Tesina di Gianni Angeli - Accoglienza Turistica a Ravenna

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Tesina di Gianni Angeli - Accoglienza Turistica a Ravenna
LA LINEA GOTICA Tesina di Gianni Angeli
INDICE:
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INTRODUZIONE. DALLO SBARCO IN SICILIA ALLE LINEE GUSTAV E GOTICA.
LA DIFFICILE AVANZATA E LA VITTORIA FINALE.
LA BATTAGLIA DEL SENIO.
MILITARIZZAZIONE DEL TERRITORIO.
ALFONSINE NELL’INVERNO 1944-45 E LA RICOSTRUZIONE.
ALFONSINE OGGI.
ITINERARIO.
7.1 MUSEO DELLA BATTAGLIA DEL SENIO.
7.2 ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN
RAVENNA E PROVINCIA.
7.3 IL FONTANONE O MONUMENTO DELLA PIGNA.
7.4 CHIESA DI SANTA MARIA E CHIESA DEL SACRO CUORE.
7.5 SANTUARIO DELLA MADONNA DEL BOSCO.
8. DOPO. LE UCCISIONI DEL DOPOGUERRA.
IN FONDO BIBLIOGRAFIA E IMMAGINI.
1. INTRODUZIONE. DALLO SBARCO IN SICILIA ALLE LINEE GUSTAV E GOTICA.
Dopo la vittoria in Africa, gli Anglo-Americani avevano assunto il controllo del Mediterraneo e
poterono rivolgersi all’Italia. Nella notte tra il 9-10 luglio 1943 nell’ambito dell’operazione “Husky”
sbarcarono in Sicilia, venendo accolti come liberatori. Iniziava quindi la campagna d’Italia destinata
a durare 22 mesi (10 luglio 1943 - 25 aprile 1945).
La guerra aveva minato il consenso popolare verso il Fascismo e l’intervento degli Alleati scatenò le
proteste contro il regime. Così, nella notte tra il 24-25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo
votò la sfiducia a Mussolini che, in seguito, fu fatto arrestare da re Vittorio Emanuele III e condotto
prigioniero sul Gran Sasso (liberato il 12 settembre dai Tedeschi formerà la R.S.I. con sede a Salò).
L’incarico di formare un nuovo governo, venne quindi affidato al maresciallo Pietro Badoglio che, di
fronte al progressivo deterioramento della situazione militare, prese contatto con gli Alleati e il 3
Settembre 1943 a Cassibile , in Sicilia, firmò l’armistizio, che fu reso pubblico solo l’8 settembre.
Era l’inizio di un periodo particolarmente travagliato per l’Italia, in quanto né alla popolazione né
all’esercito vennero fornite le indicazioni necessarie per far fronte alla nuova situazione.
A questo punto, mentre il re e Badoglio abbandonavano Roma per traferirsi a Brindisi e mettersi
sotto la protezione degli Alleati, la Germania reagì occupando l’Italia centrale e settentrionale.
Il 9 settembre 1943 gli Alleati sbarcarono a Salerno, ma la loro avanzata venne fermata dai
Tedeschi che si attestarono lungo la “Linea Gustav”, una linea difensiva che aveva il principale
centro di resistenza a Cassino, in provincia di Frosinone. L’offensiva degli Anglo-Americani venne
quindi bloccata dal feldmaresciallo Kesselring fino al 18 maggio 1944.
Dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) e Firenze (10 agosto 1944), i Tedeschi si ritirarono
fino in Pianura Padana lungo la “Linea Gotica” che da Massa Marittima sul Tirreno, scende verso
Pisa, costeggia l’Arno, comprende i monti aretini del Pratomagno, passa da San Sepolcro e
raggiunge l’Adriatico all’altezza di Pesaro.
Inizialmente battezzata “Gotenstellung”, per volere dello stesso Hitler che temeva ripercussioni
propagandistiche se il nemico avesse sfondato una linea dal nome così altisonante, si decise poi di
ribattezarla “Linea Verde” (Grüne Linie), distinguendola così dalla “Linea Rossa”, che era una zona
di difesa avanzata all’altezza di Fano, anche se nella storia, e soprattutto in Italia, continuò ad essere
conosciuta con il nome di "Gotica".
Essa, con una profondità e consistenza operativa di 16-20 Km per una lunghezza di 300 Km, aveva il
compito di fermare il più a lungo possibile l’avanzata alleata, impedendo la penetrazione nella
Pianura Padana. Si trattava dell’applicazione del metodo tedesco della “difesa in profondità”
consistente in un sistema di fasce fortificate in succcessione, profonde qualche chilometro, a
seconda della conformazione del terreno (sistema che si rivelò molto utile a contenere gli attacchi
Alleati per molti mesi). Non a caso si parla di Linea Gotica I e II, proprio per distinguere la prima
linea dalla seconda, posta mediamente una ventina di chilometri più a nord della prima.
Così lungo il crinale appenninico, i Tedeschi posizionarono, con l’impiego di operai Italiani
dell’organizzazione Todt, oltre 2000 postazioni di mitragliatrici, 500 basi per cannoni anticarro,
120 km di filo spinato e numerosissimi campi minati. Non si trattava, dunque, di un tracciato
continuo ma proteggeva i segmenti vitali della dorsale montagnosa, in attesa di capire dove gli
Alleati avrebbero attaccato.
2. LA DIFFICILE AVANZATA E LA VITTORIA FINALE.
Le forze alleate, divise tra la 5°Armata americana (sul versante toscano) e l’8°Armata britannica
(sul versante Adriatico), decisero di privilegiare un’azione inglese dal Metauro, dove si pensava che
le artiglierie pesanti e i carri armati sarebbero stati favoriti dalle dolci colline del Montefeltro
rispetto all’impervio Appennino.
Così, Il 25 agosto 1944 partì la grande offensiva britannica contro la Linea Gotica, attraverso un
intenso cannoneggiamento che permise di prendere rapidamente Pesaro. D’altra parte i Tedeschi,
che non si aspettavano un attacco così violento (i generali Von Vietinghoff e Heidrich erano in
licenza in Germania), una volta capita l’offensiva alleata si riorganizzarono, combattendo
aspramente e arretrando solo molto lentamente. Queste “ritirate più combattive”, consistenti in
graduali ripiegamenti su più linee difensive che non regalassero nulla al nemico, furono
contraddistinte da pesanti repressioni della popolazione locale, col fine d’isolare le formazioni
partigiane evitando quella saldatura che si stava verificando nel nord-Italia tra contadini e
partigiani (proprio tra agosto-settembre ’44 si verificarono le principali stragi nazi-fasciste di civili,
definite da Kesselring “Tattica Preventiva”).
La battaglia per Rimini, raggiunta solo il 21 settembre, dopo durissimi scontri sul Conca e il Foglia e
sulle colline di Coriano, rappresentò l’anticamera delle difficoltà che gli Alleati incontrarono nella
Pianura Padana dove, come detto, non si assistette a un’avanzata irresistibile ma a feroci corpo a
corpo tra le case e i campi.
Il problema principale fu l’errata valutazione della pianura romagnola che, ritenuta congeniale
all’avanzata dei pesanti mezzi corazzati, si trasformò invece in una palude per la caduta ininterrotta
di piogge dal 17 settembre. I Tedeschi approffittando della lentezza e della prevedibilità degli
Alleati, le cui pesanti artiglierie potevano passare solo sulle strade più battute, attuarono una sorta
di “terrorismo ambientale” consistente in: demolire edifici collinari che franando ostruivano i
percorsi obbligati, allagare le campagne con il taglio degli argini, spezzare le traversine ferroviarie,
minare i ponti… senza contare che i fiumi della zona, essendo contenuti entro terrapieni dell’altezza
di anche 10-12 metri, erano delle trincee naturali per i Tedeschi e nuovi ostacoli per gli Alleati.
