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Labirinto
Politica
Fenomeno
Racconto
La rivoluzione siamo noi
Tutto
Memoria
del video
Memoria
del video
L’altro
Il doppio
La carne e
l’immaginario
Il linguaggio
Quattro mostre
e un’opera
Sistema
Il disegno
e la scultura
Daniela Lancioni
Guida pratica alla visita della mostra
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Dopo gli approfondimenti nei quali una nuova generazione
di storici ha analizzato, sotto diversi punti di vista, opere e
figure del decennio, questo testo è stato redatto come una
guida al servizio di coloro che visiteranno la mostra (breve per
una materia così densa e corposa). La scelta di focalizzare l’attenzione sulle opere - dettata dalla volontà di aderire allo stato
delle cose e offrire una vista di insieme - ha comportato la rinuncia a un ordinamento monografico o strettamente cronologico, come anche a seguire il filo conduttore di tendenze e di
movimenti storicizzati o l’attività degli spazi espositivi (componenti fondamentali di questa storia che vorremmo emergessero
dal racconto e che introduciamo nello spazio della Rotonda).
La decisione, pertanto, di come accostare le opere l’una a all’altra e tra quali di queste accendere un dialogo o una contrapposizione dialettica, è stata un’operazione arbitraria, ma
condotta nello sforzo di recepire quanto le opere stesse sembravano suggerire. Ogni sala della mostra è stata composta
rintracciando un fil rouge, non un tema, ma di volta in volta
un’attitudine, una disciplina, un pensiero, una parola chiave,
un’intuizione presa a prestito da un critico o dal titolo di un
lavoro. Il loro succedersi comporta una scansione temporale
che divide la mostra approssimativamente in due parti corrispondenti alla prima e alla seconda metà del decennio. Ai visitatori rivolgiamo l’invito a prendere le nostre indicazioni come
meri suggerimenti ricordando che ogni opera è portatrice di
un’insondabile complessità e che gli argomenti di volta in volta
selezionati per la trama del racconto, possono trasmigrare da
una sala all’altra, da un lavoro all’altro.
Quattro mostre e un’opera
Il percorso inizia nella Rotonda dove attraverso le immagini di tre fotografi, Claudio Abate, Ugo Mulas e Massimo Piersanti e alcuni documenti, sono introdotte quattro mostre collettive: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 al
Palazzo delle Esposizioni (novembre 1970 - gennaio 1971), Fine
dell’alchimia alla galleria L’Attico (28 - 29 dicembre 1970), Contemporanea al parcheggio di Villa Borghese (30 novembre 1973
- 28 febbraio 1974), Ghenos Eros Thanatos alla galleria La
Salita (dal 3 febbraio 1975). Hanno proporzioni diverse, ma ciascuna in maniera differente rappresenta un’importante tappa
per l’arte a Roma negli anni Settanta del secolo scorso (e una
diversa posizione critica che in questo catalogo è inquadrata
in un più generale panorama nello studio di Lara Conte).
Con Vitalità del negativo e Contemporanea familiarizziamo con l’attitudine a collettivizzare, a raggruppare una moltitudine di esperienze diverse nell’ambito di un’unica, poderosa
visione e con la messa a punto del dispositivo mostra da parte
di Achille Bonito Oliva come scrittura espositiva.
Fine dell’alchimia, accompagnata da un testo di Maurizio
Calvesi e Ghenos Eros Thanatos curata da Alberto Boatto rappresentano l’irruzione di un diverso sentire che caratterizza gli
anni Settanta, distante dalle pratiche concettuali e dominato
dal terrore della morte, come dalla gioia estrema della nascita
e dai piaceri della vita, sensibile al mistero e a tutto ciò che è
umano.
Vitalità del negativo e Contemporanea sono due progetti
dell’associazione culturale Incontri Internazionali d’Arte. La
prima esclusivamente dedicata all’arte italiana, la seconda internazionale e pluridisciplinare, irripetibile evento espositivo
cui è dedicato in questo catalogo il saggio di Luigia Lonardelli.
Il “coordinamento dell’immagine” di entrambe le mostre venne
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
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affidato all’architetto Piero Sartogo che con Achille Bonito
Oliva aveva già realizzato Amore mio. Vitalità nacque sotto il
segno della condivisione. I primi comunicati stampa e le prime
recensioni riportano la notizia di un comitato organizzativo di
cui facevano parte oltre allo stesso Bonito Oliva, gli artisti, Vincenzo Agnetti, Enrico Castellani, Gianni Colombo, Jannis Kounellis, Gino Marotta, Fabio Mauri, Paolo Scheggi. Un affine
spirto di condivisione risulta nella scelta di invitare a scrivere
nel catalogo alcuni tra i maggiori esponenti della coeva critica
(l’unica assenza di rilievo sottolineata dagli osservatori dell’epoca fu quella di Germano Celant): Giulio Carlo Argan,
Alberto Boatto, Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Filiberto
Menna, Cesare Vivaldi. In mostra convissero autori diversi, accostati senza preclusione di stili, schieramenti, attitudini (in un
modo del tutto scevro da posizioni ideologiche): Vincenzo
Agnetti, Carlo Alfano, Getulio Alviani, Franco Angeli, Giovanni
Anselmo, Alberto Biasi, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi,
Davide Boriani, Enrico Castellani, Gianni Colombo, Gabriele De
Vecchi, Luciano Fabro, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Piero Manzoni,
Gino Marotta, Manfredo Massironi, Fabio Mauri, Mario Merz,
Giulio Paolini, Pino Pascali, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Mimmo Rotella, Paolo Scheggi, Mario Schifano, Cesare
Tacchi, Giuseppe Uncini, Gilberto Zorio (Mario Ceroli, Eliseo
Mattiacci, Maurizio Mochetti presenti in catalogo, si rifiutarono
di partecipare). “Questo è il mondo: una fitta rete di condizionamenti e un perenne attentato alla libertà individuale” è il
famoso incipit del testo di Achille Bonito Oliva la cui scrittura
registra le mutazioni del rapporto tra artista e società (anche
questo un modo legato alla prassi della condivisione) non procedendo secondo gli schemi del marxismo storico, ma su un
solco più ampio, antropologico, che insieme agli assetti economici e alle contingenze politiche, contempla la condizione
esistenziale del singolo. Il suo bilancio sull’arte italiana del decennio appena trascorso è positivo, ne emergono coloro che
con “una giusta ostinazione in una zona di intenzionale
demenza” affermano e rivendicano “la propria complessità politico-esistenziale”. Il presente, quindi, è investito dall’ottimismo: “questo è il tempo i cui i miti vengono saggiati e l’esercizio della fantasia, partendo dal negativo del linguaggio (…)
ha conquistato definitivamente una zona di ‘nuova metafisica’”. L’arte come spazio della “festa” e rimozione del “falso
mondo” (è la tesi espressa dall’autore in Territorio magico,
Firenze 1972). Nell’allestimento di Piero Sartogo lo spazio della
Rotonda all’entrata del Palazzo delle Esposizioni era oscurato
e abbassato da bande nere che, tese tra le colonne a due metri
d’altezza, cancellavano capitelli e cupola. Il buio era squarciato
da alcune potenti luci che proiettavano, ingigantendole, le
ombre dei visitatori su grandi schermi bianchi. Da questa piazza
si accedeva a una sequenza di spazi bianchi ciascuno dei quali
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era riservato a un diverso artista. L’allestimento, interpretandolo, spettacolarizzava il tema della mostra (la vitalità del negativo tradotta con il passaggio dallo scuro al chiaro) come
anche l’inedito bilanciamento tra iniziativa collettiva ed esperienza individuale (tradotto nella coesistenza di uno spazio collettivo - la piazza dove gli stessi visitatori diventavano protagonisti - e degli spazi circoscritti e incontaminati - i cubi bianchi
riservati all’espressione dei singoli artisti).
Con la mostra Vitalità del negativo nacquero gli Incontri
Internazionali d’Arte, l’associazione culturale fondata da Graziella Lonardi Buontempo (tra i soci fondatori anche Giorgio
Franchetti). Inedita commistione di pubblico e privato, condotti
lungo tutto il decennio dalla direzione artistica di Achille Bonito
Oliva e con il coordinamento di Bruno Corà, Alberto Moravia
ne fu il presidente dal 1975, gli Incontri promossero una fitta
serie di iniziative che si tennero nella sede della Associazione
a Palazzo Taverna (molte a cadenza giornaliera con la formula
ereditata dal Teatro delle mostre, la mitica rassegna ideata da
Plinio De Martiis alla galleria La Tartaruga nel maggio del 1968)
e di alcune importanti iniziative promosse in altri spazi con interessi che spaziavano dalle arti visive, alla sociologia dell’arte,
al teatro e al cinema con rassegne curate da Adriano Aprà e
da Patrizia Pistagnesi. Il progetto colossale portato a termine
dagli Incontri Internazionali d’Arte è la mostra Contemporanea
che si tenne a cavallo tra il 1973 e il 1974 e da allora annoverata tra le principali esposizioni d’arte del mondo.
Vitalità venne interamente fotografata da Ugo Mulas. Il
fotografo, all’epoca già ammalato, non porterà a termine il progetto di realizzarne un libro che vedrà la luce solo di recente.
Nelle maglie del lavoro condotto al Palazzo delle Esposizioni
intrecciò quello delle Verifiche, la serie realizzata tra il 1970 e
il 1974, con la quale tracciò la sua definitiva analisi sugli strumenti e i dispositivi della fotografia.
Furono in molti a fotografare Contemporanea, ma nell’attuale mostra ne riproponiamo le immagini di Massimo Piersanti, fotografo ufficiale degli Incontri Internazionali d’arte, i
cui scatti restituiscono una parte significativa delle straordinarie imprese che l’Associazione riuscì a portare a termine
grazie all’apporto di molti intellettuali e alla dolcissima tenacia
di Graziella Lonardi Buontempo.
Sulle altre due mostre documentate nella Rotonda si sofferma in questo catalogo il saggio di Fabio Belloni. Quella che
abbiamo chiamato Fine dell’alchimia come generalmente viene
citata, in realtà ha un altro titolo, dato dell’enumerazione dei
titoli delle quattro diverse partecipazioni: Maurizio Calvesi:
Contributo alla crisi. Gino De Dominicis: Pericoloso morire.
