04bisPdE Cat_Lancioni testo116-130.qxd:168x230
Transcript
04bisPdE Cat_Lancioni testo116-130.qxd:168x230
Labirinto Politica Fenomeno Racconto La rivoluzione siamo noi Tutto Memoria del video Memoria del video L’altro Il doppio La carne e l’immaginario Il linguaggio Quattro mostre e un’opera Sistema Il disegno e la scultura Daniela Lancioni Guida pratica alla visita della mostra 117 Dopo gli approfondimenti nei quali una nuova generazione di storici ha analizzato, sotto diversi punti di vista, opere e figure del decennio, questo testo è stato redatto come una guida al servizio di coloro che visiteranno la mostra (breve per una materia così densa e corposa). La scelta di focalizzare l’attenzione sulle opere - dettata dalla volontà di aderire allo stato delle cose e offrire una vista di insieme - ha comportato la rinuncia a un ordinamento monografico o strettamente cronologico, come anche a seguire il filo conduttore di tendenze e di movimenti storicizzati o l’attività degli spazi espositivi (componenti fondamentali di questa storia che vorremmo emergessero dal racconto e che introduciamo nello spazio della Rotonda). La decisione, pertanto, di come accostare le opere l’una a all’altra e tra quali di queste accendere un dialogo o una contrapposizione dialettica, è stata un’operazione arbitraria, ma condotta nello sforzo di recepire quanto le opere stesse sembravano suggerire. Ogni sala della mostra è stata composta rintracciando un fil rouge, non un tema, ma di volta in volta un’attitudine, una disciplina, un pensiero, una parola chiave, un’intuizione presa a prestito da un critico o dal titolo di un lavoro. Il loro succedersi comporta una scansione temporale che divide la mostra approssimativamente in due parti corrispondenti alla prima e alla seconda metà del decennio. Ai visitatori rivolgiamo l’invito a prendere le nostre indicazioni come meri suggerimenti ricordando che ogni opera è portatrice di un’insondabile complessità e che gli argomenti di volta in volta selezionati per la trama del racconto, possono trasmigrare da una sala all’altra, da un lavoro all’altro. Quattro mostre e un’opera Il percorso inizia nella Rotonda dove attraverso le immagini di tre fotografi, Claudio Abate, Ugo Mulas e Massimo Piersanti e alcuni documenti, sono introdotte quattro mostre collettive: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 al Palazzo delle Esposizioni (novembre 1970 - gennaio 1971), Fine dell’alchimia alla galleria L’Attico (28 - 29 dicembre 1970), Contemporanea al parcheggio di Villa Borghese (30 novembre 1973 - 28 febbraio 1974), Ghenos Eros Thanatos alla galleria La Salita (dal 3 febbraio 1975). Hanno proporzioni diverse, ma ciascuna in maniera differente rappresenta un’importante tappa per l’arte a Roma negli anni Settanta del secolo scorso (e una diversa posizione critica che in questo catalogo è inquadrata in un più generale panorama nello studio di Lara Conte). Con Vitalità del negativo e Contemporanea familiarizziamo con l’attitudine a collettivizzare, a raggruppare una moltitudine di esperienze diverse nell’ambito di un’unica, poderosa visione e con la messa a punto del dispositivo mostra da parte di Achille Bonito Oliva come scrittura espositiva. Fine dell’alchimia, accompagnata da un testo di Maurizio Calvesi e Ghenos Eros Thanatos curata da Alberto Boatto rappresentano l’irruzione di un diverso sentire che caratterizza gli anni Settanta, distante dalle pratiche concettuali e dominato dal terrore della morte, come dalla gioia estrema della nascita e dai piaceri della vita, sensibile al mistero e a tutto ciò che è umano. Vitalità del negativo e Contemporanea sono due progetti dell’associazione culturale Incontri Internazionali d’Arte. La prima esclusivamente dedicata all’arte italiana, la seconda internazionale e pluridisciplinare, irripetibile evento espositivo cui è dedicato in questo catalogo il saggio di Luigia Lonardelli. Il “coordinamento dell’immagine” di entrambe le mostre venne GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 117 affidato all’architetto Piero Sartogo che con Achille Bonito Oliva aveva già realizzato Amore mio. Vitalità nacque sotto il segno della condivisione. I primi comunicati stampa e le prime recensioni riportano la notizia di un comitato organizzativo di cui facevano parte oltre allo stesso Bonito Oliva, gli artisti, Vincenzo Agnetti, Enrico Castellani, Gianni Colombo, Jannis Kounellis, Gino Marotta, Fabio Mauri, Paolo Scheggi. Un affine spirto di condivisione risulta nella scelta di invitare a scrivere nel catalogo alcuni tra i maggiori esponenti della coeva critica (l’unica assenza di rilievo sottolineata dagli osservatori dell’epoca fu quella di Germano Celant): Giulio Carlo Argan, Alberto Boatto, Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Cesare Vivaldi. In mostra convissero autori diversi, accostati senza preclusione di stili, schieramenti, attitudini (in un modo del tutto scevro da posizioni ideologiche): Vincenzo Agnetti, Carlo Alfano, Getulio Alviani, Franco Angeli, Giovanni Anselmo, Alberto Biasi, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi, Davide Boriani, Enrico Castellani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Luciano Fabro, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Piero Manzoni, Gino Marotta, Manfredo Massironi, Fabio Mauri, Mario Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Mimmo Rotella, Paolo Scheggi, Mario Schifano, Cesare Tacchi, Giuseppe Uncini, Gilberto Zorio (Mario Ceroli, Eliseo Mattiacci, Maurizio Mochetti presenti in catalogo, si rifiutarono di partecipare). “Questo è il mondo: una fitta rete di condizionamenti e un perenne attentato alla libertà individuale” è il famoso incipit del testo di Achille Bonito Oliva la cui scrittura registra le mutazioni del rapporto tra artista e società (anche questo un modo legato alla prassi della condivisione) non procedendo secondo gli schemi del marxismo storico, ma su un solco più ampio, antropologico, che insieme agli assetti economici e alle contingenze politiche, contempla la condizione esistenziale del singolo. Il suo bilancio sull’arte italiana del decennio appena trascorso è positivo, ne emergono coloro che con “una giusta ostinazione in una zona di intenzionale demenza” affermano e rivendicano “la propria complessità politico-esistenziale”. Il presente, quindi, è investito dall’ottimismo: “questo è il tempo i cui i miti vengono saggiati e l’esercizio della fantasia, partendo dal negativo del linguaggio (…) ha conquistato definitivamente una zona di ‘nuova metafisica’”. L’arte come spazio della “festa” e rimozione del “falso mondo” (è la tesi espressa dall’autore in Territorio magico, Firenze 1972). Nell’allestimento di Piero Sartogo lo spazio della Rotonda all’entrata del Palazzo delle Esposizioni era oscurato e abbassato da bande nere che, tese tra le colonne a due metri d’altezza, cancellavano capitelli e cupola. Il buio era squarciato da alcune potenti luci che proiettavano, ingigantendole, le ombre dei visitatori su grandi schermi bianchi. Da questa piazza si accedeva a una sequenza di spazi bianchi ciascuno dei quali 118 era riservato a un diverso artista. L’allestimento, interpretandolo, spettacolarizzava il tema della mostra (la vitalità del negativo tradotta con il passaggio dallo scuro al chiaro) come anche l’inedito bilanciamento tra iniziativa collettiva ed esperienza individuale (tradotto nella coesistenza di uno spazio collettivo - la piazza dove gli stessi visitatori diventavano protagonisti - e degli spazi circoscritti e incontaminati - i cubi bianchi riservati all’espressione dei singoli artisti). Con la mostra Vitalità del negativo nacquero gli Incontri Internazionali d’Arte, l’associazione culturale fondata da Graziella Lonardi Buontempo (tra i soci fondatori anche Giorgio Franchetti). Inedita commistione di pubblico e privato, condotti lungo tutto il decennio dalla direzione artistica di Achille Bonito Oliva e con il coordinamento di Bruno Corà, Alberto Moravia ne fu il presidente dal 1975, gli Incontri promossero una fitta serie di iniziative che si tennero nella sede della Associazione a Palazzo Taverna (molte a cadenza giornaliera con la formula ereditata dal Teatro delle mostre, la mitica rassegna ideata da Plinio De Martiis alla galleria La Tartaruga nel maggio del 1968) e di alcune importanti iniziative promosse in altri spazi con interessi che spaziavano dalle arti visive, alla sociologia dell’arte, al teatro e al cinema con rassegne curate da Adriano Aprà e da Patrizia Pistagnesi. Il progetto colossale portato a termine dagli Incontri Internazionali d’Arte è la mostra Contemporanea che si tenne a cavallo tra il 1973 e il 1974 e da allora annoverata tra le principali esposizioni d’arte del mondo. Vitalità venne interamente fotografata da Ugo Mulas. Il fotografo, all’epoca già ammalato, non porterà a termine il progetto di realizzarne un libro che vedrà la luce solo di recente. Nelle maglie del lavoro condotto al Palazzo delle Esposizioni intrecciò quello delle Verifiche, la serie realizzata tra il 1970 e il 1974, con la quale tracciò la sua definitiva analisi sugli strumenti e i dispositivi della fotografia. Furono in molti a fotografare Contemporanea, ma nell’attuale mostra ne riproponiamo le immagini di Massimo Piersanti, fotografo ufficiale degli Incontri Internazionali d’arte, i cui scatti restituiscono una parte significativa delle straordinarie imprese che l’Associazione riuscì a portare a termine grazie all’apporto di molti intellettuali e alla dolcissima tenacia di Graziella Lonardi Buontempo. Sulle altre due mostre documentate nella Rotonda si sofferma in questo catalogo il saggio di Fabio Belloni. Quella che abbiamo chiamato Fine dell’alchimia come generalmente viene citata, in realtà ha un altro titolo, dato dell’enumerazione dei titoli delle quattro diverse partecipazioni: Maurizio Calvesi: Contributo alla crisi. Gino De Dominicis: Pericoloso morire. Jannis Kounellis: Motivo africano. Vettor Pisani: Io non amo la natura. Il testo di Maurizio Calvesi, esposto in mostra come un’opera, è una presa di distanza dall’arte concettuale - “concetti, equivalenze di fare e pensare, che tuttavia non producono DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA trasmutazioni, né fuori né dentro di noi” - scredita, come farà nella prefazione alla seconda edizione de Le due avanguardie (1971), il connubio arte e vita, paragonando il fallimento dell’alchimia a quello dell’arte - “l’immagine che l’alchimia ci ha consegnato di sé va rivelandosi sempre più prossima a quella che ci andiamo facendo dell’arte: un valore circolare, mentre tutto tende ad avvenire fuor del circolo. Circolo che credeva di abbracciare e spiegare il tempo, cioè la vita, finché non ci si è accorti, nel momento in cui l’abbraccio voleva farsi concreto, che la escludeva”. Ma in nome di questo stesso binomio, arte e alchimia, Calvesi che proprio in quegli anni intensificava le sue ricerche nei territori di confine tra arte, letteratura e alchimia ritrova uno scopo comune, che “non può essere altro, evidentemente, che un recupero di umanesimo, il recupero di un’immagine globale dell’uomo”. La mostra si concluse con un dibattito durante il quale il fisico Franco Rustichelli, “sulla base di un’affermazione di Gino De Dominicis, che crede possibile per l’uomo eliminare l’invecchiamento e la morte nei prossimi anni a condizione di concentrare su questo problema quasi tutte le possibilità scientifico-tecnologiche e mentali del genere umano”, discusse “da un punto di vista matematico il concetto di immortalità”. Fine dell’alchimia si tenne a L’Attico nell’ex garage di Via Cesare Beccaria, la galleria di Fabio Sargentini che a partire dal 1971 si scisse in due raddoppiando sede con l’appartamento affrescato di Via del Paradiso. Fu Sargentini a interessarsi alle nuove avanguardie internazionali ospitando il primo Wall Drawing europeo di Sol LeWitt, le azioni di Joseph Beuys e di Gilbert and George, ma soprattutto portando in Città ripetutamente gli innovativi interpreti della danza e della musica americana e di quest’ultima recuperando le origini orientali. E’ nella sua galleria che maturarono intorno al 1967 i fermenti romani raccolti poi nella compagine nominata da Germano Celant Arte Povera, Pino Pascali e il radicale Jannis Kounellis dei dodici cavalli vivi (gennaio 1969). È a L’Attico che nel corso del decennio esordirono ed esposero con assiduità Gino De Dominicis e Luigi Ontani. È Sargentini che con maggiore irrequietezza fece coincidere l’esercizio pubblico della galleria con i modi e i tempi dello stare insieme inteso come rapporto interpersonale e amicale convivendo fuori orario, 24 ore su 24, in Viaggio a Madras o sul fiume Tevere. Una propensione per la ritualizzazione dell’incontro, che fu fatale per la galleria, quando Sargentini - divenuto autore di teatro - ne sospese momentaneamente l’attività. Le immagini della mostra sono di Claudio Abate, fotografo, per eccellenza, dell’avanguardia romana. Sublime interprete di opere che avevano la vita breve o variabile dell’azione o della installazione e alle quali conferì l’immagine definitiva, scattata in accordo con gli artisti o sapendone con sensibilità percepire la visione, tenendosi sempre ancorato ai dati della contingenza nel riproporre una sintesi tra il punto di vista dell’artista e quello dell’osservatore. L’ultima, in ordine di tempo, delle mostre presentate nella rotonda è Ghenos Eros Thanatos, tappa romana di una esposizione che raccoglieva opere di Alberto Burri, Alighiero Boetti, Claudio Cintoli, Pino Pascali, Giosetta Fioroni, Vettor Pisani, Luciano Fabro, Sergio Lombardo, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Concetto Pozzati, Gilberto Zorio, Jannis Kounellis. Diversa sia dalle visioni panoramiche di Vitalità e di Contemporanea, sia dal cenacolo di Fine dell’alchimia, la mostra di Alberto Boatto non ha l’urgenza dell’attualità e sembra ordinata da un critico solitario (la solitudine di un autore/scrittore) ma impegnato in un serrato e trasportato dialogo tra sé e le figure che si sono depositate nella sua fantasia, gli artisti, i poeti e le loro invenzioni. Un colloquio il suo, frammentato ma che nell’insieme ha la finitezza di un quadro o di un poema nato come un alveare, portandovi doni, interrogativi, ferite, gioie, dal cui insieme si intravede il senso della vita. “La mostra libro non punta affatto alla originalità, sulla presentazione di opere assolutamente inedite - come non sono affatto ‘inedite’ le figure, nascita, erotismo, morte, sotto cui vengono allineate. Sua ambizione, semmai è di accrescerne lo spessore dei significati, mediante anche il loro semplice accostamento. Il libro consiste in un collage di proposizioni verbali, di proposizioni visuali e di citazioni, e tanto le parole che le immagini, come la sparsa e coincisa antologia, si ripromettono di porre un tema e di seguirlo in un numero minimo di variazioni. Il libro mappa che ne risulta, rappresenta un tentativo di assumere a livello di struttura compositiva l’immagine medesima attorno a cui ruotano questi frammenti: l’immagine della vita come un itinerario scandito in successive stazioni, assieme della carne e dell’immaginario, nel corso delle quali l’uomo si sperimenta, subisce le sue prove”. Sigmund Freud, Giovanni Evangelista, Stendhal, D. A. F. de Sade, Raymond Roussel, Alfred Jarry, Marco Aurelio, Norman O. Brown, Rainer Maria Rilke, André Breton, Robert Silverberg, Friedrich Nietzsche, Giordano Bruno, Eraclito, James Joyce, sono gli autori citati nel libro e un insieme esemplare per orientarsi nelle letture che il decennio ha coltivato. Ghenos Eros Thanatos, della quale non sono state ritracciate testimonianze fotografiche (la ricordiamo in mostra con l’azione di Claudio Cintoli, Crisalide, fotografata nel 1972 da Pino Abbrescia), si tenne nella galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, aperta nel 1957, che da subito aveva conteso a La Tartaruga di Plinio De Martiis il primato dell’avanguardia. Gentiluomo faentino, Liverani si rivolgeva dando del lei agli artisti (in assoluto contrasto con i costumi del decennio), ma era straordinariamente aperto alle novità (a lui spetta il primato del maggior numero di prime mostre personali: Giulio Paolini, Richard Serra, Maurizio Mochetti, Vettor Pisani…). Negli anni Settanta accolse senza soluzione di continuità le opere di GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 119 Sandro Chia, Ferruccio De Filippi, Gianfranco Notargiacomo per i quali la galleria divenne una sorta di studio / laboratorio, oltre ad altri autori, provenienti altre gallerie, che misero a segno a La Salita alcuni capolavori, come nel 1973 il Senza titolo di Jannis Kounellis (del quale abbiamo in mostra l’immagine di Claudio Abate). L’opera di Gino De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio venne mostrata in due delle esposizioni introdotte nella Rotonda, Fine dell’alchimia, dove fece la sua prima apparizione e Contemporanea. Un corpo scarnificato (letteralmente) dal tempo, che sembra una metafora del pensiero strutturalista e dell’arte concettuale (Ermanno Migliorini affrontando tra i primi in Italia il tema dell’arte concettuale, scrisse di un processo di scarnificazione) al quale l’autore conferisce nuovamente i connotati di persona a spasso con il suo cane vittima, come molti lo siamo, di un proprio errore (più che la corsa al progresso sulla quale metteva in guardia Pier Paolo Pasolini, l’incapacità di asservire la scienza alla fantasia). La carne e l’immaginario La sala, che introduciamo con un binomio preso in prestito da Alberto Boatto, invita ad assumere uno sguardo mobile. A spostare l’occhio e il pensiero dai dati terreni e tangibili all’indefinito della fantasia. Dai fatti verificabili all’epica e al mito. Dal tempo misurabile della storia all’infinito del tempo circolare (Friedrich Nietzsche). Compiendo un doppio tragitto di andata e ritorno, lo stesso attraversato dagli artisti. Questa oscillazione è uno dei tratti distintivi degli anni Settanta a Roma. Lega idealmente Alberto Burri e Giorgio de Chirico a Jannis Kounellis e Giulio Paolini, e questi a Salvo, Luigi Ontani e Gino De Dominicis. Due Cretti di Burri, uno bianco e uno nero, si trovano all’inizio della sala. Ossido di zinco e vinavil su cellotex, di fatto un pezzo di terra lavorato in collaborazione con natura e tempo, elevato all’umana postura verticale e trasformato in quadro. L’altro genius loci della cultura visiva a Roma negli anni Settanta è de Chirico. I dipinti esposti appartengono alla fase cosiddetta neometafisica e sono due pastiche nei quali de Chirico, “copista di se stesso” (Giuliano Briganti, catalogo Giorgio de Chirico, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 1982), ha assemblato elementi, temi e invenzioni prelevati dalle sue opere precedenti, gran parte di quel repertorio con il quale ha consegnato alla fissità del quadro il mistero di una rivelazione non altrimenti esprimibile. Nella sala sono anche esposti alcuni dei disegni realizzati da de Chirico nel 1972 per un’edizione illustrata dell’Ebdòmero, un libro del 1929 che ebbe larga fortuna negli anni Settanta. E’ il racconto fantastico di “un uomo dall’immaginazione potente e dalla testa fasciata di letture”, nelle cui avventure si sovrappongono narrazioni sto- 120 riche e mitiche, esperienze quotidiane e fenomeni naturali. Nel Senza titolo del 1973 di Jannis Kounellis si fondono elementi quotidiani ed evocativi: la cornice ha le misure di una porta, la tenda di umile fattura è iconostasi o sipario (familiare anche al drappo che in secoli di cultura occidentale ha separato il piano terreno da quello divino), la lampada (accesa) proto-industriale è memoria di quella che in Guernica svela l’orrore della barbarie. L’insieme ha un impianto frontale (ne è garante la presenza della tela), lo stesso che Kounellis riproporrà in molte delle opere realizzate nel corso degli anni Settanta (definendo se stesso un “pittore” sin dall’epoca dei dodici cavalli vivi). Con questa scelta, che la natura immanente delle sue opere (presenze vive e oggetti quotidiani) rende ancor più radicale, l’autore sembra tracciare una linea di demarcazione tra l’opera stessa e la realtà, disegnando la cornice all’interno della quale il prodigio dell’arte possa avverarsi e l’uomo, senza staccare i piedi da terra, conquistare una dimensione epica, metafisica, ultraterrena. Dialettiche rispetto alla frontalità di Kounellis, sono le opere di Giulio Paolini, La Doublure e Mimesi (presentate rispettivamente a L’Attico nel 1973 e nella galleria D’Alessandro Ferranti nel 1975). Una tela bianca sulla quale è disegnata la sua stessa immagine in prospettiva e due calchi in gesso dell’Hermes di Prassitele affrontati in modo da far incrociare i loro sguardi. Dal 1960 (data del suo primo lavoro, Disegno geometrico, la tela sulla quale ha tracciato unicamente la squadratura del foglio preludio di ogni possibile disegno) Paolini si interroga sulla natura dell’opera d’arte, convinto dell’impossibilità di assegnarne la responsabilità a un singolo autore e leggendo il presente come un processo di sedimentazione (da qui la presenza nelle sue opere di citazioni, sempre letterali: immagini fotografiche o calchi). All’inizio degli anni Settanta sembrò dilatare e al tempo stesso radicalizzare questa sua posizione e lo fece, paradossalmente, sottolineando la sua stessa presenza (dimostrando l’impossibilità a parlare se non sotto l’angolo di incidenza della propria esistenza): attraverso l’autocitazione (le misure o la diagonale di Disegno geometrico tornano anche nelle opere che qui esponiamo) e l’assunzione di un punto di vista che gli permise di attivare il dispositivo della prospettica. Tradizionale tecnica della pittura e del disegno di cui Erwin Panofsky aveva da tempo messo in luce il valore simbolico, Paolini non la impiega per rappresentare oggetti o figure nello spazio, ma per trasmettere la sua idea di arte sullo sfondo della storia (l’identico che si ripete, il primo piano del presente che si proietta verso l’infinito, passato o futuro). Salvo nell’Autoritratto (come Raffaello) del 1970 si identifica con un pittore del passato compiendo l’atto narcisistico (o umile) della sostituzione. In anni dominati dall’image a la sauvette, posa per Paolo Mussat Sartor (grande interprete dell’avanguardia) il cui ritratto fotografico pare una pittura. Anche Luigi Ontani nel Bacchino esposto in questa sala, uno DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA dei suoi primi lavori fotografici, sceglie lo scatto in posa e offre un corpo che è l’irrequieta espressione di Dioniso (ancora Nietzsche). Immortalità di Gino De Dominicis è un piccolo disegno, una croce cancellata, presentato durante una serata agli Incontri Internazionali d’Arte nel novembre del 1971. L’immortalità (la voce dall’aura dolcissima che spinge Ebdòmero a partire verso ignote e strane plaghe) è la condizione che ogni artista persegue e il cui conseguimento De Dominicis festeggiò con un suntuoso ricevimento (il “cocktail” nella sede degli Incontri Internazionali d’Arte nel 1972 offerto per festeggiare il superamento del Secondo principio della Termodinamica). La sala si conclude con le fotografie con le quali Claudio Abate ha consegnato alla storia le immagini di alcune opere apparse nella forma cangiante dell’azione (ancora un viaggio dal dato contingente a quello disegnato dall’immaginazione). Il doppio Anche in questa sala invitiamo a compiere un viaggio di andata e ritorno. Scorrendo dall’uno all’altro degli elementi che compongono le opere, ma anche attraversando idealmente lo spazio tra le opere e ciò a cui esse si riferiscono. Il concetto del doppio è centrale nell’arte degli anni Settanta, grazie a quegli artisti che percepirono loro stessi come parte inseparabile di un insieme, frutto (dialettico) di ciò che li ha preceduti (mossi dal desiderio di comunicazione e non interessati alla conferma di una tradizione). Una coscienza che divenne estesamente condivisa grazie alle teorie di Michel Foucault sull’archeologia del sapere e alle riflessioni di Roland Barthes sulla morte dell’autore (un morire come entità unica per rinascere soggetto collettivo). Attraverso il doppio gli artisti accorparono entità singolari (talvolta in palese contrasto tra loro) identificando, di volta in volta, il principio unificatore nella cultura e nella storia (si intenda civiltà), nella logica che accomuna i diversi ordini della natura, nel desiderio di giustizia e parità, nel mistero insondabile di anima e corpo, vita e morte. Nelle due opere di Giulio Paolini, esposte - come ora le vediamo - nella galleria D’Alessandro Ferranti nel 1975, sono in atto maniere diverse di intendere il doppio, entrambe derivate dall’atto del guardare e implicanti l’assunzione a sé dell’altro (le tre tele attraversate da un disegno che propone in scala ridotta la loro stessa immagine e la lavagna che ospita sulla sua superfice l’immagine dell’altra). Le due tele di Tano Festa Las Meninas sono un esplicito omaggio al primo capitolo del libro Le parole e le cose di Michel Foucault, nel quale lo studioso, analizzando la funzione dello specchio nell’immagine dipinta da Velázquez, dimostra come un quadro possa restituire visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo. Maurizio Mochetti crea un dispositivo, un apparecchio scientifico che, al di fuori di ogni logica utilitaristica, si pone al servizio di un pensiero sul mondo come sistema di relazioni (cui, forse, non sono estranei il sentimento di fratellanza e l’utopia del comunismo): due cubi identici posti a una determinata distanza contengono un congegno elettronico che li farebbe esplodere, ossia cambiare di forma, qualora venissero allontanati ulteriormente l’uno dall’altro. Giovanni Anselmo riflette sugli insiemi ottenuti dall’accostamento di parti speculari e solo apparentemente identiche (i due emisferi di un volto umano, quello stesso dell’artista) ricordando che ogni unità è data dall’insieme di entità singolari e lasciando che questo pensiero sia dimostrato da un dato riscontrabile nella realtà naturale. La dottrina dei Rosacroce, i riti alchemici e le filosofie esoteriche affiorano nei lavori della prima mostra personale di Vettor Pisani a La Salita nel 1970, sulla quale aleggiano il mistero della sfinge, la figura di Edipo (eroe incestuoso) e quella di Marcel Duchamp. Questi (da poco scomparso) veniva ringraziato in un comunicato per la sua “viva e personale partecipazione alla mostra”. Vettor Pisani iniziava così il suo percorso nel quale permarrà costante il dialogo con il doppio da sé (la citazione dell’opera di un altro artista) intesa anche come scelta “politica” di condivisione. Michelangelo Pistoletto con lo stesso Pisani coraggiosamente verificarono la pratica del doppio misurandola sulle proprie persone e a Roma realizzarono nel corso degli anni Settanta una serie di mostre intitolate Plagio (La Salita 1971 e Marlborough 1973) di cui l’opera esposta è una delle diverse declinazioni, ottenuta sovrapponendo le diapositive con i ritratti fotografici dei due autori (una sovrapposizione che potrebbe contemplare l’assimilazione di altri soggetti, l’umanità intera: Maurizio Calvesi). Il doppio è l’altro da sé, artista o personaggio letterario al quale Luigi Ontani si sostituisce. Il doppio di Gino De Dominicis è l’ombra (terrore o investitura), è il tempo che separa il giovane dal vecchio. Nell’opera di Carlo Maria Mariani, esposta alla Studio Cannaviello nel 1975, il dispositivo del doppio si propaga in una serie di citazioni, nelle quali l’autore lega per affinità soggetti diversi, appartenenti a epoche differenti. Così accade che il tempo storico perda la sua tracciabilità e che decadano le differenze da esso impartite. Sandro Chia nella sua prima mostra a Roma, a La Salita nel 1970, esegue nel corso di una azione pubblica un disegno che è il doppio di un doppio (il doppio dell’ombra) e con un intento simile, quello di condurre un’operazione alla seconda, nel 1973 si ritrae nella veste di David (un segno appena accennato sulla tela bianca che pare un disegno). L’Altro Il decennio è pervaso dalla cultura dell’altro maturata negli anni del dopoguerra come antidoto all’agire contro il nemico. Per Paul Celan, scampato al lager, l’opera d’arte (che per lui scrittore è il poema) tende a un Altro, ne ha bisogno (è GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 121 lo spazio di un colloquio, un’entità interlocutoria). Georges Bataille aveva insegnato a considerare il punto debole, la lacerazione in se stessi e nell’altro come possibilità di comunicazione. Si va delineando un nuovo modo di pensare all’altro da sé anche attraverso la diffusione degli studi condotti dagli antropologi che hanno indagato civiltà differenti senza ordinarle sulla base di un metro gerarchico. Si leggono Claude LéviStrauss e l’italiano Ernesto De Martino che con le sue indagini dedicate al sud dell’Italia ha svelato una magia praticata per fronteggiare il negativo della vita. Si legge anche Morfologia della fiaba di Vladimir Ja. Propp (un libro del 1928 tradotto in italiano la prima volta nel 1958) dove l’analisi delle strutture narrative delle fiabe fa di queste la nostra quotidiana esperienza. Altra è l’esperienza cui si accede attraverso la psicanalisi (si leggono Sigmund Freud e Carl Gustav Jung) o familiarizzando con sciamani e mistici occidentali (Elémire Zolla) e con tutto ciò che è irriducibile al reale (Mircea Eliade). Si coltivò, in definitiva, la cultura della