A fine ottobre, nonostante le linee tedesche fossero ormai al collasso, era ormai chiaro che il vero
sfondamento doveva essere rimandato alla primavera successiva. Così il generale inglese Alexander
il 13 novembre 1944 diffuse per radio il famoso “proclama” che prevedeva la sospensione delle
operazioni militari per l’inverno. Nei fatti, comunque, le forze partigiane non obbedirono e la lotta
per la liberazione continuò, portando ad esempio alla liberazione di Ravenna (4 dicembre 1944),
Faenza, Bagnacavallo… La situazione si fece però estremamente difficile, sia perché gli aiuti inviati
dagli Alleati non sempre erano sufficienti sia perché i Tedeschi attuarono una violenta
controffensiva.
Soltanto nella primavera del 1945 gli Alleati ripresero l’offensiva e aumentarono in qualità e
quantità i rifornimenti ai partigiani. Ci si preparava ormai per l’attacco finale e la liberazione delle
grandi città. A metà aprile gli Anglo-Americani sfondarono la Linea Gotica e il 21 aprile entrarono a
Bologna, già insorta. Genova e Milano insorsero e si liberarono il 25 aprile, così come altre città.
L’Italia era libera!
3. LA BATTAGLIA DEL SENIO.
Durante la “battaglia dei fiumi padani” (Savio, Ronco, Montone, Lamone, Senio, Santerno, Sillaro),
che costituiscono la sequenza dei ripiegamenti tedeschi tra l’autunno ’44 e la primavera ’45, la sosta
più lunga si ebbe sul Senio, il quale scorrendo da Riolo Bagni al Reno funge da perfetta cerniera tra
gli Appennini e le valli di Comacchio.
Lungo questo corso di appena 60 Km si giocherà nell’aprile ’45 l’ultima battaglia per il possesso
della Pianura Padana e la soluzione definitiva della guerra in Italia.
Quest’ultimo capitolo della campagna d’Italia riprendeva dunque dalla posizione decisa a gennaio,
dalle sponde di quel modesto corso d’acqua che è il Senio, oggi ricordato nelle epigrafi per aver
segnato, durante gli ultimi quattro mesi di guerra “ i confini dell’Italia libera”.
Il nuovo comandante tedesco che durante l’inverno prese il posto di Kesselring in Italia, il generale
Von Vietinghoff, era dell’idea che fosse più opportuno un ripiegamento tattico sul Po’ o sull’Adige,
ma gli ordini di Hitler erano chiari: “resistere a oltranza, non cedere un palmo di terreno italiano al
nemico”.
Fra i soldati tedeschi, infatti, scarseggiavano i rifornimenti soprattutto di carburante ma il numero
di uomini disponibili per l’ultima battaglia era ancora elevato: 23 divisioni oltre a 4 dell’RSI. A
queste gli Alleati contrapponevano circa 600.000 uomini, godendo perciò di un leggero vantaggio
numerico, ma soprattutto potevano contare su un’indiscussa superiorità aerea e sulla tranquillità
delle retrovie che invece mancavano del tutto agli avversari.
Avendo i Tedeschi allagato tutti i terreni in margine alle Valli di Comacchio e di Campotto nel basso
ferrarese, per restringere il fronte da difendere, restava al centro una sola linea di marcia: la Statale
16, “l’Adriatica”, che dopo Ravenna rappresentava la sola via per Argenta, Ferrara, Padova.
Se il fiume Senio era il limite orizzontale, l’Adriatica segnava il percorso verticale. Come due assi
cartesiani si incontravano in un punto ben preciso: il centro di Alfonsine. Altri obiettivi stategici
risultarono i territori di Castelbolognese (ove il Senio incrocia la via Emilia S.S 9) e di Cotignola
(all’intersezione con la S.S 253 detta San Vitale).
Per evitare gli errori e le difficoltà dell’autunno, il Comando dell’8° Armata inglese era deciso a
colpire il nemico con una poderosa azione combinata di aviazione, artiglieria e fanteria. Infatti se i
limiti del primo attacco alla Linea Gotica erano state la prevedibilità e lentezza di manovra dovute
al timore di non allontanare troppo le prime linee dai rifornimenti (in un territorio ostile e povero
di strade), questa volta tutti convenivano che solo la velocità poteva garantire il successo finale.
Dall’altra parte, la mancanza di aviazione e di carburante non consentiva ai Tedeschi di ottenere
notizie utili sulle manovre degli Alleati. Se il numero di soldati nei due fronti poteva dirsi quasi
equilibrato è certo che i mezzi a disposizione non lo erano più da tempo.
Se durante il primo attacco alla Linea Gotica il generale inglese Alexander si era affezionato alla
tattica dei 2 tempi, consistente in una penetrazione strategica ad est, sul fianco destro, tanto da
attirarvi anche le riserve nemiche, a cui sarebbe seguito un impatto deciso al centro per arrivare su
Bologna, il generale americano Mark Clark, che ora coordinava le armate alleate (in sostituzione di
Alexander) andò oltre e pianificò l’offensiva in 3 fasi:
la fase uno affidava un esordio violentissimo all’aviazione ed alle artiglierie per sgombrare le vie
di discesa dalla collina ed un assalto di Commando che, a bordo di mezzi anfibi Fantail dovevano
attraversare le Valli di Comacchio, allarmare i Tedeschi sul Senio, sguarnire quei caposaldi ed aprire
lì i primi varchi nelle linee nemiche;
la fase due prevedeva l’avanzata veloce della 5° e dell’8° Armata alleate per accerchiare il nemico
a Sud del Po e distruggere quante più divisioni possibili lontano da Bologna;
la fase tre consisteva nell’inseguimento oltre il Po per raggiungere tutte le riserve nemiche prima
di Verona e del Brennero, per impedire che raggiungessero il confine ricongiungendosi con le
restanti truppe della madrepatria.
Di tutti questi piani, era evidente che il prezzo più alto lo richiedeva la prima fase affidata al 5°
Corpo d’Armata formato dalla 56° e 78° Divisione britannica, al cui comando rispondevano anche la
2° Divisione neozelandese, l’8° Divisione indiana, i Gruppi di Combattimento Cremona e Friuli,
nonché la 28° Brigata Garibaldi dei partigiani ravennati.
Tutta la forza aerea alleata fu messa a completa disposizione dell’8° Armata britannica per questo
primo assalto, poi sarebbe andata in copertura alla 5° Armata americana per completare
l’avanzamento complessivo.
Alla vigilia del 1° aprile 1945 tutto era pronto nei minimi dettagli, ma ancora una volta le sorprese
non giunsero tanto dal nemico quanto dall’ambiente naturale. La primavera eccezionalmete mite ed
asciutta aveva reso impossibile stabilire i reali confini delle Valli, distinguendo i terreni allagati, ove
restavano poco più di 30 cm d’acqua, dai fondali vallivi, mediamente profondi 150 cm.
Quando il 1° aprile i mezzi anfibi furono messi nelle acque delle Valli di Comacchio trovarono subito
il fondo melmoso che impantanò le eliche. Collaudati un mese prima a Marina di Ravenna i Fantails
avevano fatto un’ottima impressione in mare aperto, ma quel giorno ci vollero anche le braccia dei
partigiani e dei “fiocinini” (i pescatori di frodo delle suddette Valli) per farli avanzare, sotto il tiro
dei mortai tedeschi, di oltre un chilometro prima di trovare profondità sufficienti.