Jannis Kounellis: Motivo africano. Vettor Pisani: Io non amo
la natura. Il testo di Maurizio Calvesi, esposto in mostra come
un’opera, è una presa di distanza dall’arte concettuale - “concetti, equivalenze di fare e pensare, che tuttavia non producono
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
trasmutazioni, né fuori né dentro di noi” - scredita, come farà
nella prefazione alla seconda edizione de Le due avanguardie
(1971), il connubio arte e vita, paragonando il fallimento dell’alchimia a quello dell’arte - “l’immagine che l’alchimia ci ha
consegnato di sé va rivelandosi sempre più prossima a quella
che ci andiamo facendo dell’arte: un valore circolare, mentre
tutto tende ad avvenire fuor del circolo. Circolo che credeva di
abbracciare e spiegare il tempo, cioè la vita, finché non ci si è
accorti, nel momento in cui l’abbraccio voleva farsi concreto,
che la escludeva”. Ma in nome di questo stesso binomio, arte
e alchimia, Calvesi che proprio in quegli anni intensificava le
sue ricerche nei territori di confine tra arte, letteratura e alchimia ritrova uno scopo comune, che “non può essere altro, evidentemente, che un recupero di umanesimo, il recupero di
un’immagine globale dell’uomo”. La mostra si concluse con un
dibattito durante il quale il fisico Franco Rustichelli, “sulla base
di un’affermazione di Gino De Dominicis, che crede possibile
per l’uomo eliminare l’invecchiamento e la morte nei prossimi
anni a condizione di concentrare su questo problema quasi
tutte le possibilità scientifico-tecnologiche e mentali del
genere umano”, discusse “da un punto di vista matematico il
concetto di immortalità”.
Fine dell’alchimia si tenne a L’Attico nell’ex garage di Via
Cesare Beccaria, la galleria di Fabio Sargentini che a partire
dal 1971 si scisse in due raddoppiando sede con l’appartamento affrescato di Via del Paradiso. Fu Sargentini a interessarsi alle nuove avanguardie internazionali ospitando il primo
Wall Drawing europeo di Sol LeWitt, le azioni di Joseph Beuys
e di Gilbert and George, ma soprattutto portando in Città ripetutamente gli innovativi interpreti della danza e della musica
americana e di quest’ultima recuperando le origini orientali. E’
nella sua galleria che maturarono intorno al 1967 i fermenti
romani raccolti poi nella compagine nominata da Germano
Celant Arte Povera, Pino Pascali e il radicale Jannis Kounellis
dei dodici cavalli vivi (gennaio 1969). È a L’Attico che nel corso
del decennio esordirono ed esposero con assiduità Gino De
Dominicis e Luigi Ontani. È Sargentini che con maggiore irrequietezza fece coincidere l’esercizio pubblico della galleria con
i modi e i tempi dello stare insieme inteso come rapporto interpersonale e amicale convivendo fuori orario, 24 ore su 24,
in Viaggio a Madras o sul fiume Tevere. Una propensione per
la ritualizzazione dell’incontro, che fu fatale per la galleria,
quando Sargentini - divenuto autore di teatro - ne sospese momentaneamente l’attività.
Le immagini della mostra sono di Claudio Abate, fotografo,
per eccellenza, dell’avanguardia romana. Sublime interprete
di opere che avevano la vita breve o variabile dell’azione o
della installazione e alle quali conferì l’immagine definitiva,
scattata in accordo con gli artisti o sapendone con sensibilità
percepire la visione, tenendosi sempre ancorato ai dati della
contingenza nel riproporre una sintesi tra il punto di vista dell’artista e quello dell’osservatore.
L’ultima, in ordine di tempo, delle mostre presentate nella
rotonda è Ghenos Eros Thanatos, tappa romana di una esposizione che raccoglieva opere di Alberto Burri, Alighiero Boetti,
Claudio Cintoli, Pino Pascali, Giosetta Fioroni, Vettor Pisani,
Luciano Fabro, Sergio Lombardo, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri,
Concetto Pozzati, Gilberto Zorio, Jannis Kounellis. Diversa sia
dalle visioni panoramiche di Vitalità e di Contemporanea, sia
dal cenacolo di Fine dell’alchimia, la mostra di Alberto Boatto
non ha l’urgenza dell’attualità e sembra ordinata da un critico
solitario (la solitudine di un autore/scrittore) ma impegnato in
un serrato e trasportato dialogo tra sé e le figure che si sono
depositate nella sua fantasia, gli artisti, i poeti e le loro invenzioni. Un colloquio il suo, frammentato ma che nell’insieme ha
la finitezza di un quadro o di un poema nato come un alveare,
portandovi doni, interrogativi, ferite, gioie, dal cui insieme si
intravede il senso della vita. “La mostra libro non punta affatto
alla originalità, sulla presentazione di opere assolutamente
inedite - come non sono affatto ‘inedite’ le figure, nascita, erotismo, morte, sotto cui vengono allineate. Sua ambizione,
semmai è di accrescerne lo spessore dei significati, mediante
anche il loro semplice accostamento. Il libro consiste in un
collage di proposizioni verbali, di proposizioni visuali e di citazioni, e tanto le parole che le immagini, come la sparsa e coincisa antologia, si ripromettono di porre un tema e di seguirlo
in un numero minimo di variazioni. Il libro mappa che ne risulta,
rappresenta un tentativo di assumere a livello di struttura compositiva l’immagine medesima attorno a cui ruotano questi
frammenti: l’immagine della vita come un itinerario scandito
in successive stazioni, assieme della carne e dell’immaginario,
nel corso delle quali l’uomo si sperimenta, subisce le sue
prove”. Sigmund Freud, Giovanni Evangelista, Stendhal, D. A.
F. de Sade, Raymond Roussel, Alfred Jarry, Marco Aurelio,
Norman O. Brown, Rainer Maria Rilke, André Breton, Robert
Silverberg, Friedrich Nietzsche, Giordano Bruno, Eraclito,
James Joyce, sono gli autori citati nel libro e un insieme esemplare per orientarsi nelle letture che il decennio ha coltivato.
Ghenos Eros Thanatos, della quale non sono state ritracciate testimonianze fotografiche (la ricordiamo in mostra con
l’azione di Claudio Cintoli, Crisalide, fotografata nel 1972 da
Pino Abbrescia), si tenne nella galleria La Salita di Gian Tomaso
Liverani, aperta nel 1957, che da subito aveva conteso a La
Tartaruga di Plinio De Martiis il primato dell’avanguardia. Gentiluomo faentino, Liverani si rivolgeva dando del lei agli artisti
(in assoluto contrasto con i costumi del decennio), ma era straordinariamente aperto alle novità (a lui spetta il primato del
maggior numero di prime mostre personali: Giulio Paolini,
Richard Serra, Maurizio Mochetti, Vettor Pisani…). Negli anni
Settanta accolse senza soluzione di continuità le opere di
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
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Sandro Chia, Ferruccio De Filippi, Gianfranco Notargiacomo per
i quali la galleria divenne una sorta di studio / laboratorio, oltre
ad altri autori, provenienti altre gallerie, che misero a segno a
La Salita alcuni capolavori, come nel 1973 il Senza titolo di
Jannis Kounellis (del quale abbiamo in mostra l’immagine di
Claudio Abate).
L’opera di Gino De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo
spazio venne mostrata in due delle esposizioni introdotte nella
Rotonda, Fine dell’alchimia, dove fece la sua prima apparizione
e Contemporanea. Un corpo scarnificato (letteralmente) dal
tempo, che sembra una metafora del pensiero strutturalista e
dell’arte concettuale (Ermanno Migliorini affrontando tra i primi
in Italia il tema dell’arte concettuale, scrisse di un processo di
scarnificazione) al quale l’autore conferisce nuovamente i connotati di persona a spasso con il suo cane vittima, come molti
lo siamo, di un proprio errore (più che la corsa al progresso
sulla quale metteva in guardia Pier Paolo Pasolini, l’incapacità
di asservire la scienza alla fantasia).
La carne e l’immaginario
La sala, che introduciamo con un binomio preso in prestito
da Alberto Boatto, invita ad assumere uno sguardo mobile. A
spostare l’occhio e il pensiero dai dati terreni e tangibili all’indefinito della fantasia. Dai fatti verificabili all’epica e al mito.
Dal tempo misurabile della storia all’infinito del tempo circolare (Friedrich Nietzsche). Compiendo un doppio tragitto di
andata e ritorno, lo stesso attraversato dagli artisti. Questa
oscillazione è uno dei tratti distintivi degli anni Settanta a
Roma. Lega idealmente Alberto Burri e Giorgio de Chirico a
Jannis Kounellis e Giulio Paolini, e questi a Salvo, Luigi Ontani
e Gino De Dominicis.
Due Cretti di Burri, uno bianco e uno nero, si trovano all’inizio della sala. Ossido di zinco e vinavil su cellotex, di fatto
un pezzo di terra lavorato in collaborazione con natura e tempo,
elevato all’umana postura verticale e trasformato in quadro.
