo che si era abbattuto sulla Germania
nel primo dopoguerra veniva da Einaudi indicato come una delle
maggiori concause dell’affermazione della dittatura nazista.
770
Luca Tedesco
Coerentemente con l’assunto teorico che qualificava come
«equo» il prelievo fiscale sul solo reddito consumato, Einaudi fu
particolarmente ostile nei confronti dell’ipotesi di tassare gli incrementi patrimoniali, ipotesi giudicata contraria «all’avanzamento economico, alla stabilità sociale, alla solidità familiare», in
quanto inibente la formazione della ricchezza e la crescita dei redditi. «Risparmiare e quindi arricchire, incrementare la propria
fortuna [...], ampliare la fabbrica, migliorare i terreni [...] che cosa è? Forse un delitto? [...] – si chiedeva retoricamente l’economista piemontese – Oggi non si sa più quale significato dare al risparmio, all’operosità feconda, all’iniziativa, alla capacità di organizzazione» 66. L’accenno alla stabilità sociale svelava le ragioni anche politiche sottostanti alle misure che Einaudi avrebbe caldeggiato e che avrebbero risposto a quello che è stato definito un indirizzo di «stabilizzazione dei rapporti fra le classi sociali» 67. Egli
temeva, infatti, che se non si fosse contenuta l’inflazione, i ceti medi avrebbero potuto subire uno spostamento verso i partiti estremi, di destra come di sinistra.
Rivelatrice della concordanza di vedute tra De Gasperi ed Einaudi circa la necessità di dare una risposta efficace alle tensioni e
ansietà economiche che animavano le «classi risparmiatrici» nel
dopoguerra è un discorso tenuto dal primo all’Assemblea Costituente nel dicembre 1947: «Esiste un quarto partito: – sosteneva
il primo ministro, riferendosi a quanto detto nel Consiglio dei ministri in occasione della crisi di governo che aveva decretato la fine dell’intesa tripartita – è il partito dei risparmiatori, proprio dei
piccoli risparmiatori non in grado di controllare la situazione né
politica né amministrativa, e sono oggi allarmati [...]. Bisogna fare
qualche cosa per calmare questo quarto partito che appartiene a
tutti gli strati sociali; ma soprattutto riguarda il ceto medio. Ed allora v’era proprio fra le mie previsioni una delle persone le quali
potevano rappresentare il mezzo per calmare la preoccupazione:
si trattava dell’onorevole Einaudi. Allora parlare dell’onorevole
Einaudi era parlare della reazione, era parlare di una persona che
ci avrebbe posti sotto il gioco dei grossi plutocrati e industriali.
Oggi credo che, onestamente, nessuno in Italia possa pensare una
cosa simile, quando si vede la collusione di interessi da parte di
grossi industriali e, purtroppo, anche da parte di lavoratori che
hanno bisogno di lavorare per vivere, collusione contro la politica
di Einaudi, politica deflazionistica che è evidentemente contro la
Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti medi
771
speculazione» 68. Precedentemente, nel novembre del 1946, De
Gasperi, a proposito delle turbolenze inflattive, si era espresso
con accenti assai simili a quelli einaudiani: «L’inflazione – asseriva
il leader cattolico – in un momento di prezzi crescenti e caratterizzato da un persistente squilibrio fra la produzione e la richiesta
dei beni reali, sarebbe disastrosa per tutti e estremamente pericolosa anche per la tranquillità sociale» 69. Simili preoccupazioni, ripetiamo, divenivano tanto più pressanti quanto più ci si avvicinava alla cruciale scadenza elettorale della primavera del 1948 70.