Solo dopo 2 giorni gli Alleati conquistarono quella lingua di terra detta “The Spit” (lo spiedo) tra le
Valli e il mare. Il 6 aprile la 56° Divisione britannica attaccò con successo “The Wedge” (il cuneo),
ossia i territori compresi tra la sponda sinistra del Reno e le Valli.
Ora la testa di ponte per il balzo finale era pronta.
Alle 13.50 del 9 aprile 470 caccia bombardieri, 48 bombardieri medi e 500 bombardieri pesanti
erano pronti a sorvolare il fiume Senio per un bombardamento dapprima leggero, per non
sconnettere troppo il terreno, e successivamente sempre più intenso.
La 2° Divisione neozelandese, schierata davanti a Cotignola, sparò da sola 250.000 granate con tanti
cannoni quanti ne aveva usati ad El Alamein l’intera 8° Armata.
Per la quantità di mezzi impegnati in quel pomeriggio e l’intensità dell’azione congiunta di aerei,
artiglieria e fanteria, l’attacco sul fiume Senio condotto tra la via Emilia e la Statale 16 Adriatica
apparve agli occhi degli stessi Alleati come una sequenza terribile ed apocalittica, persino
impossibile da registrare nelle foto e nei filmati dei servizi di documentazione alleata.
Peccato che quella terra sollevata dalle esplosioni e bruciata dalle fiamme si chiamasse Cotignola,
Fusignano, Alfonsine e fosse ancora abitata da uomini e donne.
Alle 19.20 i caccia bombardieri Thunderbolt e Kittyhawk sorvolarono per l’ultima volta le linee
senza sganciare bombe: era il segnale convenuto per l’avanzata delle fanterie.
I fanti italiani del Gruppo di Combattimento “Cremona” raggiunsero Fusignano ed Alfonsine intorno
alle 6 del mattino.
I giornalisti inglesi parlarono di Cotignola come di una cittadina “Blasted of the Map”, cancellata
dalla carta. Il vecchio abitato di Alfonsine, unico paese tutto alla destra del Senio e perciò ancora più
esposto ai tiri di artiglieria, era stato raso al suolo per 3/4. Tutti si sentivano come dei
sopravvissuti.
Combattimenti ininterrotti si susseguirono per tutte le giornate dell’11 e del 12 aprile con la stessa
tecnica: bombardamento a tappeto, fuoco di artiglieria, mortai, carri e lanciafiamme.
Nei primi 3 giorni di combattimento sul Senio i Tedeschi persero 5 battaglioni a ridosso del fiume e
consegnarono oltre 2000 prigionieri. Gli Alleati invece portarono a termine tutta una serie di
progressioni, da Est verso Ovest, che sgretolarono irrimediabilmente le ultime difese tedesche.
Tra il mare e le Valli le fanterie britanniche incontrarono deboli resistenze. Aiutati dai partigiani,
esperti dei luoghi, avanzarono verso Comacchio trovando qui gli ultimi reparti della R.S.I. e truppe
orientali piuttosto demotivate.
Il gran numero di veicoli cingolati ora disponibili consentiva a questi reparti di procedere anche
attraverso la campagna dissestata dalle esplosioni, scegliendo percorsi a sorpresa ed impedendo ai
Tedeschi di tamponare i varchi come avevano sempre fatto sino ad allora.
Quando sugli argini del Reno si ricongiunsero i fanti del Cremona da sud e quelli Inglesi da nord la
manovra detta “del Cuneo” poteva dirsi perfezionata fino all’altezza di Bastia, raggiunta il 14 aprile,
stesso giorno in cui i Polacchi raggiunsero Imola lungo la via Emilia.
Gli Inglesi erano ormai a 24 Km da Bologna ed il 14 aprile sulla loro sinistra anche la 5° Armata
americana si mise in movimento.
Tuttavia, i Tedeschi continuavano una ritirata combattiva senza dare segno di cedimento totale,
distruggendo tutto quanto non potevano più portare con sé.
Poiché il lato est rimaneva la punta più avanzata dello schieramento, il comando alleato ritenne più
importante proseguire in direzione di Argenta. D’altra parte i Tedeschi sapevano perfettamente
come difendere quel passaggio ridotto a poco più di 3 Km, ai lati della Statale 16.
Concentrarono lì le ultime riserve ed impegnarono davanti alla cittadina ferrarese l’ultimo reale
tentativo di difesa, coi fianchi protetti dagli allagamenti. Ci volle più di una settimana per quegli
ultimi 20 Km che separano il Senio da Argenta, ma furono gli ultimi giorni di effettivo
combattimento. Gli Inglesi, che cominciavano a risentire i contraccolpi psicologici di un
inafferrabile successo, il 18 aprile attaccarono con forza quest’ultimo caposaldo nemico,
distruggendo per buona parte la città, e costringendo i Tedeschi ad una disordinata ritirata.
Quando il 21 aprile Bologna, già insorta, vide l’ingresso dei Polacchi e dei Bersaglieri del “Friuli”
apparve chiaro che ormai la guerra in Italia era veramente finita. Il giorno prima il gen. Von
Vietinghoff aveva ordinato ai Tedeschi di abbandonare le ultime posizioni e di ritirarsi sul Po.
I Tedeschi non catturati, quindi, fuggivano allo scoperto verso il Po ormai privo di ponti. I fiumi che
fino ad allora avevano offerto rifugio e vantaggio, diventavano una trappola fatale ora che, incalzati
dall’aviazione, non riuscivano più a riorganizzare nuove difese.
Dall’inizio dell’offensiva del 10 aprile i Tedeschi avevano perso 70.000 uomini, la metà dei quali si
diedero prigionieri.
La “grande cavalcata”, come la chiamarono i cronisti alleati, vide un enorme spiegamento di mezzi
che produssero in genere danni superiori a quelli attuati nei mesi precedenti dai Tedeschi (anche le
statistiche delle cause di morte dei civili italiani indicano come le vittime degli Alleati liberatori
furono superiori a quelle provocate dai Tedeschi occupanti).
Il 25 aprile il C.L.N.A.I. ordinò l’insurrezione generale in tutto il nord con i partigiani che spesso
liberarono le città prima dell’arrivo alleato (Milano, Genova, Venezia).
Il 29 aprile i rappresentanti tedeschi firmavano nella reggia di Caserta la resa incondizionata per il
fronte italiano. Era la prima capitolazione tedesca dall’inizio della guerra: in Italia e in Austria si
arresero circa 1.000.000 di uomini. Dall’inizio della “Battaglia del Senio” erano passati solo 19
giorni.
4. MILITARIZZAZIONE DEL TERRITORIO.
Dopo la liberazione di Ravenna avvenuta il 4 dicembre 1944 con un piano preparato e attuato dal
comandante partigiano Arrigo Boldrini, detto “Bulow”, in collaborazione con gli Inglesi, il Senio è
stato l’ultima linea di difesa tedesca sul fronte orientale della Linea Gotica.
Furono quindi gli argini del Senio a rappresentare la linea del fronte e soprattutto l’argine destro,
utilizzato dai Tedeschi per costruirvi, per chilometri e chilometri fino a Sant’Alberto, una lunga
teoria di bunker. Così lo racconta un giovane marò di una compagnia della X MAS, schierata per 25
giorni, dall’11 marzo al 6 aprile, lungo i 6 Km di linea da Lugo a Fusignano.
“Arrivati in vista dell’argine sul Senio, venimmo suddivisi per squadre. Un anziano sottufficiale
tedesco ci aspettava per condurci sulle postazioni della prima linea, nel secondo argine, quello a est
della corrente, rivolto verso Bagnacavallo […]. Anche qui sorpresa. Io avevo sempre pensato che
fosse l’acqua del fiume a fare da baluardo tra un esercito e l’altro. Invece sul Senio era l’argine
destro a costituire un bastione alla linea […] il vero baluardo contro gli Inglesi era costituito dalla
scarpata destra alta più di 10 metri […].