differenza (Gilles Deleuze, Jacques Derrida), si ragionò in termini di declinazioni e varianti e, in generale, maggiore attenzione venne riservata alla persona. Si affinarono gli strumenti per capire in che misura il proprio comportamento fosse indotto dalla cultura di appartenenza, distinguendo il margine di libertà individuale sul quale poter contare. Ma la difesa della libertà individuale che aveva già segnato il decennio precedente (l’Herbert Marcuse di Eros e civiltà) è un’arma spuntata. Gli artisti attraversano una nuova frontiera e si addentrano in un territorio nel quale la propria libertà deve necessariamente misurarsi con quella dell’Altro. La sala ha inizio con il lavoro di Richard Nonas esposto in una galleria che all’epoca di questa sua prima mostra romana è appena nata per finanziare Potere Operaio (in seguito galleria Massimo D’Alessandro e poi D’Alessandro Ferranti e dopo il 1977 Ugo Ferranti, altro luogo a Roma dell’avanguardia internazionale). L’autore per circa dieci anni aveva svolto l’attività di antropologo (in Messico e in Canada) e quando, nei primi anni Settanta, si dedicò all’arte, volle che questa sua esperienza ne diventasse la materia prima. Vettor Pisani guarda alla primordiale differenza - uomo donna - e oppone ad essa il mito dell’androgino (nel mito solo è ravvisabile l’unione di poesia e filosofia la cui separatezza è frutto del dispotismo). L’androgino (carne umana e oro) è un’azione che viene ripetuta in mostre e situazioni diverse con un depistaggio intenzionale (e ideologico) in merito all’unicità dell’opera quasi sempre identificata nei termini di un’azione teatrale. Duane Michals impiega la testimonianza fotografica, generalmente considerata come la più aderente alla realtà, per registrare l’accadere del prodigio. Ferruccio De Filippi con un lavoro complesso al quale venne dedicata una intera mostra a La Salita nel 1972, indaga rapporti di parentela (Lévi-Strauss) e antiche civiltà, la sumera in particolare, la cui discendenza assorbe ad occhi chiusi (accecati/po- 122 tenziati da lastre di rame). Nei disegni di Giosetta Fioroni fanno la loro comparsa folletti, elfi e sabanelli incontrati nei boschi attorno la casa di Goffredo Parise a Salgareda in Veneto. Nelle opere di Michele Zaza esposte nella galleria di Ugo Ferranti (1976 e 1978) i dati reali sono trascesi senza che perdano la loro assoluta aderenza al mondo. Sono sequenze di fotografie (che non è mai l’autore a scattare e che nel loro insieme offrono un racconto unitario) nelle quali il mondo semplice e contadino del sud - a posare sono i genitori o l’artista stesso fotografati nella loro casa - trova il suo riscatto morale dall’umiliazione e dalla rassegnazione attraverso la favola (il dio tibetano immortale sospeso tra il cielo e la terra) o la simbologia cristologica. Il disegno e la scultura Nel corso degli anni Sessanta il processo di sovvertimento delle tecniche tradizionali si era compiuto sino all’atto di coerenza estrema della “dematerializzazione” dell’oggetto d’arte o della sua fluidificazione. Un numero considerevole di autori smisero di realizzare opere delle quali musei o collezionisti potessero liberamente disporre, ma produssero altro: azioni, elementi cangianti che cambiavano forma e assetto nello spostarsi da luogo a luogo, altri in stretta relazione ai dati contingenti. Maggiore importanza assunse il processo impiegato per la definizione dell’opera, più che l’approdo finale, talvolta del tutto negato o reso irripetibile. Alcuni testi e alcune mostre raccolsero con evidenza internazionale i segnali di questa temperie: il lavoro di Germano Celant sull’Arte Povera (dal 1967) e quello di Lucy Lippard sulla dematerializzazione dell’oggetto (per entrambi le nuove forme d’arte erano espressione di libertà sociale al pari dei coevi movimenti di protesta/lotta politica), le mostre Op Losse Schroeven a cura di Wim Beeren allo Stedelijk Museum di Amsterdam e When Attitudes Become Form curata da Harald Szeeman alla Kunsthalle di Berna nel 1969. In questa sala vorremmo suggerire l’insorgere di un parziale cambiamento di rotta dovuto anche alla perdita di fiducia nella possibilità che una società rinnovata potesse accogliere un’arte che con essa si intrecciava al punto di perdere la sua autonomia e riconoscibilità. L’ipotesi che qui invitiamo a verificare (o confutare) è di leggere nelle opere esposte un modo di mettere in sicurezza le invenzioni e le istanze maturate nel decennio precedente suggellandole in un disegno o in una scultura o in un lavoro che in alcuni casi è un insieme di disegno e scultura. Nel 1967 Sol LeWitt pubblicò il testo cui necessariamente si rimanda per una definizione dell’arte concettuale, Paragraphs on Conceptual Art (“Artforum”, giugno 1967) i cui capisaldi sono la supremazia nell’opera dell’idea e del concetto e la sua indipendenza dall’abilità dell’artista (come artigiano). Un testo polemico verso l’importanza attri- DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA buita alla fisicità dei materiali e a sostegno dei processi di riduzione (una sorta di manifesto con il quale invitava a usare forme semplici, a ridurre le scelte arbitrarie, a impiegare, dove possibile, due e non tre dimensioni, ma anche solo a enunciare le idee attraverso foto, numeri, parole … “l’idea stessa, anche se non è diventata visiva è un’opera d’arte esattamente come qualunque prodotto finito”). Poco dopo avviò la serie, destinata a perdurare nel suo lavoro, di Wall Drawing di cui fa parte quello che presentiamo in mostra realizzato per la prima volta nella galleria di Gian Enzo Sperone nel 1976. Fa riflettere il fatto che le teorie di Sol LeWitt possano aver trovato espressione in un disegno senza perdere la loro radicalità (l’opera rimane la traduzione di un progetto definito a priori che non necessariamente deve essere realizzato dall’artista). Nella stessa sala esponiamo tre dei disegni di Alighiero Boetti intitolati Cimento dell’armonia e dell’invenzione. In una intervista del 1973 a Mirella Bandini, l’auore dichiarò che la scelta di fare i quadratini a ricalco cimentandosi con una cosa piccola, veramente povera (nel senso di semplicità), gli diede una libertà individuale di agire incredibile, con un’enorme possibilità di indagine e di analisi. Anche Boetti, quindi, impiegò in chiave concettuale il disegno, che assunse contro la spettacolarizzazione dell’opera d’arte (l’artista shaman-showman che si lasciò alle spalle). Difficile non leggere il lavoro di Richard Tuttle nell’accezione di una reazione al gigantismo che si andava affermando nell’arte. Nel suo caso il disegno viene delicatamente fatto colloquiare con la scultura in una commistione di segni sottili e di materiali leggeri. Come accade nell’opera che l’autore ha realizzato sul muro del Palazzo delle Esposizioni, riproponendo uno degli otto Piece presentati nel 1975 nella galleria D’Alessandro Ferranti, ciascuno collocato al centro della parete e all’altezza dello sguardo (loro intento, quindi, seppure siano appena percepibili, non è quello di mimetizzarsi, semmai sono un invito ad affinare l’attenzione). Anche la scultura venne riattualizzata attraverso le opere di alcuni autori. Albero di Giuseppe Penone è una scultura azione e se ne comprende il senso conoscendo il processo attraverso il quale l’artista l’ha realizzata: scorticando una trave di legno seguendo un anello di crescita dell’albero per riportarne parzialmente alla luce il tronco e i rami così come erano in un’epoca precedente a quando la pianta è stata recisa (azione che spalanca la coscienza sul mondo in cui viviamo e che assimila l’operato dell’uomo a quello della natura). Di Giuseppe Penone esponiamo anche il progetto di Rovesciare i propri occhi, presentato agli Incontri Internazionali d’Arte nel 1971, preludio all’interesse dell’autore per il senso del tatto che lo condusse a concepire disegni (Svolgere la propria pelle) e sculture intese come tracce di un contatto (una scelta che dobbiamo leggere anche alla luce delle riflessioni sull’Altro). La scultura e il disegno sono per Marisa Merz un modo per aderire all’intuizione. Luciano Fabro (con Boetti, Penone e Marisa Merz tra i protagonisti dell’Arte Povera) autore di opere pensate come strutture atte a sollecitare la percezione dello spazio fisico e antropologico, con i Piedi realizzati tra il 1969 e il 1971, scelse di riconsiderare il lavoro dell’artigiano, il fascino della forma e dei materiali. Fu una singolare inversione, un atteggiamento imprevisto rispetto al diffuso rifiuto della tecnica: forse Fabro ha avvertito l’esaurimento della identificazione secca tra opera e idea, e ha deciso di andarsi a cercare a mezza strada tra la partenza mentale e psicologica e l’arrivo oggettuale: nello spessore della materia e della tecnica, nella non misurabile casualità del loro incontro (Saverio Vertone, catalogo Galleria Borgogna, Milano 1971). Il disegno, all’inizio degli anni Settanta, tornò in auge per diversi motivi, non ultimo la povertà del mezzo, nel senso di semplicità (Boetti) ma anche per un aggiornamento della interpretazione tradizionale che lo considera capace di trasmettere con maggiore immediatezza l’idea (nella forma di appunto, schema, bozza, venne largamente utilizzato in area concettuale). La scultura aveva compiuto un progressivo avvicinamento ai dati della realtà, sperimentando in questa direzione commistioni estreme (dai ready made di Duchamp alle opere di Land Art), al tempo stesso era stata investita di radicali riflessioni sul suo statuto e sulla sua funzione (precoce in Italia la teoria di Pietro Consagra sulla scultura frontale che, tolta dal centro, smette di essere investita dal potere ai fini della propria celebrazione, per instaurare, al contrario, un colloquio paritario con l’osservatore). Per questi e altri motivi scultura e disegno dovettero apparire, all’inizio