La rappresentazione dei ceti medi produttivi come baluardo
di un regime di libertà e sicura garanzia contro i pericoli di tentativi autoritari ricorre frequentemente, direi ossessivamente,
negli articoli scritti da Einaudi per il Corriere della Sera nel biennio 1947-48. Nel nostro Paese, scriveva l’economista nell’aprile
1948, dove «i ceti professionali non dipendono dallo stato, ma
dal favore della clientela; dove gli agricoltori sono ancora re in
casa propria e portano i propri prodotti al mercato e non sono
costretti [...] a consegnarli a prezzi fissati ad un padrone anonimo detto stato; dove esistono ed esisteranno sempre, ove non
siano aboliti per legge, artigiani e commercianti ed industriali
piccoli e medi, non è possibile [...] la tirannia [...]. Vivono nelle
nostre società milioni di uomini appartenenti a ceti indipendenti dal monopolista privato o dal leviatano statale. Questi ceti indipendenti sono ancora, per fortuna, la grandissima maggioranza del popolo italiano, come degli altri popoli di civiltà occidentale; ed in questi ceti indipendenti sta il presidio ultimo della libertà civile e politica» 71.
In verità, i beneficiari di alcuni degli interventi di sostegno
promossi dal quarto governo De Gasperi furono proprio la piccola e media industria e l’artigianato, a testimonianza di come l’enfatizzazione einaudiana dei meriti dei ceti medi ignorava a volte la
ben più meschina, corposa e prosaica realtà delle richieste lobbistiche. «La media e piccola industria – si legge nello schema di un
decreto legislativo del 1947 – rappresentano in Italia una delle
più tipiche e tradizionali attività produttive che è indispensabile
assistere e sviluppare nell’interesse sociale ed economico del Paese. Queste frazionatissime aziende che impiegano centinaia di migliaia di unità lavorative individuali e familiari non possono vivere e prosperare senza un adeguato sostegno creditizio che le aiuti
nell’approvvigionamento delle materie prime, nella dotazione di
772
Luca Tedesco
adeguati strumenti di lavoro e nel collocamento di prodotti [...].
Potrà svilupparsi così in Italia quella rinomata e caratteristica produzione industriale che esprime le peculiari qualità pratiche ed artistiche dei lavoratori italiani e che rappresenta tanta parte dell’economia nazionale» 72. Ai fini del finanziamento viene proposto di
utilizzare la Banca Nazionale del Lavoro per l’Italia settentrionale
e centrale ed il Banco di Napoli e di Sicilia per il Sud e le isole.
Poiché l’esercizio di un credito specializzato a favore della media
e piccola industria comportava un rischio superiore alla media,
veniva avanzata l’idea della costituzione di un apposito «fondo di
garanzia» da formarsi con la partecipazione dello Stato.
Nella seduta pomeridiana del 6 dicembre 1947 del Consiglio
dei Ministri veniva approvato con dichiarazione di massima urgenza un provvedimento, poi decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato del 15 dicembre 1947, n. 1419, concernente sempre il credito alle medie e piccole imprese industriali. In esso, ricordato l’aiuto finanziario pubblico alla grande industria, il sostegno creditizio a quella medio-piccola viene giustificato dalla circostanza che quest’ultima rappresenta oltre il 60% dell’attività industriale italiana. Il «fondo di garanzia» viene costituito con apporto dello Stato per 3 miliardi di lire presso la Sezione di credito
alla media e piccola industria della Banca Nazionale del Lavoro,
per 2 miliardi presso la Sezione di Credito Industriale del Banco
di Napoli e per 1 miliardo presso quella del Banco di Sicilia 73.
Accenti quasi lirici raggiungevano le giustificazioni addotte
dal Consiglio dei Ministri per sostenere l’artigianato. Questo, difatti, «ancor più di altre attività industriali, [era] noto anche all’estero per le sue peculiari caratteristiche e per i suoi pregevoli lavori pratici ed artistici che, nei paesi a produzione standardizzata,
[erano] spesso considerati e pagati come opere d’arte» 74. Per sostenere questo settore economico veniva quindi approvata tra l’altro dal Consiglio dei Ministri la costituzione di una «Cassa per il
Credito all’Artigianato», con un fondo di dotazione di 175 milioni di lire, finanziato dallo Stato per 100 milioni di lire e dall’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio, dall’Istituto centrale per
le Banche Popolari e dal Monte dei Paschi di Siena per 25 milioni
di lire ciascuno, integrato da un «fondo di garanzia», ancora una
volta con apporto dello Stato, per 2 miliardi di lire, negli esercizi
1947-48 e 1948-49, nonché delle Casse di risparmio, delle Banche
Popolari e del Monte dei Paschi di Siena.
Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti medi
773
Furono, così, la manovra restrittiva del 1947 e le prime misure
a favore della piccola e media borghesia e dei percettori di reddito
fisso, insieme con l’ampliamento dei ruoli organici dei ministeri con
la creazione di «ruoli speciali transitori», che diventarono nel tempo permanenti con l’entrata in ruolo di oltre duecentomila «avventizi», a garantire una solida base politico-elettorale alla Democrazia
Cristiana, rafforzata negli anni successivi grazie alla riforma fondiaria, la Cassa per il Mezzogiorno e il piano-case di Fanfani 75.
Nel settembre 1947 venivano poi creati il «Fondo per il finanziamento delle industrie meccaniche» (Fim), con il compito di finanziare la ristrutturazione delle industrie meccaniche maggiormente in crisi, e una nuova finanziaria industriale dell’Iri, la Finmeccanica. Contemporaneamente venivano varati, come precedentemente segnalato, misure di sostegno per la media e piccola
imprenditoria e per l’artigianato, sussidi per i produttori nazionali
di carbone, lignite, seta, zolfo e finanziamenti agevolati per le iniziative industriali nel Mezzogiorno. Nel dicembre 1947 un decreto
legislativo concedeva agevolazioni anche per la costruzione e l’ampliamento di stabilimenti al Sud, limitandosi a prevedere che dette
misure sarebbero state finanziate dagli istituti di credito. Il Fim, alla cui costituzione Einaudi si era in principio dichiarato favorevole, sarebbe ben presto degenerato in una sorta di scialuppa di salvataggio per imprese «cotte», fino alla sua liquidazione nel 1950.
Sul finire del 1947 il ministro del Bilancio stilava un desolante elenco degli «assalti» che gli interessi particolari avevano condotto con successo a danno dell’erario pubblico: «Dopo il trenta
viene il trentuno; se si sono dati miliardi per il nord, se ne devono
dare per il sud; se si sono dati per le meccaniche, bisogna darli per
l’olio che non si vende neppure ai prezzi d’ammasso; per la seta
che non si vende affatto [...]; per le piccole e medie aziende, le
quali non sono pagate dalle grosse; per gli artigiani i quali veggono i clienti disertare i loro laboratori» 76. Tutto ciò che ha elargito
il Fim – avrebbe scritto Luigi Einaudi al proprio figlio Giulio il 12
aprile 1948 – «è stato solo per paghe operaie e per industrie statali. Quando gli industriali vogliono ottenere qualcosa, mandano in
piazza gli operai; e questi attraverso i prefetti e i ministri ottengono. Come mai i capi organizzatori non abbiano capito che, insistendo come fanno per non far licenziare neppure uno e inventando ogni sorta di amminicoli costosi ed inutili, come quelli della previdenza sociale, crescono la disoccupazione e aumentano la
774
Luca Tedesco
miseria, non si capisce [...]. Pare che al di là di quella che io chiamo la cortina di ferro, il problema sia stato risolto con la forza dello stato, il quale costringe al lavoro, eventualmente condanna ai
lavori forzati i renitenti, stabilisce i salari con variazioni molto più
sensibili di quelle nostre fra gli alti e i bassi, preleva con l’imposta
di scambio parti notevoli del prodotto lordo ecc. ecc. Tutte cose
impossibili in un regime di libera discussione» 77. Nel corso del
medesimo anno Einaudi si sarebbe più volte lamentato con De
Gasperi dell’orientamento di molti ministri volto a caldeggiare
politiche di «ampio respiro sociale» e a incrementare organici e
capitoli di spesa piuttosto che a perseguire una linea di rigore economico 78.
