le prospettive di sviluppo per la persona con
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le prospettive di sviluppo per la persona con
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA PERSONA CON DISABILITÀ VISIVA OGGI 04-05-2012 DOCENTE: LORENZA VETTOR E-MAIL: [email protected] 1 Premessa Dire quali sono “Le prospettive di sviluppo della persona non vedente oggi” non è argomento che si può trattare in poche righe… Queste pagine vogliono perciò essere solo una raccolta di scritti e testimonianze che spero possano essere utili a chi, normovedente, voglia approcciarsi al mondo della disabilità visiva. Come tali, esse non vogliono avere alcun valore scientifico, ma costituire, appunto, semplicemente riflessioni, considerazioni, stralci di vita quotidiana…Per questo, sono state tratte dal web – ma avendo ben presenti i contenuti e gli autori degli scritti – o da liste di discussione a cui partecipano persone minorate della vista. Il lettore quindi non troverà disquisizioni teoriche, bensì pagine di vita vissuta… 2 PARTE 1. – LE PERSONE NON VEDENTI IERI… da Il Piccolo Principe. (di Saint-Exupéry) ..."ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi." "L'essenziale e' invisibile agli occhi", ripeté il piccolo principe, per ricordarselo... 3 Parte 1. – Le persone non vedenti ieri… Prima di vedere chi sono i ciechi oggi, chiediamoci chi erano un tempo… Fino al secondo dopoguerra,1 le professioni che essi svolgevano erano perlopiù di tipo artigianale e manuale:2 impagliatori di sedie, ma anche fisioterapisti, musicisti (fra essi primeggiavano gli organisti, molto ricercati per essere chiamati ad esibirsi nelle cerimonie come i matrimoni), accordatori di strumenti musicali (pianoforte in primo luogo), venditori di giornali, frutta e verdura, articoli di cancelleria, biglietti della lotteria…3 Vennero poi i centralinisti telefonici e gli insegnanti… Ecco qui di seguito due vive testimonianze di come era la condizione del cieco nella prima metà del secolo scorso… Uno come tutti gli altri. Di Giuseppe Biasco4 Avevo appena 18 anni nel 1967, da poco avevo superato gli esami di maturità e mi ero iscritto alla Università. Abitavo in una bella palazzina, che si trovava alla fine di una strada silenziosa, che, girava attorno alla stazione della Funicolare che da Montesanto saliva sino a San Martino. 1 Fondamentale fu nel corso della seconda guerra mondiale il ruolo che ebbero molti aerofonisti ciechi, che – come ricorda Mario Censabella (in “Camminare insieme”, UICI Milano, 1994) - “avevano fatto parlare di sé nel corso della seconda guerra per i loro atti di eroismo e di civismo, alcuni sono stati feriti, qualcuno è anche morto: nella storia del mondo sono stati gli unici ciechi a essere militari”. Sul punto, rinvio a: Cobolli Giorgio, “Gli aerofonisti ciechi”, Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Roma, 1993. 2 Ma diffusa ancora a quei tempi era la mendicità, come vedremo fra poco. Al riguardo, rimando alla testimonianza di Emanuela Nava, contenuta nella Parte 3. 4 Questo contributo è tratto da una lista di discussione a cui molte persone non vedenti sono iscritte. Lo strumento della mailing list è assai usato dai disabili visivi poiché consente la discussione e lo scambio di informazioni in modo semplice ed immediato: con l’avvento delle nuove tecnologie e grazie agli strumenti specifici (c.d. tecnologie assistivocompensative), non è poi così difficile navigare in internet, usare la posta elettronica, redigere testi, servirsi dei dispositivi quali tablet o smartphone. 3 4 Via Annibale Caccavello, nell'ultima parte del suo percorso breve, seguiva il grande muro dietro al quale erano celati i prati che delimitavano il fossato del castello di Sant'Elmo, uno dei più importanti esempi di architettura militare del Meridione. Mi piaceva salire e poi scendere per quella strada tranquilla, dove il profumo dei giardini e l'odore di terra mi faceva sentire quasi in campagna. Avevo l'abitudine di uscire quasi ogni giorno, a metà pomeriggio per rompere la stanchezza dello studio, per rinfrescare la mente e per far riposare gli occhi, che, allora, erano già un grave problema. Mi piaceva attraversare Via Tito Angelini, lasciandomi alle spalle la bella stazione della funicolare, costruita nel 1891. Lo spazio che si apriva dall'altro lato della strada, dove si trovava un giornalaio, un fruttivendolo ed il tabaccaio, che erano dirimpettai di una grande macelleria e di una bella salumeria, portava alle scale che attraversando diritte via Morghen, consentivano ai pedoni di raggiungere facilmente Via Scarlatti e Piazza Vanvitelli. Chiunque avesse avuto buona vista, scendendo i primi scalini poteva godere di una veduta perfetta della linea dritta dei Platani di Via Scarlatti. Le rampe di scale erano due, ed erano interrotte dalla stessa Via Morghen, che nel suo tracciato di curve, interrompeva il percorso degli scalini. In questo modo si formava un secondo grande spiazzo prima della nuova rampa di scale. Correvo per quelle scale, che passavano vicino all'ingresso della Chiesa dei Salesiani, che aveva affianco il cancello che portava al campetto di calcio dell'oratorio. Non c'era volta che, passando non sentissi le grida dei ragazzi che giocavano con il pallone. La meta delle mie veloci scorribande era la libreria L'Incontro in Via Kerbaker, che era particolarmente amata da noi giovani, perché era la prima a Napoli che consentiva di girare tra gli scaffali, tra i banconi dove erano accumulati i libri pubblicati dalle diverse case editrici, dove le ultime uscite editoriali e le novità assolute erano poste in evidenza, consentendo ad ognuno di noi di essere costantemente informato sulle novità letterarie. La vera particolarità di quella libreria era la possibilità di sviluppare un rapporto fisico ravvicinato con i libri. I volumi si potevano toccare, prendere, sfogliare, leggere la quarta di copertina per avere notizie sul testo e sull'autore. Spesso li annusavo, perché ogni libro ha un odore diverso. Ad occhi chiusi, riuscivo, dall'odore a riconoscere la casa editrice. In quella libreria il tempo si fermava, le ore scorrevano veloci, spesso incontravo amici o colleghi di Università, si discuteva di quasi tutto, si consigliavano le letture, ci si metteva d'accordo su i libri da 5 comprare, per poi scambiare successivamente. Erano gli anni delle pubblicazioni delle collane economiche e dei libri tascabili a basso costo. Spesso non compravo nessun libro, i soldi non erano molti in quegli anni ed i libri si prestavano con una disinvoltura oggi impensabile. Prestare un libro è oggi una pratica in disuso, dimenticata. In quegli anni, un libro in prestito era un gesto di fiducia a cui non si doveva venire meno. Una amicizia dipendeva dalla restituzione di un libro prestato. I libri erano condivisi e commentati, spesso letti voracemente di sera tardi, nel silenzio della casa, immersi in un universo piccolo e male illuminato, pieno di parole, emozioni e scoperte. Tanto la discesa per quelle scale era veloce ed allegra, tanto la salita era lenta e segnata sempre da una serie di amare considerazioni che mi accompagnavano fino alla prima curva della strada di casa, dove mi sorprendeva sempre e mi faceva sorridere il forte stormire delle fronde dell'albero che era proprio affianco al muro della stazione della funicolare. C'era sempre vento in quel tratto di strada, non ho mai capito bene per quale particolare motivo ed il risultato era che la superficie asfaltata della strada era sempre piena di foglie cadute in ogni periodo dell'anno. Di fronte all'albero c'era un muro basso, dietro al quale si riparava il cortile di un palazzo molto esclusivo ed elegante. Tutto il vento che sconvolgeva il grande platano, risparmiava quel muro sul quale dimorava in permanenza una colonia di grossi gatti che prendevano il sole ed aspettavano la notte per mettere in atto scorribande rumorose, scontri feroci e battaglie amorose sottolineate da insopportabili e lamentosi richiami. Le considerazioni amare che mi accompagnavano fino a quella curva erano dovute a Pasquale il cieco, che sostava sul primo ballatoio della prima rampa di scale, quella che portava all'Oratorio dei Salesiani ed alla bella Chiesa che gli era affianco che era anche la Parrocchia del quartiere. Pasquale era seduto su uno sgabello portatile, con la schiena appoggiata al muro e sulle gambe teneva la sua fisarmonica, che restava ben salda al suo corpo per via di due cinghie di cuoio. La fisarmonica era un bene prezioso, già altre volte avevano tentato di strappargliela dalle mani, per gioco o per cattiveria, per questo era stato costretto a trovare quel rimedio per sentirsi più tranquillo. Una piccola ciotolina di metallo era ai suoi piedi e serviva a raccogliere le monete che i passanti spesso depositavano. "Fate la caeità al povero cieco, gridava pasquale quando avvertiva il passo pesante di chi saliva le scale. Appena sentiva il tintinnare di una moneta nella ciotola , subito la sua voce da lamentosa si faceva squillante ed allegra:"Grazie, il Signore ve lo rende!" Pasquale non usava mai il dialetto 6 quando chiedeva l'elemosina, era il tratto distintivo della sua professionalità, ma anche un modo per dimostrare una sua personale dignità. Un sommesso affermare una buona educazione, che meritava una attenzione da parte del passante, che con una sua offerta premiava una persona per bene seppur indigente sfortunata. Il mestiere di chiedere l'elemosina lo aveva imparato da piccolo, come mi avrebbe raccontato un giorno, insieme alla musica. A Napoli la tradizione dell'accattonaggio era antica ed aveva regole precise e sperimentate. Nei miei continui saliscendi per quelle scale, avevo notato che Pasquale faceva poco caso a chi scendeva, perché la discesa era sicuramente veloce e breve. La salita era lenta e dava il tempo al passante di sentire bene la richiesta del suonatore, di estrarre dalla tasca il borsellino e prendere la moneta che poi sarebbe caduta nella ciotolina. Raramente questa operazione avveniva in discesa. L'esperienza di pasquale era veramente grande a tal proposito. I suoi benefattori abituali erano tutti quelli che, nei giorni feriali, per lavoro o per commissioni salivano verso la Stazione della Funicolare per andare al Centro. Mentre la sera o nei giorni festivi e di precetto, erano i fedeli che si recavano in Chiesa per la Messa quelli più sicuri che gli avrebbero lasciato una elemosina. Questo significava che stava su quelle scale a chiedere la carità per intere giornate, in ogni stagione e fino a tarda sera. Una vita dura, in cui la fisarmonica sembrava un pretesto più che un richiamo. Per ore non faceva altro che accennare qualche accordo sulla tastiera, che non riusciva mai a diventare una melodia, perché doveva ripetere la sua litania, la giaculatoria con la quale riusciva a riempire di piccole monete la ciotolina che stava ai suoi piedi. Spesso però, per nostalgia, per malinconia, per stanchezza, suonava solamente o, molto più di rado, cantava. Il suo repertorio preferito erano le canzoni napoletane del secondo dopoguerra: "Munastero 'e Santa Chiara, Malafemmena, Cerasela, Torero di Carosone". A volte era veramente allegro ed allora cantava: Nanasse, Chella llà, Guaglione, Scapricciatiello e Maruzzella. Ma la canzone che cantava con più trasporto era Lazzarella di Modugno; gli piaceva particolarmente, l'interpretava quasi con sue divagazioni con la fisarmonica e sottolineando con la voce i passaggi più intensi del testo. Quando cantava si disinteressava delle monete che cadevano nella ciotolina. Veniva preso da una smania chhe lo faceva agitare sullo gabellino, il movimento lo aiutava a suonare, per trarre dal mantice dello strumento tutta la forza che gli serviva per sostenere le note più alte,senza perdere ritmo ed armonia. Quando gli prendeva questa foga non si accorgeva più di nulla, la sua voce era ben impostata, molto calda, ma roca per il freddo che prendeva e per le poche sigarette che fumava. La sua musica e la sua voce riempivano quel tratto di strada e le scale. Nessuno si era mai lamentato per quegli improvvisi scoppi di musica, anzi, Don Ciccio il pescivendolo che aveva il negozio 7 proprio all'inizio di Via Scarlatti, famoso per la sua abitudine a dare la "voce" per decantare la bontà e la qualità della sua merce, spesso cantava con lui a squarciagola Pasquale aveva un amico fraterno che in ogni momento era in grado di aiutarlo. Gennarino 'o scartellato, era l'addetto ai gabinetti pubblici che stavano sulla sinistra affianco alle scale, che terminavano sul marciapiede dell'ultimo tratto di Via Morghen. Quando aveva bisogno, Pasquale, raccoglieva il sediolino e seguendo il muro scendeva piano le scale, chiamando a gran voce l'amico. Gennarino lasciava la sua postazione e si affacciava sulle scale controllando la discesa dell'amico, che appena lo raggiungeva, gli lasciava in consegna la sua preziosa fisarmonica e lo sgabello, per entrare in quel posto umido, per via del pavimento costantemente pulito dalla pezza bagnata che, infilata sulla mazza da terra, Gennarino passava in continuazione. Pasquale si confidava con Gennarino, con lui aveva intrecciato un dialogo che non si interrompeva mai. Gennarino era l'ancora di salvezza di Pasquale, da lui si rifuggiava quando la pioggia cominciava a cadere fitta, il suo nome urlava a piena voce,quando i ragazzi impertinenti, gli tiravano i sassolini dall'alto delle scale, a lui si rivolgeva quando la malinconia e la stanchezza lo facevano stare male. Non era felice Pasquale, spesso era triste e ripeteva stancamente la sua richiesta di elemosina, con una monotonia nella voce che risultava straziante. Tutte le mattine, prima delle nove la moglie lo accompagnava al suo posto sulle scale, lo andava a riprendere poco dopo le due del pomeriggio ed immancabilmente alle quattro in punto lo faceva posizionare su quelle scale, per andarlo a riprenderlo definitivamente alla sera, dopo la chiusura dei negozi. D'estate, quando c'era gente per strada fino a tardi, poteva restare sulle scale ben oltre le nove di sera. D'inverno, nelle sere fredde ed umide, la moglie lo andava a prelevare un po' prima, ma in prossimità del Natale non c'era verso che Pasquale potesse tornare a casa prima della chiusura dei negozi. Il povero suonatore faceva questo calvario tutti i giorni della settimana. Solo la Domenica ritornava a casa dopo l'ultima messa, prima del pranzo festivo e non ritornava più sulle scale. Il pomeriggio libero, Pasquale lo dedicava alla sua grande passione, ascoltava le partite del Campionato di Calcio alla radio. Non aveva mai visto una partita di calcio, ma attraverso la voce dei mitici inviati di "Tutto il calcio minuto per minuto", seguiva con passione le vicende del campionato italiano e la squadra del Napoli, di cui era particolarmente tifoso. Il lunedì il calcio sarebbe stato l'argomento principale delle sue lunghe chiacchierate con Gennarino, che gli spiegava come si erano svolti i goal che lui non poteva vedere. Molti passanti abituali che conoscevano da anni Pasquale, quando gli lasciavano gli spiccioli nella ciotolina,lo salutavano chiamandolo per nome. 8 Ad alcuni Pasquale rispondeva chiamandoli per nome, perché da anni si conoscevano. Molti, oltre alla carità lasciavano a Pasquale i vestiti dimessi o oggetti, ancora funzionanti di cui si disfacevano. Pasquale prendeva tutto, una volta vidi accanto a lui una bella lampada da tavolo e mi chiesi chi aveva mai pensato di lasciare ad un cieco un oggetto a lui assolutamente inutile. Anche la mia famiglia, con il passare del tempo prese l'abitudine di partecipare a quella colletta generale che settimanalmente veniva consegnata al povero suonatore. Mia madre in particolare ci teneva molto e spesso mi consegnava le monete da dare a Pasquale, oppure, quando andava a Messa accompagnata da mio padre, lasciava personalmente la sua offerta. Mia madre non parlava mai di elemosina, per Pasquale, ma sempre e solamente di "offerta". Una offerta era una cosa diversa dal gettare, distrattamente, una moneta nella ciotolina. Era un modo per dimostrare una comprensione profonda dello stato di indigenza di pasquale, prodotta dalla cecità. Non vedere era un male che veniva considerato da tutti la peggiore delle menomazioni. Mia madre, come mia nonna, stava perdendo la vista per un male tanto inesorabile quanto inarrestabile. La stessa sorte che sarebbe toccata anche a me, e di cui mia madre se ne fece sempre una colpa. Presi l'abitudine di salutarlo e lui mi riconosceva dalla voce. Un giorno mi chiese:"Come vi chiamate giovanotto?" Preso alla sprovvista da quella richiesta inattesa risposi, un po' imbarazzato, dando il nome che utilizzavano in casa :"Geppino!". "Grazie e buona giornata signor Geppino." Disse Pasquale, che con quell'aggiunta del signore davanti al vezzeggiativo del mio nome, ristabiliva i ruoli e le nostre diverse condizioni. Per anni continuò a chiamarmi Signor Geppino, mentre io, lo apostrofavo immancabilmente con un: "Buon giorno Don Pasquale! I miei sentimenti verso di lui non erano di pietà, ma di affetto. Con il passare del tempo