L’altro genius loci della cultura visiva a Roma negli anni Settanta è de Chirico. I dipinti esposti appartengono alla fase cosiddetta neometafisica e sono due pastiche nei quali de
Chirico, “copista di se stesso” (Giuliano Briganti, catalogo
Giorgio de Chirico, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma
1982), ha assemblato elementi, temi e invenzioni prelevati
dalle sue opere precedenti, gran parte di quel repertorio con il
quale ha consegnato alla fissità del quadro il mistero di una
rivelazione non altrimenti esprimibile. Nella sala sono anche
esposti alcuni dei disegni realizzati da de Chirico nel 1972 per
un’edizione illustrata dell’Ebdòmero, un libro del 1929 che ebbe
larga fortuna negli anni Settanta. E’ il racconto fantastico di
“un uomo dall’immaginazione potente e dalla testa fasciata di
letture”, nelle cui avventure si sovrappongono narrazioni sto-
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riche e mitiche, esperienze quotidiane e fenomeni naturali. Nel
Senza titolo del 1973 di Jannis Kounellis si fondono elementi
quotidiani ed evocativi: la cornice ha le misure di una porta, la
tenda di umile fattura è iconostasi o sipario (familiare anche
al drappo che in secoli di cultura occidentale ha separato il
piano terreno da quello divino), la lampada (accesa) proto-industriale è memoria di quella che in Guernica svela l’orrore
della barbarie. L’insieme ha un impianto frontale (ne è garante
la presenza della tela), lo stesso che Kounellis riproporrà in
molte delle opere realizzate nel corso degli anni Settanta (definendo se stesso un “pittore” sin dall’epoca dei dodici cavalli
vivi). Con questa scelta, che la natura immanente delle sue
opere (presenze vive e oggetti quotidiani) rende ancor più radicale, l’autore sembra tracciare una linea di demarcazione tra
l’opera stessa e la realtà, disegnando la cornice all’interno
della quale il prodigio dell’arte possa avverarsi e l’uomo, senza
staccare i piedi da terra, conquistare una dimensione epica,
metafisica, ultraterrena. Dialettiche rispetto alla frontalità di
Kounellis, sono le opere di Giulio Paolini, La Doublure e Mimesi
(presentate rispettivamente a L’Attico nel 1973 e nella galleria
D’Alessandro Ferranti nel 1975). Una tela bianca sulla quale è
disegnata la sua stessa immagine in prospettiva e due calchi
in gesso dell’Hermes di Prassitele affrontati in modo da far incrociare i loro sguardi. Dal 1960 (data del suo primo lavoro,
Disegno geometrico, la tela sulla quale ha tracciato unicamente la squadratura del foglio preludio di ogni possibile
disegno) Paolini si interroga sulla natura dell’opera d’arte, convinto dell’impossibilità di assegnarne la responsabilità a un
singolo autore e leggendo il presente come un processo di sedimentazione (da qui la presenza nelle sue opere di citazioni,
sempre letterali: immagini fotografiche o calchi). All’inizio degli
anni Settanta sembrò dilatare e al tempo stesso radicalizzare
questa sua posizione e lo fece, paradossalmente, sottolineando
la sua stessa presenza (dimostrando l’impossibilità a parlare
se non sotto l’angolo di incidenza della propria esistenza): attraverso l’autocitazione (le misure o la diagonale di Disegno
geometrico tornano anche nelle opere che qui esponiamo) e
l’assunzione di un punto di vista che gli permise di attivare il
dispositivo della prospettica. Tradizionale tecnica della pittura
e del disegno di cui Erwin Panofsky aveva da tempo messo in
luce il valore simbolico, Paolini non la impiega per rappresentare oggetti o figure nello spazio, ma per trasmettere la sua
idea di arte sullo sfondo della storia (l’identico che si ripete, il
primo piano del presente che si proietta verso l’infinito, passato
o futuro). Salvo nell’Autoritratto (come Raffaello) del 1970 si
identifica con un pittore del passato compiendo l’atto narcisistico (o umile) della sostituzione. In anni dominati dall’image
a la sauvette, posa per Paolo Mussat Sartor (grande interprete
dell’avanguardia) il cui ritratto fotografico pare una pittura.
Anche Luigi Ontani nel Bacchino esposto in questa sala, uno
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
dei suoi primi lavori fotografici, sceglie lo scatto in posa e offre
un corpo che è l’irrequieta espressione di Dioniso (ancora
Nietzsche). Immortalità di Gino De Dominicis è un piccolo
disegno, una croce cancellata, presentato durante una serata
agli Incontri Internazionali d’Arte nel novembre del 1971. L’immortalità (la voce dall’aura dolcissima che spinge Ebdòmero a
partire verso ignote e strane plaghe) è la condizione che ogni
artista persegue e il cui conseguimento De Dominicis festeggiò
con un suntuoso ricevimento (il “cocktail” nella sede degli Incontri Internazionali d’Arte nel 1972 offerto per festeggiare il
superamento del Secondo principio della Termodinamica). La
sala si conclude con le fotografie con le quali Claudio Abate
ha consegnato alla storia le immagini di alcune opere apparse
nella forma cangiante dell’azione (ancora un viaggio dal dato
contingente a quello disegnato dall’immaginazione).
Il doppio
Anche in questa sala invitiamo a compiere un viaggio di
andata e ritorno. Scorrendo dall’uno all’altro degli elementi che
compongono le opere, ma anche attraversando idealmente lo
spazio tra le opere e ciò a cui esse si riferiscono. Il concetto
del doppio è centrale nell’arte degli anni Settanta, grazie a
quegli artisti che percepirono loro stessi come parte inseparabile di un insieme, frutto (dialettico) di ciò che li ha preceduti
(mossi dal desiderio di comunicazione e non interessati alla
conferma di una tradizione). Una coscienza che divenne estesamente condivisa grazie alle teorie di Michel Foucault sull’archeologia del sapere e alle riflessioni di Roland Barthes sulla
morte dell’autore (un morire come entità unica per rinascere
soggetto collettivo). Attraverso il doppio gli artisti accorparono
entità singolari (talvolta in palese contrasto tra loro) identificando, di volta in volta, il principio unificatore nella cultura e
nella storia (si intenda civiltà), nella logica che accomuna i
diversi ordini della natura, nel desiderio di giustizia e parità,
nel mistero insondabile di anima e corpo, vita e morte.
Nelle due opere di Giulio Paolini, esposte - come ora le
vediamo - nella galleria D’Alessandro Ferranti nel 1975, sono
in atto maniere diverse di intendere il doppio, entrambe derivate dall’atto del guardare e implicanti l’assunzione a sé dell’altro (le tre tele attraversate da un disegno che propone in
scala ridotta la loro stessa immagine e la lavagna che ospita
sulla sua superfice l’immagine dell’altra). Le due tele di Tano
Festa Las Meninas sono un esplicito omaggio al primo capitolo
del libro Le parole e le cose di Michel Foucault, nel quale lo
studioso, analizzando la funzione dello specchio nell’immagine
dipinta da Velázquez, dimostra come un quadro possa restituire
visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo. Maurizio
Mochetti crea un dispositivo, un apparecchio scientifico che,
al di fuori di ogni logica utilitaristica, si pone al servizio di un
pensiero sul mondo come sistema di relazioni (cui, forse, non
sono estranei il sentimento di fratellanza e l’utopia del comunismo): due cubi identici posti a una determinata distanza contengono un congegno elettronico che li farebbe esplodere,
ossia cambiare di forma, qualora venissero allontanati ulteriormente l’uno dall’altro. Giovanni Anselmo riflette sugli insiemi
ottenuti dall’accostamento di parti speculari e solo apparentemente identiche (i due emisferi di un volto umano, quello stesso
dell’artista) ricordando che ogni unità è data dall’insieme di
entità singolari e lasciando che questo pensiero sia dimostrato
da un dato riscontrabile nella realtà naturale. La dottrina dei
Rosacroce, i riti alchemici e le filosofie esoteriche affiorano nei
lavori della prima mostra personale di Vettor Pisani a La Salita
nel 1970, sulla quale aleggiano il mistero della sfinge, la figura
di Edipo (eroe incestuoso) e quella di Marcel Duchamp. Questi
(da poco scomparso) veniva ringraziato in un comunicato per la
sua “viva e personale partecipazione alla mostra”. Vettor Pisani
iniziava così il suo percorso nel quale permarrà costante il
dialogo con il doppio da sé (la citazione dell’opera di un altro
artista) intesa anche come scelta “politica” di condivisione. Michelangelo Pistoletto con lo stesso Pisani coraggiosamente verificarono la pratica del doppio misurandola sulle proprie
persone e a Roma realizzarono nel corso degli anni Settanta
una serie di mostre intitolate Plagio (La Salita 1971 e Marlborough 1973) di cui l’opera esposta è una delle diverse declinazioni, ottenuta sovrapponendo le diapositive con i ritratti fotografici dei due autori (una sovrapposizione che potrebbe contemplare l’assimilazione di altri soggetti, l’umanità intera: Maurizio Calvesi). Il doppio è l’altro da sé, artista o personaggio letterario al quale Luigi Ontani si sostituisce. Il doppio di Gino De
Dominicis è l’ombra (terrore o investitura), è il tempo che separa
il giovane dal vecchio. Nell’opera di Carlo Maria Mariani,
esposta alla Studio Cannaviello nel 1975, il dispositivo del
doppio si propaga in una serie di citazioni, nelle quali l’autore
lega per affinità soggetti diversi, appartenenti a epoche differenti. Così accade che il tempo storico perda la sua tracciabilità
e che decadano le differenze da esso impartite. Sandro Chia
nella sua prima mostra a Roma, a La Salita nel 1970, esegue
nel corso di una azione pubblica un disegno che è il doppio di
un doppio (il doppio dell’ombra) e con un intento simile, quello
di condurre un’operazione alla seconda, nel 1973 si ritrae nella
veste di David (un segno appena accennato sulla tela bianca
che pare un disegno).
L’Altro
Il decennio è pervaso dalla cultura dell’altro maturata
negli anni del dopoguerra come antidoto all’agire contro il
nemico. Per Paul Celan, scampato al lager, l’opera d’arte (che
per lui scrittore è il poema) tende a un Altro, ne ha bisogno (è
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
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lo spazio di un colloquio, un’entità interlocutoria). Georges Bataille aveva insegnato a considerare il punto debole, la lacerazione in se stessi e nell’altro come possibilità di comunicazione. Si va delineando un nuovo modo di pensare all’altro da
sé anche attraverso la diffusione degli studi condotti dagli antropologi che hanno indagato civiltà differenti senza ordinarle
sulla base di un metro gerarchico. Si leggono Claude LéviStrauss e l’italiano Ernesto De Martino che con le sue indagini
dedicate al sud dell’Italia ha svelato una magia praticata per
fronteggiare il negativo della vita. Si legge anche Morfologia
della fiaba di Vladimir Ja. Propp (un libro del 1928 tradotto in
italiano la prima volta nel 1958) dove l’analisi delle strutture
narrative delle fiabe fa di queste la nostra quotidiana esperienza. Altra è l’esperienza cui si accede attraverso la psicanalisi (si leggono Sigmund Freud e Carl Gustav Jung) o familiarizzando con sciamani e mistici occidentali (Elémire Zolla) e
con tutto ciò che è irriducibile al reale (Mircea Eliade). Si
coltivò, in definitiva, la cultura della differenza (Gilles Deleuze,
Jacques Derrida), si ragionò in termini di declinazioni e varianti
e, in generale, maggiore attenzione venne riservata alla
persona. Si affinarono gli strumenti per capire in che misura il
proprio comportamento fosse indotto dalla cultura di appartenenza, distinguendo il margine di libertà individuale sul quale
poter contare. Ma la difesa della libertà individuale che aveva
già segnato il decennio precedente (l’Herbert Marcuse di Eros
e civiltà) è un’arma spuntata. Gli artisti attraversano una nuova
frontiera e si addentrano in un territorio nel quale la propria
libertà deve necessariamente misurarsi con quella dell’Altro.