Il bunker che presi in consegna, consisteva in una galleria scavata di traverso all’argine. In pratica
un corridoio largo 40 cm, alto 170, lungo 9 metri che terminava vicino alla scarpata est a forma di
“T”. L’entrata e la feritoia erano fra loro disassate per ovvi motivi di sicurezza. Sulla destra del
corridoio era stata scavata una specie di stanzetta di 2 m per 3, alta 1. Serviva per dormire a 5-6
soldati durante il giorno. Era umidissima, molto puzzolente, senza ricambio di aria, con paglia
fradicia e piena di pidocchi[…]. Vi era un lumicino sempre acceso, puzzolente anch’esso”.
I bunker erano a 50 metri uno dall’altro, e in mezzo, ogni 20 metri circa, semplici buche dette centri
di fuoco. Davanti, mine e filo spinato. L’argine destro era collegato a quello di sinistra da passerelle
pedonali, una ogni Km, formata da 2 travi parallele coperte da assi e posizionata sul terrapieno
interno, dove ogni 20 metri era scavata una tana per soldato. Più indietro, il retrofronte con le
posizioni dei mortai, dei servizi e dei comandi.
La prima linea alleata, spesso era posta di fronte a poca distanza da quella tedesca, talvolta solo a
pochi metri, magari dietro un fosso, una riva alberata, una casa di contadini sfollati. E da questa
linea, ai primi di aprile sarebbe partita l’offensiva tanto attesa e temuta. Durante l’inverno, i
Tedeschi, pur consapevoli ormai della loro fine, avevano continuato a scavare buche, inondare le
campagne, minare i campi nella vana speranza di bloccare ancora una volta l’avanzata alleata. Da
parte loro, gli Alleati rincuoravano i loro soldati con nuovi mezzi meccanici che avrebbero garantito
una maggiore sicurezza e una minore perdita di vite umane. I mezzi a disposizione erano
impressionanti, per quantità e qualità: 2000 aerei e l’appoggio dei bombardieri pesanti della 15°
Strategic Air Force, 3000 carri armati, 400 mezzi anfibi cingolati e corazzati, i “Fantails”, per
attraversare le valli e carri armati anfibi “Duplex Drive”. Ai reggimenti corazzati furono assegnati
carri lanciafiamme e carri dal cannone maggiorato; carri Arks e A.V.R.E. (“Armoured Vehicles Royal
Engeneers”), ideati per superare i canali calando passerelle estensibili sulle quali far transitare gli
altri carri; i “Platypus Grousers” (becco di ornitorinco), carri equipaggiati con cingoli a cucchiaio
per aumentare la superfice d’appoggio ed evitare che il carro sprofondasse; i “Crocodiles”, carri
Churchill in grado di resistere ai colpi del temibile PAK, il cannone tedesco da 88mm, con recipienti
corazzati con liquido per i lanciafiamme; i “Cangaroo”, carri Shermann privi di torretta per
trasportare fanterie d’assalto. Infine, per snidare i franchi tiratori, ogni battaglione fu dotato di 4
WASP, lanciafiamme montato su cingoletta con una gittata di un centinaio di metri.
Questa micidiale potenza di fuoco si abbattè sulla prima linea e sulle retrovie tedesche
distruggendo e annientando truppe, paesi e infrastrutture civili e militari: Castel Bolognese,
Solarolo, Cotignola, Lugo, Fusignano, Alfonsine e Argenta furono letteralmente demolite quando
non rase al suolo, mentre i Tedeschi resistettero ancora per 2 settimane prima di crollare
definitivamente.
5. ALFONSINE NELL’INVERNO 1944-45 E LA RICOSTRUZIONE.
Tra il dicembre 1944 e il 10 aprile 1945, Alfonsine fu quindi teatro di cruenti scontri tra Tedeschi,
Alleati e partigiani che combatterono lungo il fronte situato sul fiume Senio.
Nella sola Alfonsine nei 4 mesi del fronte furono lanciate circa 600 granate al giorno e ci furono 331
civili morti. Non c’era più la luce elettrica e quindi non funzionavano più i mulini. Per riuscire a
macinare un po’ di grano si doveva andare fino a Voltana o a Longastrino con i pochi carri rimasti.
I Tedeschi razziavano le mucche dalle stalle e tutti i mezzi di trasporto a motore (quei pochi che
c’erano) e usavano la ferrovia per trasportare tutte le merci, gli oggetti e le opere d’arte rubate al
nostro paese oltre alle loro armi; per questo i partigiani fecero saltare i binari della ferrovia.
La miseria era tanta ma c’era molta solidarietà tra le persone, molte delle quali si affidavano ai
comitati di zona (“Giunte di Strada”) che cercavano di procurare il cibo per tutti i cittadini:
compravano dai contadini le mucche e le macellavano, andavano a pescare nelle valli e
distribuivano il pesce.
Prima della guerra c’erano un ospedale e due farmacie, una in corso Garibaldi, l’altra in via Mazzini.
Durante la guerra fu necessario organizzare altri due ospedali, uno nel Palazzo Comunale, l’altro a
casa Argelli.
Nel 1945, per decisione dei Tedeschi, fu fatto saltare quasi tutto il centro del paese: gli edifici in
Piazza Monti e in Corso Garibaldi impedivano, a loro parere, il tiro dei cannoni verso le zone
occupate dagli Alleati. Le granate, le bombe aeree, l’alluvione provocata dalla rottura dell’argine del
Senio, le mine dei Tedeschi… distrussero l’80% delle costruzioni.
Il 10 aprile 1945, giorno della liberazione di Alfonsine, il centro del paese non era altro che un
cumulo di macerie; il resto del paese era semidistrutto. Il panorama sconfortante era rappresentato
dalla distruzione del 70% delle abitazioni e dalla scomparsa del vecchio centro storico, che era
stato dapprima pesantemente bombardato dagli Alleati, e in seguito minato dai Tedeschi prima
della loro ritirata verso nord.
I senza casa erano circa 700 e si potevano utilizzare soltanto 15 baracche di legno messe a
disposizione dagli Inglesi. Fu quindi necessario convocare tutti i bisognosi nel “Cason dal machin”,
capannone situato in via Borse e tirare a sorte.
Vennero dal municipio distribuite anche le lenzuola, le coperte, i materassi rubati ai cittadini nelle
case che i Tedeschi avevano occupato.
Bisognava dunque ricostruire il paese, ma dove?
Venne indetto un Referendum tra le “Giunte di Strada”: il 98% votò per ricostruire il centro del
paese alla sinistra del fiume Senio, tenendo conto del fatto che a destra c’era poco spazio,
confinando Alfonsine con i comuni di Bagnacavallo e Fusignano.
Gli architetti Vaccaro e Parolini disegnarono quindi il nuovo paese e cominciò la ricostruzione. Tutti
concorsero alla ricostruzione offrendo gratuitamente quattro domeniche di lavoro per rimuovere le
macerie. Queste furono caricate con le pale sui carri trainati dai pochi buoi rimasti, e usate sia per
ricostruire le rampe che permettevano di arrivare alla via Reale e al Cimitero sia per riempire le
voragini causate dalle bombe e dallo straripamento del Senio.
Dopo quasi 5 mesi di fronte, era rimasto ben poco, tranne il fieno (che i contadini non avevano
potuto utilizzare perché le mucche erano state uccise dai Tedeschi) e i bossoli di ottone dei cannoni.