era diventato per me una figura di riferimento, solo dopo molti anni, quando la stessa malattia d mia madre si manifestò in maniera definitiva, mi ricordai di Pasquale e del suo modo di comportarsi. Senza saperlo il suonatore di fisarmonica mi aveva lasciato degli insegnamenti che mi sono stati utili, soprattutto in questi ultimi anni. Innanzi tutto, per il tempo che ebbi modo di frequentarlo non lo sentii mai compiangersi per la sua condizione, ne lamentarsi per la sua malasorte. Pasquale accettava la sua condizione con realismo, che non ci vedesse era un dato di fatto, una situazione alla quale non si poteva rimediare. Pasquale era povero, per vivere doveva chiedere l'elemosina. In quegli anni 60 non c'erano altri modi per andare avanti, la società gli lasciava solo una possibilità; chiedere la carità! Passarono in fretta quegli anni, tra le letture forsennate, gli studi e le speranze di quel periodo bellissimo della nostra gioventù. Sognavamo il cambiamento della società, un mondo in cui tutti 9 avevano gli stessi diritti, mentre una nuova democrazia, avrebbe dovuto garantire a tutti che i doveri assolti erano necessari ed utili alla collettività ed al suo sviluppo. Con il passare del tempo, crescendo, cominciai a pensare che non era giusto che Pasquale dovesse viver una vita in quelle condizioni. Pensavo che pasquale avesse il diritto alla sua dignità. Che dovesse essere trattato come una persona, che i suoi occhi ciechi non dovevano rappresentare un ostacolo alla sua libertà, alla sua realizzazione umana. Il 68 ci raggiunse tutti con la forza di un fiume in piena, gli avvenimenti di quella fine del decennio della speranza furono travolgenti per la nostra società. Anche io fui travolto e coinvolto dai nuovi movimenti studenteschi a cui partecipai con una decisa convinzione. Mi capitò sempre meno di scendere le scale di Via Morghen per andare il libreria. Correvo veloce, in quei mesi densi di avvenimenti, verso la stazione, dove ,i aspettava una collega, con la quale prendevo la funicolare per andare all'Università e passare da un aula all'altra tra lezioni autogestite,assemblee ed interminabili riunioni collettive. Non feci più caso a pasquale, me ne dimenticai, gli avvenimenti della mia vita presero a correre, a quel tempo ogni giorno sembrava essere importante e decisivo e bisognava viverlo il più intensamente possibile. Fu all'inizio del 1971 che una sera, mentre eravamo a tavola, mia madre disse: " Sono mesi che Pasquale non sta più sulle scale! Speriamo che stia bene!" L'immagine del suonatore di fisarmonica mi ritornò di colpo alla mente, e mi sentii in colpa per essermene dimenticato, per aver messo da parte tutte le mie determinazioni giovanili che vedevano al centro della mia azione sociale l'aiuto al solitario e malinconico Pasquale. Quella sera non si parlò d'altro ed ognuno della famiglia raccontò un episodio del proprio rapporto con il suonatore cieco, cercando anche di ricordare l'ultima volta in cui lo avevamo visto. Poi, con il passar del tempo il ricordo di Pasquale il povero suonatore di fisarmonica delle scale di via Morghen sbiadì, restando sepolto nel profondo della mente, inserito, come era in un periodo in cui tutto era sospeso, in cui tutti aspettavano qualcosa che avrebbe dovuto succedere e di cui tutti avevamo inconsapevole bisogno. Fu solo dopo molti anniche lo rincontrai. Fu in una bella Domenica di Giugno del 1983. Come era nostra abitudine, prima di andare a casa di mia madre a San Martino, portavamo le bambine nella 10 Villa Floridiana, dove potevano respirare un intenso profumo di fiori e godere del verde acceso e particolare di quei giardini pieni di piante esotiche e prati erbosi. Spingevo la carrozzina della più piccola che a quel tempo non camminava ancora, mentre la più grande, rincorreva un pallone leggero che ogni tanto il vento faceva rotolare. Mia moglie, camminava al mio fianco ed ogni tanto mi indirizzava per trovare una panchina dove sederci. "Fai attenzione a quei rami!", dissi a mia figlia, che per inseguire il pallone non sui era accorta del rischio di sbatterci contro. Eravamo appena passati davanti ad una panchina dove erano seduti dei signori anziani che sentii una voce che mi salutò in una maniera che non poteva essere fraintesa: "Buon giorno signor Geppino!" Mi girai di scatto, sorpreso e contento al tempo stesso. Quella voce era inconfondibile e tutti i ricordi degli anni passati furono richiamati alla mente con una nitidezza sbalorditiva. "Don Pasquale, da quanto tempo, come state?" Il signore dai capelli bianche, seduto sulla panchina affianco ad una anziana signora, era simile a tutti gli altri anziani che passeggiavano per il parco o che si riposavano all'ombra di un albero. L'unica differenza erano quegli occhi irrimediabilmente chiusi, che stridevano in quel viso sorridente e compiaciuto che non faceva parte dei miei ricordi. Il Don Pasquale che avevo davanti era una persona serena, vestita con gli abiti della festa che si godeva una bella mattinata di sole nella Villa Floridiana. La mia gioia fu grande nel vederlo e mentre mia moglie e le picole stavano sul prato, ebbi modo di scambiare un po' di chiacchiere con quel signore che mi ricordava antiche corse su e giuù per le scale di Via Morghen. Seppi da Pasquale che alla fine del 1970, in virtù della legge che era stata da poco emanata, aveva avuto una pensione che seppure bassa era superiore a tutti i soldi che raccoglieva con le elemosine. Aveva deciso,quindi di non rimanere più per le scale a chiedere la carità. Addirittura, la sua capacità riconosciuta di suonare bene la fisarmonica gli aveva procurato un ulteriore reddito, perché suonava e cantava nelle feste di famiglia, in qualche occasione accompagnava qualche giovane cantante nei matrimoni o nelle feste di quartiere. Si era molto divertito negli anni passati, lo avevano perfino chiamato in una Festa dell'Unità a Ponticelli dove aveva riscosso un bel successo personale. Ma adesso non suonava più, da un anno e mezzo aveva avuto l'indennità di accompagnamento che gli assicurava una tranquillità personale ed economica che lui non avrebbe mai sperato nella sua vita. "Adesso sono come tutti gli altri" disse senza nascondere una punta di sincera soddisfazione. 11 "Ho preso perfino un taxi una volta che dovevo correre da mia moglie in ospedale, che si era sentita male per i calcoli." Mi disse Pasquale, con la stessa enfasi di chi raccontava un viaggio avventuroso in paesi lontani. Gli raccontai di me, del lavoro, di mia moglie e delle due bambine e lui fu particolarmente contento. Si informò di mia madre e saputala in buona salute mi pregò di portargli i suoi saluti. Ci lasciammo con un abbraccio che nascose un po' di commozione. Salendo per Via Caccavello ero silenzioso e vedendo una ennesima generazione di gatti che prendevano il sole sul muretto di fronte al grande platano, mi misi a ridere pensando che certe cose restano sempre uguali, ma la condizione delle persone dipende dalla loro capacità di cambiare le cose che non vanno. I grandi cambiamenti che dal 68 in poi avevano interessato il nostro paese erano stati complessi e contraddittori, ma molte cose erano cambiate. Il suonatore cieco che chiedeva la carità era stato trasformato in un signore per bene che prendeva il sole nel parco. "Uno come tutti gli altri" così aveva detto Don Pasquale e questa affermazione mi riempiva di speranza. Quando raccontai l'incontro a mia madre, si commosse per la bella notizia inaspettata, che gli avevo dato. Fu una domenica memorabile quella, coronata anche dalla vittoria del Napoli. Pensai a Don Pasquale incollato alla radio a gioire per la sua squadra vincente. Nessun cieco dimora ormai disperato sulle scale di Via Morghen e persino i vecchi gabinetti sono stati sostituiti da una moderna e luccicante scala mobile. La mia certezza e che per quelle scale non ci sarà mai più un povero cieco a chiedere l'elemosina e questo mi sembra proprio una cosa bella, a condizione che nessuno dimentichi Don Pasquale e le sue sofferenze. Abbaiare alla luna Di Mario Censabella Riavvolgendo la ruota della vita attraverso le lame che filtrano la memoria e i sentimenti mi vien fatto di rievocare fatti e personaggi di un tempo che non è più che pur sempre sono andati a 12 comporre una Unione Italiana Ciechi5 le cui trame, i cui tessuti hanno costituito il canovaccio della attuale generazione di non vedenti. Non scrivo della scapigliatura, dei tempi nei quali Igino Ugo Tarchetti raccontava di ciechi che nelle osterie attendevano il compagno per accattonare per chiese cantoni e mercati; scrivo di dopo, di quando gli aerofonisti ciechi avevano fatto parlare di sé nel corso della seconda guerra per i loro atti di eroismo e di civismo, alcuni sono stati feriti, qualcuno è anche morto: nella storia del mondo sono stati gli unici ciechi a essere militari. Scrivo di dopo gli anni 40 quando, grazie a una nuova consapevolezza, a una nuova cultura, a un modo quasi moderno di interpretare i costumi e le capacità intrinseche di ciascuno i non vedenti sono apparsi come categoria per alcune loro caratteristiche e specializzazioni. Vi erano in quei tempi numerosi massaggiatori che con la loro attività iniziavano a farsi apprezzare per le loro qualità terapeutiche, primo fra tutti il dott. Onorino Arnoldi che, medico, dopo aver perduto la vista aveva costituito una scuola per massaggiatori presso l’ospedale Maggiore di Niguarda; scrivo degli accordatori, vi erano dei famosi concertisti che esigevano che il pianoforte a coda fosse sistemato soltanto da un non vedente; primo fra tutti Clelio Pozzoli il maestro, e poi ancora Paolino Confalonieri che accordava sorseggiando di tanto in tanto boccate di vino da una bottiglia che portava sempre con sé, quando il lavoro era compiuto e la bottiglia era ormai vuota, soffiandovi dentro soleva dire: “s’èmm arivà al sibemol”. Un tempo si credeva che tutti i ciechi fossero… musicisti; io stesso poco più che ragazzo mi sentivo rivolgere la parola con l’appellativo maestro! Molti anziani milanesi si ricorderanno della “meridiana” della “fiorentina” e di altri locali dove il liscio ambrosiano imperversava con i nostri, Vittorio Pinotti autore di centinaia di canzoni anche in vernacolo, Carluccio Berlusconi, Cleto Venturati, Pierino Porta, Teresio Callegari sempre in coppia con Gianni Sali erano di casa al “trentasei”, Enzo Crosti, era specializzato nel predisporre le musiche per gli organetti di barberia e altri ancora. In quel periodo sono nate con i nostri amici musicisti appassionate storie d’amore ammantate da veli di discrezione: una sorta di café chantant, balli in paillettes con luci soffuse e coppe di champagne. 5 Oggi UICI (Unione italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), la maggiore associazione di categoria. 13 Accadeva che qualche nostro protagonista, conclusa la stagione in uno dei tanti hotel di lusso del lago Maggiore venisse catturato da qualche “matura” turista straniera ricca anche di …passioni: dopo due o tre mesi, ciascuno, sazio delle proprie sfrenatezze tornava alle antiche consuetudini. Di quei tempi, di quei musicisti tutt’ora vivente è Carlo Vaghi ricco di vividi ricordi e di storie romantiche ancora ammantate di misteri. Quando le scuole speciali erano ancora nel loro pieno fulgore l’Istituto dei Ciechi di Milano ospitava fino a 300 allievi - maschi e femmine - quasi tutti a convitto; fra le tante insegnanti della scuola elementare desidero ricordare due figure mitiche: Clelia De Gaudenzi presente a Genova il 26 ottobre 1920 giorno in cui è stata fondata l’Unione6 ed Eugenia Corno antesignana animatrice di movimenti femminili della prima ora. Mi raccontavano di aver frequentato la scuola pubblica - i moti del 1970 non avevano inventato nulla - e di avere studiato su libri di testo le cui lettere erano in rilievo; il sistema braille non era ancora in quei tempi abbastanza diffuso. No, non ho dimenticato, vi era in quei tempi presso l’Istituto anche la scuola di avviamento professionale, ma, vi sono ancora dei viventi vittime e tiranni, se continuassi diventerebbe una soap opera …rimandiamo di qualche lustro. Questa mia piccola storia potrebbe nascere ancora da più lontano, da quando l’Istituto era per le vicende belliche sfollato a Caravate presso i benevoli e comprensivi Padri Passionisti, ma questo è ancora un altro discorso. L’Italia non era ancora uscita dalla povertà della guerra, i ciechi non avevano neppure un minimo di pensione, il Comune di Milano assegnava loro licenze per la rivendita di giornali e per ambulanti: fra questi conosciutissimo era Armando Papa in corso Garibaldi, Pasquale Pasculli venditore di limoni immortalato anche da un quadro di un famoso pittore. Qua e là i non vedenti si ingegnavano vendendo anche porta a porta ogni sorta di articolo, cancelleria, in piazza del Duomo le lamette da barba Solingen e i biglietti delle lotterie nazionali che ancora oggi rappresenta un’attività non ancora scomparsa. Romano Moioli era considerato il… Presidente di tutti gli organisti ciechi: riusciva con i non vedenti, allora i musicisti erano numerosi, a coprire tutte le funzioni religiose – novene, matrimoni, battesimi, funerali in accordo con i parroci che erano ben contenti dei non vedenti che tutto sommato non costavano molto. 6 S’intende sempre l’UICI. 14 Presso l’Istituto dei Ciechi vi era una scuola musicale apprezzatissima, vi erano docenti e concertisti i cui nomi ancora oggi sono nella memoria e nella storia della nostra città e non solo. Intorno a quegli insegnanti e concertisti si era creata quasi una venerazione, si dice che abbiano avuto molto successo con le donne, qualcuno sostiene anche con Alba De Cespedes. All’Istituto vi era anche una scuola presso la quale i ciechi in apparenza meno dotati o che ancora non avevano scoperto quale fosse la loro vera attitudine imparavano lavori manuali; figura importante, “maestro e dommo” Pietro Bianchi, tutti per lui avevano quasi una venerazione, ha insegnato a intere generazioni di ciechi; era chiamato familiarmente “uete” per il fatto che soleva rivolgersi ai propri allievi con un “uè te”. Circolava allora a Milano, fra i tanti un non vedente Natale Berzeroli, musicista, persona dabbene che avendo la moglie impegnata per l’intera giornata, mi pare che fosse ostetrica, era costretto ad accudire il figlio; si definiva “massaio” in quanto impegnato in tutti i lavori domestici. Per garantire l’incolumità del figlio con il quale si accompagnava un poco ovunque si avvaleva per attraversare le strade di un fischietto da vigile urbano: era come se il Mar Rosso si aprisse, loro passavano indenni. La guerra nel frattempo era finita e così il fascismo; i comunisti, i rossi potevano manifestarsi senza alcun timore: mi faceva molta impressione partecipare in quei tempi a funerali civili di ciechi militanti; si partiva normalmente dall’abitazione del defunto, il defilare del carro funebre, degli amici ed estimatori si concludeva in una piazza o accanto a un marciapiede con delle commosse parole di commiato, mancavano sacerdoti, benedizione e incenso. Io abituato alle frequenze di oratorio, alle benedizioni parrocchiali di Natale, ne ero esterrefatto. Gli antichi e storici insegnanti dell’Istituto dei Ciechi non sono più, è rimasto il Maestro Giovanni Vassalli che stimo molto, ha dato e ancora offre a generazioni di non vedenti e vedenti la sua cultura, il suo ingegno e la sua competenza musicale. Le condizioni delle persone con deficit visivi cominciavano dunque pian piano a migliorare, consentendo via via il raggiungimento di un certo grado di emancipazione e di integrazione sociale… Tuttavia, se guardiamo alla letteratura, notiamo che non pochi erano i pregiudizi e gli stereotipi da cui anche scrittori illustri non erano immuni, come vedremo dal passo qui appresso riportato. 15 Spesso ancora oggi le persone non vedenti vengono o sottovalutate o sopravalutate: c’è infatti chi ci considera dotate di chissà quali abilità straordinarie e chi viceversa ci pensa incapaci di essere genitori, lavoratori, consumatori... Del pari, vi è chi ci considera e ci etichetta come persone sfortunate, deboli, colpite da tanta sventura… Ed invece, almeno per me, il non vedere fa parte della mia vita, è la mia normalità… Gli esempi si sprecano e non basterebbe un libro per raccontare le molte vicende che mi hanno visto protagonista… Edmondo De Amicis – “Cuore”7 I ragazzi ciechi 23, GIOVEDÌ Il maestro è molto malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato maestro nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio 7 “Cuore” è un romanzo scritto da Edmondo de Amicis e pubblicato dai fratelli Treves nel 1886. Il libro ottiene subito un grande successo, tanto che de Amicis diviene lo scrittore più letto d'Italia. L'ambientazione è l'indomani dell'unità d'Italia, la città è Torino e il testo ha il chiaro scopo di insegnare ai giovani cittadini del Regno le virtù civili, ossia l'amore per la patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l'eroismo, la carità, la pietà, l'obbedienza e la sopportazione delle disgrazie. «Questo libro – scrive l’autore - è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari, i quali sono tra i 9 e i 13 anni, e si potrebbe intitolare: Storia d'un anno scolastico, scritta da un alunno di terza d'una scuola municipale d'Italia. - Dicendo scritta da un alunno di terza, non voglio dire che l'abbia scritta propriamente lui, tal qual è stampata. Egli notava man mano in un quaderno, come sapeva, quello che aveva visto, sentito, pensato, nella scuola e fuori; e suo padre, in fin d'anno, scrisse queste pagine su quelle note, studiandosi di non alterare il pensiero, e di conservare, quanto fosse possibile, le parole del figliuolo. Il quale poi, 4 anni dopo, essendo già nel Ginnasio, rilesse il manoscritto e v'aggiunse qualcosa di suo, valendosi della memoria ancor fresca delle persone e delle cose. Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete contenti e che vi farà del bene.» Fra i personaggi principali del libro che troviamo in questo racconto, ricordiamo: Enrico Bottini, io narrante della storia e protagonista; Garrone, lo studente enorme di statura e buono d'animo; Derossi, il più bravo e più bello della classe; Coretti, figlio di un veterano delle guerre d'indipendenza; Votini, il figlio di un ricco, superbo ma infine umano; il Maestro Perboni. (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Cuore_(romanzo)). 16 di tutti, così bianco che par che abbia in capo una parrucca di cotone, e parla in un certo modo, come se cantasse una canzone malinconica; ma bene, e sa molto. Appena entrato nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato, s'avvicinò al banco e gli domandò che cos'aveva. - Bada agli occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli domandò: - È vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì, per vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica qualche cosa. Il maestro s'andò a sedere a tavolino. Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza. - Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, così, come direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s'ha intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti nelle viscere della terra! Provate un poco a chiudere gli occhi e a pensare di dover rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un terrore, vi pare che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi mettereste a gridare, che impazzireste o morireste. Eppure... poveri ragazzi, quando s'entra per la prima volta nell'Istituto dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e scendendo le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori, non si direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene. C'è dei giovani di sedici o diciott'anni, robusti e allegri, che portano la cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si capisce dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n'è altri, dei visi pallidi e dolci, in cui si vede una grande rassegnazione; ma triste, e si capisce che qualche volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni, che altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche terribili, e che molti son nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba per loro, entrati nel mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto debbono soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sé medesimi: - Perché questa differenza se non abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro, quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati per sempre, tutte quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi altri... mi pare impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila ciechi in Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito che c'impiegherebbe quattro ore a sfilare sotto le nostre finestre! Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola. 17 Derossi domandò se era vero che i ciechi hanno il tatto più fino di noi. Il maestro disse: - È vero. Tutti gli altri sensi si raffinano in loro, appunto perché, dovendo supplire fra tutti a quello della vista, sono più e meglio esercitati di quello che non siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori, l'uno domanda all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi scappa subito nel cortile ad agitar le mani per aria, per sentire se c'è il tepore del sole, e corre a dar la buona notizia: - C'è il sole! Dalla voce d'una persona si fanno un'idea della statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo dall'occhio, essi dalla voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni. S'accorgono se in una stanza c'è più d'una persona, anche se una sola parla, e le altre restano immobili. Al tatto s'accorgono se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe distinguono la lana tinta da quella di color naturale. Passando a due a due per le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore, anche quelle in cui noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a sentire il ronzìo che fa girando, vanno diritti a pigliarla senza sbagliare. Fanno correre il cerchio, giocano ai birilli, saltano con la funicella, fabbricano casette coi sassi, colgono le viole come se le vedessero, fanno stuoie e canestrini intrecciando paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto hanno il tatto esercitato! Il tatto è la loro vista, è uno dei più grandi piaceri per loro quello di toccare, di stringere, d'indovinare la forma delle cose tastandole. È commovente vederli, quando li conducono al museo industriale, dove li lascian toccare quello che vogliono, veder con che festa si gettano sui corpi geometrici, sui modellini di case, sugli strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le mani tutte le cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere! Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i ragazzi ciechi imparano a far di conto meglio degli altri. Il maestro rispose: - È vero. Imparano a far di conto e a leggere. Hanno dei libri fatti apposta, coi caratteri rilevati; ci passano le dita sopra, riconoscon le lettere, e dicon le parole; leggono corrente. E bisogna vedere, poveretti, come arrossiscono quando commettono uno sbaglio. E scrivono pure, senza inchiostro. Scrivono sur una carta spessa e dura con un punteruolo di metallo che fa tanti punticini incavati e aggrappati secondo un alfabeto speciale; i quali punticini riescono in rilievo sul rovescio della carta per modo che voltando il foglio e strisciando le dita su quei rilievi, essi possono leggere quello che hanno scritto, ed anche la scrittura d'altri, e così fanno delle composizioni, e si scrivono delle lettere fra loro. Nella stessa maniera scrivono i numeri e fanno i calcoli. E calcolano a mente con una facilità incredibile, non essendo divagati dalla vista delle cose, come siamo noi. E se vedeste come sono appassionati per sentir leggere, come stanno attenti, come ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i piccoli, di cose di storia e di lingua, seduti quattro o cinque sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e conversando il primo col terzo, il secondo col quarto, ad alta voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto che han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi altri agli esami, ve lo assicuro, e 18 s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono il maestro al passo e all'odore; s'accorgono se è di buono o cattivo umore, se sta bene o male, nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che il maestro li tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le braccia per esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro, sono buoni compagni. Nel tempo della ricreazione sono quasi sempre insieme quei soliti. Nella sezione delle ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo lo strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto, e non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne stacchino. Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra loro. Hanno un concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande. Votini domandò se suonano bene. - Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la loro gioia, è la loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son capaci di star tre ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente, suonano con passione. Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare disperatamente. Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano colla fronte alta col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici quasi ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li circonda, come sentireste che è una consolazione divina la musica! E giubilano, brillano di felicità quando un maestro dice loro: Tu diventerai un artista. - Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due di loro, vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più piccini, a cui egli insegna a sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica. Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal lavoro, e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di strumenti, d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati della lettura o della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la luce è per i nostri occhi, la musica è per il loro cuore. - Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere. - Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete andare per ora. Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire tutta la grandezza di quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita. È uno spettacolo triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a una finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile, che par che guardino la grande pianura verde e le belle montagne azzurre che vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla, che non vedranno mai nulla di tutta quella immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se 19 fossero diventati ciechi in quel punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo, non rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di tutto, che comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più il dolore di sentirsi oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più care, di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno di questi ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora aver la vista d'una volta, appena un momento, per rivedere il viso della mamma, che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir com'è fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome molte volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta. Quanti escono di là piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci pare un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder la gente, le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son certo, che uscendo di là non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista per darne un barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e la madre non ha viso! Fortunatamente, anche gli scrittori hanno nel tempo abbandonato questo modo di guardare al mondo della disabilità visiva, per affermare piuttosto che esistono diversi modi di vedere… Leggiamo infatti i due contributi che seguono, il secondo dei quali scritto da un autore cieco. 20 Il principe cieco (G. Rodari, “Venti storie più una”) Il principe Medoro è cieco. - Non è possibile! Nella fotografia sul giornale i suoi occhi azzurri sono tanto belli. - Sono belli ma non vedono. La regina piange giorno e notte per il dolore. - Il re ha chiamato alla reggia i migliori medici di Morlandia, ha promesso loro monti e mari se daranno la vista a so figlio. - E tutto sembra inutile. Guardate, ecco i medici che ripartono, scrollando la testa sconsolati. - Il professor Bellonis, il professor Cartonis, il professor De Maximis... Se ne vanno proprio tutti? - Dicono ne sia rimasto uno solo. - Chi, quello? Ma quello non è un medico. - E allora che vorrà mai fare? Quando la scienza si dichiara impotente... La scienza sì, Zerbino no. Zerbino non era né professore né dottore. Era un semplice vecchio vestito di scuro, il solo punto di colore nella sua figura era la barba rossiccia. - È un mago. Ha promesso di guarire il principe con una stregoneria. Quando la gente chiacchiera, ne dice, di cose senza senso... Specialmente se parla di cose che non conosce. La folla, assiepata davanti ai cancelli del palazzo reale, non si stancava di parlare della tragedia. Zerbino non era né un mago né uno stregone. Si era unito, non si sa come, ai medici accorsi d’ogni dove per visitare il piccolo cieco. Era sempre rimasto in un angolo della camera in cui giaceva Medoro, con i bellissimi occhi azzurri spalancati nel buio. Non aveva messo bocca nelle dotte discussioni, non si era fatto avanti a suggerire un medicamento, a proporre un’operazione. Solo quando l’ultimo medico si era allontanato, curvo e triste come un generale sconfitto, Zerbino si era fatto avanti timidamente. - Che volete, buon uomo? –gli aveva domandato il re. – Vedete voi stesso la nostra pena. Se volete presentare una supplica, tornate un altro giorno. 21 - Io – aveva detto Zerbino, tormentandosi la barba rossiccia- vorrei supplicarvi di lasciarmi fare una prova... - Che prova? - Non toccherò gli occhi di Sua Altezza. Vorrei soltanto parlargli. - Buon uomo, non ha ancora due mesi, come volete che vi capisca? - Io penso che mi capirà. Lasciatemi provare... Zerbino si avvicinò al lettino dorato di Medoro, prese la mano del principe, mentre tutti intorno trattenevano il respiro, guardò il re, che si asciugava le lacrime nel manto di ermellino e cominciò: <<C’era una volta un re. Era un gran re, vestito d’oro, d’argento e d’ermellino. Portava sul capo una corona tempestata di rubini. Aveva una barba nera a punta...>> - Che screanzato! – sussurrò il maggiordomo alla prima cameriera della regina. – Sta descrivendo il nostro sovrano come un oggetto, senza il minimo rispetto. Vedrete che ora il re lo caccerà, rompendogli in testa lo scettro! <<...E aveva – continuava Zerbino – uno scettro d’avorio scolpito, e ogni tanto si grattava la barba con quello scettro>>. Il re, che stava appunto grattandosi la barba a quel modo, si fermò interdetto e arrossì di sdegno. E già stava per aprir bocca, e chissà che parole di fuoco avrebbe rovesciato addosso al povero Zerbino, quando accadde qualcosa che nessuno si aspettava. Il principe Medoro sorrideva <<come se vedesse>> il gran re della fiaba e allungava le mani come se volesse giocare col suo scettro d’avorio. - Egli mi vede! – gridò il re, che fu il primo a capire. – Signore del cielo, i suoi occhi mi vedono. <<C’era, - proseguì Zerbino – c’era anche una regina. Era una grande regina, con un manto rosso ricamato d’oro. Era bionda e un diadema scintillante era posato tra i suoi capelli come un uccello nel suo nido...>> Di nuovo Medoro sorrise, rivolto alla regina, proprio <<come se la vedesse>> e allungò le mani per toccare il suo diadema. La regina si inginocchiò accanto al lettino, e il piccolo principe affondò le manine nella chioma. - Mi vede! Mi ha sorriso! – esclamava la regina, piangendo di consolazione. La gente non finiva mai di commentare quella strana guarigione. - Guardate un po’, un semplice cantastorie è riuscito dove i più famosi professoroni avevano fatto fallimento. - Ma è guarito proprio? Guarito guarito? - Be’, non del tutto. Però è sulla buona strada. - Ma insomma, ci vede o non ci vede? - Ci vede soltanto quando Zerbino gli parla. 22 - E che cosa gli dice? - Gli descrive quel che gli sta intorno, come se gli raccontasse una storia. Per esempio, c’è un bicchiere sul tavolino, e lui dice: <<C’era una volta un bicchiere...>>. E subito il principino vede il bicchiere e l’acqua che c’è dentro, e la rosa che c’è nell’acqua, oppure la camelia. - E se non gli racconta nulla? - Allora non vede nulla. Per ora vede solo ciò che Zerbino gli racconta. - Un bel caso. Speriamo almeno che Zerbino non gli racconti lucciole per lanterne... Zerbino non meritava davvero un’insinuazione del genere. Era un narratore onesto e scrupoloso e si sarebbe lasciato tagliare una mano, piuttosto che mentire al principe. Medoro non era mai stanco dei suoi racconti. Si capisce: siamo forse stanchi, noi, dei nostri occhi? Appena si svegliava, chiamava Zerbino che dormiva nella stanza accanto: - Zerbino, ci sei? Vieni, presto. Mostrami il cielo azzurro e il sole splendente... E Zerbino, paziente e preciso, cominciava: <<C’era una volta una bella giornata...>>. Ma se il cielo era nuvoloso, o il giardino della reggia era avvolto nella nebbia, Zerbino cominciava così: <<C’era una volta una brutta giornata...