degli anni Settanta, mezzi praticabili. Nella sala sono riuniti artisti che in maniere diverse li hanno sperimentati rinnovandoli radicalmente, accanto a due autori di generazioni precedenti alle cui pitture/disegno - Cy Twombly - e alle cui sculture/disegno - Fausto Melotti - non possono dirsi estranee le opere dei più giovani. Sistema Si deve forse alla generale conquista di una maggiore libertà (nella vita quotidiana, come nell’arte) la scelta di alcuni artisti di contenere le loro espressioni all’interno di sistemi definiti a priori. Nel corso degli anni Settanta questa attitudine è stata largamente collaudata con il fine di ampliare attraverso la prassi della variante, le possibilità di intervento e di azione. Nella sala sono riuniti autori di generazioni diverse che in maniere differenti l’hanno sperimentata. Con il segno universale (tale per il suo rimando all’origine) di Giuseppe Capogrossi e di quello depurato da ogni riferimento alla condizione esistenziale di Carla Accardi, si è voluto sottolineare l’apporto italiano al processo di riduzione e di ripetizione dell’immagine e introdurre spunti che crediamo GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 123 possano riferirsi alle scelte degli autori più giovani che, in dialettica con la società di massa, assegnarono valore a ciò che è elementare (sfidando il concetto di banale) e lo assunsero, esclusivo e reiterato, nelle loro opere: la riga di Daniel Buren, l’impronta di pennello di Niele Toroni, il punto di Enrico Castellani e Marco Gastini, il modulo di Nicola Carrino, gli oggetti semplici e quotidiani ripresi da Jan Dibbets, la griglia / scacchiera di Laura Grisi. A prescindere da questo accostamento, il sistema, come emerge nell’arte degli anni Settanta, non è estraneo alla ricerca condotta e teorizzata dagli artisti di Azimuth e del Gruppo Zero e ha origine nelle pratiche della riduzione e della ripetizione sperimentate in ambito minimalista le cui espressioni più radicali si ebbero negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta (suggellate dalla mostra Primary Structures del 1966), ma anche nel rifiuto ideologico del ruolo dell’artista come lo intesero i giovani francesi del gruppo BMPT (Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele Toroni), nella vocazione, non estranea alle precedenti, di riflettere sugli strumenti del proprio linguaggio dalla quale derivò una predilezione per la tassonomia (analisi di un tema attraverso la stesura di elenchi che ne annoverano, senza gerarchia, aspetti o componenti) e a una serie di esperienze legate alla pratica della pittura identificate con i diversi nomi di Pittura analitica, Pittura pittura, Nuova pittura (in Italia studiate soprattutto da Filiberto Menna e da Paolo Fossati). Di questo complesso intreccio e del nutrito novero di autori i cui contributi furono vasti e articolati nel corso degli anni Settanta a Roma, si è dato rilievo a quanti con maggiore insistenza sono ricorsi a un dispositivo, all’imposizione di una regola iniziale attraverso la quale hanno sorprendentemente ampliato il loro campo d’azione: l’infinità di paesaggi visivi ottenuti da Enrico Castellani con l’estroflessione di tele monocrome; la possibilità illimitata di entrare in relazione con i luoghi abitati, i più diversi e nella doppia accezione di interni ed esterni, instaurando un colloquio o modificandone radicalmente l’assetto, con le bande parallele larghe ciascuna 8,7 centimetri di Daniel Buren o le impronte di pennello numero 50 impresse alla distanza di 30 centimetri le une dalle altre di Niele Toroni; la griglia, presenza totalizzante, che ridotta da Marco Gastini ai punti di intersezione convive con altri dispositivi pari al suo; la disciplina di registrare un dato reale in relazione al cambiamento di posizione o al trascorrere del tempo nelle immagini fotografiche di Jan Dibbets, il cui insieme restituisce la percezione dilatata di una entità che permane e ha il dono dell’ubiquità; i moduli (elementi identici) dei quali Nicola Carrino invita a modificare l’assetto come esercizio politico di trasformazione sociale; l’identico che si moltiplica nei viaggi senza fine di Laura Grisi. 124 Linguaggio Si giunse agli anni Settanta con il desiderio e la necessità di ridefinire - combattere - quanto ricevuto in eredità dalla tradizione. A partire dalla lettura dei primi saggi sulla linguistica (da Ferdinand de Saussure a Roman Jakobson) si appurò la natura convenzionale del linguaggio (in Italia e in relazione alle arti visive, il concetto venne messo in chiaro da Filiberto Menna). Di conseguenza, se il linguaggio è relativo al sistema generatosi all’interno della propria cultura di appartenenza (Michel Foucault) alcuni autori sentirono l’urgenza di ridefinirlo in ragione della loro opposizione alla società. Il testo di Paola Bonani in catalogo introduce al tema dell’arte cosiddetta concettuale alla quale sono ascrivibili molte e diverse nature. Nella sala sono presenti aspetti dissonanti di questa galassia con un dato in comune, quello di ridefinire fisionomia e portato dell’opera d’arte assimilandone funzione e funzionamento a quelli del linguaggio parlato e scritto. La battaglia Joseph Kosuth (e di molti altri artisti della sua generazione) fu contro il formalismo (consegnato dalla tradizione in veste di pittura e scultura) condotta nel segno di Marcel Duchamp, che con i suoi ready made aveva permesso di spostare l’obiettivo dell’arte dalla forma al contenuto. L’arte per Kosuth è linguaggio sull’arte. Un’opera d’arte, pertanto, è una sorta di preposizione presentata entro il contesto dell’arte come un commento sull’arte (J. Kosuth, Art after Philosophy, “Studio International”, ottobre 1969). Lawrence Weiner esalta il potere del linguaggio (uno strumento semplice e alla portata di tutti) e, senza dare direttive di alcun genere, descrive opere aperte, che si possono realizzare in modi e situazioni diverse e in riferimento a condizioni di segno positivo o negativo, come nel caso del lavoro in mostra, esposto nella galleria di Gian Enzo Sperone e Konrad Fischer nel 1973. Nell’opera Warum ein Gedanke einen Raum verpestet?/Perché un pensiero intossica una stanza? di Fabio Mauri mostrata alla Seconda Scala nel 1972, lo schermo (campo di proiezione) accoglie parole che saldano insieme significati diversi (invettiva, interrogazione, memoria personale) scritte in tedesco (il pensiero tedesco è stimato in profondità quello europeo) con “gotico letraset” (che esprime umoristicamente l’uso presente del passato). Il Libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti è stato svuotato dalle parole. La cultura, sembra dimostrare quest’opera, passa attraverso la dimenticanza del dato particolare (storicizzato, riferibile a un determinato contesto o autore) e la definizione (memorizzazione) di uno stato di coscienza non perfettamente decodificale attraverso il linguaggio con il quale generalmente (razionalmente) gli individui comunicano. Al negativo del mondo si antepose il rifiuto, la decultura di cui aveva scritto Germano Celant nel teorizzare l’Arte Povera, o l’annullamento praticato da Mario Diacono (in una serie di iniziative condotte insieme ad alcuni artisti nel corso DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA del 1972 e raccolte nel numero unico della rivista “e/o”, Roma giugno 1972). Una posizione diversamente declinata nel corso degli anni Settanta e testimoniata in mostra dalla Cultura mummificata di Eliseo Mattiacci e dalla bandiera cancellata di Gianfranco Notargiacomo accompagnata dalla trascrizione, in termini fonetici, della parola nonsense (comparvero entrambe nella mostra /ay/ /layk/ /ayk/ a La Salita nel 1972). Radicale la posizione di Francesco Matarrese che si sottrasse al rituale delle mostre e che anche in questa occasione rinnova la sua estraneità in nome di un’esperienza dialettica. Renato Mambor, al contrario, investe nella possibilità di mantenere aperta la comunicazione a patto di ridefinirne i termini e crea l’Evidenziatore (un dispositivo per imparare a dare attenzione alle cose) e interroga le persone sul senso e la funzione dell’oggetto (da attribuire collettivamente). La sala si chiude con le opere di Sergio Lombardo e di Luca Maria Patella, autori diversi, i quali entrambi hanno iniettato nel linguaggio le mele stregate del caso, dei moti della psiche, del fantastico. Con Progetto di morte per avvelenamento di Sergio Lombardo, uno dei flaconi contenente veleno esposti a La Salita nel 1970, l’interazione con l’altro - centrale nel lavoro dell’artista - diventa mentale e psicologica e la domanda sottesa al lavoro introduce il tema rischioso di quale possano essere le cause e gli stati d’animo che inducono un individuo alla morte volontaria. Cinquanta partite a dadi del 1974, esposto a La Salita l’anno seguente, sono grafici nei quali ha riportato i risultati di esperimenti realizzati nel suo studio che provano come le intenzioni del giocatore, le sue condizioni mentali, determinino il punteggio di una partita. Nei grafici di Luca Maria Patella improntati su complesse teorie linguistiche, l’autore dissemina elementi apparentemente irrazionali, specchio in realtà di una visione dilatata. Nelle sue conferenze, come nella sua fertile produzione di libri, Gazzette ufficiali, comunicazioni, video, trova posto una gamma di esperienze, dalla scienza e dalla psicologia (traduce il testo dei colori di Max Lüscher e lo applica ai visitatori della sua mostra a L’Attico nel 1974 ), alla storia (frequenti i riferimenti ad altri artisti, soprattutto a Marcel Duchamp che per primo fece slittare il concetto di opera d’arte dalla sua tradizionale definizione) e ai dati biografici, sino e all’irrompere di una immaginazione visionaria che trova espressione soprattutto nelle sue fotografie (realizzate mettendo a punto complessi procedimenti