Si effettuarono perciò degli scambi con altre città: con Reggio Emilia si scambiò il fieno con
materiale edilizio; i bossoli di ottone furono scambiati con vetri (nessuna casa aveva più i vetri alle
finestre) o con maiali, mucche, polli per ricominciare gli allevamenti e quindi le attività produttive. I
campi vennero ripuliti dalle mine e dalle granate per poter ricominciare la loro coltivazione. Fu
ricostruito con assi di legno il ponte di Piazza Monti.
6. ALFONSINE OGGI.
Alfonsine è situata nell’entroterra della pianura ravennate, lungo la strada statale 16 Adriatica, che
collega Ravenna a Ferrara. Dalla località si raggiungono in breve tempo il Parco del Delta del Po, la
città di Ravenna e i suoi lidi.
La tranquilla località della “bassa” ravennate è una città nuova, rinata dopo i terribili
bombardamenti della seconda guerra mondiale. Una città che non dimentica il passato ma guarda al
futuro, mantenendo viva la memoria e la tradizione. Le vicine valli e la sua Riserva Naturale fanno
parte del Parco Regionale del Delta del Po, che attira appassionati di “birdwatching” e di zone
umide da tutta Europa.
Il visitatore vi potrà trascorrere momenti piacevoli in estate, quando la città apre i suoi giardini
pubblici e privati alla poesia, al teatro e alla musica con “Pensiero Narrazione e Voce”, e durante
tutto l’anno, per visitare la Casa natale di Vincenzo Monti, dove il celebre poeta neoclassico nacque
nel 1754, recentemente restaurata e adibita a museo. Oltre ad alcune sale dedicate al poeta, la Casa
è sede del “Centro di Educazione Ambientale” dedicato al Parco Regionale del Delta del Po e alla
Riserva Naturale di Alfonsine, oasi di rifugio per la flora e la fauna tipica della valli, che copre circa
12 ettari.
“Roba vècia e roba nova” è la mostra scambio per appassionati d’antiquariato e collezionisti che si
tiene ogni ultima domenica del mese, da settembre a maggio.
Si suggerisce, infine, una visita al “Labirinto Effimero”, un labirinto di mais, il più grande d’Europa,
che serpeggia sinuosamente attraverso un campo di granoturco di circa 6 ettari, in una fitta maglia
di sentieri. Aperto da giugno a settembre.
7. ITINERARIO.
Arrivati nella nostra Alfonsine, percorriamo tutto il Viale della Stazione fino ad incrociare la SS.16,
“l’Adriatica”, proseguiamo lungo Corso Giacomo Matteotti fino in Piazza Gramsci, dove al centro
campeggia un grande Monumento alla Resistenza, realizzato negli anni ’70 da Angelo Biancini.
Sotto i portici del Comune ben 7 Lapidi per ricordare i caduti nella Battaglia del Senio del Gruppo
di Combattimento “Cremona”, i partigiani di Alfonsine tra i quali si annoverano 3 Medaglie d’oro e 2
d’argento al Valor Militare, le vittime civili, i caduti della prima guerra mondiale e quei soldati
deceduti nei lager nazisti i quali: “Travolti dalle turbinose vicende della patria in armi […] stremati
dal lavoro coatto, dalla fame e dalle malattie non aderirono alle proposte nazifasciste […]”.
Dalla piazza si prosegue in via Martiri della Libertà, si passa davanti alla Nuova chiesa di Santa
Maria, si prende a destra corso della Repubblica e poi si segue il cartello giallo “Museo del Senio”
che, attraversata Piazza della Resistenza, ci accompagna fino all’ingresso del Museo. Davanti, una
figura stilizzata in ferro che raffigura la vittoria, “Nike”, offerta dall’artista Enzo Donati e alcuni
moduli di un ponte Bailey, uno delle centinaia di strutture allestite nel corso dell’avanzata, e anche
dopo, a simboleggiare lo sforzo compiuto dall’esercito alleato per superare i numerosi fiumi e canali
che ostacolavano la loro avanzata verso nord. All’interno è documentata la complessa vicenda
bellica del territorio: plastici, collezioni di armi e di reperti militari, filmati d’epoca e pannelli con
testi, mappe e foto per presentare, soprattutto alle scolaresche, le varie fasi e i protagonisti della
Battaglia del Senio, con particolare attenzione alla popolazione civile e al movimento partigiano.
Dopo la visita, si ripercorre la medesima strada, svoltiamo a destra in Corso della Repubblica fino
ad incrociare via Andrea Costa, che prendiamo giusto per imboccare via Ventottesima Brigata
Garibaldi. Superata la piccola rotonda, entriamo in via Goffredo Mameli, prendendo la rampa, dove
un piccolo Cippo ricorda Peo Bertoni (ucciso nel ’22), vittima di quella violenza fascista che a
partire dal 1919 si scatenò in Italia contro associazioni democratiche, sindacati e avversari politici e
che continuò poi nel corso di tutto il ventennio, per culminare nella guerra civile che fu uno degli
elementi caratteristici dello scontro in atto negli anni ’43-’45 contro l’occupazione tedesca e la R.S.I.
(un altro Cippo, alla memoria di Tarroni e Ballotta uccisi dai fascisti nel ’44, è in via Nuova).
Attraversato il ponte, ci troviamo alla destra del fiume Senio, laddove sorgeva la “Vecchia”
Alfonsine, e dove concluderemo il nostro breve “tour” attraverso la storia di questa piccola-grande
cittadina. Arriviamo in Piazza Vincenzo Monti, nei cui giardini riposa il “Monumento della Pigna”
o “fontanone”, mentre alla sinistra troviamo la Chiesa del Sacro Cuore che sorge sulle ceneri della
Vecchia Santa Maria distrutta dalle mine tedesche.
Per chi fosse dotato di buona volontà, oltre alla Casa Natale di Vincenzo Monti in via Passetto,
adibita a Museo e sede del “Centro di Educazione Ambientale” dedicato al Parco Regionale del Delta
del Po e alla Riserva Naturale di Alfonsine, a circa 5 km dal centro città in direzione Comacchio
(lungo la SS.15), s’incontra il Santuario della Madonna del Bosco, meta di numerosi pellegrinaggi.
La zona era anticamente ricoperta da una fitta boscaglia, in cui la tradizione vuole si ripetessero
frequenti miracoli. All’interno è custodita una sacra immagine in ceramica della Vergine del XVI
secolo e più di 46 tavole votive del XVIII e XIX secolo.
Per concludere, il 25 aprile di ogni annno la manifestazione “Nel Senio della Memoria” propone
una passeggiata a piedi o in bicicletta lungo l’argine del fiume tra storie, incursioni teatrali e musica,
per non dimenticare.
7.1 MUSEO DELLA BATTAGLIA DEL SENIO
Fondato nel 1981 dal Comune di Alfonsine, dalla Provincia di Ravenna e della Regione EmiliaRomagna, con il contributo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, conserva
materiali che documentano il terribile periodo del secondo conflitto mondiale nel territorio
romagnolo ed in particolare lungo la cosiddetta “Linea Gotica”.
Le principali raccolte ci parlano, per oggetti, del rapporto fisico tra la popolazione e gli eventi
bellici. La sosta del fronte bellico per 4 mesi nell’inverno 1944-45 provocò la distruzione di
numerosi abitati ed ingenti danni al territorio. La rappresentazione di tutto ciò passa
evidentemente attraverso le principali fonti iconografiche: le fotografie prodotte dagli eserciti, i
filmati, le registrazioni sonore dell’epoca, i materiali di propaganda, le cartine... Sono inoltre
presenti tracce di storia alimentare, sanitaria e tecnologica per documentare quanto sia stato
rilevante quel periodo anche dal punto di vista della civilizzazione. In questo senso vanno
considerati il Ponte Bailey, visitabile nel cortile esterno del Museo, per documentare il
fondamentale rapporto tra guerra e territorio, gli strumenti per lo sminamento o gli speciali mezzi
anfibi, oltre ai geniali riciclaggi visibili in questi paesi.