>>. Il principe Medoro vedeva il cielo di piombo, la pioggia sui vetri, e si arrabbiava: - Non voglio: non voglio vedere brutte cose. Cambia il racconto! - Altezza, non posso. - Te lo ordino! - Altezza, gli occhi sono fatti per vedere ciò che esiste, le cose spiacevoli come le piacevoli. Il principe impallidiva per il dispetto e non apriva bocca per il resto del giorno. Una volta, poco dopo il suo diciottesimo compleanno, mentre Medoro e Zerbino cavalcavano in un bosco, un uccellino appena nato cadde dal nido e un gatto selvaggio, appostato ai piedi della pianta, ne fece un boccone. Medoro <<vide>> ogni cosa, perché Zerbino gliela raccontò senza trascurare nulla, né il tremito del piccolo corpo implume né il ghigno del gatto, brutto ceffo. - Non voglio, - gridò Medoro, arrestando la sua cavalcatura. - Ma, altezza... - Stai zitto! Ora vedrai cosa faccio. Chiuse gli occhi e cominciò a raccontarsi egli stesso: <<Una volta un uccellino appena nato cadde dal nido. Un gatto crudele stava per azzannarlo, ma un coraggioso principe che passava di lì sul suo cavallo bianco sparò al gatto e lo uccise, rimise l’uccellino nel nido e proseguì cantando per la sua strada...>>. Il principe, infatti, intonò una canzonetta allegra e spronò il cavallo. 23 Zerbino dovette galoppare un bel pezzo per raggiungerlo. - Ho visto tutto quel che ho detto, - esclamò Medoro, eccitato e felice, - ora non ho più bisogno di te, posso raccontarmi le cose da solo. Zerbino chinò il capo, accorato. - Non ti rallegri con me? Non sei contento? - Sarei contento se avessimo fatto in tempo a strappare l’uccellino dalle grinfie del gatto. Una bella favola non basta a cancellare le brutte cose che succedono. - A me basta, - tagliò corto il principe. E da quel giorno, ogni volta che Zerbino, descrivendogli il mondo intorno a lui, gli raccontava qualcosa di triste, Medoro gli ordinava di tacere e si raccontava le cose a suo modo, rifugiandosi in una storia serena come una bella giornata. Così egli riusciva a <<vedere>> solo spettacoli pieni di gioia. Zerbino provò a parlare col re padre, ma non riuscì a convincerlo che si trattava di una nuova malattia, peggiore della cecità, perché il cieco più malato di tutti è quello che <<non vuole>> vedere le cose come sono. - È giovane, - disse il re, - ha avuto una disgrazia terribile. Che male c’è se cerca di consolarsi in qualche modo? Cambierà quando dovrà prendere il mio posto. Purtroppo non fu così. Quando il re padre morì, Medoro prese il suo posto, ma non rinunciò all’abitudine di preferire le sue illusioni alla realtà. Se il ministro del tesoro gli diceva che le casse dello Stato erano quasi vuote, egli si raccontava montagne di monete d’oro e le vedeva e subito dava una gran festa per spenderne un poco. Scoppiò la guerra, il paese fu invaso dal nemico, ma Medoro si consolava raccontandosi gloriose vittorie e straordinarie conquiste. Così perdette il trono e fu abbandonato da tutti. Ma non da Zerbino, che lo seguì fedelmente, per continuare a descrivergli le cose: <<C’era una volta una capanna nel bosco, e in questa capanna abitava il principe Medoro. Tutt’intorno crescevano sterpi e spine...>>. - No! Rose e magnolie! Rose e gelsomini Era proprio inguaribile, anche nella sua miseria. Ma un giorno... Un giorno Medoro udì bussare alla porta della sua capanna. Zerbino gli mostrò, con parole sincere e fedeli, un bimbo e una bimba che si tenevano per mano. Il loro babbo era morto in guerra. La loro mamma era morta di dolore. Rimasti soli essi non avevano più una casa, né un letto, né una scodella di minestra sulla tavola. Per colmo di sventura, il bimbo era cieco: e la sorellina guidava i suoi passi, tenendolo per mano. 24 Medoro fu tentato, come al solito, di chiudere gli occhi e di raccontarsi che due giovani principi erano venuti a visitarlo per invitarlo a un gran ballo. Ma il piccolo cieco, proprio in quel momento, inciampò nella soglia. Medoro tese le braccia per impedirgli di cadere e lo vide: vide il suo volto smunto, le lacrime che gli rigavano le guance sporche, il corpicino magro e tremante nei panni strappati. <<Lo vide com’era>> e provò pietà di lui. Lo vide così piccolo, povero e bisognoso d’aiuto che la tentazione di rifugiarsi in una bella fiaba gli parve, com’era, una viltà. - Entrate, - disse ai due fratellini, - voi siete come uccellini caduti dal nido, ma il gatto selvatico non vi mangerà. Questa casa sarà la vostra e io vi farò da padre. Sarò un padre un po’ giovane ma, se direte di sì, lavorerò per voi, per darvi la vostra parte delle buone cose che pur ci sono, a questo mondo, tra tante cose brutte. Zerbino non disse nulla. Sorrise appena. Dentro di sé era felice perché finalmente Medoro era guarito. - Ora ci vede davvero, - pensò. – Ci vede perché <<vuole vedere>> che cosa può fare per dare un po’ di felicità agli altri. Jaques Lusseyran8 “Lo sguardo diverso” La vista predilige le apparenze, questo fa parte della sua natura. Essa tende a prendere le conseguenze per le cause. Attitudine avvincente nel caso della luce: gli occhi credono di vedere il sole, mentre incontrano solo degli oggetti illuminati. Il pericolo della vista deriva quindi dal suo stesso potere, dalla sua prontezza, dalla sua utilità e ciò si verifica soprattutto quando ci basiamo su di essa per conoscere gli altri uomini. Pensiamo ai guai che provocano nei nostri giudizi gli abiti, le pettinature, i sorrisi delle persone che incontriamo. Dall'abito, dal sorriso, derivano la maggior parte dei nostri amori e dei nostri odii, e anche delle nostre opinioni. Una persona si avvicina a noi: che cos'è per i nostri occhi? Anzitutto è un certo aspetto fisico, vale a dire non un accordo, seppure passeggero, tra lei e noi, ma fra lei e la società. Perché è evidente che l'abbigliamento, il sorriso e la 8 Si tratta di uno scrittore francese divenuto cieco all’età di 8 anni e vissuto fra il 1924 e il 1971. 25 smorfia, i gesti stessi, in una parola tutto il portamento, sono una faccenda sociale. Io penso a quel giuoco perenne e divenuto ormai involontario al quale ci abbandoniamo per apparire, a quell'arte di ingannare l'occhio altrui, che occupa tanti minuti della nostra vita. Perché sono gli occhi ad essere ingannati, è per loro che lavoriamo, sapendo che faranno presto a posarsi su di noi, senza tuttavia interrogarci a lungo. E' vero che ci sono degli occhi che interrogano e vedono: ci sono gli occhi di una madre o di una moglie inquieta, quelli di un vero medico, di un saggio, di un artista, e, perché no, di un umorista. Ma da che cosa deriva quell'attimo in cui gli occhi che vedono si socchiudono, e diventano interiori? Questo gesto si chiama in più modi: riflettere, concentrarsi, riafferrare se stessi; si tratta, a pensarci bene, di un atto riflesso di difesa contro la vista. Si tratta, dopo aver ricevuto dagli occhi le immagini, di fermarle, di fissarle in noi al di fuori di qualunque supporto visivo, in breve, di dar loro una forma di esistenza del tutto nuova: l'esistenza interiore. Senza tale rinuncia anche solo provvisoria a tutto quello che apportano gli occhi, non ci può essere, credo, vera conoscenza. Questo semplice fatto dovrebbe metterci in guardia contro la massima delle illusioni, quella della onnipotenza delle forme. 26 PARTE 2. -LE PERSONE NON VEDENTI OGGI… 27 Parte 2. - Le persone non vedenti oggi… Come si accennava nella Parte 1, oggi molte cose sono fortunatamente cambiate, almeno sotto il profilo lavorativo: alcuni di noi sono docenti, avvocati, giornalisti, programmatori informatici, imprenditori, famosi musicisti… Sebbene la parte del leone la facciano ancora le “vecchie” professioni del centralinismo telefonico e della masso-fisioterapia, ben altre sono ormai le opportunità che si aprono, ovviamente nei ristretti limiti imposti dall’attuale crisi che l’economia non solo italiana sta attraversando. Ecco quindi alcuni esempi di esperienze professionali, più e meno note.9 Accanto ad esse, inserisco anche la mia attuale esperienza lavorativa di educatore presso una grande struttura… non certo per paragonarla a quelle di Andrea Bocelli, Felice Tagliaferri o Mirko Mencacci, ma perché può far capire che chi non vede può operare anche nelle cc.dd. “professioni di aiuto”. Fra l’altro, a quanto mi consta, io sono l’unica educatrice non vedente in Italia che per giunta segue persone anziane, molte delle quali normovedenti ed affette da ben altre disabilità… Mirko Mencacci e la magia del suono Mirco Mencacci è oggi uno dei più stimati tecnici del suono (sound design) del cinema italiano. Ha collaborato alla realizzazione di film quali: “Notte prima degli esami”, “Le fate 9 Sul punto, consiglio anche la lettura del volume di Mauro Marcantoni “I ciechi non sognano il buio. Vivere con successo la cecità” (edizioni Franco Angeli, 2008). “È facile e rassicurante seguire i luoghi comuni. – si legge nella quarta di copertina - Tutto è più semplice, già interpretato, pronto all’uso. Tutto diventa ovvio, anche dare per scontato che la cecità sia una malattia totalmente invalidante. Un male oscuro che impedisce di realizzarsi nella vita, nel lavoro e negli affetti. Questo libro chiede a chi la pensa così – vedenti e non – di cambiare logica, di provare a risalire la corrente del pregiudizio. Di lasciarsi guidare dai racconti – numerosi e diversissimi – dei ciechi che ce l’hanno fatta. Dall’avvocato di grido alla cantante famosa, dall’abile artigiano all’esperta informatica, dal campione di sci allo scultore affermato, ognuno svelerà piccole e grandi strategie che portano al successo, ma soprattutto al superamento degli ostacoli dovuti non solo alla cecità, ma anche alla cultura corrente”. “Il cieco che mi sta di fronte forse mi vede. Mi sente, mi avverte, mi capisce, più di quanto io faccia nei suoi confronti”, scrive acutamente Giuseppe De Rita nella sua prefazione. Da questo ribaltamento di prospettiva hanno origine le riflessioni che percorrono il libro. Ne risulta un’analisi disincantata, ma carica di significati e di vere e proprie sorprese, del rapporto fra vedenti e ciechi. Per i primi – che a volte tanto “vedenti” non sembrano – è un’occasione per scoprire qualcosa in più di un mondo troppo spesso ignorato o frainteso. Per i ciechi, le storie sono un campionario di esperienze vissute. Esempi, per chi ancora non ci crede fino in fondo, di come sia possibile costruire la normalità con quattro anziché con cinque sensi. 28 degli ignoranti”, “La finestra di fronte”, “La meglio gioventù”. All'età di 8 anni rimase cieco a causa di un incidente, a seguito del quale fu costretto a frequentare una scuola speciale (la legge 517 del 1977 che avrebbe sancito la chiusura di tali scuole fu scritta poco dopo), ad un "istituto per ciechi", il David Chiossone di Genova. Per lui, toscano, appassionato di cinema e molto legato ai genitori, fu un trauma forse più drammatico della stessa cecità. Dopo un periodo di difficile ambientamento dovuto al rifiuto della situazione e con l'aiuto di un nuovo amico, Felice, di un professore di rara sensibilità Don Giulio (Paolo Sassanelli), di una ragazzina vedente e di un vecchio registratore a bobine, inizia a costruirsi un nuovo mondo fatto di suoni, sogni ed emozioni ad occhi chiusi. Un mondo nel quale a poco a poco coinvolge i suoi nuovi amici, anche i più ostili, inventando favole sonore fatte di draghi, principesse da salvare, cavalieri erranti e mostruose creature. Alla sua storia si ispira il film “Rosso come il cielo”. Felice Tagliaferri e l’arte senza barriere10 Felice Tagliaferri è uno scultore non vedente assurto per le sue abilità artistiche a notorietà internazionale. Felice, affetto da cecità dall'età di 14 anni, ha intrapreso un percorso artistico molto personale e particolare che lui ha riassunto nello slogan "Dare forma ai sogni". Le sue creazioni sono infatti sculture non viste, che prima nascono nella sua mente e poi prendono forma attraverso l'uso sapiente delle mani, guidate da incredibili capacità tattili. Felice si destreggia abilmente fra i più diversi materiali: per la sua arte utilizza creta, marmo, legno o pietra. Ogni materiale viene trattato e plasmato con tecniche diverse, dalla forza impressa per scolpire il marmo alla gentilezza della plasticità espressa nel modellare la creta. 10 Tratto dal sito ufficiale dell’artista. Url di riferimento: http://www.chiesadellarte.it/La-Chiesa-dellArte/Scheda-dipresentazione-di-Felice-Tagliaferri/ 29 Oltre a lavorare alla realizzazione delle forme dei suoi sogni artistici, Felice Tagliaferri riesce ad essere anche un ottimo insegnante, applicando il suo personalissimo metodo a una varietà di situazioni. Fra le sue molte opere, la più celebre è senza dubbio il “Cristo rivelato”. L'idea della scultura è nata nell'aprile 2008, durante una visita di Felice Tagliaferri a Napoli, quando all'artista non è stato consentito di vedere a suo modo, cioè con le mani, la celebre scultura di Giuseppe Sanmartino, esposta nella Cappella Sansevero. Tagliaferri, che da anni porta avanti il messaggio che l'arte è patrimonio universale e come tale deve essere accessibile a tutti secondo le proprie possibilità, ha perciò pensato di proporre una sua versione dell'opera che sia disponibile alla fruizione tattile. Il nome dell'opera, "Cristo rivelato", ha il doppio significato di "velato per la seconda volta" e "svelato ai non vedenti". OBIETTIVO 30 La scultura realizzata da Felice Tagliaferri raffigura un Cristo Velato simile a quello di Napoli che può essere toccato, così da ovviare all'impossibilità di conoscere l'opera originale da parte di chi vede esclusivamente attraverso l'uso delle mani. L'iniziativa consente a tutti coloro che lo desiderino di approcciarsi all'opera d'arte anche in maniera tattile, dimostrando che un blocco di pietra non può rovinarsi a causa dello sfioramento effettuato da dita esperte, come prova il fatto che un non vedente è in grado di leggere l'ora semplicemente toccando il delicatissimo meccanismo di un orologio senza alterarne minimamente il funzionamento. REALIZZAZIONE L'opera, che ha le dimensioni di 180x80x50 cm, è stata realizzata a partire da un blocco di marmo sbozzato da artigiani con la supervisione di Felice Tagliaferri, che l'ha portata a compimento tra il 2009 e la fine del 2010 curandone in modo particolare l'aspetto tattile. L'opera è già stata esposta: al Museo Archeologico di Napoli; nella Chiesa Santa Maria Alemanna di Messina; all'Istituto Cavazza di Bologna; al Meeting di Rimini, dove è stata toccata da 50.000 persone; a Colle Ameno (Ancona), dove in occasione della Settimana Eucaristica è stata vista dal Santo Padre Benedetto XVI che si è complimentato con l'artista; nella Chiesa di San Domenico ad Ancona; nell'Istituto dei Ciechi a Milano.11 11 Inseriamo alcune fotografie particolarmente significative relative ad alcuni degli eventi sopra citati. Ringraziamo sentitamente il maestro Tagliaferri che ce le ha gentilmente concesse. 31 La disabilità visiva. Realtà, progressi e problemi aperti12 I mass media, di frequente, associano tecnologia a disabilità in chiave sensazionalistica e miracolistica: nonostante tutte le sperimentazioni sin qui condotte sul cosiddetto "occhio bionico", a tutt'oggi non mi risulta vi sia nessun prodotto che restituisca la vista alle persone nate cieche. Sono un'insegnante non vedente di storia e filosofia, in servizio presso il Liceo Classico Giacomo Leopardi di Pordenone. Scrivo queste note in base alla mia esperienza di "utente finale" delle tecnologie informatiche in favore dei disabili visivi e sulla scorta delle mie osservazioni maturate nell'ambito dell'integrazione scolastica, settore nel quale presto la mia collaborazione quale vice-presidente dell'Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti di Pordenone. La legge 4 del 2004, comunemente nota come "Legge Stanca", ha rappresentato per tutti i disabili un traguardo di grande portata sociale e civile: le istituzioni prendevano finalmente atto che il progresso tecnologico avrebbe consentito di colmare in gran parte lo svantaggio connesso alla disabilità, favorendo il cammino verso l'inclusione sociale. Dalla fine degli anni '90, infatti, attraverso uno screen-reader o una barra Braille, i disabili visivi, in particolare, riescono potenzialmente ad accedere ai siti Internet, a digitalizzare libri di testo, a consultare giornali e riviste, ad utilizzare i più comuni applicativi ed i software specifici. A distanza di sei anni, tuttavia, molti aspetti di questo dettato legislativo restano in gran parte disattesi. La pubblica amministrazione ed i datori dilavoro privati, in molti casi, non ottemperano ancora alle disposizioni di legge. Gli utenti si trovano quindi di fronte all'inaccessibilità di documenti e siti, anche di pubblica utilità. Dal punto di vista tecnico, i principali ostacoli sono rappresentati dai files in pdf grafici, da siti contenenti immagini non etichettate, da moduli privi di tags. I datori di lavoro, inoltre, soprattutto per mancanza di fondi, stentano a dotare il personale disabile visivo delle tecnologie necessarie, hardware e software. Ad esempio, come docenti non vedenti, da anni ci stiamo battendo al fine di ottenere un registro elettronico accessibile, che segua degli standard comuni di fruibilità e che, in maniera uniforme e capillare, sia proposto a livello nazionale a tutte le scuole, sulla scorta di quanto è stato fatto nel caso delle piattaforme telematiche per la formazione a distanza, curate dall'ex Indire. Uscendo da un'ottica puramente assistenzialistica, sarebbe 12 Questo contributo è stato scritto da Daniela Floriduz, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico Ettore Majorana di Pordenone, nonché Vicepresidente sezione PN dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e membro della Commissione Nazionale UICI per la tutela dei diritti degli insegnanti. 