Nel febbraio 1948 veniva approvato il nuovo statuto dell’Iri,
che metteva la parola fine al dibattito su una sua possibile privatizzazione, e si inscriveva a pieno titolo in quel fenomeno della
«continuità» del sistema pubblico e amministrativo sotto il duplice profilo degli ordinamenti e del personale nel momento del trapasso dal regime fascista a quello repubblicano 79. La svolta deflazionistica del 1947, è stato quindi a ragione rilevato, avrebbe segnato «piuttosto la fine che non l’inizio di una fase di intransigenti sperimentazioni liberiste» 80.
Luca Tedesco
NOTE
1 Cfr., per quanto attiene alle ricerche sulle classi sociali in Italia e a titolo meramente indicativo, C. Daneo, Struttura e ideologia del ceto medio, in Problemi del socialismo, ottobre 1967, pp. 1216-1243; E. Gorrieri, La giungla retributiva, Il Mulino, Bologna 1972; P. Calzabini, Problemi per un’analisi delle classi sociali in Italia, in Inchiesta,
1973, III, pp. 14-28; A. Pichierri, Le classi sociali in Italia (1870-1970), Loescher, Torino
1974; P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974; M. Paci (a cura di), Capitalismo e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1978; C. Carboni (a cura
di), I ceti medi in Italia tra sviluppo e crisi, Laterza, Roma-Bari 1981; P. Sylos Labini, Le
classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1986; U. Pascoli-R. Catanzaro (a cura
di), La società italiana degli anni ottanta, Laterza, Roma-Bari 1987; M. Paci, Il mutamento della struttura sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 1992; L. Gallino, Le classi sociali tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Un tentativo di quantificazione e comparazione, in A. Del Boca-M. Legnani-M. G. Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 399-413; M. Malatesta (a cura di), I professionisti, in Storia d’Italia. Annali, Einaudi, Torino 1996, vol. 10; S. Musso, Lavoro e occupazione, in AA.VV., Guida all’Italia contemporanea 1861-1997, Garzanti, Milano 1998,
vol. I, pp. 471-535.
Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti medi
775
2
Cfr. M. Salvati, Classi medie, in B. Bongiovanni-N. Tranfaglia, Dizionario storico
dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 155-156.
3
A. Pizzorno, I ceti medi nei meccanismi del consenso, in F. L. Cavazza-S. R. Grabaud (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano 1974, pp. 314-337.
4
P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, cit., pp. 9-60.
5
A. Pizzorno, op. cit., p. 326.
6
Ibid., pp. 324-326.
7
Ibid., p. 324.
8 Ibid.
9
S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Tea, Milano 1996 (ed.
originale UTET, Torino 1984), pp. 371-383.
10 Ibid., p. 375.
11
Ibid., pp. 374-379. Circa il supposto «anticapitalismo» delle classi medie e la visione apocalittica del collasso del capitalismo, mutuata dalla Terza Internazionale, delle sinistre marxiste, visione sostanzialmente riproposta dopo il 1945, cfr. gli ancora validi L. Luzzatto e B. Maffi, La politica delle classi medie e il planismo, in S. Merli, Fronte antifascista e
politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia 1923-1939, De Donato, Bari 1975, pp. 76106 e E. Sereni, Fascismo, capitale finanziario e capitalismo monopolistico di Stato nelle analisi dei comunisti italiani, in Critica marxista, settembre-ottobre 1972, pp. 17-46.
12 Ibid., p. 418. Come ha scritto Piero Barucci, tutte le forze politiche tentarono di
conquistare la fiducia dei ceti medi, «ritenendoli i veri protagonisti per la ricostruzione
economica», in P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 79-98.
13
P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, cit., p. 155, tabella 1.1, qui parzialmente riprodotta.