All’interno del Museo sono previsti 2 percorsi tematici relativi al passaggio degli Eserciti Alleati ed
alla Resistenza romagnola, oltre ad un’aula attrezzata per le presentazioni audiovisive e didattiche.
Le principali collezioni presenti riguardano gli armamenti e le uniformi, le bandiere, gli oggetti più
caratteristici che da militari furono riconvertiti per usi civili, nell’indegenza totale che la guerra
aveva prodotto in queste zone.
7.2 ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA IN
RAVENNA E PROVINCIA.
Nato nel 1961 per volere di 12 soci fondatori che avevano avuto un ruolo importante nella
Resistenza tra cui Arrigo Boldrini e Benigno Zaccagnini, è ora retto e ospitato nel comune di
Alfonsine dove è stato trasferito nel 1997, con il suo archivio ricco di oltre 120.000 documenti, 470
periodici ed una biblioteca storica con oltre 5.000 volumi.
L’istituto riconosce come bene culturale collettivo da tutelare e da promuevere, all’interno della
storia generale del Novecento italiano, la memoria ed il patrimonio storico, morale e civile, espresso
dalla società ravennate con la lotta al fascismo, il movimento di liberazione, il contributo fornito alla
fondazione della Repubblica italiana e le profonde trasformazioni sociali e civili avviate in questo
territorio dal dopoguerra ai giorni nostri.
In sostanza, l’Istituto raccoglie, conserva e rende accessibile al pubblico ogni genere di
documentazione riguardante i propri obiettivi, promuove iniziative scientifiche, momenti di studio
e riflessione, indagini e pubblicazioni, e inoltre propone di intervenire a sostegno della didattica
della storia contemporanea.
7.3 IL FONTANONE O MONUMENTO DELLA PIGNA.
L’unico monumento degno di questo nome ad Alfonsine era “e monumént dla pègna”, conosciuto
anche come “e funtanòn”: dalla bocca delle sue tre misteriose maschere scorreva acqua fresca di
una falda superficiale che nel giro di 30 anni si esaurì. Inaugurato nel 1874, nel giro di poco tempo
quasi nessuno lo volle più, vista l’inutilità. Così è stato smontato, spostato e rimontato in vari punti
del paese, oltre che cancellato dalle cartoline: un monumento senza radici, senza territorio,
disambientato e nomade, per questo è simpatico a molti.
Oggi, salvatosi dalle distruzioni belliche, è ritornato al punto di partenza: al centro dei giardini di
Piazza Monti, con la sua metaforica forma fallica e una grossa pigna sulla vetta, augurio di
benessere e felicità.
Nel 2009 è stato possibile un suo restauro. Pulito dal degrado dovuto a muffe e microrganismi vari
che ne avevano colonizzato il marmo travertino, rendendolo da bianco che era a grigio-nero, è
tornato all’antico splendore.
7.4 CHIESA DI SANTA MARIA E CHIESA DEL SACRO CUORE.
La chiesa di Santa Maria a inizio febbraio 1945 cadde minata da 30 bombe di mezzo quintale l’una,
appostate lungo la navata e le colonne da Alfonsinesi costretti dai Tedeschi. Poi toccò alla canonica
(già danneggiata dai bombardamenti), all’asilo e via via tutto il resto, specialmente corso Garibaldi.
Con la scelta di sviluppare il nuovo centro di Alfonsine alla sinistra del Senio, l’arciprete Don
Liverani decise di trasferire la chiesa nel paese nuovo, dove iniziò la costruzione della nuova chiesa
parrocchiale di Santa Maria, mentre nel paese vecchio sarebbe sorta la nuova chiesa parrocchiale
del Sacro Cuore, proprio sulle macerie della vecchia chiesa distrutta.
7.5 SANTUARIO DELLA MADONNA DEL BOSCO.
All’ origine del culto vi è un tremendo quanto comune incidente che risale al 1714: alcuni braccianti
di Alfonsine stavano abbattendo degli alberi in una tenuta dei marchesi Spreti, detta “la Raspona” in
quanto precedentemente di proprietà dei nobili Rasponi, quando all’improvviso un grosso ramo,
cadendo, uccise un operaio chiamato Domenico Pochintesta.
Il fattore dei marchesi Spreti, Matteo Camerani, che sorvegliava i lavori di abbattimento del bosco e
che fu testimone della disgrazia, volle seguire l’usanza, diffusa in Romagna a quei tempi, di porre
un‘immagine sacra sul luogo dove era avvenuto un delitto o un incidente mortale per ricordare il
fatto e invitare i passanti alla preghiera.
Scelse una vecchia raffigurazione che teneva da tanti anni sopra il letto, e alla quale insieme alla
moglie era legato da una particolare devozione.
L’immagine, di manifattura ignota e datata anteriormente al 1714, era contenuta in “un quadretto
di maiolica in bassorilievo con doppia cornice ottagonale; la Vergine vi era figurata seduta col
Bambino in braccio, appena coperto da una benda a’ lombi, e la madre con manto arabescato a fiori
e coronata siccome il bambino”. Così si legge nelle “Notizie Historiche della Beata Vergine del
Bosco” di G.F. Rambelli.
Il Camerani pose l’immagine non sopra l’albero da dove era caduto il ramo, giudicato troppo
pericolante e instabile, ma sopra un albero attiguo.
La zona era molto frequentata, essendo un punto di passaggio soprattutto per molte donne e
fanciulle che si recavano a far legna al bosco. Molti erano anche i viandanti che volevano andare
oltre il fiume Po, costretti a fermarsi in attesa di traghettare. Lì, infatti, c’era una barca per il
traghetto (“il Passetto”, che così si chiamava allora, è il nome che ancora oggi caratterizza la zona).
Capitava quindi che in molti si fermavano a recitare rosari o brevi preghiere.
Fu così che accaddero i primi prodigi, la cui fama si diffuse rapidamente.
Il 14 giugno 1715 il Camerani decise di trasportare l’immagine sull’albero vicino, dove era stato
colpito il “Pochintesta”. Non gliel’aveva messo subito perché quell’albero era quasi tagliato
totalmente alle radici e sarebbe potuto cadere. Aveva anche poche foglie, ma era ancora in piedi,
anche se lo si giudicava prossimo a seccarsi. Non appena vi fu collocata la targa, l’albero si coprì di
fronde e foglie, mentre l’altro albero che aveva sostenuto l’immagine fu spogliato da foglie e rami
dai fedeli, il tronco fu consumato scheggia a scheggia poiché tutte le sue parti erano considerate
come delle reliquie.
Sopra l’immagine posta sul nuovo albero fu fatta una capannina di stuoie per far scolare l’acqua
piovana. Sotto fu posta una semplice tavola di legno con alcune candele accese; davanti fu appeso
un lanternino che ardeva continuamente, mentre ai lati furono poste due spalliere che
raccoglievano i vari ex-voto.