32 opportuno realizzare le tecnologie secondo la filosofia del design for all, e dunque non investire denaro pubblico in prodotti "dedicati", ma progettare "a monte" delle realizzazioni che tengano conto in partenza dell'accessibilità. Il modello potrebbe essere quello inaugurato da Apple, che immette sul mercato apparecchiature dotate di sintesi vocale, attivabile o meno, a seconda delle necessità. Questo principio può essere esteso anche alle tecnologie utilizzabili per la mobilità nell'ambiente urbano: a parte le segnalazioni semaforiche acustiche, sarebbe sufficiente una progettazione razionale per consentire la fruibilità delle nostre città alle persone non vedenti ed ipovedenti che si muovono in autonomia, anziché realizzare soluzioni che nascono già inaccessibili, per la presenza di barriere architettoniche. Un'altra frontiera da abbattere è rappresentata dai libri elettronici, settore nel quale la salvaguardia legittima del copyright si scontra con il diritto alla lettura e all'informazione, sancito anche dalla nostra Carta Costituzionale. Lungi dal chiedere deroghe e privilegi legislativi, si tratta, invece, di studiare soluzioni tecnologiche in grado di proteggere gli editori dalla circolazione indebita dei testi. I mass media associano frequentemente tecnologia a disabilità in chiave sensazionalistica e miracolistica: nonostante tutte le sperimentazioni sin qui condotte sul cosiddetto "occhio bionico", a tutt'oggi non mi risulta vi sia nessun prodotto che restituisca la vista alle persone nate cieche. Vi sono, tuttavia, delle soluzioni tecnologiche che possono rendere il mondo un po' più familiare ed intelligibile ai non vedenti: penso, in particolare, al kit multisensoriale curato da Lidia Beduschi e pubblicato dall'editore Negretto, un progetto fondato sui recenti risultati delle neuroscienze e degli studi sulla sinestesia, attraverso il quale, una dimensione prettamente visiva, quale quella del colore, risulta accessibile mediante l'impiego dell'informatica, come si evince dal sito www.odorisuonicolori.it. Nel 1980, Günther Anders scriveva: «La tecnica può segnare quel punto assolutamente nuovo della storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: che cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi?» Per evitare questo rischio, la tecnologia potrebbe trasformarsi in opportunità, modalità di inclusione e di partecipazione sociale, anziché costituire una barriera, un ulteriore handicap, che va ad aggiungersi a quello sensoriale, aggravandolo, incrementando la frustrazione e l'emarginazione. 33 Quando la disabilità diventa opportunità Esperienza di lavoro al “Civitas Vitae” Lorenza Vettor E’ questo il titolo che io stessa ho voluto dare alla mia esperienza lavorativa che ho intrapreso presso il “Civitas Vitae” della Fondazione Opera Immacolata Concezione – oic onlus – di Padova (http://www.oiconlus.it). Prima di raccontarla, voglio descrivere, seppure sommariamente, l’ambiente dove lavoro e dove vivo dal settembre 2011. Il contesto di riferimento Il “Civitas Vitae”è un “Centro multipolare integrato a connotazione polifunzionante e multidimensionale della longevità” (Cfr. A. Ferro, in “La risorsa longevità – Un contesto innovativo”, Marsilio Editore, Venezia, 2008, pag. 11), dove la vita umana viene considerata “un unico percorso senza cesure nel quale ogni persona (giovane o longeva, autosufficiente o non autosufficiente, ospite o non ospite) è portatrice di valori e relazioni, cioè di un contributo essenziale per un autentico sviluppo della società”. In tal modo, “la persona trova tempi, strutture e modalità atte a favorire la valorizzazione del proprio specifico potenziale, facendo tesoro delle opportunità connesse a ogni fase della vita per farne elemento cruciale a disposizione della comunità. (op.cit, pag. 163). “Civitas Vitae” è un riferimento esemplare della capacità di creare senso di appartenenza partendo da una esperienza locale, che ha posto la valorizzazione della risorsa longevità attiva come perno di una filiera complessa di iniziative che hanno generato un processo molto più articolato di mutamento sociale. Un'esperienza che ha successo perché riesce a fare appartenere gli anziani alla vita di tutti i giorni, perché è una palestra continua di appartenenza degli operatori e di tutti i cittadini che a titolo diverso vi accedono (utenti dei servizi, volontari, familiari ecc.), perché la 34 polivalenza e la pluralità dell'offerta, che sono la sua cifra non solo organizzativa ma culturale, rinforza sia nell'operatore affrancato dalla meccanicità ripetitiva del mansionario che nelle diverse tipologie di cittadini che ne beneficiano, proprio quel senso di appartenenza che condensa le differenze, un esempio concreto di nuova vita, di nuovo spazio, di nuova cultura che mostra come la società non sia deterministicamente condannata a un programma di morte, ma al suo interno sono in atto feedback che indicano la sua capacità di rigenerarsi grazie alla relazione con l'altro, al vivere con l'altro. Ubicato in un'area di circa dodici ettari nel quartiere Mandria di Padova, “Civitas Vitae” è una vera e propria città integrata, composta da strutture dedicate alle diverse attività specialistiche e da catalizzatori di relazione nati e promossi specificatamente per animare e dare contenuto alla vita quotidiana del villaggio. Le strutture di cui si compone sono le seguenti: Residenza Pio XII per persone anziane non autosufficienti, con una ricettività di circa duecentoventi persone al più alto standard; Residenza del sollievo Paolo VI per quaranta persone in stato terminale (hospice) o vegetativo (coma vigile), gestita in partnership con l’Unità Socio-sanitaria16 di Padova; Residenza Mons. Filippo Franceschi con ultimazione prevista per la primavera-estate di quest’anno, composta da tre piani dedicati rispettivamente all'ospitalità di sacerdoti anziani, di religiose in servizio presso il Civitas Vitae e di giovani disabili, sulla base di un progetto che vede questi tre gruppi essere parte attiva della vita del complesso, sulla base della valorizzazione delle specifiche competenze, anche eventualmente solo residuali; Residenza Santa Chiara, che ospita oggi quattrocentottanta persone non autosufficienti in ambienti dotati di ogni comfort, di tutti i servizi medico-infermieristici, sulla base di una specializzazione per piano delle tipologie di non autosufficienza affrontate; Residenze Airone per persone longeve autosufficienti, un complesso strutturato come le antiche corti venete formato da undici villette comunicanti tra loro mediante percorsi protetti; Alle strutture per l'ospitalità si affiancano le unità di supporto operativo, declinabili in: Guardia medica, che assicura una continuità operativa anche nei giorni festivi fornendo sicurezza e qualità della vita al territorio; 35 Centro servizi alla persona, aperto al territorio e comprendente palestra, fisiokinesiterapia, idroterapia, servizi ambulatoriali, centro prelievi ecc.; Centro wellness, che offre una serie di servizi per il benessere, il tempo libero e la cura della persona quali ad esempio biblioteca, mediateca, connessione internet, bar, animazione sociale, parrucchiera, barbieri, pedicure, podologo, organizzazione di gite, vacanze, spettacoli; Centro di riabilitazione, con servizi integrati di logopedia, ergoterapia, fisioterapia, recupero postrianimazione; Laboratorio applicativo di alimentazione e ristorazione, funzionale a persone non autosufficienti per età (anziani e bambini), infortunio, handicap, trauma incidentale ecc.; Atelier multimediale e laboratori vecchi mestieri, dove è possibile fare attività musicale e audiovisiva e dedicarsi ad attività di piccolo restauro e artigianato; Reparto domotica per disabili motori e sensoriali, predisposto per attività occupazionali/professionali e con soluzioni in grado di assicurare il «dopo di noi». Proprio come in ogni città, il panorama è completato dalle strutture tipiche della vita di ogni comunità, afferenti cioè allo svago, alla formazione, ali'apprendimento e alla riflessione: Centro formazione e ricerca Varotto-Berto per la formazione degli operatori di assistenza e dei longevi vitali, specificatamente orientato alla ricerca tecnologica utile al recupero professionale della disabilità e della non-autosufficienza; Auditorium Silvano Pontello, sistema di sale attrezzate di oltre 1.200 metri quadri e capienza fino a trecentoventi posti, costruito per essere occasione di interrelazione con l'esterno per convegni, congressi, incontri, esposizioni, mostre ecc., dotato di tutti i servizi e i supporti necessari; Centro infanzia Clara e Guido Ferro, asilo nido e scuola materna: inserito in questo contesto per dare forma concreta alla costruzione di relazioni intergenerazionali e per fornire un supporto operativo alla genitorialità sia del territorio sia dei dipendenti dell'OIC; Chiesa Maria madre di Dio, caratterizzata da un'impostazione progettuale che ruota intorno ai concetti della «centralità» della Fede nella vita e della Luce sulla vita futura; vi si svolgono i servizi religiosi, con accessibilità anche dal territorio per una capienza di circa quattrocento persone; Museo veneto del giocattolo: inserito nell'albo delle strutture museali della Regione Veneto, raccoglie preziose testimonianze di giocattoli antichi dell'infanzia e della 36 fanciullezza. È strumento per rivivere alcuni dei più felici momenti della propria vita, promuovendo lo spirito del collezionismo come memoria che costruisce identità. Vivere all'interno del Civitas Vitae significa però non solo essere coinvolti nelle normali attività riservate agli ospiti delle residenze ma anche poter partecipare alle iniziative promosse dai diversi catalizzatori di relazione attivi in questo complesso e specificatamente meritano menzione: Comitato ospiti: organo di rappresentanza di ospiti e familiari, eletto democraticamente ogni sei anni, dedicato allo sviluppo delle relazioni tra struttura operativa e ospiti stessi. Una sorta di ombudsman ante litteram, introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001 riconosciuto dalla Regione Veneto come strumento operativo obbligatorio per tutte le strutture di assistenza agli anziani; Club over 100 ricomincio da zero: circolo esclusivo riservato agli ospiti ultra centenari, dotato di tutti gli elementi di distinzione e aggregazione tipici di ogni club: dalla quota di appartenenza decrescente in relazione alla durata (decennale, quinquennale, annuale) alle felpe personalizzate fino alla disponibilità di un sistema di servizi speciali dedicati; Cilpres: cooperativa i cui soci, rigidamente over sessantacinque, mirano a concretizzare la loro carica imprenditoriale e la loro voglia di fare in attività reali di «relational service»;Uno dei primi progetti realizzati è la gestione e riparazione di tutti gli ausili per disabili presenti all’interno della Fondazione OIC e lo studio di adattabilità di nuovi ausili per gli ospiti. VADA - Volontari amici degli anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, si «spendono» personalmente a favore degli ospiti e dei loro congiunti per combatterne la solitudine, per supportare chi si trova in situazione fragile e delicata, per dare consistenza all'ideale di famiglia allargata caratteristico del modello Civitas Vitae; Associazione Agorà, che opera in stretta collaborazione con istituzioni pubbliche e private, avendo fino ad oggi promosso progetti in diverse aree che vanno dalla cultura dell'alimentazione consapevole al supporto ai consumi e acquisti, dalla costruzione di reti intergenerazionali allo studio delle tecnologie informatiche. Merita una particolare segnalazione la promozione da parte di Agorà dei primi corsi per la qualifica di amministratore di sostegno, pensata fra l’altro per dare supporto attivo e disinteressato alla tutela degli interessi della persona longeva nella gestione delle delicate dinamiche patrimoniali tipiche dei passaggi generazionali. A partire da aprile 2008 l'Associazione Agorà si è fatta promotrice della prima community di longevi, facendo sintesi di alcune 37 opportunità che le nuove tecnologie e i nuovi media offrono a chi possiede contenuti ed esperienze da comunicare, costruendo un'innovativa mediateca digitale che sarà resa disponibile a tutte le persone anziane attraverso il web; Fondazione INPLANA, per ricerca e diffusione delle buone pratiche in contesto di dignità e libertà per le persone non autosufficienti . A mio avviso, i principi fondanti su cui è costruita la filosofia di lavoro e di vita in questa tanto complessa ed articolata realtà che per capirla è indispensabile vivere al suo interno per un po’ di tempo, sono racchiusi in queste significative parole del Presidente della Fondazione OIC , Angelo Ferro, docente di Economia industriale presso l’Università di Verona: “Il principio della sussidiarietà realizza la capacità di integrare le funzioni di ogni persona e di ogni organizzazione in un processo di effettiva partecipazione che porta ad ottenere un risultato migliore; parte dal basso e va verso l'alto; coinvolge la responsabilità; implementa le potenzialità sempre e comunque presenti in ogni persona affinché nell'insieme trovino valorizzazione. Il principio della solidarietà realizza l'aspirazione a conseguire gli ideali di giustizia e progresso che accomunano l'intera umanità. Entrambi alimentano ed esaltano la sfera delle libertà. Nella globalizzazione e con l'individualismo si tende a massimizzare l'esito dei processi dedicandosi ai "primi" perché "rende di più"; ma questa concezione darwiniana del mercato crea situazioni crescenti di divario e di disuguaglianza che rendono difficile costruire il Bene Comune. Servono le categorie della solidarietà e della sussidiarietà come parti integranti dell'agire perché in economia e nella società sia possibile costruire il Bene Comune, riducendo le disuguaglianze anche intra e intergenerazionali, promuovendo l'inclusione nel mercato di soggetti altrimenti esclusi, estendendo la dimensione della dignità della persona. La solidarietà, intesa come intrinseca interdipendenza che lega gli uomini, e la sussidiarietà, nel senso che ciascuno ha una sua funzione e solo con la partecipazione di tutti si raggiungono risultati ottimali, e quindi intesa come riconoscimento della funzione pubblica delle persone e delle comunità intermedie, costituiscono due principi coessenziali: la solidarietà senza la sussidiarietà degenera nell'assistenzialismo burocratico, mentre la sussidiarietà senza solidarietà conduce al localismo egoistico. Questi due principi, fondanti la Dottrina Sociale della Chiesa, completamente sovvertiti dalle dinamiche finanziarie che hanno originato la grave crisi attuale compromettendo lo sviluppo, hanno invece sempre accompagnato la storia dell'OIC nel valorizzare la dignità della persona nella terza età e nella non autosufficienza, quale soggetto capace di produrre relazioni per la coesione sociale ed intergenerazionale”. 