Italia (cifre assolute in migliaia)
1936
1951
10.760
11.435
990
340
436
214
1.970
1.050
595
325
9.250
3.700
3.300
1.000
1.050
200
8.930
6.080
Ic. CATEGORIE PARTICOLARI
(militari, religiosi e altri)
520
535
II. BORGHESIA
Proprietari, imprenditori e dirigenti
Professionisti
320
210
110
390
245
145
8.550
8.250
19.630
20.075
I. CLASSI MEDIE
Ia. PICCOLA BORGHESIA
IMPIEGATIZIA
1. Impiegati privati
2. Impiegati pubblici
3. Insegnanti
Ib. PICCOLA BORGHESIA
RELATIVAMENTE AUTONOMA
1. Coltivatori diretti
2. Fittavoli e coloni
3. Artigiani
4. Commercianti
5. Trasporti e servizi
III. CLASSE OPERAIA
TOTALE
1.200
1.350
300
776
Luca Tedesco
14
L. Gallino, op. cit., pp. 407-408, di cui riproduciamo parzialmente la tabella n. 1
a p. 403.
Variazioni del peso assoluto e relativo di ciascuna classe della popolazione
in condizione professionale 1931-1951 (cifre in migliaia)
CLASSI
n.
Classe di servizio
Coltivatori diretti
(conduttori, mezzadri, coloni)
di cui coadiuvanti
Lavoratori agricoli
Artigiani
(inclusi i coadiuvanti)
Commercianti
di cui coadiuvanti
Impiegati
Lavoratori dei servizi
Tecnici
Insegnanti
Classe medica
Operatori socio-sanitari
Altre classi
Totale classi
Popolazione
70
1931
%
1951
n.
%
0,4
50
0,2
5640+200?* 32
2.860+600?* 16,3
2.400+400?* 13,6
5.470
3.000
2.660
27,7
15,2
13,5
900
760
230
970
1.750
240
320
120
100
6.175
19.745
47.500
4,6
3,8
770
4,4
870
4, 9
175+200?* 1
475
2,7
1.430
8,1
100
0,6
185
1,1
55
0,3
95
0,6
5.590
0,31
17.600 100
41.175
42,7
4,9
9,9
1,2
1,6
0,6
0,5
0,31
100
41,6
* Il punto interrogativo indica una presumibile sottostima delle figure femminili
impiegate nell’agricoltura e nel commercio.
15 Cfr. R. Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. La Repubblica 1943-1963, Laterza, Roma-Bari 1997, vol.
V, pp. 319-320, e M. De Cecco, La politica economica durante la ricostruzione 1945-1951,
in S. J. Woolf (a cura di), Italia 1943-1950. La ricostruzione, Laterza, Bari-Roma 1974, p.
289.
16 A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Nuovo Istituto Editoriale Italiano, Milano 1982,
pp. 4-5.
17 Cfr., a titolo esemplificativo, P. Barucci, La linea economico-sociale, in G. Rossini (a cura di), De Gasperi e l’età del centrismo (1947-1953), Cinque Lune, Roma 1984,
Atti del Convegno di studio organizzato dal Dipartimento cultura, scuola e formazione
della direzione centrale della D.C., Lucca, 4-6 marzo 1982, pp. 143-144.
18 P. Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 194. La
formazione economica degasperiana viene considerata marginale e «strumentale all’attività militante» anche da P. Craveri, De Gasperi Alcide, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988, vol. 36, p. 84.
19 P. Togliatti, op. cit., pp. 195-196.
20 Ibid., p. 196.
21 Ibid., p. 197.
22 Ibid., p. 198.
23 A. Giovagnoli, op. cit., pp. 30-35.
24
P. Barucci, La linea economico-sociale, cit., pp. 145 e 149.
Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti medi
777
25
Ibid., pp. 149-150. I temi della difesa del potere d’acquisto della moneta e del
contenimento dei prezzi ricorrono frequentemente anche negli interventi alla Costituente. Cfr. in proposito A. De Gasperi, Sulla politica finanziaria del governo, seduta all’Assemblea Costituente del 18 settembre 1946, in Id., Discorsi parlamentari (19211949), Camera dei Deputati, Roma 1985, p. 133 e Id., Per la discussione sulla situazione
finanziaria, seduta all’Assemblea Costituente dell’11 aprile 1947, ibid., p. 238.