Nel 1718 iniziarono i lavori di costruzione di un elegante tempio ottagonale, lontano circa un
quarto di miglio dall’albero su cui era fissa l’immagine. Il 21 novembre 1720 quando la chiesa era
quasi completata, con grande partecipazione di popolo e pompa solenne, Mons. Camillo Spreti,
vescovo di Cervia (avuta licenza dal Card. Piazza, vescovo di Faenza) benedì la nuova chiesa,
intitolandola a “Maria Vergine della Neve”; quindi fu levata la sacra immagine dall’albero,
trasportata in processione e collocata sull’unico altare del tempietto. Nel 1721 la chiesa fu
completata sia all’esterno che all’interno e più tardi, nel 1748 fu innalzato il campanile annesso
all’abitazione dei cappellani, già costruita con la chiesa.
Nel luogo originario dell’immagine fu eretto un pilastro, che si può vedere tuttora lungo la via
Raspona, nel quale era incisa nel marmo la seguente epigrafe in latino: “Fermati o viandante e
guarda al luogo ove in un primo tempo la B. Vergine detta del Bosco ebbe splendore di miracoli poi
andrai a venerarla nel tempio non lontano dove fu trasferita con solenne fasto e più solenne
manifestazione il 21 novembre anno 1720”.
La chiesa fu costruita nel punto strategico di passaggio al di là del Po di Primaro. Qui il fiume prima
del 1780 deviava bruscamente a sinistra (oggi resta traccia dell’antico fiume nella strada che va fino
ad Anita, dopo l’osteria del ponte). Lì c’era il cosiddetto “Passo” col traghetto di barche che metteva
in comunicazione Longastrino e Filo con Alfonsine e Ravenna (da qui il nome della località detta
“Passetto”). C’era dunque un flusso importante di gente e proprio per questo il tempietto venne
costruito vicino alla strada e al passo. La gente quindi veniva indotta a sostare in preghiera. Da
Passetto la località, il tempietto fu chiamato “Madonna del Passetto” e poi “Madonna del Bosco”. In
quel periodo il successo del santuario raggiunse l’apice.
Nel 1796, tuttavia, i Francesi di Napoleone fecero irruzione in tutte le città della Romagna;
depredarono anche la chiesa della Madonna del Bosco portando via tutta l’argenteria.
Dopo il 1830, iniziò un periodo di affievolimento del culto.
A ciò contribuì senza dubbio il fatto che:
i cappellani abbandonarono la residenza presso il santuario a causa della grande umidità che
devastò i muri dell’abitazione e delle chiesa e per le malsane condizioni igieniche del luogo;
la famiglia Spreti, proprietaria dell’oratorio, era in decadenza;
si cominciò a respirare un diverso clima culturale, dovuto al diffondersi delle nuove ideologie
anarchiche e socialiste, che portò anche a un certo calo della devozione;
l’eliminazione del Passo: nel 1895 questo fu sostituito da un ponte in un primo tempo di legno,
fino al suo crollo nel 1924, dopodichè fu costruito in cemento a tre arcate nel 1928 e distrutto nel
1944, col passaggio del fronte. Il ponte non induceva più alla sosta, ma invitava ad andare oltre nel
cammino.
L’edificio fu lasciato in uno stato di quasi totale abbandono per un secolo; in certi periodi non vi si
celebrava la messa nemmeno la domenica e il tempietto stesso subì un tale degrado che alla fine del
XIX secolo era ridotto in uno stato non confacente ad un dignitoso svolgimento delle cerimonie
liturgiche. È in questo periodo che si verificano gravi episodi di distruzione e dispersione del
patrimonio votivo.
La questione era se restaurare o ricostruire ex-novo la chiesa. Si decise di cavalcare la seconda
ipotesi, approfittando del fatto che il Genio Civile stava facendo lavori di innalzamento degli argini
del Po di Primaro, e anche di un loro allargamento. Essendo la chiesa a ridosso dell’argine, se ne era
progettata la demolizione, prevedendo un indennizzo in denaro. Con quei soldi e le offerte dei fedeli
si sarebbe potuto pensare di costruire la nuova chiesa.
Nel maggio 1917, in piena guerra mondiale, gli Alfonsinesi si impegnarono a costruire il nuovo
tempio, implorando il dono della pace. Per studiare e realizzare il progetto, fu costituito un comitato
cittadino di 6 preti e 11 laici, con a capo don Primo Mazzotti (il cappellano del santuario). Nelle
intenzioni del comitato, il nuovo edificio avrebbe dovuto essere terminato ed inaugurato in
occasione del secondo centenario del santuario nel 1920, ma poiché il contributo governativo era
incerto, si decise di sospendere temporaneamente il progetto, per dedicarsi alla preparazione della
festa.
Passata la ricorrenza del bicentenario del 1920, si riprese non solo a pensare alla nuova chiesa, ma
anche alla possibilità di costituirla come parrocchia. Nel 1926 il santuario della Madonna del Bosco
diventò finalmente parrocchia, mentre l’inizio dei lavori, su progetto dell’architetto Gallamini,
risale al 1928 con la demolizione della vecchia chiesa.
L’immagine della Madonna, intanto, era stata trasferita nella chiesa dell’ospedale di Alfonsine e
successivamente nella chiesa arcipretale (Santa Maria).
Appena un anno dopo, nel 1929, venivano completati i lavori, e la si inaugurava solennemente con il
trasporto della sacra immagine nella nuova chiesa.
La chiesa fu totalmente arredata nel 1944, giusto in tempo per essere distrutta. Nell’estate 1944 in
piena guerra mondiale, il fronte si avvicinava, seminando distruzione, morte e terrore.
Il 22 settembre, dopo vari tentativi, alcuni aerei inglesi distrussero il ponte sul Reno. La mattina del
30 settembre alcune bombe inglesi caddero nei dintorni della chiesa, per cui il parroco portò
l’immagine ad Alfonsine, nascondendola in un rifugio scavato sotto il pavimento in legno dello
studio dell’arciprete; a seguito del crollo della canonica, la targa subì alcune fratture, visibili tuttora.
Il 18 ottobre, a quindici anni dall’inaugurazione, la chiesa rimase colpita nelle parte destra da
bombe di aerei inglesi, il resto fu compiuto dall’artiglieria tedesca che, nel mese di novembre, quasi
ogni giorno, la fece bersaglio dei suoi tiri, colpendola con una cinquantina di granate e con bombe a
mano. Alla fine di novembre della chiesa non rimase che un mucchio di macerie, mentre il
campanile, sebbene malconcio, era ancora in piedi. Temendo forse che potesse servire agli Inglesi
come punto di riferimento, i Tedeschi lo fecero crollare, minandolo alla base: è il 21 dicembre. Il
fronte di guerra sosta in questa zona dagli inizi del dicembre 1944 fino al 10 aprile 1945, quando
Alfonsine verrà liberata.
Finita la guerra, Don Calgarini si decise subito ad affrontare il problema della chiesa distrutta,
seppur consapevole che il clima religioso e sociale di Alfonsine fosse molto cambiato: la gente in
gran parte manifestava un atteggiamento più freddo se non addirittura ostile verso la chiesa.
Nell’aprile 1946 fu dato l’avvio al lungo iter per l’approvazione del progetto di ricostruzione
dell’edificio e del relativo finanziamento per i danni di guerra da parte dello Stato.
L’opera di Calgarini fu continuata dal successore don Quinto Bisi. I lavori cominciarono il 21 agosto
1951 ed il 4 maggio 1952 la chiesa fu solennemente inaugurata e consacrata dal vescovo di Faenza,
Mons. Giuseppe Battaglia. Il nuovo santuario era stato ricostruito esattamente sul progetto di
Gallamini ed era dunque praticamente identico all’edificio precedente.