38 Queste parole, proprio perché dette da un economista, assumono – almeno per me – una valenza ancor più significativa: la risposta al difficile momento di crisi di economie di scala ma soprattutto di valori che stiamo attraversando non può essere – io credo – che questa. La mia esperienza A presentarmi il Professor Ferro quasi un paio d’anni fa fu Davide Cervellin, persona non vedente come me e noto imprenditore nel campo delle tecnologie assistivo-compensative nell’area delle disabilità. Sono convinta che il lungo sodalizio fra queste due persone che dura ormai credo da una ventina d’anni non sia un caso: entrambi – almeno per come la vedo io – hanno saputo porre la loro esperienza imprenditoriale a servizio degli altri… Da subito, il Professore mi prospettò con entusiasmo la sua idea, quella di far sentire le persone disabili protagoniste della loro vita e del loro lavoro. Come? Consentendo di svolgere un’attività capace di valorizzare le risorse e potenzialità che ognuno di noi possiede, di operare in un ambiente lavorativo dove vengono espresse le inclinazioni ed attitudini, superando i limiti che il deficit necessariamente porta con sé, ma anche dove il voler mettersi in gioco ogni giorno facendo squadra costituisce un valore… Un ambiente di lavoro in cui si costruisce un percorso di inserimento a misura del singolo: la legge 68/99 ed il conseguente strumento del lavoro mirato avrebbe dovuto essere proprio questo. Nel contempo, le peculiarità di “Civitas Vitae” di cui dicevo sopra permettono anche al lavoratore disabile di porsi al servizio degli altri, in una quotidiana relazione ed interazione fra operatore ed ospite e dove entrambe le parti danno e ricevono, insegnano e imparano, crescono e si sentono parte di un tutto… 39 la persona anziana – noi qui preferiamo chiamarla “longeva” – è portata – sostiene ancora il Professor Ferro – a vivere di rimpianti, ricordando un passato in cui non c’erano le difficoltà e i limiti che ora invece esistono… (Gli ultracentenari sparsi nelle 9 sedi OIC del Veneto sono più di 40 ). Per un anziano, è più semplice superare le difficoltà del venire meno delle proprie capacità fisiche (vista, udito, mobilità) se invece che confrontarsi con la propria esperienza di vita in salute può relazionarsi con chi fin dalla nascita ha dovuto affrontare e vincere una qualche forma di disabilità, poiché si rende conto che anche in presenza di certi limiti è possibile fare, stare con gli altri, vivere una vita normale… Sono stata io stessa a disegnare il mio percorso di lavoro, un percorso che è sempre in fieri, poiché ho la fortuna – in questo sostenuta dalla dirigenza e dalle persone con cui opero ogni giorno –di poter cogliere le molte opportunità 40 che questa realtà offre, non ultima quella di prendere parte alle riunioni di questo Gruppo di lavoro.13 Ciò che mi sono prefissa da subito è far comprendere che tutti noi siamo dotati di innumerevoli potenzialità che spesso non usiamo: ad esempio chi vede non è portato a servirsi del tatto o dell’udito: il libro scritto da Top Rosenblum Lawrence e dal titolo “Lo straordinario potere dei nostri sensi” la dice lunga… Ed appunto perché ne sono fermamente convinta, ho voluto fare un mio intervento ad un convegno tenutosi presso la Fondazione chiedendo ai presenti di mettere una benda agli occhi, in modo da fare affidamento sul solo udito e non sulla vista… Penso che un approccio multisensoriale alla realtà aiuti tutti, non solo chi non vede, a cogliere tutto ciò che ci circonda – le cose, ma anche le relazioni umane – nella loro globalità ed interezza e proprio per questo vorrei, quando sarà completato il “Distretto di Cittadinanza” poter gestire dei laboratori – con gli Ospiti delle strutture, ma anche con gli studenti delle scuole – che vadano in questa direzione. Tra i vari obiettivi che mi sto ponendo, questo è sicuramente quello a cui tengo di più. Al momento sto partecipando con altre persone, dipendenti della Fondazione come me ma anche volontari, alla realizzazione di varie iniziative. Anzitutto sto curando assieme ad una collega – da noi i progetti sono sempre portati avanti da più persone proprio per creare una sinergia delle risorse - un progetto volto alla diffusione tra gli Ospiti dell’audiolibro, strumento indispensabile a chi ama la lettura ma non è più in grado di leggere in autonomia; partner del progetto è il Centro Internazionale del Libro Parlato di Feltre, un’associazione che io conosco molto bene poiché è anche grazie ad essa che ho potuto compiere i miei studi universitari: volontari di tutta Italia registrano – ieri su audiocassette ed oggi su cd-rom – testi di ogni genere. E’ bellissimo essere accompagnati nelle proprie giornate dalla voce di una 13 Questo contributo è infatti stato scritto a beneficio del Gruppo 3 dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, istituito ai sensi della relativa Convenzione dell’ONU (Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità), firmata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009. La Fondazione OIC è parte in diversi gruppi di lavoro dell’Osservatorio, fra cui quello sull’empowerment e la vita indipendente delle persone disabili a cui anche io partecipo. 41 persona che nemmeno si conosce… Spesso lo ripeto agli Ospiti ed agli educatori che collaborano con me… Con altri educatori e con il determinante supporto di una persona esperta, sto anche prendendo parte ad un laboratorio di ceramica dove anche persone affette da demenza senile e da Alzheimer riescono ad esprimere le loro emozioni e sensazioni (“Sentimenti tattili” è il nome che abbiamo dato a questa attività). E’ per me proprio questo l’aspetto più significativo, ovvero il fatto che tutti mentre lavorano si pongono in una positiva relazione con gli altri, sicuramente agevolati in questo dall’ambiente allegro ed accogliente che si è creato. Per me inoltre è facile svolgere un’attività in cui l’uso della vista non è fondamentale: mi sento a mio agio e soprattutto riesco ad instaurare un tipo di comunicazione con chi mi sta vicino che va al di là delle parole… Un altro progetto da poco iniziato mi vede come un osservatore silenzioso: i protagonisti sono i Soci dell’Associazione Agorà e gli Ospiti della Residenza Santa Chiara, che tutti insieme concorrono a costruire uno “spazio di autonomia” dove chi lo desidera può far conoscere al gruppo le proprie esperienze o può raccontare sé stesso… Non c’è nulla di preconfezionato e tutto è lasciato all’iniziativa del singolo e del gruppo… A me piace molto stare a guardare ed osservare le dinamiche di gruppo che nel contesto si vengono a creare… Ho invece concluso da pochi giorni la mia esperienza presso il Museo del Giocattolo, dove assieme ad un gruppo dei Soci sempre di Agorà è stato costruito un libro tattile (creato cioè con materiali “poveri” quali stoffe di vario genere, cartonati, plastiche, materiali naturali come legno e sassi…) che parla della “Scuola al tempo dei Nonni” e che ora portiamo presso le scuole: gli alunni ma anche gli insegnanti guardano con stupore il risultato del nostro lavoro, un volume che si può vedere con gli occhi e con le mani… L’unico rimpianto che ho è di non essere riuscita a rendere il Museo accessibile a noi persone disabili visive: infatti i giocattoli sono tutti racchiusi in teche e non si possono esplorare al tatto. Spero vivamente di poterlo fare prima o poi, anche perché considero l’inaccessibilità in genere una grave discriminazione, inconcepibile nel XXI secolo: e qui due parole le voglio spendere sul rapporto fra ciò che è nella realtà e ciò che dovrebbe essere. So perfettamente – sono prima di tutto 42 una giurista – che molte sono le norme che sanciscono i principi di accesso alla cultura e all’informazione, ma spesso la quotidiana realtà è assai lontana da esse, per cui è nostro compito – intendo di noi persone disabili – fare in modo che le regole poste a nostra tutela trovino la maggior realizzazione ed applicazione possibile. Del resto penso che la mia esperienza al Museo del Giocattolo non si chiuda qui: in “Civitas Vitae” non ci sono addii, ma solo degli arrivederci… Quando mi viene richiesto, passo allo scanner delle immagini tratte da libri o dei disegni fatti a mano che i servizi socio-educativi poi utilizzano nelle molte attività: una persona non vedente che lavora con le immagini… Qualcuno ha riflettuto su questo… E per me è del resto una bella sfida quella di far comprendere che anche chi non vede può seppure con strumenti e per vie differenti svolgere attività a torto ritenute basate esclusivamente sul senso della vista. Le difficoltà, certo, non sono mancate, specie nel primo periodo e ancora non mancano. Per lavorare qui, ho dovuto lasciare la mia città e i miei familiari più stretti, ad eccezione di mio figlio: non è stata una decisione facile ed i primi due mesi sono stati più difficili di quanto pensavo. 43 Gli spazi qui, poi, sono molto ampi ed è difficile per chi non vede imparare ad orientarsi in assenza degli appositi sistemi tattilo-plantari e mappe tattili. Però col determinante aiuto di tutti sono in grado di superare ogni difficoltà… Anche quelle che io ritengo invalicabili… Come vuole la filosofia di ICF, un ambiente favorevole permette di andare oltre il deficit. Sul piano delle relazioni, riconosco che a volte il lavorare in un grande ambiente comporta, almeno per me, una concentrazione ed un consseguente dispendio di energie non indifferente: a volte sentirei il bisogno di spezzare questi momenti di socialità con momenti in cui poter starmene un po’ da sola a lavorare in assoluto silenzio e tranquillità, magari seduta alla scrivania di casa e con la sola compagnia del mio pc e della voce sintetica che mi accompagna. Quanto ai colleghi, non tutti accettano volentieri di rapportarsi con una persona non vedente. Ed infatti, delle due l’una: se tu persona con disabilità rendi meno degli altri hai una scusante, se invece te la cavi piuttosto bene… Non sempre i colleghi lo ammettono e tantomeno lo accettano… Ho versato lacrime amare per questo, ma dopo mi sono detta che, tutto sommato, non ne vale la pena… 44 …MA IL BUIO E’ DAVVERO IL NULLA? CHIUDO GLI OCCHI ED È TUTTO SCURO Chiudo gli occhi ed è tutto scuro Anche aprendoli la luce scivola via da me. Sento il tuo affetto un po' deluso; abbracciami, mamma: sono un riflesso di te, Non ci sono colori a dipingere il mio mondo Ma nei sogni tutta l'esistenza è con me. Mille suoni nei miei pensieri fanno girotondo come il tempo che sento addosso perso in sé. Sfumature e forme volano libere tra le mie ciglia: la mia immaginazione non è certo arginata! sono sempre curioso di modellare qualche nuova meraviglia: non sono rimasto senza sogni, scoperta la vita. Non sono diverso dagli altri. Anche loro credono in un Dio senza volto, come me. Stammi vicino brillandomi con il tuo amore: nel cielo scuro dei miei occhi, sei l'unica stella che c'è. 45 Parte 3. – …Ma il buio è davvero il nulla? La diversità fa paura: lo sappiamo tutti. Forse ciò che a chi vede spaventa di più della cecità è – almeno stando a quanto apprendo dalle persone vedenti che conosco o comunque con cui ho a che fare - il buio, che è concepito come il nulla. Chi vede è infatti portato a pensare che oltre la vista c’è il niente e questo in apparenza può essere plausibile, posto che attraverso il senso della vista passa la quasi totalità delle informazioni che noi apprendiamo, oggi ancor più di ieri, dato che la comunicazione attuale avviene soprattutto per immagini. In realtà non è così. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che il buio è una dimensione del vedere (chi è totalmente cieco non può cogliere nemmeno cosa è il buio: semplicemente non coglie nulla…). Chi non vede invece deve affinare tutti gli altri sensi (il tatto e l’udito in primo luogo) per poter arrivare a conoscere ciò che lo circonda, cosa che chi vede non fa perché non ne averte la necessità. Ma io penso che questo non fare, non attivarsi per, è una occasione mancata: quante cose si possono capire anche toccando, ascoltando, annusando, odorando… Se siete per esempio al buio e dovete trovare il buco della serratura per infilare la chiave, provate a cercarlo con le mani anziché con gli occhi: vi assicuro che ci metterete molto meno tempo!14 In queste pagine, ho voluto raccogliere alcune testimonianze di persone che hanno partecipato alle cene al buio. Queste vorrebbero essere – almeno per me – occasioni in cui chi vede può sperimentare che un approccio multisensoriale alla realtà ci consente di capire ciò che ci circonda nella sua interezza e che viceversa un approccio basato solo su uno od alcuni dei sensi di cui disponiamo ci dà una “visione” parziale, incompleta, riduttiva… 14 A chi voglia approfondire il tema della multisensorialità, consiglio il volume “Lo straordinario potere dei nostri sensi. Guida all’uso”, scritto da Rosenblum Lawrence (Bollati Boringhieri, 2011). 46 Al buio... di Laura Cegalin15 Il 25 giugno alcuni docenti e simpatizzanti di Porte Aperte sul Web si sono recati alla Cena al buio organizzata dall'Istituto dei Ciechi di Milano. È stato un momento importante per sperimentare nuove modalità comunicative ed espressive. Molto di quella serata è rimasto in noi, così come ci racconta Laura rovistando con leggerezza ed intensità tra le sue e nostre sensazioni di quel giorno. Mi chiamo Laura, sono un'educatrice professionale, ed ho avuto il privilegio di conoscere Alice, una preadolescente non vedente, che da quattro anni mi insegna a guardare oltre. Io, che sono stata la sua insegnante di sostegno, e che ora mi cimento con lei nell'apprendere un buon metodo per comprendere e usare Lambda, o per sostenere tre ore di algebra, mi trovo spesso ad osservarla, quando fa le sue facce buffe, commenta il mio nuovo profumo, o scandaglia il mio astuccio o la mia borsa con le sue mani curiose. È grazie a lei, che, tra gli altri tesori che la mia professione mi ha regalato, sono entrata in contatto con L'Istituto dei Ciechi di Milano. Un contatto fugace, per un corso di informatica, che mi ha però instillato la curiosità per il misterioso Dialogo nel Buio. Anche alcuni miei alunni di una scuola superiore avevano già fatto questa esperienza, e il desiderio di portare qualche compagno di classe di Alice, nel buio, a sperimentare quanto sia poco scontato avere il dono della vista, magari per apprezzare e riconoscere gli sforzi quotidiani della loro vicina di banco, mi tentava. Poi, per questioni logistiche, il tutto è caduto, tranne il desiderio di sperimentarmi, in prima persona. Accompagno Alice nei corridoi, in giro per Milano, abbiamo perfino partecipato a diverse gare di corsa campestre, fatto spinning, orientiering, salto in alto, in lungo… ma non avevo mai potuto provare che il mio modo di accompagnarla non fosse un trascinamento, un portarla… Fino a lunedì. 15 Fonte: www.porteapertesulweb.it/newsletter/materiali/newspasw2.pdf. 47 Entrando nel suo mondo mi è venuto naturale accettare l'invito a partecipare alla cena nel buio del 25 giugno, comprensiva di un assaggio del percorso di “Dialogo”. Ora che mi trovo a dover scrivere di questa esperienza, del tutto inedita, e meravigliosa, non so neppure da dove iniziare, ho paura che qualsiasi cosa scriva finisca per essere banale e retorico. Ma è ben poco banale quello che ho provato, nell'entrare in una dimensione che da piccola temevo terribilmente, e che invece ci accompagna, per tutta la vita, ricordandoci che ogni cosa, come la luce, ha il suo rovescio, il buio. Affascinata. Mi sento così. Muoversi nel buio più totale, passare dall'essere l'esperta, la guida, alla completa incompetenza, al sentirmi buffa, impotente; sperimentare l'evidente fatica, la paura, la frustrazione di fronte al non riuscire; condividere con un gruppo di avventurosi l'inesperienza, la novità, la frustrazione nel non riuscire ad esplorare se non una frazione dell'ambiente; e insieme, nel momento in cui tutto sembra perso, e le emozioni ti affluiscono alla testa in un vortice, e ti chiedi “perché sono qui?” o minacci Alberto di fargliela pagare, ecco che un braccio esperto ti raggiunge, ti sorregge, ti ha individuato, chissà come, ha sentito la tua difficoltà, il tuo disagio. È Paolo, la mia guida. Lui sa dove sei. Ti riconosce. E sa perfettamente cosa stai vivendo. Non lo ha studiato sui libri, lui, no. Lo vive sulla sua pelle, tutti i giorni. E in maniera sorprendente mi accompagna, lui, un non vedente, in questo labirinto, attraverso situazioni di possibili quotidianità. Mi fido, la sua voce è calda, rassicurante: è lui l'esperto adesso e io finalmente posso vedere, so dove devo andare, e non sono sola. Lo stomaco brontola, non solo il mio, nel buio i suoni sembrano più confusi, e io mi sento imbranata, non capisco da dove vengono. Ogni cosa sembra più difficile, ma ho la guida ideale: lui c'è, e interviene solo se davvero ne hai bisogno, senza che tu lo chieda, ma senza sostituirsi. Arriviamo finalmente nella sala ristorante: Paolo ci fa accomodare, siamo smarriti, ma sollevati. Siamo tutti insieme, e la condivisione, in questi casi non è una cosa da poco. Con imbarazzo, ma forse complici del buio, cerchiamo di comunicare tra noi. Come? Io non mi ricordo neanche il viso dei miei commensali, siamo tutti uguali, il non verbale è più sottile, ci vuole tanta concentrazione. 48 Eppure pochi minuti, e la conversazione si avvia, in modo spontaneo. Tra una presentazione e l'altra tastiamo il tavolo, e gli oggetti davanti a noi. Inizio a pensare che la scelta dei pantaloni bianchi non sia stata in effetti molto azzeccata. Paolo e i suoi colleghi si muovono con esperienza, mi domando come facciano a comunicare tra loro, a non scontrarsi, a ritrovarsi. Abitudini, ordine condiviso, ci risponde la nostra guida: io però penso che sia necessario essere speciali. Mi sento meglio, nel locale c'è un piano bar. Fantastico! E che estro… Le note addolciscono i miei pensieri, ascolto le voci, guardo nel piatto (con le mani…) cosa mi aspetta. Mi gusto la cena, come non mi era mai capitato di fare. È difficile, ma non impossibile, mi ripeto, e Alice affronta tutto questo tutti i giorni. Mi commuove l'idea della mia befanella che mi parla dei suoi miti musicali, e di questo o di quel compagno, senza averli mai visti. Eppure sento che lei sì che li vede, e li conosce: non è retorica, lei può apprezzare nel profondo una persona, e non lasciarsi incantare dall'aspetto. Sento di stimarla ancora di più, lei e tutti coloro che nelle sue condizioni, a vario titolo camminano per le strade caotiche di questo mondo di immagini e velocità. Il mio respiro si sintonizza sulla musica, sono serena. Il vedere, per il momento, non mi manca: io so che questa condizione finirà. E per ora non mi serve: sto parlando con calma, e mi sto divertendo con persone che non conosco, che non vedo, e che probabilmente non vedrò mai più, ma che hanno condiviso con me un momento, un assaggio di vita inedito, che resterà chiuso nella parola esperienza, o volerà attraverso i nostri racconti. La cena finisce, ci riaccompagnano verso l'esterno; ho l'occasione per esplorare le mani di Paolo, lui complice mi lascia fare. È una mano che non scorderò. All'uscita la luce mi investe, tutto riprende forma troppo velocemente, gli occhi mi fanno male. Guardo le persone intorno a me e mi chiedo chi siano, le riconosco dalla voce, una voce che mi racconta di questa esperienza, del percorso dall'angoscia allo stupore, di persone che sfidano la vita ogni giorno, e ogni giorno ci ricordano che non è indispensabile la vista per guardare oltre. 