La sala ha inizio con il lavoro di Richard Nonas esposto in
una galleria che all’epoca di questa sua prima mostra romana
è appena nata per finanziare Potere Operaio (in seguito galleria
Massimo D’Alessandro e poi D’Alessandro Ferranti e dopo il
1977 Ugo Ferranti, altro luogo a Roma dell’avanguardia internazionale). L’autore per circa dieci anni aveva svolto l’attività
di antropologo (in Messico e in Canada) e quando, nei primi
anni Settanta, si dedicò all’arte, volle che questa sua esperienza ne diventasse la materia prima. Vettor Pisani guarda alla
primordiale differenza - uomo donna - e oppone ad essa il mito
dell’androgino (nel mito solo è ravvisabile l’unione di poesia e
filosofia la cui separatezza è frutto del dispotismo). L’androgino
(carne umana e oro) è un’azione che viene ripetuta in mostre e
situazioni diverse con un depistaggio intenzionale (e ideologico)
in merito all’unicità dell’opera quasi sempre identificata nei
termini di un’azione teatrale. Duane Michals impiega la testimonianza fotografica, generalmente considerata come la più
aderente alla realtà, per registrare l’accadere del prodigio. Ferruccio De Filippi con un lavoro complesso al quale venne dedicata una intera mostra a La Salita nel 1972, indaga rapporti di
parentela (Lévi-Strauss) e antiche civiltà, la sumera in particolare, la cui discendenza assorbe ad occhi chiusi (accecati/po-
122
tenziati da lastre di rame). Nei disegni di Giosetta Fioroni fanno
la loro comparsa folletti, elfi e sabanelli incontrati nei boschi
attorno la casa di Goffredo Parise a Salgareda in Veneto. Nelle
opere di Michele Zaza esposte nella galleria di Ugo Ferranti
(1976 e 1978) i dati reali sono trascesi senza che perdano la
loro assoluta aderenza al mondo. Sono sequenze di fotografie
(che non è mai l’autore a scattare e che nel loro insieme offrono
un racconto unitario) nelle quali il mondo semplice e contadino
del sud - a posare sono i genitori o l’artista stesso fotografati
nella loro casa - trova il suo riscatto morale dall’umiliazione e
dalla rassegnazione attraverso la favola (il dio tibetano immortale sospeso tra il cielo e la terra) o la simbologia cristologica.
Il disegno e la scultura
Nel corso degli anni Sessanta il processo di sovvertimento
delle tecniche tradizionali si era compiuto sino all’atto di coerenza estrema della “dematerializzazione” dell’oggetto d’arte
o della sua fluidificazione. Un numero considerevole di autori
smisero di realizzare opere delle quali musei o collezionisti potessero liberamente disporre, ma produssero altro: azioni, elementi cangianti che cambiavano forma e assetto nello spostarsi da luogo a luogo, altri in stretta relazione ai dati contingenti. Maggiore importanza assunse il processo impiegato per
la definizione dell’opera, più che l’approdo finale, talvolta del
tutto negato o reso irripetibile. Alcuni testi e alcune mostre
raccolsero con evidenza internazionale i segnali di questa temperie: il lavoro di Germano Celant sull’Arte Povera (dal 1967) e
quello di Lucy Lippard sulla dematerializzazione dell’oggetto
(per entrambi le nuove forme d’arte erano espressione di
libertà sociale al pari dei coevi movimenti di protesta/lotta politica), le mostre Op Losse Schroeven a cura di Wim Beeren
allo Stedelijk Museum di Amsterdam e When Attitudes
Become Form curata da Harald Szeeman alla Kunsthalle di
Berna nel 1969.
In questa sala vorremmo suggerire l’insorgere di un parziale cambiamento di rotta dovuto anche alla perdita di fiducia
nella possibilità che una società rinnovata potesse accogliere
un’arte che con essa si intrecciava al punto di perdere la sua
autonomia e riconoscibilità. L’ipotesi che qui invitiamo a verificare (o confutare) è di leggere nelle opere esposte un modo
di mettere in sicurezza le invenzioni e le istanze maturate nel
decennio precedente suggellandole in un disegno o in una
scultura o in un lavoro che in alcuni casi è un insieme di
disegno e scultura. Nel 1967 Sol LeWitt pubblicò il testo cui
necessariamente si rimanda per una definizione dell’arte concettuale, Paragraphs on Conceptual Art (“Artforum”, giugno
1967) i cui capisaldi sono la supremazia nell’opera dell’idea e
del concetto e la sua indipendenza dall’abilità dell’artista
(come artigiano). Un testo polemico verso l’importanza attri-
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
buita alla fisicità dei materiali e a sostegno dei processi di riduzione (una sorta di manifesto con il quale invitava a usare
forme semplici, a ridurre le scelte arbitrarie, a impiegare, dove
possibile, due e non tre dimensioni, ma anche solo a enunciare
le idee attraverso foto, numeri, parole … “l’idea stessa, anche
se non è diventata visiva è un’opera d’arte esattamente come
qualunque prodotto finito”). Poco dopo avviò la serie, destinata a perdurare nel suo lavoro, di Wall Drawing di cui fa
parte quello che presentiamo in mostra realizzato per la prima
volta nella galleria di Gian Enzo Sperone nel 1976. Fa riflettere
il fatto che le teorie di Sol LeWitt possano aver trovato espressione in un disegno senza perdere la loro radicalità (l’opera
rimane la traduzione di un progetto definito a priori che non
necessariamente deve essere realizzato dall’artista). Nella
stessa sala esponiamo tre dei disegni di Alighiero Boetti intitolati Cimento dell’armonia e dell’invenzione. In una intervista
del 1973 a Mirella Bandini, l’auore dichiarò che la scelta di
fare i quadratini a ricalco cimentandosi con una cosa piccola,
veramente povera (nel senso di semplicità), gli diede una
libertà individuale di agire incredibile, con un’enorme possibilità di indagine e di analisi. Anche Boetti, quindi, impiegò in
chiave concettuale il disegno, che assunse contro la spettacolarizzazione dell’opera d’arte (l’artista shaman-showman
che si lasciò alle spalle). Difficile non leggere il lavoro di
Richard Tuttle nell’accezione di una reazione al gigantismo
che si andava affermando nell’arte. Nel suo caso il disegno
viene delicatamente fatto colloquiare con la scultura in una
commistione di segni sottili e di materiali leggeri. Come
accade nell’opera che l’autore ha realizzato sul muro del
Palazzo delle Esposizioni, riproponendo uno degli otto Piece
presentati nel 1975 nella galleria D’Alessandro Ferranti, ciascuno collocato al centro della parete e all’altezza dello
sguardo (loro intento, quindi, seppure siano appena percepibili, non è quello di mimetizzarsi, semmai sono un invito ad
affinare l’attenzione). Anche la scultura venne riattualizzata
attraverso le opere di alcuni autori. Albero di Giuseppe Penone
è una scultura azione e se ne comprende il senso conoscendo
il processo attraverso il quale l’artista l’ha realizzata: scorticando una trave di legno seguendo un anello di crescita dell’albero per riportarne parzialmente alla luce il tronco e i rami
così come erano in un’epoca precedente a quando la pianta è
stata recisa (azione che spalanca la coscienza sul mondo in
cui viviamo e che assimila l’operato dell’uomo a quello della
natura). Di Giuseppe Penone esponiamo anche il progetto di
Rovesciare i propri occhi, presentato agli Incontri Internazionali d’Arte nel 1971, preludio all’interesse dell’autore per il
senso del tatto che lo condusse a concepire disegni (Svolgere
la propria pelle) e sculture intese come tracce di un contatto
(una scelta che dobbiamo leggere anche alla luce delle riflessioni sull’Altro). La scultura e il disegno sono per Marisa Merz
un modo per aderire all’intuizione. Luciano Fabro (con Boetti,
Penone e Marisa Merz tra i protagonisti dell’Arte Povera)
autore di opere pensate come strutture atte a sollecitare la
percezione dello spazio fisico e antropologico, con i Piedi realizzati tra il 1969 e il 1971, scelse di riconsiderare il lavoro
dell’artigiano, il fascino della forma e dei materiali. Fu una
singolare inversione, un atteggiamento imprevisto rispetto al
diffuso rifiuto della tecnica: forse Fabro ha avvertito l’esaurimento della identificazione secca tra opera e idea, e ha deciso
di andarsi a cercare a mezza strada tra la partenza mentale e
psicologica e l’arrivo oggettuale: nello spessore della materia
e della tecnica, nella non misurabile casualità del loro incontro
(Saverio Vertone, catalogo Galleria Borgogna, Milano 1971).
Il disegno, all’inizio degli anni Settanta, tornò in auge per
diversi motivi, non ultimo la povertà del mezzo, nel senso di
semplicità (Boetti) ma anche per un aggiornamento della interpretazione tradizionale che lo considera capace di trasmettere
con maggiore immediatezza l’idea (nella forma di appunto,
schema, bozza, venne largamente utilizzato in area concettuale). La scultura aveva compiuto un progressivo avvicinamento ai dati della realtà, sperimentando in questa direzione
commistioni estreme (dai ready made di Duchamp alle opere
di Land Art), al tempo stesso era stata investita di radicali riflessioni sul suo statuto e sulla sua funzione (precoce in Italia
la teoria di Pietro Consagra sulla scultura frontale che, tolta
dal centro, smette di essere investita dal potere ai fini della
propria celebrazione, per instaurare, al contrario, un colloquio
paritario con l’osservatore). Per questi e altri motivi scultura e
disegno dovettero apparire, all’inizio degli anni Settanta, mezzi
praticabili. Nella sala sono riuniti artisti che in maniere diverse
li hanno sperimentati rinnovandoli radicalmente, accanto a due
autori di generazioni precedenti alle cui pitture/disegno - Cy
Twombly - e alle cui sculture/disegno - Fausto Melotti - non
possono dirsi estranee le opere dei più giovani.