8. DOPO. LE UCCISIONI DEL DOPOGUERRA.
La resistenza fu anche una dura guerra civile, perché spietato e crudele fu il fascismo, specie nel
primo e nell’ultimo dei suoi stadi. Come ogni guerra civile che si conosca, non poteva spegnere a
comando, con lo scatto di un interruttore, tutte le tensioni, i dolori e le rabbie che il fascismo aveva
arrecato con una lunga serie di lacerazioni e di orrori gratuiti. Non è come per la firma di un
armistizio di una guerra fra nazioni, quando i soldati ne hanno abbastanza di sparare contro uomini
che non conoscono e pensano soltanto a tornare a casa. Già la morale di guerra è cosa diversa dalla
morale di pace. Essa fa proprie le regole del contrappasso. Unanime è il giudizio di vendetta che ebbe
la distruzione di Dresda (100.000 morti) ad opera dei bombardieri inglesi a guerra praticamente
finita. Tanto meno storicamente può sorprendere che una guerra totale, senza confini fra militare e
civile con i caratteri di insurrezione popolare, abbia riservato forme di violenza inerziale, trascinando
con sé problemi irrisolti, emozioni che non si scaricano necessariamente di colpo. Tra l’altro il 25
aprile fu una data simbolo, perchè il periodo caldo del trapasso non durò pochi giorni. Nella violenza
della guerra civile c’è una vischiosità che và oltre i termini stabiliti e che mette in moto odi, vendette,
rese dei conti.
C’è poi da ricordare che in Emilia-Romagna, dove la terra era lavorata prevalentemente da braccianti
precari o da mezzadri, anche questi ridotti a uno stato di semiprecariato, il fascismo aveva
imperversato sin dal primo dopoguerra con il più feroce squadrismo agrario. Tutto ciò concorse a
creare profondi rancori. Si aggiungano le distruzioni operate dalla guerra e i soprusi compiuti
durante il ventennio. Si è così determinata quell’atmosfera di odi e di violenza che spiega, se non
giustifica, i criminosi atti di reazione verificatisi dalla data della liberazione in poi.
Sicuramente il fenomeno verificatosi a liberazione avvenuta dell’uccisione di alcuni fascisti
responsabili di efferatezze, non fu il frutto di piani da parte di qualsiasi forza politica, ma di
esplosioni più o meno collettive di collera e di risentimento, a lungo soffocate, per le violenze e le
sofferenze dopo la lunga notte di terrore.
Furono episodi che probabilmente si sarebbero evitati se la liberazione fosse stata accompagnata da
un rinnovamento degli apparati dello Stato, compresa una magistratura adeguata alle attese di
giustizia. Il comportamento della magistratura, improntato alla precedente legislazione penale e con
un personale formatosi durante il ventennio, aveva alimentato delusione e rabbia per una giustizia
che non si faceva. Pertanto quegli atti di spontanea ed elementare giustizia popolare, che si sarebbe
dovuto prevenire, ma che trovavano ampi riscontri in forme analoghe nei paesi europei occupati dai
nazisti, apparvero l’inevitabile completamento, anche se non previsto e non desiderato in quella
forma, di un ciclo storico iniziato dal fascismo.
L’11 giugno 1952 il ministro dell’interno Scelba sostenne che il numero dei fascisti morti o
scomparsi in Italia dopo la liberazione era di 1.732 e forse meno. Scelba non spiegò come era stata
calcolata quella cifra, né rese noti tali elenchi dei morti, come sarebbe stato suo dovere per stroncare le
speculazioni neofasciste che, in quegli anni, riproponevano con insistenza cifre enormemente
gonfiate dei fascisti uccisi in Italia. Tanto più che il 4 novembre 1946 il capo della polizia in un suo
rapporto al ministero dell’interno, retto dallo stesso primo ministro De Gasperi, aveva indicato in
8.197 il numero dei fascisti uccisi, mentre per altri 1.167 la soppressione era presumibile. Tali dati
furono confermati in un secondo rapporto del 2 luglio 1948.
Se si confrontano tali dati con quelli delle altre nazioni europee, che pur non sopportarono il peso di
un ventennio di dittatura e che registrarono solo il fenomeno del collaborazionismo verso i nazisti,
l’Italia risulta il paese più indulgente a riguardo. In Francia, per esempio, i collaborazionisti arrestati
furono 1.000.000, dalle 30 alle 40.000 le esecuzioni sommarie, secondo alcuni saggisti; 4.783 le
condanne a morte emesse da tribunali regolari, quasi 1000 le eseguite; 120.000 le condanne minori e
per 70.000 collaborazionisti fu decretata l’indegnità nazionale.
Anche ad Alfonsine ci furono degli strascichi brutali. Quello che il fascimo aveva provocato suscitò,
per alcuni mesi, una reazione che sembrava irrefrenabile.
Ci fu una vera e propria caccia al fascista ed il CLN ed i partiti politici ricostituiti, non riuscivano a
contenere la rabbia dei molti, alcuni dei quali si abbandonarono ad atti di crudeltà inaccettabili, come
del resto è inaccettabile la guerra che li ha provocati.
La guerra ad Alfonsine finiva con questi numeri:
Morti e feriti fra i civili: oltre 300
Partigiani combattenti: circa 450
Partigiani morti (in battaglia e successivamente per fatti di guerra): 49, feriti: 19
Morti fascisti della RSI, GNR e X MAS: 43
Fascisti civili uccisi in agguati durante la guerra: 10
Fascisti ed altre persone uccise o scomparse dopo la guerra: 25
Con la fine della guerra, come già detto, gli Alfonsinesi ricostruirono il paese, ridiedero vita alle
attività commerciali e industriali riscattandosi dalla miseria.
Per di più, dimostrarono uno spirito democratico e partecipativo: al Referendum del 1946 fra
Repubblica e Monarchia, Alfonsine ebbe, a livello nazionale, la massima percentuale di affluenza
alle urne, ma fu quella che, sempre percentualmente, più di ogni altro comune d’Italia si espresse a
favore della Repubblica (96,63%). Il resto è storia recente e saranno i posteri a documentarla.
BIBLIOGRAFIA
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Fascismo, Alfonsine, La voce del Senio, 2005, pp. 126.
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www.emiliaromagnaturismo.it
www.istorico.ra.it
www.dev.racine.ra.it
IMMAGINI
LINEA GOTICA
FRONTE (NOV. ’44 – DIC. ’45)
LANCIAFIAMME SUL SENIO
CARRO SHERMANN SU PONTE BAILEY E AD ALFONSINE
ALLEATI SU ARGINI DEL SENIO FOTO AEREA ALFONSINE 1944
FOTO AEREA ALFONSINE DISTRUTTA.
PIAZZA MONTI (1938).
FOTO AEREA PIAZZA MONTI DISTRUTTA.
PIAZZA MONTI APRILE 1945.
PIAZZA MONTI APRILE 1945.
PIAZZA MONTI (1960).
ALFONSINE. INGRESSO GRUPPO CREMONA (10/04/45).
CROLLO CHIESA DI SANTA MARIA.
FOTO PIÙ ANTICA MAD. BOSCO.
CHIESA DI SANTA MARIA E CANONICA.
NUOVA SANTA MARIA.
MAD. BOSCO 1929
CHIESA SACRO CUORE.
MADONNA DEL BOSCO OGGI.
IMMAGINE VENERATA
CROLLO PONTE DI LEGNO MAD. BOSCO
CIPPO MADONNA BOSCO
CIPPO PARTIGIANI
PONTE SUCCESSIVO.
LAPIDI PIAZZA GRAMSCI (COMUNE)
CIPPO DI PEO BERTONI
MONUMENTO RESISTENZA P. GRAMSCI
CASA NATALE MONTI
MONUMENTO DELLA PIGNA
ELMO RIADATTATO A SCALDAVIVANDE
MUSEO DELLA BATTAGLIA DEL SENIO (PONTE BAILEY)