49 SANT'ANASTASIA. CENA AL BUIO: QUANDO L'ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI 22/04/2012 Autore: Rita Terracciano16 L'evento, organizzato dall'U.I.C.I. e Real Vesuviana, si è svolto presso i locali del "Centro Polifunzionale Giuseppe Liguori". Sessanta i commensali, dieci i camerieri non vedenti ed un ospite d'eccezione: il cantautore Enzo Avitabile. Un'affascinante e "spiazzante" cena, un itinerario che si serve del cibo e del buio per far vivere nuove sensazioni e scoprire nuove possibilità di conoscenza di noi stessi e degli altri: è stato questo lo spirito che ha animato la "Cena al buio", che si è svolta per la seconda volta presso i locali del Centro Polifunzionale "Giuseppe Liguori". All'evento, organizzato dall'Unione Italiana Ciechi di Sant'Anastasia in collaborazione con l'A.S.D. Real Vesuviana, hanno partecipato 60 persone provenienti da Pompei, Castellammare di Stabia, Mugnano, Giugliano, Napoli, Massa di Somma, Pollena, Volla, Cercola e Pomigliano d'Arco, insieme alla giunta del Comune di Casola di Napoli quasi al completo con gli assessori Pasquale Santarpia, Mario Cavaliere e Catello Sorrentino. Dieci i camerieri non vedenti che hanno condotto ai tavoli, in una sala oscurata per l'occasione, i commensali allietati dall'animazione di un cantantecameriere ed un maestro pianista (anche loro non vedenti), e 20 volontari che hanno dato una preziosa mano a cucinare ed organizzare il buffet offerto (alla luce) prima della cena, occasione per mostrare agli invitati le iniziative dell'associazione sportiva dilettanti "Real Vesuviana" alla quale è andato il ricavato della serata utile per finanziare le attività dello sport. 16 Fonte: http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=17024 50 Nel gennaio 2009, partecipammo alla cena anche noi de ilmediano.it in qualità di commensali e fu un'esperienza singolare e memorabile mentre questa volta abbiamo fatto parte dello staff volontario. Ci siamo ritrovati a cucinare gustosi piatti, ad affettare rustici, tortani, chili e chili di pane, ad impiattare le pietanze ed a caricarle sui carrelli che mandavamo all'ingresso della sala. Carrelli che poi venivano afferrati dai camerieri non vedenti, impeccabili nel servizio a tavola. La cucina diventava sempre più calda ma a grandi ritmi abbiamo tutti lavorato con gioia e con il sorriso sulle labbra: cuori, menti, mani attive per non scontentare i nostri ospiti. «Beati loro - pensavo tra me e me - quelle persone stanno condividendo momenti di forte empatia con la diversità sensoriale, momenti che ho vissuto anch'io qualche tempo fa, dove anche se si azzera la vista, gli altri sensi si potenziano a mille ed allora ti accorgi che non vedere non vuol dire non vivere, ma vedere le cose con gli occhi del cuore e dell'anima». E mentre eravamo avvolti da una montagna di piatti da lavare e patate da cuocere, mi venivano in mente questi pensieri e la bellissima frase tratta da "Il Piccolo Principe": «L'essenziale è invisibile agli occhi». Una frase che trovai interessante la prima volta che lessi il libro ma che non compresi fino in fondo. Oggi, invece, posso dire di aver capito il senso di quelle parole grazie alle esperienze fatte con cene e bar al buio ed in particolare con l'amicizia con ragazzi non vedenti, con gli stessi che erano anche i camerieri di quella cena ed avevano animato la serata con musica e canti. «Potessi rivivere anch'io quello che stanno vivendo lì dentro.». Ma c'era ancora da affettare pane, spalmare la salsa tonnata sulle fettine di vitello, caricare i carrelli. E via, altro giro altra corsa, sempre con allegria anche se la stanchezza iniziava a farsi sentire. «Portiamo qualcosa da mangiare ai camerieri!», annunciava con voce squillante la "capo-mastra" Enza Cicatiello. Ed ecco l'occasione da me tanto desiderata. «Vado io!». Mi si chiedeva se fossi capace attraversare da sola la sala al buio ed arrivare al tavolo dove c'era la consolle: lì lo spazio bastava per far mangiare gli animatori ed i camerieri. «Certo che ce la faccio!». E allora mi sono attrezzata con un paio di piatti di gnocchi al sugo ed entro nell'anticamera già buia. Dall'altro lato, un cameriere mi ha aperto il telone che conduce alla sala e. ecco la magia. Mi sono ritrovata in un salone grande che avevo già visto e dunque non è stato difficile orientarmi. Le voci dei commensali si accavallavano: c'era gioia, aria di festa anche se non si vedeva niente di niente. «Caspita è buio, ma quanta vita che c'è qui.». Con una mano reggevo i piatti e con l'altra toccavo la parete che mi avrebbe condotta alla consolle. La gioia di portare da mangiare ai miei amici mi faceva attraversare la sala a passo veloce. «Ragazzi, sono Rita, dove siete?». «Rita, aspetta, vengo a prenderti!». È il maestro pianista che ad un tratto mi ha afferrato dolcemente la mano che già cercava qualcuno: l'emozione di ritrovarsi al buio è stata forte e riuscivo a vedere il musicista. Si, 51 era buio ma vedevo i suoi occhi, il suo volto, le sue labbra socchiuse appena appena. Mi ha preso la mano, dunque, e condotta alla consolle: lì ho ritrovato gli altri ragazzi e ci siamo abbracciati tutti. Era bello rivedersi dopo sole due ore anche in quella condizione particolare per me ma normale per loro. Sono uscita dalla sala con il cuore che mi batteva a mille, felice come non mai. E proprio mentre attraversavo l'androne del Centro per ritornare in cucina ho visto un volto noto seduto a chiacchierare con un paio di ragazzi. Era Enzo Avitabile, sassofonista, flautista, cantautore, ospite dell'evento. Mi avvicino a lui, mi presento ed iniziamo a parlare del sound e del ritmo caratterizzato dal patrimonio lessicale, afro-americano e mediorientale delle sue canzoni. Gli chiedo come mai non sia nella sala a cenare: «Ho fatto un'esperienza per vent'anni da ipovedente - ci ha dichiarato il famoso cantautore che nel corso della sua lunga carriera ha scritto canzoni per importanti donne della canzone internazionale come Giorgia e Amal Murkus - Dopo l'Università ed il Conservatorio non ho visto più: avevo un velo bianco davanti agli occhi che è più confortevole ma non si vede nulla lo stesso. Poi ho avuto quattro trapianti grazie ai quali ho riacquistato la vista e quando ho avuto l'invito della cena al buio qui a Sant'Anastasia, ho partecipato ben volentieri come testimone ma ho detto agli organizzatori di non voler entrare nella sala, perché non volevo rivivere una cosa già vissuta». Dopo un po', però, la curiosità di vedere cosa succedeva in sala ha spinto Avitabile ad entrarci ed ha affidato ai nostri microfoni le sue sensazioni: «Mi sono reso conto di scoprire ancora un'altra cosa: il contatto con l'altra persona che è fondamentale perché nella mia vita ho vissuto un rapporto introspettivo, di grande nostalgia molto di chiusura, ero un po' distaccato da certe cose. Stasera ho visto invece dei grandi talenti. Ho visto cose che nella mia vita mai avrei potuto immaginare: come ci si può muovere nel buio meglio degli altri che si muovono alla luce. Ho assistito ad un grande viaggio di solidarietà e di entusiasmo. Una grande risposta alla sofferenza ed al non possibile. Stasera non ho avuto alcuna percezione che niente era possibile». Avitabile è rientrato una seconda volta in sala, durante la fase finale della cena, e qui tutti i presenti hanno cantato la sua "Mane e mane", un toccante pezzo del 1999 che è a tutt'oggi una delle tracce che incarnano alla perfezione il dialogo spirituale, sociale e politico fra le culture del Mediterraneo. Lo stesso cantautore originario di Napoli ha poi voluto ricantarla personalmente. «L'evento è stato organizzato molto bene e mi è piaciuto lo spirito dello stare insieme; faccio i miei complimenti ai maestri per la musica che hanno suonato con grande cuore e dedizione - ha concluso Avitabile Sono rimasto molto commosso della citazione di questa canzone "Chi nun cunosce 'o scuro, nun po' capì 'a luce". È una frase che ho scritto dopo il secondo trapianto quando avevo riacquistato il visus 52 ed il mio era un canto di felicità perché ero uscito fuori da un grande tunnel. Ho cantato questo pezzo per molti anni ma mai al buio e con questa grande autenticità». Il buio Di Emanuela Nava Avvenire 8/05/201017 Certe facce possono sembrare ostili: conoscersi fa superare ogni diffidenza C’era un uomo in Piazza del Duomo quando ero una bambina, con il bastone bianco e gli occhiali scuri. Vendeva i biglietti della lotteria. Lo osservavo mentre camminava e faceva battere piano il bastone sulla strada. A occhi chiusi a casa lo imitavo. Con un ombrello chiuso o solo con le mani tese, aprivo la porta, attraversavo il corridoio, entravo nella mia stanza. Quand’ero piccola temevo il buio: la tapparella troppo abbassata; il temporale che spegneva le luci; i passi, i fruscii, i cigolii nell’oscurità della notte. C’era un uomo in Piazza del Duomo che vendeva biglietti della lotteria. Era cieco. Come faceva a vivere sempre al buio? mi chiedevo. È stato allora che ho iniziato a leggere. Mi sembrava che per leggere occorresse avere sensi sconosciuti. Bisognava raccogliere le parole scure e trasformarle in luce, odori e voci, come faceva l’uomo della lotteria. Oggi, dopo tanti anni, ho scoperto un luogo a Milano dove non si guarda con la vista, ma con tutti gli altri sensi. Dove si guarda e si riguarda, con molto riguardo, come se fosse sempre la prima volta. Si guarda nel buio con gli occhi chiusi come barbagianni in caccia. C’è un luogo a Milano dove c’è persino il mare. È un mare scuro, rumoroso e gioioso. La ragazza che si sporge dal parapetto è la nostra guida. Poi immerge il bastone bianco nell’acqua, sente il 17 Fonte: http://www.dialogonelbuio.org/index.php?option=com_content&view=article&id=39&Itemid=65 53 fresco sulla pelle. Si chiama Filippa, è cieca come l’uomo che vendeva i biglietti della lotteria. È lei che ci conduce dal mare al bosco, dal centro della città al porto. È lei che mi segue mentre guardando nell’oscurità mi commuovo. Mentre dentro di me tutto si muove, pulsa, si gonfia come una vela al vento. Sono in Via Vivaio, all’Istituto dei Ciechi, alla mostra che si chiama Dialogo nel Buio e mostra ciò che gli occhi non possono vedere. Quand’ero piccola temevo il buio: la tapparella troppo abbassata; il temporale che spegneva le luci; i passi, i fruscii, i cigolii nell’oscurità della notte. C’era un uomo in Piazza del Duomo: vendeva biglietti della lotteria. Era cieco. Come faceva a vivere sempre al buio? mi chiedevo. In via Vivaio ho scoperto che il buio non è scuro, non è freddo. Che al buio le mani vedono, le orecchie vedono. Tutto il corpo vede. Che il buio è un libro da leggere per chi ha l’intuito e il pensiero potente. Filippa si muove tra noi: non la vedo con gli occhi ma so sempre dove è. Come so sempre dove è Magda, l’amica che mi accompagna alla mostra. Posso avvicinarmi a lei senza sbagliare, trovarla al primo sguardo della mano. Come se al buio avessi scoperto un sesto senso, una nuova vista che non credevo di possedere. Così avverto la presenza della guida e delle altre persone che alla mostra percorrono gli stessi nostri gioiosi sentieri, non solo perché odo la loro voce, ma anche perché sento il calore della loro vicinanza, con la stessa certezza con cui sento, quando siedo su un autobus, la presenza dei viaggiatori che siedono dietro di me. Ora che ci ripenso, mi accorgo che le parole più pronunciate durante il percorso al buio sono state guardare e vedere. 54 La Nazione del 13-02-2011 Molto più di una fiaba tra le fiabe... FIRENZE. Molto più di una fiaba tra le fiabe. Le mamme non vedenti potranno leggere novelle ai figli che invece hanno il dono della vista. Da Cappuccetto Rosso ai fratelli Grimm. La Stamperia Braille di Firenze ha preparato un album con grandi pagine nere, disegni a rilievo e testo in Braille. Esorcizzare il buio, dice la dottoressa Cecilia Trinci, responsabile della Stamperia e ideatrice di questa collana, fatta anche "per dare modo ai bambini di capire che le mamme non vedenti leggono cose che loro non vedono". E' come entrare piano piano in un mondo fantastico nel quale le barriere, le divisioni, i distacchi, sono stati superati… 55 Parte 4 – I disabili visivi fra pregiudizi e realta’ “Mio padre è stato il mio primo maestro. Egli era un operaio; non era istruito ma nello stesso tempo non aveva i pregiudizi del maestro professionista che spesso fanno “di una mosca un elefante”. Egli mi voleva bene e mi faceva partecipare alla sua vita. Nel suo laboratorio io avevo imparato a conoscere la sega, la pialla e i compassi; egli poi mi descriveva in poche parole tutto ciò che non potevo toccare. In campagna egli m’insegnò a passeggiare accanto a lui, e a riconoscere coll’udito la vicinanza di un muro, di una siepe, di un albero o di un fossato. Egli m’insegnò a nuotare nel fiume quando facevamo i bagni insieme. Se c’era da attraversare una piazza in fretta, egli me la faceva attraversare diagonalmente, spiegandomi che la diagonale è la via più breve”. ( Augusto Romagnoli, “Ragazzi ciechi”) “Ricordo benissimo, avevo allora quattro anni, il momento in cui fui sbendato: l'infermiera pose per terra una moneta da cinque lire, io la vidi luccicare e, tra il grido di gioia di mia madre e la grande felicità di mio padre, mi mossi e la presi. Com'era bella mia madre! Com'era bello mio padre! Fino a quel giorno loro erano per me solo buoni e cari; da quel momento erano anche tanto belli. Con quel po' di vista incominciai a pretendere di correre per il paese con Natale, con Totò, con i loro ed i miei amici. Volli partecipare ai loro giochi ed in casa, oltre a toccare tutto, incominciai a vedere tutto”. ( Giuseppe Fucà, “Un racconto per Chiara”) 56 Parte 4. – I disabili visivi fra pregiudizio e realtà Come viene vista la persona minorata della vista oggi? Si sarebbe portati a credere che nella società della cultura e dell’informazione, dove tutto è ormai a portata di clic, i pregiudizi e i luoghi comuni che un tempo rappresentavano quasi delle verità inconfutabili siano ormai scomparsi. In realtà non è così, anzi, negli ultimi anni assistiamo a preoccupanti fenomeni di disinformazione o, peggio ancora, di intolleranza, ignoranza e, in genere, di scarsa conoscenza. Le riflessioni che seguono ne sono una prova. Sulla “diversabilità” Di Carlo Loiodice ...Dimostravo la quantità di errori e mistificazioni presente nell'espressione "diversamente abile". Si tratta, in sintesi, di un errore di traduzione. L'espressione inglese è "differently abled", che si potrebbe tradurre come "abilitato in modo differente". Chiarissimo il riferimento, non alle abilità (differenti per ogni essere umano), ma al processo tramite il quale determinate abilità sono state raggiunte. Un esempio concreto. Un pianista vedente legge la musica sul pentagramma; un pianista cieco la legge in Braille in base ad una codificazione che col pentagramma non ha nulla a che fare. Alla fine del percorso differente che ha abilitato ciascuno, i due non sono diversamente abili, ma ugualmente abili nel suonare. E se differenza ci sarà, riguarderà la bravura tecnica, la sensibilità musicale, la versatilità di repertorio, ma nulla che abbia a che vedere l'handicap sensoriale di uno dei due. Conclusione: se il cieco si è fatto un mazzo tanto per "superare l'handicap", come dicono nel loro logo quelli della Fish, questo avvenuto superamento non potrà mai essere decretato, in quanto, nel sentire comune, sorretto dalla distorsione linguistica, Ray Charles sarà un diversamente abile, mentre Antonello Venditti no. Naturalmente nessuno ha potere assoluto sulle parole, le quali entrano ed escono dagli interstizi psichici che caratterizzano le relazioni umane, come fa l'acqua 57 dalle fessure. Dunque a nessuno di noi è dato di poter interdire l'uso di una certa espressione. L'importante però è saper leggere quelle espressioni. E nel nostro caso, essere consci che, quando diciamo "diversamente abile", pensando di essere più moderni e inclusivi, in realtà, moderni siamo, ma stiamo lavorando alla ghettizzazione di una categoria. Le insidie della diversabilità Di Francesco Fratta Negli ultimi decenni si è modificata con una certa frequenza la terminologia con cui indicare la menomazione fisica, sensoriale o mentale, ricercando, sulla base del "politicamente corretto",una formula espressiva dalla quale fosse assente ogni traccia di disprezzo o di svalutazione umana. Così siamo passati da "invalido" a "handicappato", e poi a "disabile" per approdare a "diversamente abile". Ciò lascerebbe supporre che qualcosa in questo lasso di tempo si sia modificato a livello della sensibilità comune, e che l'atteggiamento di fondo nei confronti di chi presenti un qualche difetto fisico-sensoriale o mentale sia profondamente cambiato - in meglio - rispetto a trenta o quarant'anni fa. Tuttavia la nostra sensazione, anche in quanto direttamente interessati, non è precisamente questa. Prescindiamo in questo contesto dalla legislazione, che dagli anni '70 ha fatto indubbi passi in avanti in materia di assistenza, di diritto allo studio e di collocamento al lavoro. Osserviamo invece che sempre più spesso ci troviamo di fronte ad atteggiamenti (e molti fatti di cronaca recente stanno lì a dimostrarcelo) che rivelano mancanza di considerazione, insofferenza o addirittura aperto disprezzo o ostilità. E la mente corre subito al down di Roma, aggredito e insultato da tre borseggiatori nell'indifferenza generale perché aveva osato avvertire la loro vittima; o a quello dell'Istituto Steiner di Torino, irriso e sbeffeggiato da alcuni suoi compagni mentre qualcuno riprendeva la scena che molti avrebbero poi trovato "divertente"; alle giovani disabili abusate sessualmente di cui ci hanno parlato i giornali degli ultimi mesi; ed a quelli di cui abbiamo saputo senza che assurgessero agli "onori" della cronaca: nostri soci aggrediti e rapinati per strada, ed una giovane donna fatta oggetto di insulti e apprezzamenti volgari perché si accompagnava ad un cieco. 