26
W. Röpke, Liberalismo e Cristianesimo, in Vita e Pensiero, ottobre 1947. Cfr. anche P. Roggi, Il mondo cattolico e i «grandi temi» della politica economica, in G. Mori (a
cura di), La cultura economica nel periodo della ricostruzione, Il Mulino, Bologna 1980,
pp. 580-587.
27
A. De Gasperi, Idee ricostruttive della Democrazia cristiana (alla cui stesura parteciparono altri esponenti cattolici) e Id., La parola dei democratici cristiani, ora in Atti e
documenti della Democrazia Cristiana, 1943-1967, Cinque Lune, Roma 1967, vol. I, rispettivamente pp. 1-8 e pp. 23-34.
28
A. De Gasperi, La parola dei democratici cristiani, cit., p. 27.
29 Ibid.
30 Ibid., pp. 27-29.
31
Rerum Scriptor (A. De Gasperi), Evoluzione del corporativismo, in Illustrazione
Vaticana, 1-15 gennaio 1934, ora in A. De Gasperi, I cattolici dall’opposizione al governo,
Laterza, Bari 1955, pp. 162-167.
32
Ibid., pp. 168-916.
33 Ibid., p. 170.
34 Ibid., p. 172.
35 A. Moioli, De Gasperi e i cattolici trentini di fronte ai problemi economici e sociali del loro ambiente, in A. Canavero e A. Moioli (a cura di), De Gasperi e il Trentino tra
la fine dell’800 e il primo dopoguerra, Luigi Reverdito, Trento 1985, pp. 68-69.
36 Lettera di A. De Gasperi a S. Paronetto del 10 settembre 1943, ora in M. R. De
Gasperi (a cura di), De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, Morcelliana, Brescia 1981, p. 343.
37 A. De Gasperi, La Democrazia Cristiana e il momento politico, ora in Id., Discorsi politici, Cinque Lune, Roma 1956, vol. I, p. 18.
38 Pier Giorgio Zunino ha scritto come i topoi degasperiani dell’etica del lavoro,
del sacrificio, del risparmio, della responsabilità e della disciplina individuale e collettiva si rivelarono i più adatti ad essere accolti e interiorizzati dagli strati medio-borghesi, in P. G. Zunino (a cura di), Scritti politici di Alcide De Gasperi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 68.
39 A. De Gasperi, Le vie della rinascita, discorso pronunciato a Torino il 24 marzo
1946, ora in Id., Discorsi politici, cit., pp. 68-69.
40 L’intervento è depositato nel Fondo Francesco Bartolotta, Attività di Alcide De
Gasperi (1945-1953), presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, anno 1947,
vol. XII, pp. 1065-1075.
41 L. Einaudi, I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania, in La Riforma sociale, marzo 1912, pp. 161-193. Cfr., a titolo esemplificativo, anche Id., Nuovi favori ai siderurgici?, ibid., febbraio 1911; Id., Polemizzando con i siderurgici, ibid., dicembre 1912; Id., Protezionismo e trust, in L’Unità, 5 settembre 1913; Id., Dazi doganali e
sindacati fra industriali, in Corriere della Sera, 3, 8, 15 e 26 marzo 1914.
42 Id., La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Bari-New Haven 1933, pp. 264-281. Cfr. anche R. Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Per la
storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini del fascismo,
in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Il Mulino, Bologna
1981, pp. 164-169. Sulla concezione einaudiana della vita, da fondare sui valori della sobrietà, della misura, della frugalità e del sacrificio, valori tutti racchiusi nella figura del
risparmiatore, cfr. D. Preti, Ragionando intorno alla fortuna di un illustre conservatore,
778
Luca Tedesco
grande giornalista e opinion maker italiano: Luigi Einaudi, in Italia contemporanea, giugno 2001, pp. 318-319.