tecnici e mai con l’uso del fotomontaggio). Memoria Nelle due grandi nicchie al termine dell’ambulacro che costeggia la Rotonda sono presentati i video di Luciano Giaccari. Teorico, oltre che autore, Giaccari è stato il primo a proporre una classificazione dell’opera in video con la quale fornì, pre- cocemente, gli strumenti concettuali per distinguere lavori altrimenti omologati dall’utilizzo del medesimo mezzo. Sovente presente a Roma, soprattutto accanto a Fabio Sargentini a L’Attico e nella sezione da questi curata nella mostra Contemporanea di musica e danza, il lavoro di Giaccari al Palazzo delle Esposizioni è un affresco della sua attività progettato dall’autore con video di natura diversa, taluni realizzati in collaborazione con altri autori, e specchio dell’attenzione rivolta alle arti visive, alla musica, alla danza e al teatro, allacciate, negli anni Settanta, in un reciproco dialogo. Molti di questi lavori vennero presentati su invito di Achille Bonito Oliva, nell’ambito della mostra dibattito, Analisi ed estetica del videotape. Achille Bonito Oliva, Renato Barilli, Maria Gloria Bicocchi, Luciano Giaccari, Vittorio Fagone, Italo Mussa, che si svolse agli Incontri Internazionali d’Arte il 19 aprile 1975. Tutto “Aleph è uno dei punti dello spazio che contiene tutti i punti (...) il luogo dove si trovano tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”, così Carlos Argentino Daneri descrive al narratore l’Aleph nascosto nella cantina della sua casa di famiglia minacciata dal pericolo della demolizione. Il racconto di Jorge Luis Borges ebbe larga fortuna negli anni Settanta e lo citiamo per introdurre il lavoro di quegli artisti che vollero conferire alle loro opere una sorta di carattere universale. Una vocazione radicata nel decennio, estranea alla fissità del monumento, con la quale autori diversi introdussero un nuovo modo di intuire il tutto - l’insieme, la visione ‘universale’ - come ottenuto dalla somma di visioni ‘particolari’. Se uno dei cardini del decennio è la consapevolezza del limite, del valore convenzionale del linguaggio, in questa sala riuniamo coloro che hanno aggirato questo limite individuando i presupposti universali della comunicazione e dell’argomentazione che permettono il conseguimento dell’intesa (Jürgen Habermas). Nella sala riuniamo alcune opere esemplari con il titolo Tutto, che Mario Schifano utilizzò per una sua mostra del 1963 (Galleria Odyssia di Roma, presentata da Maurizio Calvesi e da Cesare Vivaldi, quella dove l’artista dopo l’esperienza del monocromo assunse nei suoi dipinti tutte le immagini possibili: paesaggi naturali e urbani e citazioni dalla storia dell’arte). Alle opere presenti nella sala si devono idealmente affiancare Disegno geometrico di Giulio Paolini e la serie degli specchi di Michelangelo Pistoletto avviata a partire dal 1962 (opere quest’ultime nelle quali, potenzialmente, si può riflettere l’intero esistente). Si possono, inoltre, associare all’idea del tutto molti dei lavori già incontrati lungo il percorso della mostra, le indagini sulla percezione negli scatti di Jan Dibbets, novero dei diversi accostamenti possibili di due figure geometriche nel Wall Drawing di Sol LeWitt espressione di una sensibilità GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 125 politica “di sinistra”, non escludente, l’illimitata compatibilità dei segni di Daniel Buren o di Niele Toroni con i diversi luoghi della vita sociale e molte altre. Nell’opera di Giovanni Anselmo la segnatura con la parola “particolare” identifica elementi diversi dello spazio sottolineandone l’appartenenza a un insieme, insieme, che a sua volta, non è pensabile se non come la somma delle sue componenti (nella mostra da Sperone e Fischer a Roma nel 1974, dove l’opera è stata esposta, la dialettica tra particolare e tutto era sottolineata dalla presenza di lavori intitolati Tutto). Il dipinto di Mario Schifano, autore che nel corso degli anni Settanta sviluppò una vitale avidità nell’appropriarsi e nel trasformare le immagini dei suoi paesaggi quotidiani o straordinari, precedono le opere di Alighiero Boetti. Mappa e Mettere al mondo il mondo sono modi diversi per istituire una visione del tutto articolata in una unità di cui si lascia intuire la natura cangiante (il planisfero disegnato attraverso le bandiere espressione di una realtà storica mutante e il dispositivo di scrittura che dall’insieme dell’alfabeto può attivare nominare di volta in volta, in maniera diversa, un pensiero). In entrambe queste opere, inoltre, Boetti ricorre al “formato” del quadro al quale assegna la complessa espressione del tutto. Nel Senza titolo di Jannis Kounellis confluiscono lo statuto dell’immagine e l’accadimento, il manufatto e l’elemento naturale, la vita che la coperta / ventre genera e la morte che la coperta / saio per misericordia cela. Con Alba giorno tramonto e notte Eliseo Mattiacci orchestra la cosmogonia del tempo naturale e sociale. L’opera venne presentata nella rassegna 24 ore su 24, che si tenne a L’Attico nel 1975 (altra declinazione dell’idea di tutto questa rassegna durante la quale nell’arco di sette giorni e sette notti senza soluzione di continuità si alternò la presentazione delle opere). Gino De Dominicis dà scacco matto al pensiero approdando all’incontrovertibile e all’universale con un triangolo disegnato a terra e un’elementare affermazione: Sono sicuro che voi siete (e sempre sarete) o all’interno o all’esterno di questo triangolo. Vincenzo Agnetti con i feltri, dei quali mostriamo due esemplari esposti nel 1970 a La Tartaruga, Autoritratto e Ritratto di Dio, sperimenta la potenza evocativa del linguaggio e accede, attraverso le parole, all’assoluto. Nell’opera di Maurizio Mochetti un dispositivo - la freccia - atto a selezionare una determinata direzione (a scapito di tutte le altre) è assunto, al contrario, come l’indicatore di tutte le direzioni possibili. Il tutto delle opere di Spalletti - insieme alla colonna esposta nella galleria Pieroni nel 1979, riuniamo le cinque tavole della sua prima mostra romana a La Tartaruga del 1975 (una mostra nella quale Plinio De Martiis, senza esporsi in dichiarazioni, difendeva i valori universali della pittura) - è il colore dell’aria, l’atmosfera che nel mondo separa e collega. In un primo momento si troverà in questa sala il lavoro di André Cadere, che durante la mostra cambierà di volta in volta collocazione, espressione 126 della critica al sistema “capitalistico” del mercato dell’arte che portò l’artista a rendere mobile - con la possibilità di abitare ogni diverso luogo - la sua idea di esposizione. La rivoluzione siamo noi E’ il titolo dell’intervento che Joseph Beuys tenne il pomeriggio del 21 aprile del 1972 nella sede di Palazzo Taverna degli Incontri Internazionali d’Arte su invito di Achille Bonito Oliva. Si trattò di un lungo discorso, intervallato dal colloquio con gli ascoltatori - Lucio Amelio, Renato Guttuso, Filiberto Menna, Fabio Mauri - che l’autore accompagnò tracciando annotazioni e schemi su due lavagne. La registrazione sonora venne in seguito trascritta e pubblicata nel volume che raccoglie l’attività svolta agli Incontri Internazionali d’Arte nel corso del 1972. Come accadrà di lì a poco a Documenta per 100 giorni di seguito, l’artista parlò per condividere il suo piano rivoluzionario, una rivoluzione, questo il suo pensiero, alla quale si arriva partendo dal modo di pensare, dall’arte, dalla scienza. “Solo l’arte può essere rivoluzionaria, in secondo luogo la scienza”. Invitava a organizzarsi per la realizzazione di una “democrazia diretta”. “Bisogna scuotere l’uomo dalla tendenza a privatizzarsi, a isolarsi, a depoliticizzarsi, a concentrarsi sui propri interessi e svegliare in lui i sentimenti comunitari”. Alla domanda di Fabio Mauri se pensasse che la persuasione verbale fosse uno strumento di lotta sufficiente, rispose riconoscendo l’importanza dell’azione per la quale aveva creato una vera e propria organizzazione che chiamava “ufficio”. In mostra riascoltiamo la voce di Beuys registrata agli Incontri, accompagnata da alcuni documenti sulla sua presenza romana e dai ritratti fotografici di Claudio Abate e di Elisabetta Catalano. Il lavoro dell’artista, sebbene di natura situazionista, conferma la necessità di questi anni Settanta di considerare l’arte separata, in una certa misura, dalla realtà verso la quale deve essere dialettica, se non oppositiva, in ogni caso esemplare. Uno spazio separato che trova riscontro nel lavoro di Joseph Beuys in alcune sue azioni (il cerchio di Arena come apparve a L’Attico nel 1972) o nel disporre gli oggetti utilizzati nelle teche, protetti da vetri, come in un museo di arte antica. Fenomeno In questa, come nelle altre sale, sono raccolte opere diverse per tecnica e sensibilità, intorno alle quali, a differenza di quanto accaduto nella prima parte del percorso, non daremo alcuno spunto per una lettura d’insieme. Al contrario, giunti cronologicamente intorno alla metà del decennio, vogliamo sottolineare proprio le differenze di linguaggio, di tecniche, di attitudini. Nel farlo ci rivolgiamo idealmente alla fenomenologia di Edmund Husserl, il filosofo tedesco la cui lezione sul- DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA l’astensione del giudizio e l’aderenza al mondo-della-vita di cui l’individuo fa quotidianamente esperienza si riverbera in maniera significativa nella cultura degli anni Settanta. La sala, in definitiva, è un invito a cogliere la specificità di ogni opera e al tempo stesso la pluralità delle espressioni coltivate nel decennio che ha visto decadere le strutture del pensiero moderno (la fine delle narrazioni nella quale J. F. Lyotard individuò l’insorgere della cultura post-moderna) e accelerare le capacità di accettare e comprendere simultaneamente strutture di pensiero differenti (uno stato di