58 Si dirà che ridere dello "scemo del villaggio" o divertirsi a spese di chi ha menomazioni fisiche e sensoriali, o anche approfittarne malignamente, è sempre accaduto, specie - ma non solo - ad opera dei più giovani. Vero. Ma è indubbio che l'assai più ridotta, o anche del tutto assente risonanza mediatica rendeva, quando si fosse attivato, più semplice ed efficace l'intervento censorio della parte più adulta e responsabile della comunità. Tuttavia non si tratta di rimpiangere il passato e di demonizzare i media. La questione è un'altra, ed è sottile e complessa. Il senso di pietà, avvertito nei confronti di chi è in condizione di evidente debolezza e necessità (bambini, malati, ecc.), si rivolge spesso a persone con gravi menomazioni fisiche e sensoriali, e fra queste certamente i ciechi. La pietà provata, obbliga in un certo senso ad assumere un atteggiamento protettivo nei riguardi di chi ne è fatto oggetto, ma, al contempo, può implicare un misconoscimento della completezza ed autonomia della sua personalità. Per questo abbiamo combattuto contro il pietismo e ogni altra forma esplicita o velata di discriminazione, rivendicando la pari dignità umana, politica, culturale e sociale dei disabili, senza perciò negare i limiti e i problemi che la disabilità inevitabilmente reca con sé. Ora non ci sentiamo più avvolti dalla soffocante quanto sminuente pietà altrui, pubblica o privata che sia, e quasi nessuno si sente più in dovere di esibire o di dichiarare la sua pietà nei nostri confronti, anzi, in genere se ne guarda bene. Ora, se mai, è divenuto "obbligatorio" dichiararsi per l'integrazione in nome dell'egual diritto di tutti e ostentare apprezzamento e ammirazione per le capacità "speciali" di cui sarebbero in possesso i disabili. Ci troviamo perciò a combattere contro una nuova forma di ipocrisia, dagli effetti non meno emarginanti del pietismo: quella di chi, in nome della parità e della non discriminazione, misconosce ogni differenza, e dichiarando che la disabilità non deve costituire un problema, non vede, proprio perché "non c'è problema", alcun bisogno di affrontare le necessità specifiche che ogni disabilità porta con sé. In parole più crude, visto che è political correct dichiarare tutti uguali, che i disabili non rompano col mettere avanti la loro disabilità e che si arrangino, come tutti del resto! E' così che, mentre a livello di cultura giuridica e di teoria politica gli uguali diritti sempre più vengono accordati sulla base del riconoscimento delle differenze specifiche, a livello del comune sentire vediamo avanzare invece l'indifferentismo. Liberati dalla "doverosa" pietà nei confronti di deboli, infermi, bisognosi ed assimilati, e dall'obbligo morale di alcuni comportamenti conseguenti (il soccorso, la difesa, la carità, ecc.), molti si sentono oggi pienamente legittimati a farsi gli affari 59 propri e a perseguire il proprio esclusivo interesse, nell'assoluto "rispetto", s'intende, dell'"ugual diritto" altrui a fare lo stesso e nella comune indifferenza verso i problemi specifici di chiunque altro. Per costoro chi si trova in condizioni svantaggiate è da considerarsi immediatamente fuori gara, degno al più (ma non sempre) di commiserazione; per questo tipo di mentalità i diritti speciali a tutela di chi è in condizione svantaggiata vengono percepiti come ingiusti privilegi; per questi "democratici" indifferentisti i disabili semplicemente non esistono, non devono esistere, sarebbe discriminatorio! Sarà per questo che ora siamo diventati "diversamente abili"? Ma forse veramente "diversabile" è proprio chi ha imparato a giocare con certe parole per nascondervi dietro comportamenti e sentimenti che poco o nulla hanno a che vedere con l'accettazione dell'altro e il reale rispetto delle differenti specificità di ciascuno. Noi, da ciechi, siamo del tutto disinteressati alle variazioni del vocabolario, e vediamo assai meglio quando si tratta di cambiamenti reali di atteggiamento. Lettera ai diversi18 Cari amici avete mai riflettuto sul concetto di diversità? Io sì, essendo una ragazza ipovedente e tuttavia mi sono resa conto che definire la diversità è tutt’altro che semplice. Dalla nascita ho un deficit visivo e mi sono sempre sentita diversa dagli altri non solo per le esperienze che vivo ma soprattutto per il comportamento degli altri. Per me è più difficile dei miei coetanei normovedenti riuscire ad instaurare delle amicizie profonde con loro perché sento da parte di essi nei miei confronti diffidenza e paura. Una volta all’anno frequento un campo scuola di quindici giorni con un gruppo di ragazzi ipovedenti e ciechi dove svolgiamo molte attività e ci confrontiamo nelle nostre esperienze. Incontrando questi ragazzi mi sono accorta che anche se abbiamo questo problema che ci accomuna e che ci dà un’identità di gruppo, siamo comunque uno diverso dall’altro. Pensateci anche voi! Siete sicuri di essere proprio uguali ai vostri amici? E poi in fondo non credete che il fatto di essere tutti diversi ci renda dunque tutti uguali? Chi decide cosa è normale? Chi 18 Lettera indirizzata da Eleonora, ragazza ipovedente di un liceo, ai suoi compagni. 60 decide cos’è diverso? Siete sicuri che la diversità sia così negativa? Io mi faccio spesso queste domande e penso che discriminare una persona con handicap o immigrata o altro sia manifestazione di ignoranza, paura e vigliaccheria. La diversità esiste da per tutto, chi è biondo e chi è moro, chi è basso e chi è alto, perciò bisogna accettarla, forse è come la legge degli opposti, una cosa non esiste se non ci fosse il suo opposto. La diversità umana esiste perché le persone “normali” possano capire quanto sono fortunati ad esserlo. Il fatto che ognuno di noi abbia la sua personalità e le sue caratteristiche ci rende unici ed insostituibili e quindi diversità è ricchezza. Non dobbiamo averne timore perché a causa di questo sentimento ci creiamo problemi inutili, compiangiamo, deridiamo e critichiamo invece di apprezzare quello che siamo e dare di più agli altri. Impariamo ad accogliere la diversità, è grazie a questa che noi possiamo formare la nostra identità arricchendoci giorno per giorno nel confronto con gli altri. Come (dis)informare sulla cecità (di Ada Nardin)19 Pietismo, musiche strappalacrime, continue imprecisioni, persone definite come "finte cieche" solo perché si sono "permesse" di scansare il camion che le stava investendo... Nonostante i progressi fatti registrare qua e là, negli ultimi anni, continua purtroppo ad essere desolante il panorama dell'informazione - che sarebbe ben più corretto chiamare "disinformazione totale" - proposta in televisione, alla radio e dai giornali, sulle persone cieche e ipovedenti. Vediamo perché 19 Ultimo aggiornamento (Friday 09 March 2012 16:24). Fonte: http://www.superando.it/content/view/8701/112/ 61 Stereotipi, luoghi comuni, inesattezze clamorose e tanta pesantezza: ecco come vengono rappresentate le persone con disabilità in genere, e i ciechi in specie, dagli organi d'informazione, televisiva, radiofonica e della carta stampata. Molto spesso mi sono chiesta la ragione del perdurare di tanti pregiudizi nei confronti della nostra categoria, nonostante i numerosi sforzi finalizzati a far comprendere che la cecità è una condizione e non una "disgrazia immane". Una delle risposte che mi sono data è che i media non compiono alcuno sforzo per far luce sul significato di disabilità, anzi, alimentano stati d'animo ansiogeni e reazioni errate, con servizi o articoli lacrimevoli, dove regna il buio, l'angoscia e la tristezza più totale, il tutto condito da un bel sottofondo musicale strappalacrime o da commenti tanto imprecisi quanto pietistici. Attorno alle persone con disabilità viene creato uno squallido sensazionalismo e spesso si viene rappresentati come dei «supereroi che ce l'hanno fatta nonostante le enormi difficoltà e le tante prove che la vita ha voluto infliggere». E tutto questo ai biechi fini di fare più ascolti! Preferirei che - in televisione o sui giornali - apparissero storie di semplice normalità, in cui si raccontano le difficoltà del quotidiano e le rispettive soluzioni adottate o adottabili. Gradirei che fossero trasmesse pubblicità progresso in cui si spiega in modo semplice l'uso del bastone bianco, il funzionamento di uno screen reader [programma che legge tutto quanto appare sullo schermo di un computer, N.d.R.] o il perché dei caratteri ingranditi. Vorrei che i commenti dei giornalisti fossero oggettivi e non angosciosi o che le musiche di sottofondo nei servizi fossero meno lugubri e lamentose. Desidererei che fossimo considerati semplicemente dei Cittadini, dei consumatori, dei contribuenti, in breve, delle persone. Insomma, mi aspetterei che la condizione di disabilità non venisse considerata come una questione annosa ed esclusivamente foriera di "scomodi problemi da 62 risolvere", ma che fosse affrontata normalmente e trattata come possibile risorsa, dato che molte persone con disabilità sono professionisti competenti e fanno attivamente parte integrante della società e non certo come degli assistiti. Un altro elemento antipatico è costituito dalle numerose imprecisioni che circolano sulla disabilità visiva e che sono alimentate da tanto cattivo giornalismo. Poniamo il caso dei "falsi invalidi". Quante volte si è gridato al "falso cieco" - non sempre con ragione - scrivendo che egli o ella si muoveva con disinvoltura e senza accompagnatore, attraversava sulle strisce pedonali, fermava un autobus con la mano, dava informazioni ai passanti, faceva la spesa da solo, curava il suo giardino, piantava un ombrellone in spiaggia, apriva e chiudeva a chiave il cancello di casa sua, riconosceva le monete - perfino i centesimi - praticava sport o, come in un caso clamoroso di linciaggio mediatico, guidava un treruote nel suo orto? Orbene, forse che un cieco o un ipovedente - categoria, quest'ultima, che sfugge troppo spesso ai giornalisti che non si documentano - non è in grado di fare tutte queste cose e anche di più? Una persona con disabilità visiva più o meno lieve è in grado - se si trova nel suo ambiente o se è ben addestrata dal punto di vista dell'autonomia personale - di compiere tanti gesti che paiono inconsueti o impossibili alla platea ignara dei lettori e di chi li informa. Azioni come camminare con sicurezza, occuparsi della propria casa o del proprio giardino, praticare sport o, guarda un po', riconoscere monete o tanti altri oggetti, sono, per noi, all'ordine del giorno e non dovrebbero ingenerare reazioni di stupore e meraviglia. Senza contare che alcune patologie consentono di leggere alcune scritte o di orientarsi con un colpo d'occhio, se la luminosità è buona o, al contrario, non eccessiva. In un articolo, ad esempio, mi è capitato di leggere che il "finto cieco" in questione si era scansato per evitare che un camion lo investisse… Lascio ai Lettori le considerazioni che riterranno più opportune! In un altro articolo, invece, ho letto che si accusava il cieco di non appoggiarsi al bastone bianco, come se stessimo parlando di un bastone da passeggio o da appoggio! Chiaramente il giornalista era, e ha voluto restare, ignaro di come si utilizza l'ausilio fondamentale per la mobilità autonoma dei ciechi, altrimenti non avrebbe emesso la sua sentenza con tanta leggerezza. Anche servirsi delle strisce pedonali è un'azione obbligata per i ciechi, in quanto non solo l'attraversamento è adeguatamente segnalato con i percorsi tattili, ma, in un corso di orientamento e mobilità, veniamo addestrati a utilizzare ogni elemento a disposizione per muoverci in piena sicurezza. Nel caso del "finto cieco" che guidava il trattore, infine, non si trattava altro che di un buon 63 ipovedente che ha compiuto, senza pericolo per alcuno, un piccolo tratto nel suo orto, tutto qui. Eppure si è gridato subito allo scandalo, in luogo di documentarsi sul tipo di disabilità da cui era affetta la persona in questione, disabilità che lascia molte più abilità di quante possa credere la gente comune che, giustamente, non conosce i diversi gradi di una patologia oculare. Spetterebbe appunto ai media portare l'audience a conoscenza delle tante sfumature causate da un disturbo visivo, ma, per mancanza di preparazione, voglia, od onestà intellettuale, è infinitamente più comodo lanciare il sasso e vedere i danni d'immagine che provoca, quasi sempre, ahimè, impunemente. Mi auguro, quindi, che questa mia umile e breve dissertazione, non certo scritta da una penna autorevole, ma composta con cognizione di causa, faccia riflettere e, perché no, contribuisca a cambiare lo spirito con cui le persone con disabilità vengono raccontate. Ombre e ipovisioni Di Franco Frascolla E' passato ormai qualche mese da quando mi sono reso conto che la mia ombra fa paura. Se ad alcuni fa paura anche la propria ombra... posso assicurarvi che sono vissuto 42 anni pensando alle ombre come a interessanti e a volte utili effetti ottici. Ho sempre camminato per strada badando al paesaggio, alle persone e alle cose che mi circondano; l'ombra degli oggetti e della gente la prendevo in considerazione quasi esclusivamente in estate, quando il sole costringe a trovare riparo. Camminando tanto e all'aperto mi capita di usare scarpe poco rumorose; le suole di cuoio sono adatte a persone sedentarie. Faccio spesso lunghe passeggiate, camminando quasi sempre ad un passo doppio rispetto a chi mi precede. Cammino soprattutto al tramonto o di sera, quando le ombre prodotte dal sole basso o dai lampioni sono più lunghe. 64 Probabilmente un ipovedente deve fare più attenzione a dove mette i piedi che ad evitare di calpestare le ombre proprie e altrui; questo significa che anche l'attenzione verso gli atteggiamenti di chi precede o si incontra per strada non è prioritaria. Com'è come non è, la scorsa estate mi sono reso conto che quando mi avvicinavo a delle persone che mi precedevano sul marciapiede, queste si giravano per vedere chi sopraggiungeva. Dopo un po' ho considerato che in strada c'è rumore e costoro non potevano quindi aver sentito i miei passi felpati di gomma. La circostanza ha continuato a verificarsi e io sono stato sempre più attento a osservare cosa succedeva per coglierne il fattore scatenante. Ad un certo punto l'illuminazione: quando la mia ombra sopravanzava chi mi precedeva scattava il meccanismo del voltarsi a guardare. Insomma, le persone camminano facendo attenzione e diffidando delle ombre altrui. E' sempre stato così e da ipovedente non ci ho mai fatto caso? Si tratta di un effetto collaterale del clima di paura che sta dilagando nella nostra società? Probabilmente è più facile fare attenzione e diffidare delle ombre di chi cammina accanto a noi che dubitare, guardarsi e contrastare le ombre, affatto virtuali, proiettate dalla quotidianità e da coloro che ne tendono i fili. Le ombre non sono tutte uguali; quelle più pericolose rendono tutti ipovedenti... 65 Indicazioni bibliografiche AA.VV.: “Passaggi. Dialogo con il buio”, Mimesis Interferenze Editore, 2006. Boerci Laura – Visentin Filippo: “I colori del buio”, IBISKOS EDITRICE, RISOLO, 2009 Carino Tissino: “Essere non vedente. Un lungo cammino di emancipazione”, Chiandetti Editore, Reana del Rojale, 1983. Castelli Piero: “In margine al Movimento Pro Ciechi Civil in Italia”, Editrice Letteraria Internazionale, Ragusa. Cervellin Davide: “Disabili. Come trasformare un limite in un’opportunità”, Marsilio Editore, venezia, 2003. Cervellin Davide: “Quando un cieco vede oltre. Come i diversi possono essere utili”, Marsilio Editore, Venezia, 2001. 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