43
Id., La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., p. 279.
44
Ibid., p. 406.
45
Ibid., pp. 9-10.
46
Ibid., p. 26.
47
Ibid., p. 281.
48
Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino 1961, vol. V, p. XXXIII.
49 Id., La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., p. 387.
50
Ibid., pp. XXIX-XXX.
51 Ibid., p. 408.
52
L. Einaudi, Bardature della crisi, in La Riforma sociale, settembre-ottobre 1932,
p. 515, citato in L. Paggi, Strategie politiche e modelli di società nel rapporto Usa-Europa
(1930-1950), in Id. (a cura di), Americanismo e riformismo. La socialdemocrazia europea
nell’economia mondiale aperta, Einaudi, Torino 1989, p. 95.
53
Ibid., p. 97. Cfr. a riguardo L. Einaudi, Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in Rivista di storia economica, giugno 1942, pp.
49-72.
54 L. Paggi, op. cit., p. 97.
55 Sulle preoccupazioni di Einaudi in tema di costituzione di riserve obbligatorie
cfr. la circolare da lui inviata il 29 gennaio 1947, in qualità di Governatore della Banca
d’Italia, agli istituti di credito e depositata presso l’archivio storico della Banca d’Italia,
Fondo Vigilanza, serie 1, n. 231. A tal proposito mi permetto di rinviare al mio Einaudi,
la Banca d’Italia e la stretta creditizia. L’operato dell’istituto di emissione negli anni della
ricostruzione, in Nuova Storia contemporanea, marzo-aprile 2004, pp. 159-162.
56 L. Einaudi, Vincoli del credito, in Corriere della Sera, 7 settembre 1947, p. 1.
57 Ibid.
58 Id., Il pugno di mosche dei risparmiatori, ibid., 4 maggio 1947, p. 1.
59 Id., Successo del prestito, ibid., 19 gennaio 1947, p. 1.
60 Id., Politica economica e finanziaria, in Id., Interventi e relazioni parlamentari,
Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1982, vol. II, p. 733 (intervento parlamentare del 4
ottobre 1947). Cfr. anche Id., Il paese salvato dal risparmio, in La Libertà, 16 aprile 1946,
p. 1. Per la lettura einaudiana della ricostruzione come «sinonimo di rinunce, di risparmio», cfr. anche Banca d’Italia, Adunanza generale, anno 1946, Roma 1947.
61 Id., Politica economica e finanziaria, cit., pp. 723-724.
62 Id., L’alzamento della moneta, in Risorgimento liberale, 15 aprile 1945, p. 1.
63 Id., La coda della vacca, in Corriere della Sera, 26 ottobre 1946, p. 1. Cfr. anche
Junius (L. Einaudi), Il grande esperimento, supplemento della Gazzetta Ticinese, 25 novembre 1944, sulla capacità dell’inflazione, a causa dell’alterazione che comportava senza alcun criterio di giustizia nella distribuzione dei redditi, di scatenare sentimenti di
«rabbia di tutti contro tutti».
64 Id., Avvenire dei ceti medi, in Corriere della Sera, 16 marzo 1947, p. 1.
65 R. Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, cit., p. 322.
66 L. Einaudi, Manomorte tributarie, in Risorgimento liberale, 1° marzo 1946, p. 1.
67
V. Castronovo, La storia economica, in R. Romano e C. Vivanti (a cura di), Storia
d’Italia, Torino 1975, vol. IV, tomo I, p. 353.
68 Seduta all’Assemblea Costituente del 19 dicembre 1947, citata in P. Barucci, La
linea economico-sociale, cit., pp. 157-158. Sulla sostanziale convergenza di opinioni dei
due statisti indotta anche dal clima emergenziale della ricostruzione che avrebbe attenuato le eventuali differenze di «coloritura dottrinaria», ibid., pp. 159-160.