coscienza maturato nell’ambito di un generale mutamento della società civile e politica, a plasmare il quale ha fortemente contribuito la cultura estetica e molte delle opere che sino ad ora abbiamo incontrato). Nei termini dello strutturalismo adottati nel corso degli anni Settanta, il panorama che proponiamo nella sala può dirsi anche sincronico. La commissione di studio della X Quadriennale (Filiberto Menna coordinatore, Alberto Boatto, Maurizio Calvesi, Germano Celant, Gianni Colombo, Giuseppe Gatt, Luca Patella, Tommaso Trini) rinunciando a un ordinamento per tendenze o monografico, costruì il percorso della mostra attraverso “una serie di ‘aree sincroniche’, in cui differenti poetiche convergono attorno a un nodo problematico centrale” con l’idea di “riscostruire la continuità sistematica della ricerca in modo da cogliere una rete di scambi e di relazioni laddove, nella immediatezza pressante del fare, non potevano che apparire divaricazioni e opposizioni”. I pianoforti di Nam June Paik approntati per la performance 4, 5 o 6 Pianos a L’Attico nel 1975 sono nello spirito Fluxus che attraversa vitale il decennio, sovvertono le consuetudini con un intervento spettacolare e richiedono la partecipazione diretta dei visitatori. La condizione oppositiva e radicale espressa da Gilberto Zorio in alcune delle opere presentate a Roma all’inizio del decennio, trova una nuova sintesi nell’immagine della stella (ancora una scultura che somiglia a un disegno) visione utopica che condensa impegno civile e idea di futuro. Mario Merz rinuncia al rifugio / igloo per dispiegare sui muri opere nelle quali torna al disegno, suo iniziale cimento con immagini che per Germano Celant, a differenza dei coevi citazionismi pittorici, si rifanno a un passato remoto, originario, preistorico. Tufo Stone Circle di Richard Long, realizzata con pietre raccolte nella campagna romana nel 1976 (e probabilmente esposta a Roma nella mostra da Gian Enzo Sperone dello stesso anno), è una scultura nella quale si incarna un comportamento: la scelta dell’autore di intendere l’arte come cammino, attraversamento, immersione nell’ambiente naturale. L’appartement de la rue Vaugirard del 1973 di Christian Boltanski, un’opera presentata a Roma nella galleria di Enzo Cannaviello nel 1974, riattiva il tradizionale impiego della fotografia come mezzo per ricordare qualcosa che si è vissuto in prima persona. Nella Piroga di Hidetoshi Nagasawa del 1973 la scultura è una tecnica di antica tradizione, l’intaglio, e una forma arcaica e simbolica, la barca. Aereo-razzo Bachem Natter BA 349 B-1944 con punti del 1976 di Maurizio Mochetti esposto lo stesso anno nella galleria di Ugo Ferranti, si rapporta invece alla storia e alla tecnologia, il cui impiego malvagio è disinnescato dall’arte. Gilbert and George, infine, sono due sculture viventi. A Roma furono The Singing Sculpure (L’Attico, 1972) e The Red Sculpture (Gian Enzo Sperone e Konrad Fischer, 1977), ma si presentarono anche in forma di disegno e in veste di fotografia (Gian Enzo Sperone e Konrad Fischer 1972 e 1974). Racconto Nelle opere sino ad ora incontrate, dove insorge l’elemento biografico, l’accadimento quotidiano, la visione particolare, ciò si verifica sempre nei termini di un esempio rapportabile a molte altre esistenze o in relazione a una condizione più vasta e generale (il rapporto uomo-donna nelle opere di Ketty La Rocca, gli interni familiari di Michele Zaza trasformati in racconti favolosi, gli autoritratti - Salvo, Ontani, Mariani - a dimostrazione dell’universale koinè dell’arte, le presenze vive che nelle opere di Kounellis assurgono a rappresentazioni del mito, tutte opere nelle quali il particolare è in relazione con il tutto come nel lavoro di Giovanni Anselmo). Con l’idea che la reazione, il desiderio di cambiamento, sia un criterio importante per capire i mutamenti della storia, abbiamo voluto ricordarlo per introdurre una nuova sensibilità suggellata internazionalmente con la mostra Story ordinata dal gallerista John Gibson a New York nel 1973 e che ebbe rapida risonanza in Europa. A Roma fu Enzo Cannaviello che in maniera estesa e sistematica espose molti dei protagonisti di quella che venne internazionalmente definita Narrative Art. Con opere per la maggior parte presentate nella sua galleria (tra 1974 e il 1977) introduciamo il lavoro di Bill Beckley, Michel Badura, Jochen Gerz, Peter Hutchinson, Jean Le Gac. Le loro sono tutte opere formate da immagini fotografiche e testo. Sono questi mezzi affini a quelli impiegati in area concettuale, ma ora hanno cambiato radicalmente temperatura (Bill Beckley si definirà un nuovo romantico). Là dove la fotografia torna a garantire una certa adesione al reale (il principio di cui ha scritto Filiberto Menna nel catalogo della mostra La somiglianza, allo Studio Cannaviello, Roma 1976) e la scrittura ha familiarità con quella diaristica, l’arte abbandona investigazioni linguistiche e procedimenti analitici per una adesione al comportamento e al linguaggio comune. Accanto a queste esperienze ne presentiamo altre fondate sulla registrazione fotografica di natura diversa. La registrazione mnemonica di un’esperienza di Hamish Fulton, lo strumento di un percorso di conoscenza di Franco Vaccari. Quelle atte a suggellare un compor- GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 127 tamento deviante dalle regole imposte, una condizione di diversità, Urs Lüthi, Kathariana Sieverding, ma anche lo sguardo rivolto da Giosetta Fioroni alla patologia. Diverse sono le immagini fotografiche con le quali Alberto Garutti presta la propria attenzione agli ambienti quotidiani investendoli di uno sguardo immaginifico. Questi e gli altri lavori fotografici potranno essere inquadrati in una più ampia prospettiva attraverso il saggio che Antonella Russo in questo catalogo dedica alla storia della fotografia. Politica Ai rapporti tra arte e politica è dedicato in questo catalogo il saggio di Lucilla Meloni le cui riflessioni abbracciano molti degli artisti che abbiamo già incontrato lungo il percorso della mostra. La presa di posizione radicata sino all’impegno politico era un comportamento, come è noto, diffuso negli anni Settanta quando la partecipazione ai fatti della vita sociale era avvertita come un’urgenza, la risposta a una chiamata cui uomini e donne civili non potevano sottrarsi. Politica è l’arte di Jannis Kounellis (per come eleva il quotidiano alla misura dell’epica), di Sol LeWitt (per il suo destinare l’opera allo spazio collettivo del muro e condividerne l’esecuzione), di Vettor Pisani (per il suo scavo interiore che restituisce verità all’individuo), di Maurizio Mochetti (per l’idea di una scienza al servizio dell’immaginazione), di André Cadere, di Vincenzo Agnetti, di Sergio Lombardo, di Luca Patella, di Fabio Mauri, di Lawrence Weiner... Tra questi autori ce ne sono alcuni nel cui lavoro la questione politica assurge a tema. Non è più implicita nella rete di scelte che connotano l’opera (il linguaggio che la sostanzia, le tecniche con la quale è realizzata, il modo in cui viene condivisa) ma appare in chiaro, è detta, è utilizzata come strumento di intervento diretto nella società, come lotta, denuncia o propaganda, similmente a come abbiamo visto accadere nelle azioni di Joseph Beuys. Anche in questo ambito convivono nature molto diverse. Eclatante è stato a Roma il fenomeno degli Uffici per la immaginazione preventiva, fondati (forse sulla suggestione del programma beuysiano) nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano, Franco Falasca con diramazioni in Brasile (Fabio Mauri) e a New York (Mario Diacono). Oltre ai lavori individuali dei singoli componenti, nel grande tavolo la centro della sala, attraverso una serie di documenti, si introduce la loro attività nella quale coinvolsero un numero vastissimo di altri artisti con iniziative condotte con la convinzione che il discorso estetico possa essere rivoluzionario (non solo quello che tratta esplicitamente temi di politica). Con gli Uffici per la Immaginazione preventiva fecero le loro prime apparizioni pubbliche Francesco Clemente e Bruno Ceccobelli. 128 Nella sala esponiamo due lavori fotografici, allo stesso tempo politici ed estetici (nel senso della ragione formale e tecnica e dell’eredità storico artistica): lo sguardo di Tano D’Amico votato alla sofferenza e ai disagi sociali (come sempre accade nelle foto dell’autore militante nella stampa comunista) e quello di Mario Cresci che intrepreta e trascende l’indagine antropologica svolta nel 1979 a Barbarano Romano. I lavori di Videobase, il collettivo formato da Anna Lajolo, Guido Lombardi, Alfredo Leonardi, sono tre inchieste su altrettanti temi di ingiustizia / lotta sociale, commissionati dalla sezione di Informazione Alternativa di Contemporanea curata da Bruno Corà, Leietta Gervasio, Paolo Medori e di fatto mostrati nel contesto di una mostra d’arte. I lavori di Tomaso Binga e di Verita Monselles (entrambe impegnate nella gestione del Lavatoio contumaciale, uno spazio per mostre e incontri) sono due differenti riflessioni / denuncia sulla condizione femminile, come le opere di Suzanne Santono e di Cloti Ricciardi impegnate quest’ultime nella gestione della Cooperativa del Beato Angelico, nata con il proposito di documentare il lavoro delle donne che “operano e hanno operato nel campo delle arti visive”. Politica, infine, è la scelta di Gianfranco Baruchello di vivere in campagna assegnando un valore creativo all’azione di coltivare la terra. Scelta sintomatica di una stagione che vide il deterioramento della partecipazione politica (dovuto in parte anche all’insorgere della componente armata e clandestina) e che garantiva, all’interno di una collettività separata, di poter vivere nella coerenza dei propri principi e ideali. Labirinto Metafora frequente alla fine anni Settanta, complice