Sistema
Si deve forse alla generale conquista di una maggiore
libertà (nella vita quotidiana, come nell’arte) la scelta di alcuni
artisti di contenere le loro espressioni all’interno di sistemi definiti a priori. Nel corso degli anni Settanta questa attitudine è
stata largamente collaudata con il fine di ampliare attraverso
la prassi della variante, le possibilità di intervento e di azione.
Nella sala sono riuniti autori di generazioni diverse che in
maniere differenti l’hanno sperimentata.
Con il segno universale (tale per il suo rimando all’origine)
di Giuseppe Capogrossi e di quello depurato da ogni riferimento alla condizione esistenziale di Carla Accardi, si è voluto
sottolineare l’apporto italiano al processo di riduzione e di ripetizione dell’immagine e introdurre spunti che crediamo
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
123
possano riferirsi alle scelte degli autori più giovani che, in dialettica con la società di massa, assegnarono valore a ciò che
è elementare (sfidando il concetto di banale) e lo assunsero,
esclusivo e reiterato, nelle loro opere: la riga di Daniel Buren,
l’impronta di pennello di Niele Toroni, il punto di Enrico Castellani e Marco Gastini, il modulo di Nicola Carrino, gli oggetti
semplici e quotidiani ripresi da Jan Dibbets, la griglia / scacchiera di Laura Grisi.
A prescindere da questo accostamento, il sistema, come
emerge nell’arte degli anni Settanta, non è estraneo alla
ricerca condotta e teorizzata dagli artisti di Azimuth e del
Gruppo Zero e ha origine nelle pratiche della riduzione e
della ripetizione sperimentate in ambito minimalista le cui
espressioni più radicali si ebbero negli Stati Uniti nel corso
degli anni Sessanta (suggellate dalla mostra Primary Structures del 1966), ma anche nel rifiuto ideologico del ruolo dell’artista come lo intesero i giovani francesi del gruppo BMPT
(Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele
Toroni), nella vocazione, non estranea alle precedenti, di riflettere sugli strumenti del proprio linguaggio dalla quale
derivò una predilezione per la tassonomia (analisi di un tema
attraverso la stesura di elenchi che ne annoverano, senza
gerarchia, aspetti o componenti) e a una serie di esperienze
legate alla pratica della pittura identificate con i diversi nomi
di Pittura analitica, Pittura pittura, Nuova pittura (in Italia
studiate soprattutto da Filiberto Menna e da Paolo Fossati).
Di questo complesso intreccio e del nutrito novero di autori
i cui contributi furono vasti e articolati nel corso degli anni
Settanta a Roma, si è dato rilievo a quanti con maggiore insistenza sono ricorsi a un dispositivo, all’imposizione di una
regola iniziale attraverso la quale hanno sorprendentemente
ampliato il loro campo d’azione: l’infinità di paesaggi visivi
ottenuti da Enrico Castellani con l’estroflessione di tele monocrome; la possibilità illimitata di entrare in relazione con
i luoghi abitati, i più diversi e nella doppia accezione di
interni ed esterni, instaurando un colloquio o modificandone
radicalmente l’assetto, con le bande parallele larghe ciascuna 8,7 centimetri di Daniel Buren o le impronte di pennello numero 50 impresse alla distanza di 30 centimetri le
une dalle altre di Niele Toroni; la griglia, presenza totalizzante, che ridotta da Marco Gastini ai punti di intersezione
convive con altri dispositivi pari al suo; la disciplina di registrare un dato reale in relazione al cambiamento di posizione
o al trascorrere del tempo nelle immagini fotografiche di Jan
Dibbets, il cui insieme restituisce la percezione dilatata di
una entità che permane e ha il dono dell’ubiquità; i moduli
(elementi identici) dei quali Nicola Carrino invita a modificare l’assetto come esercizio politico di trasformazione
sociale; l’identico che si moltiplica nei viaggi senza fine di
Laura Grisi.
124
Linguaggio
Si giunse agli anni Settanta con il desiderio e la necessità
di ridefinire - combattere - quanto ricevuto in eredità dalla tradizione. A partire dalla lettura dei primi saggi sulla linguistica
(da Ferdinand de Saussure a Roman Jakobson) si appurò la
natura convenzionale del linguaggio (in Italia e in relazione alle
arti visive, il concetto venne messo in chiaro da Filiberto
Menna). Di conseguenza, se il linguaggio è relativo al sistema
generatosi all’interno della propria cultura di appartenenza
(Michel Foucault) alcuni autori sentirono l’urgenza di ridefinirlo
in ragione della loro opposizione alla società.
Il testo di Paola Bonani in catalogo introduce al tema dell’arte cosiddetta concettuale alla quale sono ascrivibili molte
e diverse nature. Nella sala sono presenti aspetti dissonanti
di questa galassia con un dato in comune, quello di ridefinire
fisionomia e portato dell’opera d’arte assimilandone funzione
e funzionamento a quelli del linguaggio parlato e scritto.
La battaglia Joseph Kosuth (e di molti altri artisti della
sua generazione) fu contro il formalismo (consegnato dalla tradizione in veste di pittura e scultura) condotta nel segno di
Marcel Duchamp, che con i suoi ready made aveva permesso
di spostare l’obiettivo dell’arte dalla forma al contenuto. L’arte
per Kosuth è linguaggio sull’arte. Un’opera d’arte, pertanto, è
una sorta di preposizione presentata entro il contesto dell’arte
come un commento sull’arte (J. Kosuth, Art after Philosophy,
“Studio International”, ottobre 1969). Lawrence Weiner esalta
il potere del linguaggio (uno strumento semplice e alla portata
di tutti) e, senza dare direttive di alcun genere, descrive opere
aperte, che si possono realizzare in modi e situazioni diverse
e in riferimento a condizioni di segno positivo o negativo, come
nel caso del lavoro in mostra, esposto nella galleria di Gian
Enzo Sperone e Konrad Fischer nel 1973. Nell’opera Warum
ein Gedanke einen Raum verpestet?/Perché un pensiero intossica una stanza? di Fabio Mauri mostrata alla Seconda
Scala nel 1972, lo schermo (campo di proiezione) accoglie
parole che saldano insieme significati diversi (invettiva, interrogazione, memoria personale) scritte in tedesco (il pensiero
tedesco è stimato in profondità quello europeo) con “gotico
letraset” (che esprime umoristicamente l’uso presente del
passato). Il Libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti
è stato svuotato dalle parole. La cultura, sembra dimostrare
quest’opera, passa attraverso la dimenticanza del dato particolare (storicizzato, riferibile a un determinato contesto o
autore) e la definizione (memorizzazione) di uno stato di coscienza non perfettamente decodificale attraverso il linguaggio
con il quale generalmente (razionalmente) gli individui comunicano. Al negativo del mondo si antepose il rifiuto, la decultura di cui aveva scritto Germano Celant nel teorizzare l’Arte
Povera, o l’annullamento praticato da Mario Diacono (in una
serie di iniziative condotte insieme ad alcuni artisti nel corso
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
del 1972 e raccolte nel numero unico della rivista “e/o”, Roma
giugno 1972). Una posizione diversamente declinata nel corso
degli anni Settanta e testimoniata in mostra dalla Cultura
mummificata di Eliseo Mattiacci e dalla bandiera cancellata
di Gianfranco Notargiacomo accompagnata dalla trascrizione,
in termini fonetici, della parola nonsense (comparvero entrambe nella mostra /ay/ /layk/ /ayk/ a La Salita nel 1972).
Radicale la posizione di Francesco Matarrese che si sottrasse
al rituale delle mostre e che anche in questa occasione rinnova
la sua estraneità in nome di un’esperienza dialettica. Renato
Mambor, al contrario, investe nella possibilità di mantenere
aperta la comunicazione a patto di ridefinirne i termini e crea
l’Evidenziatore (un dispositivo per imparare a dare attenzione
alle cose) e interroga le persone sul senso e la funzione dell’oggetto (da attribuire collettivamente). La sala si chiude con
le opere di Sergio Lombardo e di Luca Maria Patella, autori
diversi, i quali entrambi hanno iniettato nel linguaggio le mele
stregate del caso, dei moti della psiche, del fantastico. Con
Progetto di morte per avvelenamento di Sergio Lombardo, uno
dei flaconi contenente veleno esposti a La Salita nel 1970, l’interazione con l’altro - centrale nel lavoro dell’artista - diventa
mentale e psicologica e la domanda sottesa al lavoro introduce
il tema rischioso di quale possano essere le cause e gli stati
d’animo che inducono un individuo alla morte volontaria. Cinquanta partite a dadi del 1974, esposto a La Salita l’anno seguente, sono grafici nei quali ha riportato i risultati di esperimenti realizzati nel suo studio che provano come le intenzioni
del giocatore, le sue condizioni mentali, determinino il punteggio di una partita. Nei grafici di Luca Maria Patella improntati su complesse teorie linguistiche, l’autore dissemina elementi apparentemente irrazionali, specchio in realtà di una
visione dilatata. Nelle sue conferenze, come nella sua fertile
produzione di libri, Gazzette ufficiali, comunicazioni, video,
trova posto una gamma di esperienze, dalla scienza e dalla
psicologia (traduce il testo dei colori di Max Lüscher e lo
applica ai visitatori della sua mostra a L’Attico nel 1974 ), alla
storia (frequenti i riferimenti ad altri artisti, soprattutto a
Marcel Duchamp che per primo fece slittare il concetto di
opera d’arte dalla sua tradizionale definizione) e ai dati biografici, sino e all’irrompere di una immaginazione visionaria
che trova espressione soprattutto nelle sue fotografie (realizzate mettendo a punto complessi procedimenti tecnici e mai
con l’uso del fotomontaggio).