69 Segreteria particolare di A. De Gasperi, presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, busta 23, fasc. 187, Roma, 16 novembre 1946, p. 2.
Luigi Einaudi e la trasfigurazione mitica dei ceti medi
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70
Cfr. M. De Cecco, op. cit., p. 309. Conferma della centralità del voto dei ceti medi in quella tornata elettorale è il discorso tenuto da De Gasperi al Convegno dei gruppi giovanili della Democrazia cristiana il 17 febbraio 1948: «Ai contadini piccoli proprietari, ai piccoli risparmiatori, agli artigiani, ai funzionari, chiediamo di essere consapevoli della precarietà della loro sorte. Essi non hanno altra sicurezza che in un regime
di ordine, di stabilità e di libertà. Se la democrazia repubblicana italiana non si consolidasse con una evoluzione sociale ordinata, voi, che appartenete a queste categorie,
scomparirete travolti, stritolati nel conflitto sociale. Quindi non siate incerti, non siate
pavidi, non abbiate paura. Il voto del 18 aprile riguarda anche la vostra sorte e la vostra
esistenza. È inutile mettersi in riserva, tenersi aperte tutte le vie, non ce n’è che una: dovete prenderla con risolutezza e responsabilità», in A. De Gasperi, Non serviamo l’America, non osteggiamo la Russia: difendiamo l’Italia, in Id., Discorsi politici, cit., vol. I,
p. 201. In quello stesso mese il primo ministro segnalava come impegno del governo dovesse essere la «salvezza» e il «progresso delle classi popolari-lavoratrici e [del] ceto medio». Cfr. in proposito la lettera di A. De Gasperi a G. Saragat del 12 febbraio 1948, in
M. R. De Gasperi (a cura di), op. cit., p. 230.
71 L. Einaudi, La terza via sta nei piani?, in Corriere della Sera, 15 aprile 1948, ora
in Id., Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari 1954, pp.
362-363.
72
Relazione allegata allo schema di decreto legislativo contenente disposizioni per
i finanziamenti alle medie e piccole imprese industriali, presentato dal ministro del Tesoro Gustavo Del Vecchio e approvato dal Consiglio dei Ministri, in Verbali del Consiglio dei Ministri luglio 1943-maggio 1948, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma
1998, IX, 1, verbale della seduta del 24 ottobre 1947, p. 1052.
73 Cfr. il verbale della seduta del 6 dicembre 1947, ibid., IX, 2, pp. 1346-1347.
74 Relazione allegata allo schema di decreto legislativo contenente disposizioni per
il credito alle imprese artigiane italiane, approvato dal Consiglio dei ministri con modifiche proposte dal ministro per il Bilancio, ibid., IX, 2, verbale della seduta del 6 dicembre 1947, p. 1348.
75 V. Castronovo, Economia e classi sociali e R. Romanelli, Apparati statali, ceti burocratici e modo di governo, in V. Castronovo (a cura di), L’Italia contemporanea 19451975, Einaudi, Torino 1976, rispettivamente a pp. 15 e 155.
76 L. Einaudi, Non cantabit, in Corriere della Sera, 9 dicembre 1947, ora in Id., Il
buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), cit., p. 352.
77
Lettera citata in R. Faucci, Luigi Einaudi, UTET, Torino, p. 377.
78 Cfr. a tal proposito le missive indirizzate da Einaudi al Presidente del Consiglio
il 30 gennaio e il 29 aprile 1948, delle quali viene dato conto nel Fondo Francesco Bartolotta, cit., anno 1948, voll. I e XI, pp. 43-4 e 991-992.
79 F. Rugge, Il disegno amministrativo: evoluzioni e persistenze, in AA.VV., Storia
dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo II,
Istituzioni, movimenti, culture, Einaudi, Torino 1995, pp. 218-221.
80 R. Petri, op. cit., p. 328.