di nuovo un racconto di Borges e un senso dell’orientamento (politico e sociale) che si andava smarrendo. Achille Bonito Oliva nel 1979 dedicò un libro a questa architettura che non ha centro né periferia, convertita in un percorso (nelle parole dell’autore) che non conosce l’economia dell’arrivo e dell’approdo, metafora del linguaggio che solo l’artista ha il diritto di abitare e sfidare (A. Bonito Oliva, Labirinto, Milano 1979). In quest’ultima parte della mostra vi è una prevalenza di opere dipinte, ma non sono queste le uniche protagoniste e alla figura del labirinto si fa riferimento non come alla memoria ritrovata della pittura (il filo d’Arianna), ma al carattere segreto che molti lavori di questo periodo assunsero. Ciò avvenne, nonostante l’impiego, in molti casi, di una tecnica giudicata da alcuni di più facile accesso - la pittura appunto - e in contrasto con l’estrema chiarezza della maggior parte dei lavori concettuali (tautologie, analisi, metodi), approntate da autori che avevano la necessità inderogabile di instaurare un rapporto di comunicazione con i destinatari dell’opera (spesso accompagnando il lavoro da dichiarazioni scritte). DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA Per carattere segreto si intende una commistione di elementi il cui insieme rimane inspiegabile in assenza di precise conoscenze sulla loro origine o sulle vicende biografiche dell’autore ma soprattutto che non è più essenziale decodificare per accedere all’opera. Sono anni nei quali si assiste a un rinnovato interesse per il simbolo (nel 1977 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna si tennero due mostre dedicate all’Espressionismo tedesco a cura di Bruno Mantura e nel 1979 quella sulla grafica di Max Klinger a cura di Werner Spies), mentre una nuova generazione di artisti riconsiderava la pittura in termini astratti, sottraendole con la figura la sua prima e immediata intelligibilità. Alcuni degli artisti presenti in questa sala hanno esordito come pittori scivolando, per dirla con Achille Bonito Oliva, sul piano inclinato del disegno (catalogo Drawing/Transparence. Disegno/Trasparenza, Cannaviello Studio d’Arte, Roma 1976). Abbiamo già visto le prime pitture di Sandro Chia che somigliavano a disegni. Anche il dipinto I giganti fulminati da Giove di Salvo che dal 1973 coltivò il culto della pittura, con i suoi colori senza materia e il fondo bianco assomiglia a un disegno. Una lumeggiatura di biacca sembra il dipinto di Cesare Tacchi, con l’orecchio al centro della tela e un titolo che cita Pablo Picasso. Disegni fotografati o disegni tracciati sul muro sono le opere esposte da Francesco Clemente nella mostra Pitture barbare del 1976 alla galleria di Gian Enzo Sperone. Sul disegno che esponiamo, Pitture barbare, fluttuano piccole immagini il cui accostamento è incomprensibile se non guidati dalla nozione che si tratta di una sorta di inventario delle precedenti opere dell’artista. Un enorme disegno su lenzuolo è stata la prima opera mostrata da Enzo Cucchi nel 1977 agli Incontri Internazionali d’Arte (della quale nonostante gli sforzi non siamo riusciti a individuare l’attuale collocazione). Disegni sul muro si videro nello spazio autogestito La Stanza (un nome che allude a un luogo privato e idoneo alla condivisione di un cenacolo): la bifora di Sergio Sanna, i d’après da Tiziano di Stefano Di Stasio, il Palazzo d’Inverno nella fase della putredo di Bruno Ceccobelli. Di Giuseppe Gallo, un altro degli autori de La Stanza, esponiamo la serie dei Disegni malati. È prossimo al disegno l’autoritratto di Francesco Clemente su carta da spolvero del 1979 che presentiamo in questa mostra (nel quale la figura di Clemente ha il suo rovescio - come sulle carte da gioco e con allusione all’androgino - nel vestito femminile). In nome del disegno convivono a S. Agata de’ Goti opere come l’arabesco di Giuseppe Salvatori, la foto ritoccata con le matite colorate di Felice Levini e persino la crepa che corre sul muro come un ininterrotto segno di matita di Vittorio Messina (che rimarrà, a differenza dei suoi compagni, del tutto estraneo alla pittura). Il carattere di disegno di molte pitture di questa seconda metà degli anni Settanta, oltre a testimoniare una certa timidezza, un avvicinarsi cauti alla pittura – sulla pittura riflette in questo catalogo Denis Viva – (nei ricordi di molti riaffiora il veto di cui era stata fatta oggetto nei primi anni del decennio) è sintomo della familiarità di queste esperienze con l’attitudine concettuale (intesa come rifiuto delle tecniche tradizionali, dematerializzazione dell’oggetto d’arte e opera concepita come dispositivo critico). Ma i legami con l’arte concettuale sono anche ravvisabili in ciò che nella stessa arte concettuale era sopravvissuto di pittorico (soprattutto in Italia e in particolare a Roma), l’attenzione, ossia, riservata al quadro, il modo di circostanziare l’espressione all’interno di una cornice che abbiamo osservato nelle opere di Jannis Kounellis e di Giulio Paolini. Si può dire che l’arte concettuale e una certa pittura si incontrano a Roma a metà strada. Abbiamo visto il dispositivo critico sotteso all’opera messo alla prova dal deflagrare del meraviglioso (Patella) o delle implicazioni psicologiche (Lombardo). Ora assistiamo al suo smantellamento in nome di nuovi punti di vista e di un frequente ricorso alla parcellizzazione (ancora una volta sull’esempio dell’arte concettuale). Unico garante l’io individuale che ritorna di scena (ma era mai scomparso?). Salvo continua a essere la reincarnazione dei grandi artisti del passato. Carlo Maria Mariani, sempre fedele alle teorie di Madame Blavatsky e fiducioso nella facoltà della psicometria, dipinge in dialogo serrato con Angelica Kauffmann (e attraverso la pittura riattualizza il passato). Cesare Tacchi sì che era scomparso (con la Cancellazione d’artista al Teatro delle mostre nel 1968 era sparito oscurando, con la pittura, un vetro), ma già nel 1972 riapparve (nello studio di Elisabetta Catalano) compiendo un’azione opposta (rimuovendo la pittura che oscurava il vetro e suggellando l’operazione con il titolo Painting). Luigi Ontani nel segno di Gian Battista Vico continua ad attraversare la storia abitando corpi e opere diverse e trovando in India nuove corrispondenze. L’India con le sue pratiche ascetiche (e la promessa dell’illuminazione), con la sua musica (modello al minimalismo), con i suoi colori (e la sua diffusa tradizione artigianale), ha un posto di rilievo nella cultura del decennio (a Madras, Fabio Sargentini, Francesco Clemente, Giordano Falzoni e Luigi Ontani si recarono insieme nel 1977 facendo di questo viaggio una mostra). L’arte si offrì in forma di libere associazioni, che talvolta era impossibile o inopportuno decodificare. Sandro Chia a La Salita accompagnò la pittura con un irritate sbattere di porte (OMETTO, quando ti sentirai a tuo agio visto che sei a casa tua?, 1976) e per una mostra alla Galleria dell’Oca creò degli ibridi innestando sculture e disegni, disegni e pitture, Clemente nella mostra citata del 1976 da Sperone compose misteriosi assemblaggi. Enzo Cucchi presentò da Giuliana De Crescenzo una commistione di disegni, oggetti e sculture oggi dispersi. A partire dal novembre del 1979 i nomi di Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi insieme a quelli di Nicola De Maria e Mimmo Paladino (solo inizialmente associati a quelli di altri) vennero raccolti in GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA / DANIELA LANCIONI 129 nome della Transavanguardia, l’elaborazione critica di Achille Bonito Oliva, destinata al successo planetario: “L’arte finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il ‘labirinto’, inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura.” (A. Bonito Oliva, La Trans-avanguardia italiana, “Flash Art”, nn. 92-93, ottobre - novembre 1979). Su un altro fronte (e con diversi schieramenti di critica e di gallerie) si trovava la pittura di Franco Piruca, che con gli autoritratti della sua mostra d’esordio si libera dall’incubo della storia irreversibile (il rimando è sempre alla filosofia di Nietzsche) e si fa soggetto “transtemporale” (in seguito adombrerà il concetto di “anacronismo” in nome del quale Maurizio Calvesi, a partire dal 1980, teorizzerà il lavoro di un gruppo di artisti riuniti intorno a La Tartaruga). Su un altro fronte ancora, Bruno Ceccobelli intraprese la sua ricerca della pietra filosofale, dell’immagine miracolosa, accessibile a tutti, convinto della centralità dell’arte, la cui necessità condivise con una compagine di artisti destinati a percorrere un tratto di strada insieme. Accanto al suo lavoro, presentiamo le fotografie - ispirate alle incisioni del Guanto di Klinger - di Francesca Woodmann, che insieme a Bruno Ceccobelli e a Giuseppe Gallo e ad altri espose a Roma nel 1978 in una collettiva da Ugo Ferranti. In quest’area della mostra esponiamo anche una raccolta dei ritratti fotografici di Elisabetta Catalano, in controcanto - per l’attenzione rivolta all’altro che li sostanzia - ai tanti autoritratti che segnano questo scorcio del decennio. La mostra si chiude con un dipinto di Giulio Turcato che in nome di una pittura astrattasurreale-figurata ha felicemente attraversato il decennio. Il catalogo, invece, chiude con la fotografia emblematica di un piccolo gruppo di amici attorno alla Fontana delle Api di Gian Lorenzo Bernini dove Luciano Fabro ha deposto nell’acqua Io (l’uovo), una scultura di bronzo, una sorta di bossolo, scura all’esterno e dorata all’interno, che reca incisa una figura in posizione fetale e pesa quanto il corpo dell’artista. Era la sera del 16 marzo 1978, la mattina avevano rapito il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e ucciso tutti gli uomini della sua scorta. 130 DANIELA LANCIONI / GUIDA PRATICA ALLA VISITA DELLA MOSTRA