Memoria
Nelle due grandi nicchie al termine dell’ambulacro che costeggia la Rotonda sono presentati i video di Luciano Giaccari.
Teorico, oltre che autore, Giaccari è stato il primo a proporre
una classificazione dell’opera in video con la quale fornì, pre-
cocemente, gli strumenti concettuali per distinguere lavori altrimenti omologati dall’utilizzo del medesimo mezzo.
Sovente presente a Roma, soprattutto accanto a Fabio
Sargentini a L’Attico e nella sezione da questi curata nella
mostra Contemporanea di musica e danza, il lavoro di Giaccari
al Palazzo delle Esposizioni è un affresco della sua attività progettato dall’autore con video di natura diversa, taluni realizzati
in collaborazione con altri autori, e specchio dell’attenzione
rivolta alle arti visive, alla musica, alla danza e al teatro, allacciate, negli anni Settanta, in un reciproco dialogo. Molti di
questi lavori vennero presentati su invito di Achille Bonito
Oliva, nell’ambito della mostra dibattito, Analisi ed estetica
del videotape. Achille Bonito Oliva, Renato Barilli, Maria Gloria
Bicocchi, Luciano Giaccari, Vittorio Fagone, Italo Mussa, che
si svolse agli Incontri Internazionali d’Arte il 19 aprile 1975.
Tutto
“Aleph è uno dei punti dello spazio che contiene tutti i
punti (...) il luogo dove si trovano tutti i luoghi della terra, visti
da tutti gli angoli”, così Carlos Argentino Daneri descrive al
narratore l’Aleph nascosto nella cantina della sua casa di famiglia minacciata dal pericolo della demolizione. Il racconto di
Jorge Luis Borges ebbe larga fortuna negli anni Settanta e lo
citiamo per introdurre il lavoro di quegli artisti che vollero conferire alle loro opere una sorta di carattere universale. Una vocazione radicata nel decennio, estranea alla fissità del monumento, con la quale autori diversi introdussero un nuovo modo
di intuire il tutto - l’insieme, la visione ‘universale’ - come ottenuto dalla somma di visioni ‘particolari’. Se uno dei cardini
del decennio è la consapevolezza del limite, del valore convenzionale del linguaggio, in questa sala riuniamo coloro che
hanno aggirato questo limite individuando i presupposti universali della comunicazione e dell’argomentazione che permettono il conseguimento dell’intesa (Jürgen Habermas).
Nella sala riuniamo alcune opere esemplari con il titolo
Tutto, che Mario Schifano utilizzò per una sua mostra del 1963
(Galleria Odyssia di Roma, presentata da Maurizio Calvesi e
da Cesare Vivaldi, quella dove l’artista dopo l’esperienza del
monocromo assunse nei suoi dipinti tutte le immagini possibili:
paesaggi naturali e urbani e citazioni dalla storia dell’arte). Alle
opere presenti nella sala si devono idealmente affiancare
Disegno geometrico di Giulio Paolini e la serie degli specchi di
Michelangelo Pistoletto avviata a partire dal 1962 (opere
quest’ultime nelle quali, potenzialmente, si può riflettere l’intero esistente). Si possono, inoltre, associare all’idea del tutto
molti dei lavori già incontrati lungo il percorso della mostra, le
indagini sulla percezione negli scatti di Jan Dibbets, novero
dei diversi accostamenti possibili di due figure geometriche
nel Wall Drawing di Sol LeWitt espressione di una sensibilità
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
125
politica “di sinistra”, non escludente, l’illimitata compatibilità
dei segni di Daniel Buren o di Niele Toroni con i diversi luoghi
della vita sociale e molte altre. Nell’opera di Giovanni Anselmo
la segnatura con la parola “particolare” identifica elementi
diversi dello spazio sottolineandone l’appartenenza a un
insieme, insieme, che a sua volta, non è pensabile se non come
la somma delle sue componenti (nella mostra da Sperone e
Fischer a Roma nel 1974, dove l’opera è stata esposta, la dialettica tra particolare e tutto era sottolineata dalla presenza di
lavori intitolati Tutto). Il dipinto di Mario Schifano, autore che
nel corso degli anni Settanta sviluppò una vitale avidità nell’appropriarsi e nel trasformare le immagini dei suoi paesaggi
quotidiani o straordinari, precedono le opere di Alighiero
Boetti. Mappa e Mettere al mondo il mondo sono modi diversi
per istituire una visione del tutto articolata in una unità di cui
si lascia intuire la natura cangiante (il planisfero disegnato attraverso le bandiere espressione di una realtà storica mutante
e il dispositivo di scrittura che dall’insieme dell’alfabeto può
attivare nominare di volta in volta, in maniera diversa, un pensiero). In entrambe queste opere, inoltre, Boetti ricorre al
“formato” del quadro al quale assegna la complessa espressione del tutto. Nel Senza titolo di Jannis Kounellis confluiscono lo statuto dell’immagine e l’accadimento, il manufatto
e l’elemento naturale, la vita che la coperta / ventre genera e
la morte che la coperta / saio per misericordia cela. Con Alba
giorno tramonto e notte Eliseo Mattiacci orchestra la cosmogonia del tempo naturale e sociale. L’opera venne presentata
nella rassegna 24 ore su 24, che si tenne a L’Attico nel 1975
(altra declinazione dell’idea di tutto questa rassegna durante
la quale nell’arco di sette giorni e sette notti senza soluzione
di continuità si alternò la presentazione delle opere). Gino De
Dominicis dà scacco matto al pensiero approdando all’incontrovertibile e all’universale con un triangolo disegnato a terra
e un’elementare affermazione: Sono sicuro che voi siete (e
sempre sarete) o all’interno o all’esterno di questo triangolo.
Vincenzo Agnetti con i feltri, dei quali mostriamo due esemplari
esposti nel 1970 a La Tartaruga, Autoritratto e Ritratto di Dio,
sperimenta la potenza evocativa del linguaggio e accede, attraverso le parole, all’assoluto. Nell’opera di Maurizio Mochetti
un dispositivo - la freccia - atto a selezionare una determinata
direzione (a scapito di tutte le altre) è assunto, al contrario,
come l’indicatore di tutte le direzioni possibili. Il tutto delle
opere di Spalletti - insieme alla colonna esposta nella galleria
Pieroni nel 1979, riuniamo le cinque tavole della sua prima
mostra romana a La Tartaruga del 1975 (una mostra nella quale
Plinio De Martiis, senza esporsi in dichiarazioni, difendeva i
valori universali della pittura) - è il colore dell’aria, l’atmosfera
che nel mondo separa e collega. In un primo momento si
troverà in questa sala il lavoro di André Cadere, che durante
la mostra cambierà di volta in volta collocazione, espressione
126
della critica al sistema “capitalistico” del mercato dell’arte che
portò l’artista a rendere mobile - con la possibilità di abitare
ogni diverso luogo - la sua idea di esposizione.
La rivoluzione siamo noi
E’ il titolo dell’intervento che Joseph Beuys tenne il pomeriggio del 21 aprile del 1972 nella sede di Palazzo Taverna
degli Incontri Internazionali d’Arte su invito di Achille Bonito
Oliva. Si trattò di un lungo discorso, intervallato dal colloquio
con gli ascoltatori - Lucio Amelio, Renato Guttuso, Filiberto
Menna, Fabio Mauri - che l’autore accompagnò tracciando annotazioni e schemi su due lavagne. La registrazione sonora
venne in seguito trascritta e pubblicata nel volume che raccoglie l’attività svolta agli Incontri Internazionali d’Arte nel corso
del 1972. Come accadrà di lì a poco a Documenta per 100 giorni
di seguito, l’artista parlò per condividere il suo piano rivoluzionario, una rivoluzione, questo il suo pensiero, alla quale si
arriva partendo dal modo di pensare, dall’arte, dalla scienza.
“Solo l’arte può essere rivoluzionaria, in secondo luogo la
scienza”. Invitava a organizzarsi per la realizzazione di una “democrazia diretta”. “Bisogna scuotere l’uomo dalla tendenza a
privatizzarsi, a isolarsi, a depoliticizzarsi, a concentrarsi sui
propri interessi e svegliare in lui i sentimenti comunitari”. Alla
domanda di Fabio Mauri se pensasse che la persuasione
verbale fosse uno strumento di lotta sufficiente, rispose riconoscendo l’importanza dell’azione per la quale aveva creato
una vera e propria organizzazione che chiamava “ufficio”. In
mostra riascoltiamo la voce di Beuys registrata agli Incontri,
accompagnata da alcuni documenti sulla sua presenza romana
e dai ritratti fotografici di Claudio Abate e di Elisabetta Catalano. Il lavoro dell’artista, sebbene di natura situazionista, conferma la necessità di questi anni Settanta di considerare l’arte
separata, in una certa misura, dalla realtà verso la quale deve
essere dialettica, se non oppositiva, in ogni caso esemplare.
Uno spazio separato che trova riscontro nel lavoro di Joseph
Beuys in alcune sue azioni (il cerchio di Arena come apparve a
L’Attico nel 1972) o nel disporre gli oggetti utilizzati nelle teche,
protetti da vetri, come in un museo di arte antica.
Fenomeno
In questa, come nelle altre sale, sono raccolte opere
diverse per tecnica e sensibilità, intorno alle quali, a differenza
di quanto accaduto nella prima parte del percorso, non daremo
alcuno spunto per una lettura d’insieme. Al contrario, giunti
cronologicamente intorno alla metà del decennio, vogliamo
sottolineare proprio le differenze di linguaggio, di tecniche, di
attitudini. Nel farlo ci rivolgiamo idealmente alla fenomenologia di Edmund Husserl, il filosofo tedesco la cui lezione sul-
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
l’astensione del giudizio e l’aderenza al mondo-della-vita di
cui l’individuo fa quotidianamente esperienza si riverbera in
maniera significativa nella cultura degli anni Settanta. La sala,
in definitiva, è un invito a cogliere la specificità di ogni opera
e al tempo stesso la pluralità delle espressioni coltivate nel
decennio che ha visto decadere le strutture del pensiero
moderno (la fine delle narrazioni nella quale J. F. Lyotard individuò l’insorgere della cultura post-moderna) e accelerare le
capacità di accettare e comprendere simultaneamente strutture di pensiero differenti (uno stato di coscienza maturato
nell’ambito di un generale mutamento della società civile e
politica, a plasmare il quale ha fortemente contribuito la
cultura estetica e molte delle opere che sino ad ora abbiamo
incontrato).
Nei termini dello strutturalismo adottati nel corso degli
anni Settanta, il panorama che proponiamo nella sala può dirsi
anche sincronico. La commissione di studio della X Quadriennale (Filiberto Menna coordinatore, Alberto Boatto, Maurizio
Calvesi, Germano Celant, Gianni Colombo, Giuseppe Gatt, Luca
Patella, Tommaso Trini) rinunciando a un ordinamento per tendenze o monografico, costruì il percorso della mostra attraverso
“una serie di ‘aree sincroniche’, in cui differenti poetiche convergono attorno a un nodo problematico centrale” con l’idea
di “riscostruire la continuità sistematica della ricerca in modo
da cogliere una rete di scambi e di relazioni laddove, nella immediatezza pressante del fare, non potevano che apparire divaricazioni e opposizioni”.
I pianoforti di Nam June Paik approntati per la performance 4, 5 o 6 Pianos a L’Attico nel 1975 sono nello spirito
Fluxus che attraversa vitale il decennio, sovvertono le consuetudini con un intervento spettacolare e richiedono la partecipazione diretta dei visitatori. La condizione oppositiva e radicale espressa da Gilberto Zorio in alcune delle opere presentate a Roma all’inizio del decennio, trova una nuova sintesi
nell’immagine della stella (ancora una scultura che somiglia
a un disegno) visione utopica che condensa impegno civile e
idea di futuro. Mario Merz rinuncia al rifugio / igloo per dispiegare sui muri opere nelle quali torna al disegno, suo iniziale cimento con immagini che per Germano Celant, a differenza dei coevi citazionismi pittorici, si rifanno a un passato
remoto, originario, preistorico. Tufo Stone Circle di Richard
Long, realizzata con pietre raccolte nella campagna romana
nel 1976 (e probabilmente esposta a Roma nella mostra da
Gian Enzo Sperone dello stesso anno), è una scultura nella
quale si incarna un comportamento: la scelta dell’autore di intendere l’arte come cammino, attraversamento, immersione
nell’ambiente naturale. L’appartement de la rue Vaugirard del
1973 di Christian Boltanski, un’opera presentata a Roma nella
galleria di Enzo Cannaviello nel 1974, riattiva il tradizionale
impiego della fotografia come mezzo per ricordare qualcosa
che si è vissuto in prima persona. Nella Piroga di Hidetoshi
Nagasawa del 1973 la scultura è una tecnica di antica tradizione, l’intaglio, e una forma arcaica e simbolica, la barca.
Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944 con punti del 1976
di Maurizio Mochetti esposto lo stesso anno nella galleria di
Ugo Ferranti, si rapporta invece alla storia e alla tecnologia,
il cui impiego malvagio è disinnescato dall’arte. Gilbert and
George, infine, sono due sculture viventi. A Roma furono The
Singing Sculpure (L’Attico, 1972) e The Red Sculpture (Gian
Enzo Sperone e Konrad Fischer, 1977), ma si presentarono
anche in forma di disegno e in veste di fotografia (Gian Enzo
Sperone e Konrad Fischer 1972 e 1974).
Racconto
Nelle opere sino ad ora incontrate, dove insorge l’elemento
biografico, l’accadimento quotidiano, la visione particolare, ciò
si verifica sempre nei termini di un esempio rapportabile a molte
altre esistenze o in relazione a una condizione più vasta e generale (il rapporto uomo-donna nelle opere di Ketty La Rocca,
gli interni familiari di Michele Zaza trasformati in racconti favolosi, gli autoritratti - Salvo, Ontani, Mariani - a dimostrazione
dell’universale koinè dell’arte, le presenze vive che nelle opere
di Kounellis assurgono a rappresentazioni del mito, tutte opere
nelle quali il particolare è in relazione con il tutto come nel
lavoro di Giovanni Anselmo). Con l’idea che la reazione, il desiderio di cambiamento, sia un criterio importante per capire i
mutamenti della storia, abbiamo voluto ricordarlo per introdurre
una nuova sensibilità suggellata internazionalmente con la
mostra Story ordinata dal gallerista John Gibson a New York
nel 1973 e che ebbe rapida risonanza in Europa. A Roma fu Enzo
Cannaviello che in maniera estesa e sistematica espose molti
dei protagonisti di quella che venne internazionalmente definita
Narrative Art. Con opere per la maggior parte presentate nella
sua galleria (tra 1974 e il 1977) introduciamo il lavoro di Bill
Beckley, Michel Badura, Jochen Gerz, Peter Hutchinson, Jean
Le Gac. Le loro sono tutte opere formate da immagini fotografiche e testo. Sono questi mezzi affini a quelli impiegati in area
concettuale, ma ora hanno cambiato radicalmente temperatura
(Bill Beckley si definirà un nuovo romantico). Là dove la fotografia torna a garantire una certa adesione al reale (il principio
di cui ha scritto Filiberto Menna nel catalogo della mostra La
somiglianza, allo Studio Cannaviello, Roma 1976) e la scrittura
ha familiarità con quella diaristica, l’arte abbandona investigazioni linguistiche e procedimenti analitici per una adesione al
comportamento e al linguaggio comune. Accanto a queste esperienze ne presentiamo altre fondate sulla registrazione fotografica di natura diversa. La registrazione mnemonica di un’esperienza di Hamish Fulton, lo strumento di un percorso di conoscenza di Franco Vaccari. Quelle atte a suggellare un compor-
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
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tamento deviante dalle regole imposte, una condizione di diversità, Urs Lüthi, Kathariana Sieverding, ma anche lo sguardo
rivolto da Giosetta Fioroni alla patologia. Diverse sono le immagini fotografiche con le quali Alberto Garutti presta la propria
attenzione agli ambienti quotidiani investendoli di uno sguardo
immaginifico.
Questi e gli altri lavori fotografici potranno essere inquadrati in una più ampia prospettiva attraverso il saggio che
Antonella Russo in questo catalogo dedica alla storia della
fotografia.
Politica
Ai rapporti tra arte e politica è dedicato in questo catalogo il saggio di Lucilla Meloni le cui riflessioni abbracciano
molti degli artisti che abbiamo già incontrato lungo il percorso
della mostra. La presa di posizione radicata sino all’impegno
politico era un comportamento, come è noto, diffuso negli anni
Settanta quando la partecipazione ai fatti della vita sociale
era avvertita come un’urgenza, la risposta a una chiamata cui
uomini e donne civili non potevano sottrarsi. Politica è l’arte
di Jannis Kounellis (per come eleva il quotidiano alla misura
dell’epica), di Sol LeWitt (per il suo destinare l’opera allo
spazio collettivo del muro e condividerne l’esecuzione), di
Vettor Pisani (per il suo scavo interiore che restituisce verità
all’individuo), di Maurizio Mochetti (per l’idea di una scienza
al servizio dell’immaginazione), di André Cadere, di Vincenzo
Agnetti, di Sergio Lombardo, di Luca Patella, di Fabio Mauri,
di Lawrence Weiner... Tra questi autori ce ne sono alcuni nel
cui lavoro la questione politica assurge a tema. Non è più implicita nella rete di scelte che connotano l’opera (il linguaggio
che la sostanzia, le tecniche con la quale è realizzata, il modo
in cui viene condivisa) ma appare in chiaro, è detta, è utilizzata
come strumento di intervento diretto nella società, come lotta,
denuncia o propaganda, similmente a come abbiamo visto accadere nelle azioni di Joseph Beuys. Anche in questo ambito
convivono nature molto diverse. Eclatante è stato a Roma il
fenomeno degli Uffici per la immaginazione preventiva,
fondati (forse sulla suggestione del programma beuysiano) nel
1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano, Franco
Falasca con diramazioni in Brasile (Fabio Mauri) e a New York
(Mario Diacono). Oltre ai lavori individuali dei singoli componenti, nel grande tavolo la centro della sala, attraverso una
serie di documenti, si introduce la loro attività nella quale
coinvolsero un numero vastissimo di altri artisti con iniziative
condotte con la convinzione che il discorso estetico possa
essere rivoluzionario (non solo quello che tratta esplicitamente
temi di politica). Con gli Uffici per la Immaginazione preventiva
fecero le loro prime apparizioni pubbliche Francesco Clemente
e Bruno Ceccobelli.
128
Nella sala esponiamo due lavori fotografici, allo stesso
tempo politici ed estetici (nel senso della ragione formale e
tecnica e dell’eredità storico artistica): lo sguardo di Tano
D’Amico votato alla sofferenza e ai disagi sociali (come sempre
accade nelle foto dell’autore militante nella stampa comunista)
e quello di Mario Cresci che intrepreta e trascende l’indagine
antropologica svolta nel 1979 a Barbarano Romano.
I lavori di Videobase, il collettivo formato da Anna Lajolo,
Guido Lombardi, Alfredo Leonardi, sono tre inchieste su altrettanti temi di ingiustizia / lotta sociale, commissionati dalla
sezione di Informazione Alternativa di Contemporanea curata
da Bruno Corà, Leietta Gervasio, Paolo Medori e di fatto mostrati nel contesto di una mostra d’arte. I lavori di Tomaso Binga
e di Verita Monselles (entrambe impegnate nella gestione del
Lavatoio contumaciale, uno spazio per mostre e incontri) sono
due differenti riflessioni / denuncia sulla condizione femminile,
come le opere di Suzanne Santono e di Cloti Ricciardi impegnate quest’ultime nella gestione della Cooperativa del Beato
Angelico, nata con il proposito di documentare il lavoro delle
donne che “operano e hanno operato nel campo delle arti
visive”. Politica, infine, è la scelta di Gianfranco Baruchello di
vivere in campagna assegnando un valore creativo all’azione
di coltivare la terra. Scelta sintomatica di una stagione che
vide il deterioramento della partecipazione politica (dovuto in
parte anche all’insorgere della componente armata e clandestina) e che garantiva, all’interno di una collettività separata,
di poter vivere nella coerenza dei propri principi e ideali.
Labirinto
Metafora frequente alla fine anni Settanta, complice di
nuovo un racconto di Borges e un senso dell’orientamento (politico e sociale) che si andava smarrendo. Achille Bonito Oliva
nel 1979 dedicò un libro a questa architettura che non ha
centro né periferia, convertita in un percorso (nelle parole dell’autore) che non conosce l’economia dell’arrivo e dell’approdo,
metafora del linguaggio che solo l’artista ha il diritto di abitare
e sfidare (A. Bonito Oliva, Labirinto, Milano 1979).
In quest’ultima parte della mostra vi è una prevalenza di
opere dipinte, ma non sono queste le uniche protagoniste e
alla figura del labirinto si fa riferimento non come alla memoria
ritrovata della pittura (il filo d’Arianna), ma al carattere segreto
che molti lavori di questo periodo assunsero. Ciò avvenne, nonostante l’impiego, in molti casi, di una tecnica giudicata da
alcuni di più facile accesso - la pittura appunto - e in contrasto
con l’estrema chiarezza della maggior parte dei lavori concettuali (tautologie, analisi, metodi), approntate da autori che
avevano la necessità inderogabile di instaurare un rapporto di
comunicazione con i destinatari dell’opera (spesso accompagnando il lavoro da dichiarazioni scritte).
DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA
Per carattere segreto si intende una commistione di elementi il cui insieme rimane inspiegabile in assenza di precise
conoscenze sulla loro origine o sulle vicende biografiche dell’autore ma soprattutto che non è più essenziale decodificare
per accedere all’opera. Sono anni nei quali si assiste a un rinnovato interesse per il simbolo (nel 1977 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna si tennero due mostre dedicate all’Espressionismo tedesco a cura di Bruno Mantura e nel 1979 quella
sulla grafica di Max Klinger a cura di Werner Spies), mentre
una nuova generazione di artisti riconsiderava la pittura in
termini astratti, sottraendole con la figura la sua prima e immediata intelligibilità. Alcuni degli artisti presenti in questa
sala hanno esordito come pittori scivolando, per dirla con
Achille Bonito Oliva, sul piano inclinato del disegno (catalogo
Drawing/Transparence. Disegno/Trasparenza, Cannaviello Studio d’Arte, Roma 1976). Abbiamo già visto le prime pitture di
Sandro Chia che somigliavano a disegni. Anche il dipinto
I giganti fulminati da Giove di Salvo che dal 1973 coltivò il culto
della pittura, con i suoi colori senza materia e il fondo bianco
assomiglia a un disegno. Una lumeggiatura di biacca sembra
il dipinto di Cesare Tacchi, con l’orecchio al centro della tela e
un titolo che cita Pablo Picasso. Disegni fotografati o disegni
tracciati sul muro sono le opere esposte da Francesco Clemente nella mostra Pitture barbare del 1976 alla galleria di
Gian Enzo Sperone. Sul disegno che esponiamo, Pitture
barbare, fluttuano piccole immagini il cui accostamento è incomprensibile se non guidati dalla nozione che si tratta di una
sorta di inventario delle precedenti opere dell’artista. Un
enorme disegno su lenzuolo è stata la prima opera mostrata
da Enzo Cucchi nel 1977 agli Incontri Internazionali d’Arte (della
quale nonostante gli sforzi non siamo riusciti a individuare l’attuale collocazione). Disegni sul muro si videro nello spazio autogestito La Stanza (un nome che allude a un luogo privato e
idoneo alla condivisione di un cenacolo): la bifora di Sergio
Sanna, i d’après da Tiziano di Stefano Di Stasio, il Palazzo d’Inverno nella fase della putredo di Bruno Ceccobelli. Di Giuseppe
Gallo, un altro degli autori de La Stanza, esponiamo la serie
dei Disegni malati. È prossimo al disegno l’autoritratto di Francesco Clemente su carta da spolvero del 1979 che presentiamo
in questa mostra (nel quale la figura di Clemente ha il suo rovescio - come sulle carte da gioco e con allusione all’androgino
- nel vestito femminile). In nome del disegno convivono a
S. Agata de’ Goti opere come l’arabesco di Giuseppe Salvatori,
la foto ritoccata con le matite colorate di Felice Levini e persino
la crepa che corre sul muro come un ininterrotto segno di
matita di Vittorio Messina (che rimarrà, a differenza dei suoi
compagni, del tutto estraneo alla pittura).
Il carattere di disegno di molte pitture di questa seconda
metà degli anni Settanta, oltre a testimoniare una certa timidezza, un avvicinarsi cauti alla pittura – sulla pittura riflette in
questo catalogo Denis Viva – (nei ricordi di molti riaffiora il
veto di cui era stata fatta oggetto nei primi anni del decennio)
è sintomo della familiarità di queste esperienze con l’attitudine
concettuale (intesa come rifiuto delle tecniche tradizionali, dematerializzazione dell’oggetto d’arte e opera concepita come
dispositivo critico). Ma i legami con l’arte concettuale sono
anche ravvisabili in ciò che nella stessa arte concettuale era
sopravvissuto di pittorico (soprattutto in Italia e in particolare
a Roma), l’attenzione, ossia, riservata al quadro, il modo di circostanziare l’espressione all’interno di una cornice che
abbiamo osservato nelle opere di Jannis Kounellis e di Giulio
Paolini. Si può dire che l’arte concettuale e una certa pittura si
incontrano a Roma a metà strada. Abbiamo visto il dispositivo
critico sotteso all’opera messo alla prova dal deflagrare del
meraviglioso (Patella) o delle implicazioni psicologiche (Lombardo). Ora assistiamo al suo smantellamento in nome di nuovi
punti di vista e di un frequente ricorso alla parcellizzazione
(ancora una volta sull’esempio dell’arte concettuale). Unico
garante l’io individuale che ritorna di scena (ma era mai scomparso?). Salvo continua a essere la reincarnazione dei grandi
artisti del passato. Carlo Maria Mariani, sempre fedele alle
teorie di Madame Blavatsky e fiducioso nella facoltà della psicometria, dipinge in dialogo serrato con Angelica Kauffmann
(e attraverso la pittura riattualizza il passato). Cesare Tacchi sì
che era scomparso (con la Cancellazione d’artista al Teatro
delle mostre nel 1968 era sparito oscurando, con la pittura, un
vetro), ma già nel 1972 riapparve (nello studio di Elisabetta Catalano) compiendo un’azione opposta (rimuovendo la pittura
che oscurava il vetro e suggellando l’operazione con il titolo
Painting). Luigi Ontani nel segno di Gian Battista Vico continua
ad attraversare la storia abitando corpi e opere diverse e trovando in India nuove corrispondenze. L’India con le sue pratiche
ascetiche (e la promessa dell’illuminazione), con la sua musica
(modello al minimalismo), con i suoi colori (e la sua diffusa tradizione artigianale), ha un posto di rilievo nella cultura del decennio (a Madras, Fabio Sargentini, Francesco Clemente, Giordano Falzoni e Luigi Ontani si recarono insieme nel 1977
facendo di questo viaggio una mostra). L’arte si offrì in forma
di libere associazioni, che talvolta era impossibile o inopportuno decodificare. Sandro Chia a La Salita accompagnò la
pittura con un irritate sbattere di porte (OMETTO, quando ti
sentirai a tuo agio visto che sei a casa tua?, 1976) e per una
mostra alla Galleria dell’Oca creò degli ibridi innestando sculture e disegni, disegni e pitture, Clemente nella mostra citata
del 1976 da Sperone compose misteriosi assemblaggi. Enzo
Cucchi presentò da Giuliana De Crescenzo una commistione di
disegni, oggetti e sculture oggi dispersi. A partire dal novembre
del 1979 i nomi di Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo
Cucchi insieme a quelli di Nicola De Maria e Mimmo Paladino
(solo inizialmente associati a quelli di altri) vennero raccolti in
GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI
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nome della Transavanguardia, l’elaborazione critica di Achille
Bonito Oliva, destinata al successo planetario: “L’arte finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del
suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il ‘labirinto’,
inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la
sostanza della pittura.” (A. Bonito Oliva, La Trans-avanguardia
italiana, “Flash Art”, nn. 92-93, ottobre - novembre 1979). Su
un altro fronte (e con diversi schieramenti di critica e di gallerie)
si trovava la pittura di Franco Piruca, che con gli autoritratti
della sua mostra d’esordio si libera dall’incubo della storia irreversibile (il rimando è sempre alla filosofia di Nietzsche) e si
fa soggetto “transtemporale” (in seguito adombrerà il concetto
di “anacronismo” in nome del quale Maurizio Calvesi, a partire
dal 1980, teorizzerà il lavoro di un gruppo di artisti riuniti
intorno a La Tartaruga). Su un altro fronte ancora, Bruno Ceccobelli intraprese la sua ricerca della pietra filosofale, dell’immagine miracolosa, accessibile a tutti, convinto della centralità
dell’arte, la cui necessità condivise con una compagine di
artisti destinati a percorrere un tratto di strada insieme.
Accanto al suo lavoro, presentiamo le fotografie - ispirate alle
incisioni del Guanto di Klinger - di Francesca Woodmann, che
insieme a Bruno Ceccobelli e a Giuseppe Gallo e ad altri espose
a Roma nel 1978 in una collettiva da Ugo Ferranti. In quest’area
della mostra esponiamo anche una raccolta dei ritratti fotografici di Elisabetta Catalano, in controcanto - per l’attenzione
rivolta all’altro che li sostanzia - ai tanti autoritratti che
segnano questo scorcio del decennio. La mostra si chiude con
un dipinto di Giulio Turcato che in nome di una pittura astrattasurreale-figurata ha felicemente attraversato il decennio.
Il catalogo, invece, chiude con la fotografia emblematica
di un piccolo gruppo di amici attorno alla Fontana delle Api di
Gian Lorenzo Bernini dove Luciano Fabro ha deposto nell’acqua
Io (l’uovo), una scultura di bronzo, una sorta di bossolo, scura
all’esterno e dorata all’interno, che reca incisa una figura in
posizione fetale e pesa quanto il corpo dell’artista. Era la sera
del 16 marzo 1978, la mattina avevano rapito il Presidente della
Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e ucciso tutti gli uomini della
sua scorta.
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DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA