le prospettive di sviluppo per la persona con

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le prospettive di sviluppo per la persona con
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO
PER LA PERSONA CON DISABILITÀ VISIVA
OGGI
04-05-2012
DOCENTE: LORENZA VETTOR
E-MAIL: [email protected]
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Premessa
Dire quali sono “Le prospettive di sviluppo della persona non vedente oggi” non è argomento che si
può trattare in poche righe… Queste pagine vogliono perciò essere solo una raccolta di scritti e
testimonianze che spero possano essere utili a chi, normovedente, voglia approcciarsi al mondo
della disabilità visiva. Come tali, esse non vogliono avere alcun valore scientifico, ma costituire,
appunto, semplicemente riflessioni, considerazioni, stralci di vita quotidiana…Per questo, sono state
tratte dal web – ma avendo ben presenti i contenuti e gli autori degli scritti – o da liste di
discussione a cui partecipano persone minorate della vista. Il lettore quindi non troverà disquisizioni
teoriche, bensì pagine di vita vissuta…
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PARTE 1. – LE PERSONE NON VEDENTI
IERI…
da Il Piccolo Principe.
(di Saint-Exupéry)
..."ecco il mio segreto. E' molto
semplice: non si vede bene che col
cuore. L'essenziale e' invisibile agli
occhi."
"L'essenziale e' invisibile agli
occhi", ripeté il piccolo principe,
per ricordarselo...
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Parte 1. – Le persone non vedenti ieri…
Prima di vedere chi sono i ciechi oggi, chiediamoci chi erano un tempo… Fino al secondo
dopoguerra,1 le professioni che essi svolgevano erano perlopiù di tipo artigianale e manuale:2
impagliatori di sedie, ma anche fisioterapisti, musicisti (fra essi primeggiavano gli organisti, molto
ricercati per essere chiamati ad esibirsi nelle cerimonie come i matrimoni), accordatori di strumenti
musicali (pianoforte in primo luogo), venditori di giornali, frutta e verdura, articoli di cancelleria,
biglietti della lotteria…3 Vennero poi i centralinisti telefonici e gli insegnanti…
Ecco qui di seguito due vive testimonianze di come era la condizione del cieco nella prima metà del
secolo scorso…
Uno come tutti gli altri.
Di Giuseppe Biasco4
Avevo appena 18 anni nel 1967, da poco avevo superato gli esami di maturità e mi ero iscritto alla
Università. Abitavo in una bella palazzina, che si trovava alla fine di una strada silenziosa, che,
girava attorno alla stazione della Funicolare che da Montesanto saliva sino a San Martino.
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Fondamentale fu nel corso della seconda guerra mondiale il ruolo che ebbero molti aerofonisti ciechi, che – come
ricorda Mario Censabella (in “Camminare insieme”, UICI Milano, 1994) - “avevano fatto parlare di sé nel corso della
seconda guerra per i loro atti di eroismo e di civismo, alcuni sono stati feriti, qualcuno è anche morto: nella storia del
mondo sono stati gli unici ciechi a essere militari”. Sul punto, rinvio a: Cobolli Giorgio, “Gli aerofonisti ciechi”, Unione
Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, Roma, 1993.
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Ma diffusa ancora a quei tempi era la mendicità, come vedremo fra poco.
Al riguardo, rimando alla testimonianza di Emanuela Nava, contenuta nella Parte 3.
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Questo contributo è tratto da una lista di discussione a cui molte persone non vedenti sono iscritte. Lo strumento
della mailing list è assai usato dai disabili visivi poiché consente la discussione e lo scambio di informazioni in modo
semplice ed immediato: con l’avvento delle nuove tecnologie e grazie agli strumenti specifici (c.d. tecnologie assistivocompensative), non è poi così difficile navigare in internet, usare la posta elettronica, redigere testi, servirsi dei
dispositivi quali tablet o smartphone.
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Via Annibale Caccavello, nell'ultima parte del suo percorso breve, seguiva il grande muro dietro al
quale erano celati i prati che delimitavano il fossato del castello di Sant'Elmo, uno dei più
importanti esempi di architettura militare del Meridione.
Mi piaceva salire e poi scendere per quella strada tranquilla, dove il profumo dei giardini e l'odore
di terra mi faceva sentire quasi in campagna. Avevo l'abitudine di uscire quasi ogni giorno, a metà
pomeriggio per rompere la stanchezza dello studio, per rinfrescare la mente e per far riposare gli
occhi, che, allora, erano già un grave problema. Mi piaceva attraversare Via Tito Angelini,
lasciandomi alle spalle la bella stazione della funicolare, costruita nel 1891.
Lo spazio che si apriva dall'altro lato della strada, dove si trovava un giornalaio, un fruttivendolo ed
il tabaccaio, che erano dirimpettai di una grande macelleria e di una bella salumeria, portava alle
scale che attraversando diritte via Morghen, consentivano ai pedoni di raggiungere facilmente Via
Scarlatti e Piazza Vanvitelli. Chiunque avesse avuto buona vista, scendendo i primi scalini poteva
godere di una veduta perfetta della linea dritta dei Platani di Via Scarlatti.
Le rampe di scale erano due, ed erano interrotte dalla stessa Via Morghen, che nel suo tracciato di
curve, interrompeva il percorso degli scalini. In questo modo si formava un secondo grande spiazzo
prima della nuova rampa di scale.
Correvo per quelle scale, che passavano vicino all'ingresso della Chiesa dei Salesiani, che aveva
affianco il cancello che portava al campetto di calcio dell'oratorio. Non c'era volta che, passando
non sentissi le grida dei ragazzi che giocavano con il pallone.
La meta delle mie veloci scorribande era la libreria L'Incontro in Via Kerbaker, che era
particolarmente amata da noi giovani, perché era la prima a Napoli che consentiva di girare tra gli
scaffali, tra i banconi dove erano accumulati i libri pubblicati dalle diverse case editrici, dove le
ultime uscite editoriali e le novità assolute erano poste in evidenza, consentendo ad ognuno di noi di
essere costantemente informato sulle novità letterarie.
La vera particolarità di quella libreria era la possibilità di sviluppare un rapporto fisico ravvicinato
con i libri. I volumi si potevano toccare, prendere, sfogliare, leggere la quarta di copertina per avere
notizie sul testo e sull'autore. Spesso li annusavo, perché ogni libro ha un odore diverso. Ad occhi
chiusi, riuscivo, dall'odore a riconoscere la casa editrice.
In quella libreria il tempo si fermava, le ore scorrevano veloci, spesso incontravo amici o colleghi di
Università, si discuteva di quasi tutto, si consigliavano le letture, ci si metteva d'accordo su i libri da
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comprare, per poi scambiare successivamente. Erano gli anni delle pubblicazioni delle collane
economiche e dei libri tascabili a basso costo.
Spesso non compravo nessun libro, i soldi non erano molti in quegli anni ed i libri si prestavano con
una disinvoltura oggi impensabile. Prestare un libro è oggi una pratica in disuso, dimenticata.
In quegli anni, un libro in prestito era un gesto di fiducia a cui non si doveva venire meno.
Una amicizia dipendeva dalla restituzione di un libro prestato. I libri erano condivisi e commentati,
spesso letti voracemente di sera tardi, nel silenzio della casa, immersi in un universo piccolo e male
illuminato, pieno di parole, emozioni e scoperte.
Tanto la discesa per quelle scale era veloce ed allegra, tanto la salita era lenta e segnata sempre da
una serie di amare considerazioni che mi accompagnavano fino alla prima curva della strada di
casa, dove mi sorprendeva sempre e mi faceva sorridere il forte stormire delle fronde dell'albero che
era proprio affianco al muro della stazione della funicolare. C'era sempre vento in quel tratto di
strada, non ho mai capito bene per quale particolare motivo ed il risultato era che la superficie
asfaltata della strada era sempre piena di foglie cadute in ogni periodo dell'anno. Di fronte all'albero
c'era un muro basso, dietro al quale si riparava il cortile di un palazzo molto esclusivo ed elegante.
Tutto il vento che sconvolgeva il grande platano, risparmiava quel muro sul quale dimorava in
permanenza una colonia di grossi gatti che prendevano il sole ed aspettavano la notte per mettere in
atto scorribande rumorose, scontri feroci e battaglie amorose sottolineate da insopportabili e
lamentosi richiami.
Le considerazioni amare che mi accompagnavano fino a quella curva erano dovute a Pasquale il
cieco, che sostava sul primo ballatoio della prima rampa di scale, quella che portava all'Oratorio dei
Salesiani ed alla bella Chiesa che gli era affianco che era anche la Parrocchia del quartiere.
Pasquale era seduto su uno sgabello portatile, con la schiena appoggiata al muro e sulle gambe
teneva la sua fisarmonica, che restava ben salda al suo corpo per via di due cinghie di cuoio. La
fisarmonica era un bene prezioso, già altre volte avevano tentato di strappargliela dalle mani, per
gioco o per cattiveria, per questo era stato costretto a trovare quel rimedio per sentirsi più tranquillo.
Una piccola ciotolina di metallo era ai suoi piedi e serviva a raccogliere le monete che i passanti
spesso depositavano.
"Fate la caeità al povero cieco, gridava pasquale quando avvertiva il passo pesante di chi saliva le
scale. Appena sentiva il tintinnare di una moneta nella ciotola , subito la sua voce da lamentosa si
faceva squillante ed allegra:"Grazie, il Signore ve lo rende!" Pasquale non usava mai il dialetto
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quando chiedeva l'elemosina, era il tratto distintivo della sua professionalità, ma anche un modo per
dimostrare una sua personale dignità. Un sommesso affermare una buona educazione, che meritava
una attenzione da parte del passante, che con una sua offerta premiava una persona per bene seppur
indigente sfortunata. Il mestiere di chiedere l'elemosina lo aveva imparato da piccolo, come mi
avrebbe raccontato un giorno, insieme alla musica. A Napoli la tradizione dell'accattonaggio era
antica ed aveva regole precise e sperimentate.
Nei miei continui saliscendi per quelle scale, avevo notato che Pasquale faceva poco caso a chi
scendeva, perché la discesa era sicuramente veloce e breve. La salita era lenta e dava il tempo al
passante di sentire bene la richiesta del suonatore, di estrarre dalla tasca il borsellino e prendere la
moneta che poi sarebbe caduta nella ciotolina. Raramente questa operazione avveniva in discesa.
L'esperienza di pasquale era veramente grande a tal proposito. I suoi benefattori abituali erano tutti
quelli che, nei giorni feriali, per lavoro o per commissioni salivano verso la Stazione della
Funicolare per andare al Centro. Mentre la sera o nei giorni festivi e di precetto, erano i fedeli che si
recavano in Chiesa per la Messa quelli più sicuri che gli avrebbero lasciato una elemosina.
Questo significava che stava su quelle scale a chiedere la carità per intere giornate, in ogni stagione
e fino a tarda sera. Una vita dura, in cui la fisarmonica sembrava un pretesto più che un richiamo.
Per ore non faceva altro che accennare qualche accordo sulla tastiera, che non riusciva mai a
diventare una melodia, perché doveva ripetere la sua litania, la giaculatoria con la quale riusciva a
riempire di piccole monete la ciotolina che stava ai suoi piedi.
Spesso però, per nostalgia, per malinconia, per stanchezza, suonava solamente o, molto più di rado,
cantava. Il suo repertorio preferito erano le canzoni napoletane del secondo dopoguerra: "Munastero
'e Santa Chiara, Malafemmena, Cerasela, Torero di Carosone". A volte era veramente allegro ed
allora cantava: Nanasse, Chella llà, Guaglione, Scapricciatiello e Maruzzella. Ma la canzone che
cantava con più trasporto era Lazzarella di Modugno; gli piaceva particolarmente, l'interpretava
quasi con sue divagazioni con la fisarmonica e sottolineando con la voce i passaggi più intensi del
testo. Quando cantava si disinteressava delle monete che cadevano nella ciotolina. Veniva preso da
una smania chhe lo faceva agitare sullo gabellino, il movimento lo aiutava a suonare, per trarre dal
mantice dello strumento tutta la forza che gli serviva per sostenere le note più alte,senza perdere
ritmo ed armonia. Quando gli prendeva questa foga non si accorgeva più di nulla, la sua voce era
ben impostata, molto calda, ma roca per il freddo che prendeva e per le poche sigarette che fumava.
La sua musica e la sua voce riempivano quel tratto di strada e le scale. Nessuno si era mai lamentato
per quegli improvvisi scoppi di musica, anzi, Don Ciccio il pescivendolo che aveva il negozio
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proprio all'inizio di Via Scarlatti, famoso per la sua abitudine a dare la "voce" per decantare la bontà
e la qualità della sua merce, spesso cantava con lui a squarciagola
Pasquale aveva un amico fraterno che in ogni momento era in grado di aiutarlo. Gennarino 'o
scartellato, era l'addetto ai gabinetti pubblici che stavano sulla sinistra affianco alle scale, che
terminavano sul marciapiede dell'ultimo tratto di Via Morghen. Quando aveva bisogno, Pasquale,
raccoglieva il sediolino e seguendo il muro scendeva piano le scale, chiamando a gran voce l'amico.
Gennarino lasciava la sua postazione e si affacciava sulle scale controllando la discesa dell'amico,
che appena lo raggiungeva, gli lasciava in consegna la sua preziosa fisarmonica e lo sgabello, per
entrare in quel posto umido, per via del pavimento costantemente pulito dalla pezza bagnata che,
infilata sulla mazza da terra, Gennarino passava in continuazione. Pasquale si confidava con
Gennarino, con lui aveva intrecciato un dialogo che non si interrompeva mai.
Gennarino era l'ancora di salvezza di Pasquale, da lui si rifuggiava quando la pioggia cominciava a
cadere fitta, il suo nome urlava a piena voce,quando i ragazzi impertinenti, gli tiravano i sassolini
dall'alto delle scale, a lui si rivolgeva quando la malinconia e la stanchezza lo facevano stare male.
Non era felice Pasquale, spesso era triste e ripeteva stancamente la sua richiesta di elemosina, con
una monotonia nella voce che risultava straziante. Tutte le mattine, prima delle nove la moglie lo
accompagnava al suo posto sulle scale, lo andava a riprendere poco dopo le due del pomeriggio ed
immancabilmente alle quattro in punto lo faceva posizionare su quelle scale, per andarlo a
riprenderlo definitivamente alla sera, dopo la chiusura dei negozi. D'estate, quando c'era gente per
strada fino a tardi, poteva restare sulle scale ben oltre le nove di sera. D'inverno, nelle sere fredde ed
umide, la moglie lo andava a prelevare un po' prima, ma in prossimità del Natale non c'era verso
che Pasquale potesse tornare a casa prima della chiusura dei negozi. Il povero suonatore faceva
questo calvario tutti i giorni della settimana. Solo la Domenica ritornava a casa dopo l'ultima messa,
prima del pranzo festivo e non ritornava più sulle scale. Il pomeriggio libero, Pasquale lo dedicava
alla sua grande passione, ascoltava le partite del Campionato di Calcio alla radio. Non aveva mai
visto una partita di calcio, ma attraverso la voce dei mitici inviati di "Tutto il calcio minuto per
minuto", seguiva con passione le vicende del campionato italiano e la squadra del Napoli, di cui era
particolarmente tifoso.
Il lunedì il calcio sarebbe stato l'argomento principale delle sue lunghe chiacchierate con
Gennarino, che gli spiegava come si erano svolti i goal che lui non poteva vedere.
Molti passanti abituali che conoscevano da anni Pasquale, quando gli lasciavano gli spiccioli nella
ciotolina,lo salutavano chiamandolo per nome.
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Ad alcuni Pasquale rispondeva chiamandoli per nome, perché da anni si conoscevano. Molti, oltre
alla carità lasciavano a Pasquale i vestiti dimessi o oggetti, ancora funzionanti di cui si disfacevano.
Pasquale prendeva tutto, una volta vidi accanto a lui una bella lampada da tavolo e mi chiesi chi
aveva mai pensato di lasciare ad un cieco un oggetto a lui assolutamente inutile.
Anche la mia famiglia, con il passare del tempo prese l'abitudine di partecipare a quella colletta
generale che settimanalmente veniva consegnata al povero suonatore. Mia madre in particolare ci
teneva molto e spesso mi consegnava le monete da dare a Pasquale, oppure, quando andava a Messa
accompagnata da mio padre, lasciava personalmente la sua offerta. Mia madre non parlava mai di
elemosina, per Pasquale, ma sempre e solamente di "offerta". Una offerta era una cosa diversa dal
gettare, distrattamente, una moneta nella ciotolina. Era un modo per dimostrare una comprensione
profonda dello stato di indigenza di pasquale, prodotta dalla cecità. Non vedere era un male che
veniva considerato da tutti la peggiore delle menomazioni. Mia madre, come mia nonna, stava
perdendo la vista per un male tanto inesorabile quanto inarrestabile. La stessa sorte che sarebbe
toccata anche a me, e di cui mia madre se ne fece sempre una colpa.
Presi l'abitudine di salutarlo e lui mi riconosceva dalla voce. Un giorno mi chiese:"Come vi
chiamate giovanotto?" Preso alla sprovvista da quella richiesta inattesa risposi, un po' imbarazzato,
dando il nome che utilizzavano in casa :"Geppino!". "Grazie e buona giornata signor Geppino."
Disse Pasquale, che con quell'aggiunta del signore davanti al vezzeggiativo del mio nome,
ristabiliva i ruoli e le nostre diverse condizioni. Per anni continuò a chiamarmi Signor Geppino,
mentre io, lo apostrofavo immancabilmente con un: "Buon giorno Don Pasquale!
I miei sentimenti verso di lui non erano di pietà, ma di affetto. Con il passare del tempo era
diventato per me una figura di riferimento, solo dopo molti anni, quando la stessa malattia d mia
madre si manifestò in maniera definitiva, mi ricordai di Pasquale e del suo modo di comportarsi.
Senza saperlo il suonatore di fisarmonica mi aveva lasciato degli insegnamenti che mi sono stati
utili, soprattutto in questi ultimi anni. Innanzi tutto, per il tempo che ebbi modo di frequentarlo non
lo sentii mai compiangersi per la sua condizione, ne lamentarsi per la sua malasorte. Pasquale
accettava la sua condizione con realismo, che non ci vedesse era un dato di fatto, una situazione alla
quale non si poteva rimediare. Pasquale era povero, per vivere doveva chiedere l'elemosina. In
quegli anni 60 non c'erano altri modi per andare avanti, la società gli lasciava solo una possibilità;
chiedere la carità!
Passarono in fretta quegli anni, tra le letture forsennate, gli studi e le speranze di quel periodo
bellissimo della nostra gioventù. Sognavamo il cambiamento della società, un mondo in cui tutti
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avevano gli stessi diritti, mentre una nuova democrazia, avrebbe dovuto garantire a tutti che i doveri
assolti erano necessari ed utili alla collettività ed al suo sviluppo.
Con il passare del tempo, crescendo, cominciai a pensare che non era giusto che Pasquale dovesse
viver una vita in quelle condizioni. Pensavo che pasquale avesse il diritto alla sua dignità. Che
dovesse essere trattato come una persona, che i suoi occhi ciechi non dovevano rappresentare un
ostacolo alla sua libertà, alla sua realizzazione umana.
Il 68 ci raggiunse tutti con la forza di un fiume in piena, gli avvenimenti di quella fine del decennio
della speranza furono travolgenti per la nostra società. Anche io fui travolto e coinvolto dai nuovi
movimenti studenteschi a cui partecipai con una decisa convinzione. Mi capitò sempre meno di
scendere le scale di Via Morghen per andare il libreria. Correvo veloce, in quei mesi densi di
avvenimenti, verso la stazione, dove ,i aspettava una collega, con la quale prendevo la funicolare
per andare all'Università e passare da un aula all'altra tra lezioni autogestite,assemblee ed
interminabili riunioni collettive.
Non feci più caso a pasquale, me ne dimenticai, gli avvenimenti della mia vita presero a correre, a
quel tempo ogni giorno sembrava essere importante e decisivo e bisognava viverlo il più
intensamente possibile.
Fu all'inizio del 1971 che una sera, mentre eravamo a tavola, mia madre disse: " Sono mesi che
Pasquale non sta più sulle scale! Speriamo che stia bene!"
L'immagine del suonatore di fisarmonica mi ritornò di colpo alla mente, e mi sentii in colpa per
essermene dimenticato, per aver messo da parte tutte le mie determinazioni giovanili che vedevano
al centro della mia azione sociale l'aiuto al solitario e malinconico Pasquale.
Quella sera non si parlò d'altro ed ognuno della famiglia raccontò un episodio del proprio rapporto
con il suonatore cieco, cercando anche di ricordare l'ultima volta in cui lo avevamo visto.
Poi, con il passar del tempo il ricordo di Pasquale il povero suonatore di fisarmonica delle scale di
via Morghen sbiadì, restando sepolto nel profondo della mente, inserito, come era in un periodo in
cui tutto era sospeso, in cui tutti aspettavano qualcosa che avrebbe dovuto succedere e di cui tutti
avevamo inconsapevole bisogno.
Fu solo dopo molti anniche lo rincontrai. Fu in una bella Domenica di Giugno del 1983. Come era
nostra abitudine, prima di andare a casa di mia madre a San Martino, portavamo le bambine nella
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Villa Floridiana, dove potevano respirare un intenso profumo di fiori e godere del verde acceso e
particolare di quei giardini pieni di piante esotiche e prati erbosi.
Spingevo la carrozzina della più piccola che a quel tempo non camminava ancora, mentre la più
grande, rincorreva un pallone leggero che ogni tanto il vento faceva rotolare. Mia moglie,
camminava al mio fianco ed ogni tanto mi indirizzava per trovare una panchina dove sederci.
"Fai attenzione a quei rami!", dissi a mia figlia, che per inseguire il pallone non sui era accorta del
rischio di sbatterci contro. Eravamo appena passati davanti ad una panchina dove erano seduti dei
signori anziani che sentii una voce che mi salutò in una maniera che non poteva essere fraintesa:
"Buon giorno signor Geppino!"
Mi girai di scatto, sorpreso e contento al tempo stesso. Quella voce era inconfondibile e tutti i
ricordi degli anni passati furono richiamati alla mente con una nitidezza sbalorditiva. "Don
Pasquale, da quanto tempo, come state?"
Il signore dai capelli bianche, seduto sulla panchina affianco ad una anziana signora, era simile a
tutti gli altri anziani che passeggiavano per il parco o che si riposavano all'ombra di un albero.
L'unica differenza erano quegli occhi irrimediabilmente chiusi, che stridevano in quel viso
sorridente e compiaciuto che non faceva parte dei miei ricordi. Il Don Pasquale che avevo davanti
era una persona serena, vestita con gli abiti della festa che si godeva una bella mattinata di sole
nella Villa Floridiana.
La mia gioia fu grande nel vederlo e mentre mia moglie e le picole stavano sul prato, ebbi modo di
scambiare un po' di chiacchiere con quel signore che mi ricordava antiche corse su e giuù per le
scale di Via Morghen.
Seppi da Pasquale che alla fine del 1970, in virtù della legge che era stata da poco emanata, aveva
avuto una pensione che seppure bassa era superiore a tutti i soldi che raccoglieva con le elemosine.
Aveva deciso,quindi di non rimanere più per le scale a chiedere la carità. Addirittura, la sua capacità
riconosciuta di suonare bene la fisarmonica gli aveva procurato un ulteriore reddito, perché suonava
e cantava nelle feste di famiglia, in qualche occasione accompagnava qualche giovane cantante nei
matrimoni o nelle feste di quartiere. Si era molto divertito negli anni passati, lo avevano perfino
chiamato in una Festa dell'Unità a Ponticelli dove aveva riscosso un bel successo personale. Ma
adesso non suonava più, da un anno e mezzo aveva avuto l'indennità di accompagnamento che gli
assicurava una tranquillità personale ed economica che lui non avrebbe mai sperato nella sua vita.
"Adesso sono come tutti gli altri" disse senza nascondere una punta di sincera soddisfazione.
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"Ho preso perfino un taxi una volta che dovevo correre da mia moglie in ospedale, che si era sentita
male per i calcoli." Mi disse Pasquale, con la stessa enfasi di chi raccontava un viaggio avventuroso
in paesi lontani.
Gli raccontai di me, del lavoro, di mia moglie e delle due bambine e lui fu particolarmente contento.
Si informò di mia madre e saputala in buona salute mi pregò di portargli i suoi saluti. Ci lasciammo
con un abbraccio che nascose un po' di commozione.
Salendo per Via Caccavello ero silenzioso e vedendo una ennesima generazione di gatti che
prendevano il sole sul muretto di fronte al grande platano, mi misi a ridere pensando che certe cose
restano sempre uguali, ma la condizione delle persone dipende dalla loro capacità di cambiare le
cose che non vanno.
I grandi cambiamenti che dal 68 in poi avevano interessato il nostro paese erano stati complessi e
contraddittori, ma molte cose erano cambiate. Il suonatore cieco che chiedeva la carità era stato
trasformato in un signore per bene che prendeva il sole nel parco. "Uno come tutti gli altri" così
aveva detto Don Pasquale e questa affermazione mi riempiva di speranza. Quando raccontai
l'incontro a mia madre, si commosse per la bella notizia inaspettata, che gli avevo dato. Fu una
domenica memorabile quella, coronata anche dalla vittoria del Napoli. Pensai a Don Pasquale
incollato alla radio a gioire per la sua squadra vincente.
Nessun cieco dimora ormai disperato sulle scale di Via Morghen e persino i vecchi gabinetti sono
stati sostituiti da una moderna e luccicante scala mobile. La mia certezza e che per quelle scale non
ci sarà mai più un povero cieco a chiedere l'elemosina e questo mi sembra proprio una cosa bella, a
condizione che nessuno dimentichi Don Pasquale e le sue sofferenze.
Abbaiare alla luna
Di Mario Censabella
Riavvolgendo la ruota della vita attraverso le lame che filtrano la memoria e i sentimenti mi vien
fatto di rievocare fatti e personaggi di un tempo che non è più che pur sempre sono andati a
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comporre una Unione Italiana Ciechi5 le cui trame, i cui tessuti hanno costituito il canovaccio della
attuale generazione di non vedenti.
Non scrivo della scapigliatura, dei tempi nei quali Igino Ugo Tarchetti raccontava di ciechi che
nelle osterie attendevano il compagno per accattonare per chiese cantoni e mercati; scrivo di dopo,
di quando gli aerofonisti ciechi avevano fatto parlare di sé nel corso della seconda guerra per i loro
atti di eroismo e di civismo, alcuni sono stati feriti, qualcuno è anche morto: nella storia del mondo
sono stati gli unici ciechi a essere militari. Scrivo di dopo gli anni 40 quando, grazie a una nuova
consapevolezza, a una nuova cultura, a un modo quasi moderno di interpretare i costumi e le
capacità intrinseche di ciascuno i non vedenti sono apparsi come categoria per alcune loro
caratteristiche e specializzazioni.
Vi erano in quei tempi numerosi massaggiatori che con la loro attività iniziavano a farsi apprezzare
per le loro qualità terapeutiche, primo fra tutti il dott. Onorino Arnoldi che, medico, dopo aver
perduto la vista aveva costituito una scuola per massaggiatori presso l’ospedale Maggiore di
Niguarda; scrivo degli accordatori, vi erano dei famosi concertisti che esigevano che il pianoforte a
coda fosse sistemato soltanto da un non vedente; primo fra tutti Clelio Pozzoli il maestro, e poi
ancora Paolino Confalonieri che accordava sorseggiando di tanto in tanto boccate di vino da una
bottiglia che portava sempre con sé, quando il lavoro era compiuto e la bottiglia era ormai vuota,
soffiandovi dentro soleva dire: “s’èmm arivà al sibemol”.
Un tempo si credeva che tutti i ciechi fossero… musicisti; io stesso poco più che ragazzo mi sentivo
rivolgere la parola con l’appellativo maestro! Molti anziani milanesi si ricorderanno della
“meridiana” della “fiorentina” e di altri locali dove il liscio ambrosiano imperversava con i nostri,
Vittorio Pinotti autore di centinaia di canzoni anche in vernacolo, Carluccio Berlusconi, Cleto
Venturati, Pierino Porta, Teresio Callegari sempre in coppia con Gianni Sali erano di casa al
“trentasei”, Enzo Crosti, era specializzato nel predisporre le musiche per gli organetti di barberia e
altri ancora.
In quel periodo sono nate con i nostri amici musicisti appassionate storie d’amore ammantate da
veli di discrezione: una sorta di café chantant, balli in paillettes con luci soffuse e coppe di
champagne.
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Oggi UICI (Unione italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), la maggiore associazione di categoria.
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Accadeva che qualche nostro protagonista, conclusa la stagione in uno dei tanti hotel di lusso del
lago Maggiore venisse catturato da qualche “matura” turista straniera ricca anche di …passioni:
dopo due o tre mesi, ciascuno, sazio delle proprie sfrenatezze tornava alle antiche consuetudini.
Di quei tempi, di quei musicisti tutt’ora vivente è Carlo Vaghi ricco di vividi ricordi e di storie
romantiche ancora ammantate di misteri.
Quando le scuole speciali erano ancora nel loro pieno fulgore l’Istituto dei Ciechi di Milano
ospitava fino a 300 allievi - maschi e femmine - quasi tutti a convitto; fra le tante insegnanti della
scuola elementare desidero ricordare due figure mitiche: Clelia De Gaudenzi presente a Genova il
26 ottobre 1920 giorno in cui è stata fondata l’Unione6 ed Eugenia Corno antesignana animatrice di
movimenti femminili della prima ora. Mi raccontavano di aver frequentato la scuola pubblica - i
moti del 1970 non avevano inventato nulla - e di avere studiato su libri di testo le cui lettere erano in
rilievo; il sistema braille non era ancora in quei tempi abbastanza diffuso.
No, non ho dimenticato, vi era in quei tempi presso l’Istituto anche la scuola di avviamento
professionale, ma, vi sono ancora dei viventi vittime e tiranni, se continuassi diventerebbe una soap
opera …rimandiamo di qualche lustro.
Questa mia piccola storia potrebbe nascere ancora da più lontano, da quando l’Istituto era per le
vicende belliche sfollato a Caravate presso i benevoli e comprensivi Padri Passionisti, ma questo è
ancora un altro discorso.
L’Italia non era ancora uscita dalla povertà della guerra, i ciechi non avevano neppure un minimo di
pensione, il Comune di Milano assegnava loro licenze per la rivendita di giornali e per ambulanti:
fra questi conosciutissimo era Armando Papa in corso Garibaldi, Pasquale Pasculli venditore di
limoni immortalato anche da un quadro di un famoso pittore.
Qua e là i non vedenti si ingegnavano vendendo anche porta a porta ogni sorta di articolo,
cancelleria, in piazza del Duomo le lamette da barba Solingen e i biglietti delle lotterie nazionali
che ancora oggi rappresenta un’attività non ancora scomparsa.
Romano Moioli era considerato il… Presidente di tutti gli organisti ciechi: riusciva con i non
vedenti, allora i musicisti erano numerosi, a coprire tutte le funzioni religiose – novene, matrimoni,
battesimi, funerali in accordo con i parroci che erano ben contenti dei non vedenti che tutto
sommato non costavano molto.
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S’intende sempre l’UICI.
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Presso l’Istituto dei Ciechi vi era una scuola musicale apprezzatissima, vi erano docenti e concertisti
i cui nomi ancora oggi sono nella memoria e nella storia della nostra città e non solo. Intorno a
quegli insegnanti e concertisti si era creata quasi una venerazione, si dice che abbiano avuto molto
successo con le donne, qualcuno sostiene anche con Alba De Cespedes. All’Istituto vi era anche una
scuola presso la quale i ciechi in apparenza meno dotati o che ancora non avevano scoperto quale
fosse la loro vera attitudine imparavano lavori manuali; figura importante, “maestro e dommo”
Pietro Bianchi, tutti per lui avevano quasi una venerazione, ha insegnato a intere generazioni di
ciechi; era chiamato familiarmente “uete” per il fatto che soleva rivolgersi ai propri allievi con un
“uè te”.
Circolava allora a Milano, fra i tanti un non vedente Natale Berzeroli, musicista, persona dabbene
che avendo la moglie impegnata per l’intera giornata, mi pare che fosse ostetrica, era costretto ad
accudire il figlio; si definiva “massaio” in quanto impegnato in tutti i lavori domestici. Per garantire
l’incolumità del figlio con il quale si accompagnava un poco ovunque si avvaleva per attraversare le
strade di un fischietto da vigile urbano: era come se il Mar Rosso si aprisse, loro passavano indenni.
La guerra nel frattempo era finita e così il fascismo; i comunisti, i rossi potevano manifestarsi senza
alcun timore: mi faceva molta impressione partecipare in quei tempi a funerali civili di ciechi
militanti; si partiva normalmente dall’abitazione del defunto, il defilare del carro funebre, degli
amici ed estimatori si concludeva in una piazza o accanto a un marciapiede con delle commosse
parole di commiato, mancavano sacerdoti, benedizione e incenso. Io abituato alle frequenze di
oratorio, alle benedizioni parrocchiali di Natale, ne ero esterrefatto.
Gli antichi e storici insegnanti dell’Istituto dei Ciechi non sono più, è rimasto il Maestro Giovanni
Vassalli che stimo molto, ha dato e ancora offre a generazioni di non vedenti e vedenti la sua
cultura, il suo ingegno e la sua competenza musicale.
Le condizioni delle persone con deficit visivi cominciavano dunque pian piano a migliorare,
consentendo via via il raggiungimento di un certo grado di emancipazione e di integrazione
sociale… Tuttavia, se guardiamo alla letteratura, notiamo che non pochi erano i pregiudizi e gli
stereotipi da cui anche scrittori illustri non erano immuni, come vedremo dal passo qui appresso
riportato.
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Spesso ancora oggi le persone non vedenti vengono o sottovalutate o sopravalutate: c’è infatti chi ci
considera dotate di chissà quali abilità straordinarie e chi viceversa ci pensa incapaci di essere
genitori, lavoratori, consumatori... Del pari, vi è chi ci considera e ci etichetta come persone
sfortunate, deboli, colpite da tanta sventura… Ed invece, almeno per me, il non vedere fa parte della
mia vita, è la mia normalità… Gli esempi si sprecano e non basterebbe un libro per raccontare le
molte vicende che mi hanno visto protagonista…
Edmondo De Amicis –
“Cuore”7
I ragazzi ciechi
23, GIOVEDÌ
Il maestro è molto malato e mandarono in
vece sua quello della quarta, che è stato
maestro nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio
7
“Cuore” è un romanzo scritto da Edmondo de Amicis e pubblicato
dai fratelli Treves nel 1886. Il libro ottiene subito un grande successo, tanto che de Amicis diviene lo scrittore più letto
d'Italia. L'ambientazione è l'indomani dell'unità d'Italia, la città è Torino e il testo ha il chiaro scopo di insegnare ai
giovani cittadini del Regno le virtù civili, ossia l'amore per la patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito
di sacrificio, l'eroismo, la carità, la pietà, l'obbedienza e la sopportazione delle disgrazie. «Questo libro – scrive l’autore
- è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari, i quali sono tra i 9 e i 13 anni, e si potrebbe intitolare:
Storia d'un anno scolastico, scritta da un alunno di terza d'una scuola municipale d'Italia. - Dicendo scritta da un alunno
di terza, non voglio dire che l'abbia scritta propriamente lui, tal qual è stampata. Egli notava man mano in un quaderno,
come sapeva, quello che aveva visto, sentito, pensato, nella scuola e fuori; e suo padre, in fin d'anno, scrisse queste
pagine su quelle note, studiandosi di non alterare il pensiero, e di conservare, quanto fosse possibile, le parole del
figliuolo. Il quale poi, 4 anni dopo, essendo già nel Ginnasio, rilesse il manoscritto e v'aggiunse qualcosa di suo,
valendosi della memoria ancor fresca delle persone e delle cose. Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete
contenti e che vi farà del bene.»
Fra i personaggi principali del libro che troviamo in questo racconto, ricordiamo: Enrico Bottini, io narrante della storia
e protagonista; Garrone, lo studente enorme di statura e buono d'animo; Derossi, il più bravo e più bello della classe;
Coretti, figlio di un veterano delle guerre d'indipendenza; Votini, il figlio di un ricco, superbo ma infine umano; il
Maestro Perboni. (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Cuore_(romanzo)).
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di tutti, così bianco che par che abbia in capo una parrucca di cotone, e parla in un certo modo,
come se cantasse una canzone malinconica; ma bene, e sa molto.
Appena entrato nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato, s'avvicinò al banco e gli
domandò che cos'aveva. - Bada agli occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli domandò: - È
vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì, per vari anni, - rispose. E Derossi disse a
mezza voce: - Ci dica qualche cosa.
Il maestro s'andò a sedere a tavolino.
Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza. - Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, così, come direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola?
Pensateci un poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non veder né
il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s'ha intorno e che si tocca; essere
immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti nelle viscere della terra! Provate un poco a
chiudere gli occhi e a pensare di dover rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un
terrore, vi pare che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi mettereste a gridare, che impazzireste
o morireste. Eppure... poveri ragazzi, quando s'entra per la prima volta nell'Istituto dei ciechi,
durante la ricreazione, a sentirli suonar violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere,
salendo e scendendo le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori, non si
direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene. C'è dei giovani di sedici o
diciott'anni, robusti e allegri, che portano la cecità con una certa disinvoltura, con una certa
baldanza quasi; ma si capisce dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto
tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n'è altri, dei visi pallidi e dolci, in cui si
vede una grande rassegnazione; ma triste, e si capisce che qualche volta, in segreto, debbono
piangere ancora. Ah! figliuoli miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni,
che altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche terribili, e che molti son
nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba per loro, entrati nel mondo come in una tomba
immensa, e che non sanno come sia fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto
e quanto debbono soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa
fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sé medesimi: - Perché questa differenza se non
abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro, quando mi ricordo quella classe, tutti
quegli occhi suggellati per sempre, tutte quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi
altri... mi pare impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila ciechi in
Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito che c'impiegherebbe quattro
ore a sfilare sotto le nostre finestre! Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola.
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Derossi domandò se era vero che i ciechi hanno il tatto più fino di noi. Il maestro disse: - È vero.
Tutti gli altri sensi si raffinano in loro, appunto perché, dovendo supplire fra tutti a quello della
vista, sono più e meglio esercitati di quello che non siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori,
l'uno domanda all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi scappa subito nel cortile ad agitar
le mani per aria, per sentire se c'è il tepore del sole, e corre a dar la buona notizia: - C'è il sole! Dalla voce d'una persona si fanno un'idea della statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo
dall'occhio, essi dalla voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni. S'accorgono se in una
stanza c'è più d'una persona, anche se una sola parla, e le altre restano immobili. Al tatto
s'accorgono se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe distinguono la lana tinta da quella di
color naturale. Passando a due a due per le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore,
anche quelle in cui noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a sentire il ronzìo che fa girando,
vanno diritti a pigliarla senza sbagliare. Fanno correre il cerchio, giocano ai birilli, saltano con la
funicella, fabbricano casette coi sassi, colgono le viole come se le vedessero, fanno stuoie e
canestrini intrecciando paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto hanno il tatto esercitato! Il
tatto è la loro vista, è uno dei più grandi piaceri per loro quello di toccare, di stringere, d'indovinare
la forma delle cose tastandole. È commovente vederli, quando li conducono al museo industriale,
dove li lascian toccare quello che vogliono, veder con che festa si gettano sui corpi geometrici, sui
modellini di case, sugli strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le mani tutte le
cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere!
Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i ragazzi ciechi imparano a far di
conto meglio degli altri. Il maestro rispose: - È vero. Imparano a far di conto e a leggere. Hanno dei
libri fatti apposta, coi caratteri rilevati; ci passano le dita sopra, riconoscon le lettere, e dicon le
parole; leggono corrente. E bisogna vedere, poveretti, come arrossiscono quando commettono uno
sbaglio. E scrivono pure, senza inchiostro. Scrivono sur una carta spessa e dura con un punteruolo
di metallo che fa tanti punticini incavati e aggrappati secondo un alfabeto speciale; i quali punticini
riescono in rilievo sul rovescio della carta per modo che voltando il foglio e strisciando le dita su
quei rilievi, essi possono leggere quello che hanno scritto, ed anche la scrittura d'altri, e così fanno
delle composizioni, e si scrivono delle lettere fra loro. Nella stessa maniera scrivono i numeri e
fanno i calcoli. E calcolano a mente con una facilità incredibile, non essendo divagati dalla vista
delle cose, come siamo noi. E se vedeste come sono appassionati per sentir leggere, come stanno
attenti, come ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i piccoli, di cose di storia e di lingua,
seduti quattro o cinque sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e conversando il primo
col terzo, il secondo col quarto, ad alta voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto
che han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi altri agli esami, ve lo assicuro, e
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s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono il maestro al passo e all'odore; s'accorgono se è di
buono o cattivo umore, se sta bene o male, nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che
il maestro li tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le braccia per esprimergli
la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro, sono buoni compagni. Nel tempo della
ricreazione sono quasi sempre insieme quei soliti. Nella sezione delle ragazze, per esempio,
formano tanti gruppi, secondo lo strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di
flauto, e non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne stacchino.
Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra loro. Hanno un concetto chiaro
e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un
fatto grande.
Votini domandò se suonano bene. - Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la loro
gioia, è la loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son capaci di star tre
ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente, suonano con passione. Quando il
maestro dice a uno che non ha disposizione alla musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si
mette a studiare disperatamente. Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano
colla fronte alta col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici quasi
ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li circonda, come sentireste che è
una consolazione divina la musica! E giubilano, brillano di felicità quando un maestro dice loro: Tu diventerai un artista. - Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al
pianoforte o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due di loro,
vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più piccini, a cui egli insegna a
sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E
parlano continuamente di musica. Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal
lavoro, e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di strumenti,
d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati della lettura o della lezione di musica,
ne soffrono tanto dolore, che non s'ha quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la
luce è per i nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
- Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere. - Si può, - rispose il maestro; - ma voi,
ragazzi, non ci dovete andare per ora. Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire
tutta la grandezza di quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita. È uno
spettacolo triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a una
finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile, che par che guardino la grande
pianura verde e le belle montagne azzurre che vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla,
che non vedranno mai nulla di tutta quella immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se
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fossero diventati ciechi in quel punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il
mondo, non rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno
compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di tutto, che
comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più il dolore di sentirsi
oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più care, di sentirsi come morire
nella memoria le persone più amate. Uno di questi ragazzi mi diceva un giorno con una
tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora aver la vista d'una volta, appena un momento, per
rivedere il viso della mamma, che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le
mettono le mani sul viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir
com'è fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome molte
volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta. Quanti escono di là
piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci pare un'eccezione la nostra, un
privilegio quasi non meritato di veder la gente, le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi,
ne son certo, che uscendo di là non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista
per darne un barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e la
madre non ha viso!
Fortunatamente, anche gli scrittori hanno nel tempo abbandonato questo modo di guardare al
mondo della disabilità visiva, per affermare piuttosto che esistono diversi modi di vedere…
Leggiamo infatti i due contributi che seguono, il secondo dei quali scritto da un autore cieco.
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Il principe cieco
(G. Rodari,
“Venti storie più una”)
Il principe Medoro è cieco.
- Non è possibile! Nella fotografia sul giornale i suoi occhi azzurri sono tanto belli.
- Sono belli ma non vedono. La regina piange giorno e notte per il dolore.
- Il re ha chiamato alla reggia i migliori medici di Morlandia, ha promesso
loro monti e mari se daranno la vista a so figlio.
- E tutto sembra inutile. Guardate, ecco i medici che ripartono, scrollando la testa sconsolati.
- Il professor Bellonis, il professor Cartonis, il professor De Maximis... Se ne vanno proprio tutti?
- Dicono ne sia rimasto uno solo.
- Chi, quello? Ma quello non è un medico.
- E allora che vorrà mai fare? Quando la scienza si dichiara impotente... La scienza sì, Zerbino no.
Zerbino non era né professore né dottore. Era un semplice vecchio vestito di scuro, il solo punto di
colore nella sua figura
era la barba rossiccia.
- È un mago. Ha promesso di guarire il principe con una stregoneria. Quando la gente chiacchiera,
ne dice, di cose senza senso... Specialmente se parla di cose che non conosce. La folla, assiepata
davanti ai cancelli del palazzo reale, non si stancava di parlare della tragedia.
Zerbino non era né un mago né uno stregone. Si era unito, non si sa come, ai medici accorsi d’ogni
dove per visitare il piccolo cieco. Era sempre rimasto in un angolo della camera in cui giaceva
Medoro, con i bellissimi occhi azzurri spalancati nel buio. Non aveva messo bocca nelle dotte
discussioni, non si era fatto avanti a suggerire un medicamento, a proporre un’operazione. Solo
quando l’ultimo medico si era allontanato, curvo e triste come un generale sconfitto, Zerbino si era
fatto avanti timidamente.
- Che volete, buon uomo? –gli aveva domandato il re. – Vedete voi stesso la nostra pena. Se volete
presentare una supplica, tornate un altro giorno.
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- Io – aveva detto Zerbino, tormentandosi la barba rossiccia- vorrei supplicarvi di lasciarmi fare una
prova...
- Che prova?
- Non toccherò gli occhi di Sua Altezza. Vorrei soltanto parlargli.
- Buon uomo, non ha ancora due mesi, come volete che vi capisca?
- Io penso che mi capirà. Lasciatemi provare...
Zerbino si avvicinò al lettino dorato di Medoro, prese la mano del principe, mentre tutti intorno
trattenevano il respiro, guardò il re, che si asciugava le lacrime nel manto di ermellino e cominciò:
<<C’era una volta un re. Era un gran re, vestito d’oro, d’argento e d’ermellino. Portava sul capo una
corona tempestata di rubini. Aveva una barba nera a punta...>>
- Che screanzato! – sussurrò il maggiordomo alla prima cameriera della regina.
– Sta descrivendo il nostro sovrano come un oggetto, senza il minimo rispetto. Vedrete che ora il re
lo caccerà, rompendogli in testa lo scettro!
<<...E aveva – continuava Zerbino – uno scettro d’avorio scolpito, e ogni tanto si grattava la barba
con quello scettro>>.
Il re, che stava appunto grattandosi la barba a quel modo, si fermò interdetto e arrossì di sdegno. E
già stava per aprir bocca, e chissà che parole di fuoco avrebbe rovesciato addosso al povero
Zerbino, quando accadde qualcosa che nessuno si aspettava.
Il principe Medoro sorrideva <<come se vedesse>> il gran re della fiaba e allungava le mani come
se volesse giocare col suo scettro d’avorio.
- Egli mi vede! – gridò il re, che fu il primo a capire. – Signore del cielo, i suoi occhi mi vedono.
<<C’era, - proseguì Zerbino – c’era anche una regina. Era una grande regina, con un manto rosso
ricamato d’oro. Era bionda e un diadema scintillante era posato tra i suoi capelli come un uccello
nel suo nido...>> Di nuovo Medoro sorrise, rivolto alla regina, proprio <<come se la vedesse>> e
allungò le mani per toccare il suo diadema.
La regina si inginocchiò accanto al lettino, e il piccolo principe affondò le manine nella chioma.
- Mi vede! Mi ha sorriso! – esclamava la regina, piangendo di consolazione.
La gente non finiva mai di commentare quella strana guarigione.
- Guardate un po’, un semplice cantastorie è riuscito dove i più famosi professoroni avevano fatto
fallimento.
- Ma è guarito proprio? Guarito guarito?
- Be’, non del tutto. Però è sulla buona strada.
- Ma insomma, ci vede o non ci vede?
- Ci vede soltanto quando Zerbino gli parla.
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- E che cosa gli dice?
- Gli descrive quel che gli sta intorno, come se gli raccontasse una storia. Per esempio, c’è un
bicchiere sul tavolino, e lui dice: <<C’era una volta un bicchiere...>>. E subito il principino vede il
bicchiere e l’acqua che c’è dentro, e la rosa che c’è nell’acqua, oppure la camelia.
- E se non gli racconta nulla?
- Allora non vede nulla. Per ora vede solo ciò che Zerbino gli racconta.
- Un bel caso. Speriamo almeno che Zerbino non gli racconti lucciole per lanterne...
Zerbino non meritava davvero un’insinuazione del genere. Era un narratore onesto e scrupoloso e si
sarebbe lasciato tagliare una mano, piuttosto che mentire al principe.
Medoro non era mai stanco dei suoi racconti. Si capisce: siamo forse stanchi, noi, dei nostri occhi?
Appena si svegliava, chiamava Zerbino che dormiva nella stanza accanto:
- Zerbino, ci sei? Vieni, presto. Mostrami il cielo azzurro e il sole splendente...
E Zerbino, paziente e preciso, cominciava: <<C’era una volta una bella giornata...>>.
Ma se il cielo era nuvoloso, o il giardino della reggia era avvolto nella nebbia, Zerbino cominciava
così: <<C’era una volta una brutta giornata...>>.
Il principe Medoro vedeva il cielo di piombo, la pioggia sui vetri, e si arrabbiava: - Non voglio: non
voglio vedere brutte cose. Cambia il racconto!
- Altezza, non posso.
- Te lo ordino!
- Altezza, gli occhi sono fatti per vedere ciò che esiste, le cose spiacevoli come le piacevoli.
Il principe impallidiva per il dispetto e non apriva bocca per il resto del giorno.
Una volta, poco dopo il suo diciottesimo compleanno, mentre Medoro e Zerbino cavalcavano in un
bosco, un uccellino appena nato cadde dal nido e un gatto selvaggio, appostato ai piedi della pianta,
ne fece un boccone.
Medoro <<vide>> ogni cosa, perché Zerbino gliela raccontò senza trascurare nulla, né il tremito del
piccolo corpo implume né il ghigno del gatto, brutto ceffo.
- Non voglio, - gridò Medoro, arrestando la sua cavalcatura.
- Ma, altezza...
- Stai zitto! Ora vedrai cosa faccio.
Chiuse gli occhi e cominciò a raccontarsi egli stesso: <<Una volta un uccellino appena nato cadde
dal nido. Un gatto crudele stava per azzannarlo, ma un coraggioso principe che passava di lì sul suo
cavallo bianco sparò al gatto e lo uccise, rimise l’uccellino nel nido e proseguì cantando per la sua
strada...>>.
Il principe, infatti, intonò una canzonetta allegra e spronò il cavallo.
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Zerbino dovette galoppare un bel pezzo per raggiungerlo.
- Ho visto tutto quel che ho detto, - esclamò Medoro, eccitato e felice, - ora non ho più bisogno di
te, posso raccontarmi le cose da solo.
Zerbino chinò il capo, accorato.
- Non ti rallegri con me? Non sei contento?
- Sarei contento se avessimo fatto in tempo a strappare l’uccellino dalle grinfie del gatto. Una bella
favola non basta a cancellare le brutte cose che succedono.
- A me basta, - tagliò corto il principe.
E da quel giorno, ogni volta che Zerbino, descrivendogli il mondo intorno a lui, gli raccontava
qualcosa di triste, Medoro gli ordinava di tacere e si raccontava le cose a suo modo, rifugiandosi in
una storia serena come una bella giornata. Così egli riusciva a <<vedere>> solo spettacoli pieni di
gioia.
Zerbino provò a parlare col re padre, ma non riuscì a convincerlo che si trattava di una nuova
malattia, peggiore della cecità, perché il cieco più malato di tutti è quello che <<non vuole>>
vedere le cose come sono.
- È giovane, - disse il re, - ha avuto una disgrazia terribile. Che male c’è se cerca di consolarsi in
qualche modo? Cambierà quando dovrà prendere il mio posto.
Purtroppo non fu così. Quando il re padre morì, Medoro prese il suo posto, ma non rinunciò
all’abitudine di preferire le sue illusioni alla realtà. Se il ministro del tesoro gli diceva che le casse
dello Stato erano quasi vuote, egli si raccontava montagne di monete d’oro e le vedeva e subito
dava una gran festa per spenderne un poco. Scoppiò la guerra, il paese fu invaso dal nemico, ma
Medoro si consolava raccontandosi gloriose vittorie e straordinarie conquiste. Così perdette il trono
e fu abbandonato da tutti. Ma non da Zerbino, che lo seguì fedelmente, per continuare a descrivergli
le cose:
<<C’era una volta una capanna nel bosco, e in questa capanna abitava il principe Medoro.
Tutt’intorno crescevano sterpi e spine...>>.
- No! Rose e magnolie! Rose e gelsomini
Era proprio inguaribile, anche nella sua miseria.
Ma un giorno... Un giorno Medoro udì bussare alla porta della sua capanna. Zerbino gli mostrò, con
parole sincere e fedeli, un bimbo e una bimba che si tenevano per mano. Il loro babbo era morto in
guerra. La loro mamma era morta di dolore. Rimasti soli essi non avevano più una casa, né un letto,
né una scodella di minestra sulla tavola. Per colmo di sventura, il bimbo era cieco: e la sorellina
guidava i suoi passi, tenendolo per mano.
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Medoro fu tentato, come al solito, di chiudere gli occhi e di raccontarsi che due giovani principi
erano venuti a visitarlo per invitarlo a un gran ballo. Ma il piccolo cieco, proprio in quel momento,
inciampò nella soglia. Medoro tese le braccia per impedirgli di cadere e lo vide: vide il suo volto
smunto, le lacrime che gli rigavano le guance sporche, il corpicino magro e tremante nei panni
strappati. <<Lo vide com’era>> e provò pietà di lui. Lo vide così piccolo, povero e bisognoso
d’aiuto che la tentazione di rifugiarsi in una bella fiaba gli parve, com’era, una viltà.
- Entrate, - disse ai due fratellini, - voi siete come uccellini caduti dal nido, ma il gatto selvatico non
vi mangerà. Questa casa sarà la vostra e io vi farò da padre. Sarò un padre un po’ giovane ma, se
direte di sì, lavorerò per voi, per darvi la vostra parte delle buone cose che pur ci sono, a questo
mondo, tra tante cose brutte.
Zerbino non disse nulla. Sorrise appena. Dentro di sé era felice perché finalmente Medoro era
guarito.
- Ora ci vede davvero, - pensò. – Ci vede perché <<vuole vedere>> che cosa può fare per dare un
po’ di felicità agli altri.
Jaques Lusseyran8
“Lo sguardo diverso”
La vista predilige le apparenze, questo fa parte della sua natura. Essa tende a prendere le
conseguenze per le cause. Attitudine avvincente nel caso della luce: gli occhi credono di vedere il
sole, mentre incontrano solo degli oggetti illuminati. Il pericolo della vista deriva quindi dal suo
stesso potere, dalla sua prontezza, dalla sua utilità e ciò si verifica soprattutto quando ci basiamo su
di essa per conoscere gli altri uomini. Pensiamo ai guai che provocano nei nostri giudizi gli abiti, le
pettinature, i sorrisi delle persone che incontriamo. Dall'abito, dal sorriso, derivano la maggior parte
dei nostri amori e dei nostri odii, e anche delle nostre opinioni. Una persona si avvicina a noi: che
cos'è per i nostri occhi? Anzitutto è un certo aspetto fisico, vale a dire non un accordo, seppure
passeggero, tra lei e noi, ma fra lei e la società. Perché è evidente che l'abbigliamento, il sorriso e la
8
Si tratta di uno scrittore francese divenuto cieco all’età di 8 anni e vissuto fra il 1924 e il 1971.
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smorfia, i gesti stessi, in una parola tutto il portamento, sono una faccenda sociale. Io penso a quel
giuoco perenne e divenuto ormai involontario al quale ci abbandoniamo per apparire, a quell'arte di
ingannare l'occhio altrui, che occupa tanti minuti della nostra vita. Perché sono gli occhi ad essere
ingannati, è per loro che lavoriamo, sapendo che faranno presto a posarsi su di noi, senza tuttavia
interrogarci a lungo. E' vero che ci sono degli occhi che interrogano e vedono: ci sono gli occhi di
una madre o di una moglie inquieta, quelli di un vero medico, di un saggio, di un artista, e, perché
no, di un umorista. Ma da che cosa deriva quell'attimo in cui gli occhi che vedono si socchiudono, e
diventano interiori? Questo gesto si chiama in più modi: riflettere, concentrarsi, riafferrare se stessi;
si tratta, a pensarci bene, di un atto riflesso di difesa contro la vista. Si tratta, dopo aver ricevuto
dagli occhi le immagini, di fermarle, di fissarle in noi al di fuori di qualunque supporto visivo, in
breve, di dar loro una forma di esistenza del tutto nuova: l'esistenza interiore. Senza tale rinuncia
anche solo provvisoria a tutto quello che apportano gli occhi, non ci può essere, credo, vera
conoscenza. Questo semplice fatto dovrebbe metterci in guardia contro la massima delle illusioni,
quella della onnipotenza delle forme.
26
PARTE 2. -LE
PERSONE NON
VEDENTI
OGGI…
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Parte 2. - Le persone non vedenti oggi…
Come si accennava nella Parte 1, oggi molte cose sono fortunatamente cambiate, almeno sotto il
profilo lavorativo: alcuni di noi sono docenti, avvocati, giornalisti, programmatori informatici,
imprenditori, famosi musicisti… Sebbene la parte del leone la facciano ancora le “vecchie”
professioni del centralinismo telefonico e della masso-fisioterapia, ben altre sono ormai le
opportunità che si aprono, ovviamente nei ristretti limiti imposti dall’attuale crisi che l’economia
non solo italiana sta attraversando. Ecco quindi alcuni esempi di esperienze professionali, più e
meno note.9 Accanto ad esse, inserisco anche la mia attuale esperienza lavorativa di educatore
presso una grande struttura… non certo per paragonarla a quelle di Andrea Bocelli, Felice
Tagliaferri o Mirko Mencacci, ma perché può far capire che chi non vede può operare anche nelle
cc.dd. “professioni di aiuto”. Fra l’altro, a quanto mi consta, io sono l’unica educatrice non vedente
in Italia che per giunta segue persone anziane, molte delle quali normovedenti ed affette da ben altre
disabilità…
Mirko Mencacci e la magia del suono
Mirco Mencacci è oggi uno dei più stimati tecnici del suono (sound design) del
cinema italiano. Ha collaborato alla realizzazione di film quali: “Notte prima degli esami”, “Le fate
9
Sul punto, consiglio anche la lettura del volume di Mauro Marcantoni “I ciechi non sognano il buio. Vivere con
successo la cecità” (edizioni Franco Angeli, 2008). “È facile e rassicurante seguire i luoghi comuni. – si legge nella
quarta di copertina - Tutto è più semplice, già interpretato, pronto all’uso. Tutto diventa ovvio, anche dare per scontato
che la cecità sia una malattia totalmente invalidante. Un male oscuro che impedisce di realizzarsi nella vita, nel lavoro e
negli affetti. Questo libro chiede a chi la pensa così – vedenti e non – di cambiare logica, di provare a risalire la corrente
del pregiudizio. Di lasciarsi guidare dai racconti – numerosi e diversissimi – dei ciechi che ce l’hanno fatta.
Dall’avvocato di grido alla cantante famosa, dall’abile artigiano all’esperta informatica, dal campione di sci allo
scultore affermato, ognuno svelerà piccole e grandi strategie che portano al successo, ma soprattutto al superamento
degli ostacoli dovuti non solo alla cecità, ma anche alla cultura corrente”. “Il cieco che mi sta di fronte forse mi vede.
Mi sente, mi avverte, mi capisce, più di quanto io faccia nei suoi confronti”, scrive acutamente Giuseppe De Rita nella
sua prefazione. Da questo ribaltamento di prospettiva hanno origine le riflessioni che percorrono il libro. Ne risulta
un’analisi disincantata, ma carica di significati e di vere e proprie sorprese, del rapporto fra vedenti e ciechi. Per i primi
– che a volte tanto “vedenti” non sembrano – è un’occasione per scoprire qualcosa in più di un mondo troppo spesso
ignorato o frainteso. Per i ciechi, le storie sono un campionario di esperienze vissute. Esempi, per chi ancora non ci
crede fino in fondo, di come sia possibile costruire la normalità con quattro anziché con cinque sensi.
28
degli ignoranti”, “La finestra di fronte”, “La meglio gioventù”. All'età di 8 anni rimase cieco a
causa di un incidente, a seguito del quale fu costretto a frequentare una scuola speciale (la legge 517
del 1977 che avrebbe sancito la chiusura di tali scuole fu scritta poco dopo), ad un "istituto per
ciechi", il David Chiossone di Genova. Per lui, toscano, appassionato di cinema e molto legato ai
genitori, fu un trauma forse più drammatico della stessa cecità. Dopo un periodo di difficile
ambientamento dovuto al rifiuto della situazione e con l'aiuto di un nuovo amico, Felice, di un
professore di rara sensibilità Don Giulio (Paolo Sassanelli), di una ragazzina vedente e di un
vecchio registratore a bobine, inizia a costruirsi un nuovo mondo fatto di suoni, sogni ed emozioni
ad occhi chiusi. Un mondo nel quale a poco a poco coinvolge i suoi nuovi amici, anche i più ostili,
inventando favole sonore fatte di draghi, principesse da salvare, cavalieri erranti e mostruose
creature. Alla sua storia si ispira il film “Rosso come il cielo”.
Felice Tagliaferri
e l’arte senza barriere10
Felice Tagliaferri è uno scultore non vedente assurto per le sue abilità artistiche a notorietà
internazionale.
Felice, affetto da cecità dall'età di 14 anni, ha intrapreso un percorso artistico molto personale e
particolare che lui ha riassunto nello slogan "Dare forma ai sogni".
Le sue creazioni sono infatti sculture non viste, che prima nascono nella sua mente e poi prendono
forma attraverso l'uso sapiente delle mani, guidate da incredibili capacità tattili.
Felice si destreggia abilmente fra i più diversi materiali: per la sua arte utilizza creta, marmo, legno
o pietra. Ogni materiale viene trattato e plasmato con tecniche diverse, dalla forza impressa per
scolpire il marmo alla gentilezza della plasticità espressa nel modellare la creta.
10
Tratto dal sito ufficiale dell’artista. Url di riferimento: http://www.chiesadellarte.it/La-Chiesa-dellArte/Scheda-dipresentazione-di-Felice-Tagliaferri/
29
Oltre a lavorare alla realizzazione delle forme dei suoi sogni artistici, Felice Tagliaferri riesce ad
essere anche un ottimo insegnante, applicando il suo personalissimo metodo a una varietà di
situazioni.
Fra le sue molte opere, la più celebre è senza dubbio il “Cristo rivelato”. L'idea della scultura è nata
nell'aprile 2008, durante una visita di Felice Tagliaferri a Napoli, quando all'artista non è stato
consentito di vedere a suo modo, cioè con le mani, la celebre scultura di Giuseppe Sanmartino,
esposta nella Cappella Sansevero.
Tagliaferri, che da anni porta avanti il messaggio che l'arte è patrimonio universale e come tale deve
essere accessibile a tutti secondo le proprie possibilità, ha perciò pensato di proporre una sua
versione dell'opera che sia disponibile alla fruizione tattile.
Il nome dell'opera, "Cristo rivelato", ha il doppio significato di "velato per la seconda volta" e
"svelato ai non vedenti".
OBIETTIVO
30
La scultura realizzata da Felice Tagliaferri raffigura un Cristo Velato simile a quello di Napoli che
può essere toccato, così da ovviare all'impossibilità di conoscere l'opera originale da parte di chi
vede esclusivamente attraverso l'uso delle mani.
L'iniziativa consente a tutti coloro che lo desiderino di approcciarsi all'opera d'arte anche in maniera
tattile, dimostrando che un blocco di pietra non può rovinarsi a causa dello sfioramento effettuato da
dita esperte, come prova il fatto che un non vedente è in grado di leggere l'ora semplicemente
toccando il delicatissimo meccanismo di un orologio senza alterarne minimamente il
funzionamento.
REALIZZAZIONE
L'opera, che ha le dimensioni di 180x80x50 cm, è stata realizzata a partire da un blocco di marmo
sbozzato da artigiani con la supervisione di Felice Tagliaferri, che l'ha portata a compimento tra il
2009 e la fine del 2010 curandone in modo particolare l'aspetto tattile.
L'opera è già stata esposta:
al Museo Archeologico di Napoli;
nella Chiesa Santa Maria Alemanna di Messina;
all'Istituto Cavazza di Bologna;
al Meeting di Rimini, dove è stata toccata da
50.000 persone;
a Colle Ameno (Ancona), dove in occasione della
Settimana Eucaristica è stata vista dal Santo Padre
Benedetto XVI che si è complimentato con l'artista;
nella Chiesa di San Domenico ad Ancona;
nell'Istituto dei Ciechi a Milano.11
11
Inseriamo alcune fotografie particolarmente significative relative ad alcuni degli eventi sopra citati. Ringraziamo
sentitamente il maestro Tagliaferri che ce le ha gentilmente concesse.
31
La disabilità visiva. Realtà, progressi e problemi aperti12
I mass media, di frequente, associano tecnologia a disabilità in chiave sensazionalistica e miracolistica:
nonostante tutte le sperimentazioni sin qui condotte sul cosiddetto "occhio bionico", a tutt'oggi non mi
risulta vi sia nessun prodotto che restituisca la vista alle persone nate cieche.
Sono un'insegnante non vedente di storia e filosofia, in servizio presso il Liceo Classico Giacomo Leopardi di
Pordenone. Scrivo queste note in base alla mia esperienza di "utente finale" delle tecnologie informatiche
in favore dei disabili visivi e sulla scorta delle mie osservazioni maturate nell'ambito dell'integrazione
scolastica, settore nel quale presto la mia collaborazione quale vice-presidente dell'Unione Italiana Ciechi e
Ipovedenti
di
Pordenone.
La legge 4 del 2004, comunemente nota come "Legge Stanca", ha rappresentato per tutti i disabili un
traguardo di grande portata sociale e civile: le istituzioni prendevano finalmente atto che il progresso
tecnologico avrebbe consentito di colmare in gran parte lo svantaggio connesso alla disabilità, favorendo il
cammino verso l'inclusione sociale. Dalla fine degli anni '90, infatti, attraverso uno screen-reader o una
barra Braille, i disabili visivi, in particolare, riescono potenzialmente ad accedere ai siti Internet, a
digitalizzare libri di testo, a consultare giornali e riviste, ad utilizzare i più comuni applicativi
ed i software specifici.
A distanza di sei anni, tuttavia, molti aspetti di questo dettato legislativo restano in gran parte disattesi. La
pubblica amministrazione ed i datori dilavoro privati, in molti casi, non ottemperano ancora alle
disposizioni di legge. Gli utenti si trovano quindi di fronte all'inaccessibilità di documenti e siti, anche di
pubblica utilità. Dal punto di vista tecnico, i principali ostacoli sono rappresentati dai files in pdf grafici, da
siti
contenenti
immagini
non etichettate, da moduli privi di tags. I datori di lavoro, inoltre, soprattutto per mancanza di fondi,
stentano a dotare il personale disabile visivo delle tecnologie necessarie, hardware e software. Ad esempio,
come docenti non vedenti, da anni ci stiamo battendo al fine di ottenere un registro elettronico accessibile,
che segua degli standard comuni di fruibilità e che, in maniera uniforme e capillare, sia proposto a livello
nazionale a tutte le scuole, sulla scorta di quanto è stato fatto nel caso delle piattaforme telematiche per la
formazione a distanza, curate dall'ex Indire. Uscendo da un'ottica puramente assistenzialistica, sarebbe
12
Questo contributo è stato scritto da Daniela Floriduz, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico Ettore
Majorana di Pordenone, nonché Vicepresidente sezione PN dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e
membro della Commissione Nazionale UICI per la tutela dei diritti degli insegnanti.
32
opportuno realizzare le tecnologie secondo la filosofia del design for all, e dunque non investire denaro
pubblico in prodotti "dedicati", ma progettare "a monte" delle realizzazioni che tengano conto in partenza
dell'accessibilità. Il modello potrebbe essere quello inaugurato da Apple, che immette sul mercato
apparecchiature dotate di sintesi vocale, attivabile o meno, a seconda delle necessità.
Questo principio può essere esteso anche alle tecnologie utilizzabili per la mobilità nell'ambiente urbano: a
parte le segnalazioni semaforiche acustiche, sarebbe sufficiente una progettazione razionale per consentire
la fruibilità delle nostre città alle persone non vedenti ed ipovedenti che si muovono in autonomia, anziché
realizzare soluzioni che nascono già inaccessibili, per la presenza di barriere architettoniche. Un'altra
frontiera da abbattere è rappresentata dai libri elettronici, settore nel quale la salvaguardia legittima del
copyright si scontra con il diritto alla lettura e all'informazione, sancito anche dalla nostra Carta
Costituzionale. Lungi dal chiedere deroghe e privilegi legislativi, si tratta, invece, di studiare soluzioni
tecnologiche in grado di proteggere gli editori dalla circolazione indebita dei testi. I mass media associano
frequentemente tecnologia a disabilità in chiave sensazionalistica e miracolistica: nonostante tutte le
sperimentazioni sin qui condotte sul cosiddetto "occhio bionico", a tutt'oggi non mi risulta vi sia nessun
prodotto che restituisca la vista alle persone nate cieche. Vi sono, tuttavia, delle soluzioni tecnologiche che
possono rendere il mondo un po' più familiare ed intelligibile ai non vedenti: penso, in particolare, al kit
multisensoriale curato da Lidia Beduschi e pubblicato dall'editore Negretto, un progetto fondato sui recenti
risultati delle neuroscienze e degli studi sulla sinestesia, attraverso il quale, una dimensione prettamente
visiva, quale quella del colore, risulta accessibile mediante l'impiego dell'informatica, come si evince dal sito
www.odorisuonicolori.it. Nel 1980, Günther Anders scriveva: «La tecnica può segnare quel punto
assolutamente nuovo della storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: che cosa possiamo fare
noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi?» Per evitare questo rischio, la tecnologia
potrebbe trasformarsi in opportunità, modalità di inclusione e di partecipazione sociale, anziché costituire
una barriera, un ulteriore handicap, che va ad aggiungersi a quello sensoriale, aggravandolo,
incrementando la frustrazione e l'emarginazione.
33
Quando la disabilità diventa
opportunità
Esperienza di lavoro al “Civitas
Vitae”
Lorenza Vettor
E’ questo il titolo che io stessa ho voluto dare alla mia esperienza lavorativa che ho intrapreso
presso il “Civitas Vitae” della Fondazione Opera Immacolata Concezione – oic onlus – di Padova
(http://www.oiconlus.it). Prima di raccontarla, voglio descrivere, seppure sommariamente,
l’ambiente dove lavoro e dove vivo dal settembre 2011.
Il contesto di riferimento
Il “Civitas Vitae”è un “Centro multipolare integrato a connotazione polifunzionante e
multidimensionale della longevità” (Cfr. A. Ferro, in “La risorsa longevità – Un contesto
innovativo”, Marsilio Editore, Venezia, 2008, pag. 11), dove la vita umana viene considerata “un
unico percorso senza cesure nel quale ogni persona (giovane o longeva, autosufficiente o non
autosufficiente, ospite o non ospite) è portatrice di valori e relazioni, cioè di un contributo
essenziale per un autentico sviluppo della società”. In tal modo, “la persona trova tempi, strutture e
modalità atte a favorire la valorizzazione del proprio specifico potenziale, facendo tesoro delle
opportunità connesse a ogni fase della vita per farne elemento cruciale a disposizione della
comunità. (op.cit, pag. 163).
“Civitas Vitae” è un riferimento esemplare della capacità di creare senso di appartenenza partendo
da una esperienza locale, che ha posto la valorizzazione della risorsa longevità attiva come perno di
una filiera complessa di iniziative che hanno generato un processo molto più articolato di
mutamento sociale. Un'esperienza che ha successo perché riesce a fare appartenere gli anziani alla
vita di tutti i giorni, perché è una palestra continua di appartenenza degli operatori e di tutti i
cittadini che a titolo diverso vi accedono (utenti dei servizi, volontari, familiari ecc.), perché la
34
polivalenza e la pluralità dell'offerta, che sono la sua cifra non solo organizzativa ma culturale,
rinforza sia nell'operatore affrancato dalla meccanicità ripetitiva del mansionario che nelle diverse
tipologie di cittadini che ne beneficiano, proprio quel senso di appartenenza che condensa le
differenze, un esempio concreto di nuova vita, di nuovo spazio, di nuova cultura che mostra come la
società non sia deterministicamente condannata a un programma di morte, ma al suo interno sono
in atto feedback che indicano la sua capacità di rigenerarsi grazie alla relazione con l'altro, al vivere
con l'altro.
Ubicato in un'area di circa dodici ettari nel quartiere Mandria di Padova, “Civitas Vitae” è una vera
e propria città integrata, composta da strutture dedicate alle diverse attività specialistiche e da
catalizzatori di relazione nati e promossi specificatamente per animare e dare contenuto alla vita
quotidiana del villaggio.
Le strutture di cui si compone sono le seguenti:

Residenza Pio XII per persone anziane non autosufficienti, con una ricettività di circa
duecentoventi persone al più alto standard;

Residenza del sollievo Paolo VI per quaranta persone in stato terminale (hospice) o
vegetativo (coma vigile), gestita in partnership con l’Unità Socio-sanitaria16 di Padova;

Residenza Mons. Filippo Franceschi con ultimazione prevista per la primavera-estate di
quest’anno, composta da tre piani dedicati rispettivamente all'ospitalità di sacerdoti anziani,
di religiose in servizio presso il Civitas Vitae e di giovani disabili, sulla base di un progetto
che vede questi tre gruppi essere parte attiva della vita del complesso, sulla base della
valorizzazione delle specifiche competenze, anche eventualmente solo residuali;

Residenza Santa Chiara, che ospita oggi quattrocentottanta persone non autosufficienti
in ambienti dotati di ogni comfort, di tutti i servizi medico-infermieristici, sulla base di una
specializzazione per piano delle tipologie di non autosufficienza affrontate;

Residenze Airone per persone longeve autosufficienti, un complesso strutturato come le
antiche corti venete formato da undici villette comunicanti tra loro mediante percorsi
protetti;
Alle strutture per l'ospitalità si affiancano le unità di supporto operativo, declinabili in:

Guardia medica, che assicura una continuità operativa anche nei giorni festivi fornendo
sicurezza e qualità della vita al territorio;
35

Centro
servizi
alla
persona,
aperto
al
territorio
e
comprendente
palestra,
fisiokinesiterapia, idroterapia, servizi ambulatoriali, centro prelievi ecc.;

Centro wellness, che offre una serie di servizi per il benessere, il tempo libero e la cura
della persona quali ad esempio biblioteca, mediateca, connessione internet, bar, animazione
sociale, parrucchiera, barbieri, pedicure, podologo, organizzazione di gite, vacanze,
spettacoli;

Centro di riabilitazione, con servizi integrati di logopedia, ergoterapia, fisioterapia,
recupero postrianimazione;

Laboratorio applicativo di alimentazione e ristorazione, funzionale a persone non
autosufficienti per età (anziani e bambini), infortunio, handicap, trauma incidentale ecc.;

Atelier multimediale e laboratori vecchi mestieri, dove è possibile fare attività musicale
e audiovisiva e dedicarsi ad attività di piccolo restauro e artigianato;

Reparto domotica per disabili motori e sensoriali, predisposto per attività
occupazionali/professionali e con soluzioni in grado di assicurare il «dopo di noi».
Proprio come in ogni città, il panorama è completato dalle strutture tipiche della vita di ogni
comunità, afferenti cioè allo svago, alla formazione, ali'apprendimento e alla riflessione:

Centro formazione e ricerca Varotto-Berto per la formazione degli operatori di
assistenza e dei longevi vitali, specificatamente orientato alla ricerca tecnologica utile al
recupero professionale della disabilità e della non-autosufficienza;

Auditorium Silvano Pontello, sistema di sale attrezzate di oltre 1.200 metri quadri e
capienza fino a trecentoventi posti, costruito per essere occasione di interrelazione con
l'esterno per convegni, congressi, incontri, esposizioni, mostre ecc., dotato di tutti i servizi e
i supporti necessari;

Centro infanzia Clara e Guido Ferro, asilo nido e scuola materna: inserito in questo
contesto per dare forma concreta alla costruzione di relazioni intergenerazionali e per fornire
un supporto operativo alla genitorialità sia del territorio sia dei dipendenti dell'OIC;

Chiesa Maria madre di Dio, caratterizzata da un'impostazione progettuale che ruota
intorno ai concetti della «centralità» della Fede nella vita e della Luce sulla vita futura; vi si
svolgono i servizi religiosi, con accessibilità anche dal territorio per una capienza di circa
quattrocento persone;

Museo veneto del giocattolo: inserito nell'albo delle strutture museali della Regione
Veneto, raccoglie preziose testimonianze di giocattoli antichi dell'infanzia e della
36
fanciullezza. È strumento per rivivere alcuni dei più felici momenti della propria vita,
promuovendo lo spirito del collezionismo come memoria che costruisce identità.
Vivere all'interno del Civitas Vitae significa però non solo essere coinvolti nelle normali attività
riservate agli ospiti delle residenze ma anche poter partecipare alle iniziative promosse dai diversi
catalizzatori di relazione attivi in questo complesso e specificatamente meritano menzione:

Comitato ospiti: organo di rappresentanza di ospiti e familiari, eletto democraticamente
ogni sei anni, dedicato allo sviluppo delle relazioni tra struttura operativa e ospiti stessi. Una
sorta di ombudsman
ante litteram, introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001
riconosciuto dalla Regione Veneto come strumento operativo obbligatorio per tutte le
strutture di assistenza agli anziani;

Club over 100 ricomincio da zero: circolo esclusivo riservato agli ospiti ultra centenari,
dotato di tutti gli elementi di distinzione e aggregazione tipici di ogni club: dalla quota di
appartenenza decrescente in relazione alla durata (decennale, quinquennale, annuale) alle
felpe personalizzate fino alla disponibilità di un sistema di servizi speciali dedicati;

Cilpres: cooperativa i cui soci, rigidamente over sessantacinque, mirano a concretizzare
la loro carica imprenditoriale e la loro voglia di fare in attività reali di «relational
service»;Uno dei primi progetti realizzati è la gestione e riparazione di tutti gli ausili per
disabili presenti all’interno della Fondazione OIC e lo studio di adattabilità di nuovi ausili
per gli ospiti.

VADA - Volontari amici degli anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, si
«spendono» personalmente a favore degli ospiti e dei loro congiunti per combatterne la
solitudine, per supportare chi si trova in situazione fragile e delicata, per dare consistenza
all'ideale di famiglia allargata caratteristico del modello Civitas Vitae;

Associazione Agorà, che opera in stretta collaborazione con istituzioni pubbliche e
private, avendo fino ad oggi promosso progetti in diverse aree che vanno dalla cultura
dell'alimentazione consapevole al supporto ai consumi e acquisti, dalla costruzione di reti
intergenerazionali allo studio delle tecnologie informatiche. Merita una particolare
segnalazione la promozione da parte di Agorà dei primi corsi per la qualifica di
amministratore di sostegno, pensata fra l’altro per dare supporto attivo e disinteressato alla
tutela degli interessi della persona longeva nella gestione delle delicate dinamiche
patrimoniali tipiche dei passaggi generazionali. A partire da aprile 2008 l'Associazione
Agorà si è fatta promotrice della prima community di longevi, facendo sintesi di alcune
37
opportunità che le nuove tecnologie e i nuovi media offrono a chi possiede contenuti ed
esperienze da comunicare, costruendo un'innovativa mediateca digitale che sarà resa
disponibile a tutte le persone anziane attraverso il web;

Fondazione INPLANA, per ricerca e diffusione delle buone pratiche in contesto di
dignità e libertà per le persone non autosufficienti .
A mio avviso, i principi fondanti su cui è costruita la filosofia di lavoro e di vita in questa tanto
complessa ed articolata realtà che per capirla è indispensabile vivere al suo interno per un po’ di
tempo, sono racchiusi in queste significative parole del Presidente della Fondazione OIC , Angelo
Ferro, docente di Economia industriale presso l’Università di Verona: “Il principio della
sussidiarietà realizza la capacità di integrare le funzioni di ogni persona e di ogni organizzazione in
un processo di effettiva partecipazione che porta ad ottenere un risultato migliore; parte dal basso e
va verso l'alto; coinvolge la responsabilità; implementa le potenzialità sempre e comunque presenti
in ogni persona affinché nell'insieme trovino valorizzazione. Il principio della solidarietà realizza
l'aspirazione a conseguire gli ideali di giustizia e progresso che accomunano l'intera umanità.
Entrambi alimentano ed esaltano la sfera delle libertà. Nella globalizzazione e con l'individualismo
si tende a massimizzare l'esito dei processi dedicandosi ai "primi" perché "rende di più"; ma questa
concezione darwiniana del mercato crea situazioni crescenti di divario e di disuguaglianza che
rendono difficile costruire il Bene Comune. Servono le categorie della solidarietà e della
sussidiarietà come parti integranti dell'agire perché in economia e nella società sia possibile
costruire il Bene Comune, riducendo le disuguaglianze anche intra e intergenerazionali,
promuovendo l'inclusione nel mercato di soggetti altrimenti esclusi, estendendo la dimensione della
dignità della persona. La solidarietà, intesa come intrinseca interdipendenza che lega gli uomini, e
la sussidiarietà, nel senso che ciascuno ha una sua funzione e solo con la partecipazione di tutti si
raggiungono risultati ottimali, e quindi intesa come riconoscimento della funzione pubblica delle
persone e delle comunità intermedie, costituiscono due principi coessenziali: la solidarietà senza la
sussidiarietà degenera nell'assistenzialismo burocratico, mentre la sussidiarietà senza solidarietà
conduce al localismo egoistico. Questi due principi, fondanti la Dottrina Sociale della Chiesa,
completamente sovvertiti dalle dinamiche finanziarie che hanno originato la grave crisi attuale
compromettendo lo sviluppo, hanno invece sempre accompagnato la storia dell'OIC nel valorizzare
la dignità della persona nella terza età e nella non autosufficienza, quale soggetto capace di produrre
relazioni per la coesione sociale ed intergenerazionale”.
38
Queste parole, proprio perché dette da un economista, assumono – almeno per me – una valenza
ancor più significativa: la risposta al difficile momento di crisi di economie di scala ma soprattutto
di valori che stiamo attraversando non può essere – io credo – che questa.
La mia esperienza
A presentarmi il Professor Ferro quasi un paio d’anni fa fu Davide Cervellin, persona non vedente
come me e noto imprenditore nel campo delle tecnologie assistivo-compensative nell’area delle
disabilità. Sono convinta che il lungo sodalizio fra queste due persone che dura ormai credo da una
ventina d’anni non sia un caso: entrambi – almeno per come la vedo io – hanno saputo porre la loro
esperienza imprenditoriale a servizio degli altri…
Da subito, il Professore mi prospettò con entusiasmo la sua idea, quella di far sentire le persone
disabili protagoniste della loro vita e del loro lavoro. Come? Consentendo di svolgere un’attività
capace di valorizzare le risorse e potenzialità che ognuno di noi possiede, di operare in un ambiente
lavorativo dove vengono espresse le inclinazioni ed attitudini, superando i limiti che il deficit
necessariamente porta con sé, ma anche dove il voler mettersi in gioco ogni giorno facendo squadra
costituisce un valore… Un ambiente di lavoro in cui si costruisce un percorso di inserimento a
misura del singolo: la legge 68/99 ed il conseguente strumento del lavoro mirato avrebbe dovuto
essere proprio questo.
Nel contempo, le peculiarità di “Civitas Vitae” di cui dicevo sopra permettono anche al lavoratore
disabile di porsi al servizio degli altri, in una quotidiana relazione ed interazione fra operatore ed
ospite e dove entrambe le parti danno e ricevono, insegnano e imparano, crescono e si sentono parte
di un tutto…
39
la persona anziana – noi qui preferiamo chiamarla “longeva” – è portata – sostiene ancora il
Professor Ferro – a vivere di rimpianti, ricordando un passato in cui non c’erano le difficoltà e i
limiti che ora invece esistono… (Gli ultracentenari sparsi nelle 9 sedi OIC del Veneto sono più di
40 ). Per un anziano, è più semplice superare le difficoltà del venire meno delle proprie capacità
fisiche (vista, udito, mobilità) se invece che confrontarsi con la propria esperienza di vita in salute
può relazionarsi con chi fin dalla nascita ha dovuto affrontare e vincere una qualche forma di
disabilità, poiché si rende conto che anche in presenza di certi limiti è possibile fare, stare con gli
altri, vivere una vita normale…
Sono stata io stessa a disegnare il mio percorso
di lavoro, un percorso che è sempre in fieri,
poiché ho la fortuna – in questo sostenuta dalla
dirigenza e dalle persone con cui opero ogni
giorno –di poter cogliere le molte opportunità
40
che questa realtà offre, non ultima quella di prendere parte alle riunioni di questo Gruppo di
lavoro.13
Ciò che mi sono prefissa da subito è far comprendere che tutti noi siamo dotati di innumerevoli
potenzialità che spesso non usiamo: ad esempio chi vede non è portato a servirsi del tatto o
dell’udito: il libro scritto da Top Rosenblum Lawrence e dal titolo “Lo straordinario potere dei
nostri sensi” la dice lunga… Ed appunto
perché ne sono fermamente convinta, ho
voluto fare un mio intervento ad un
convegno tenutosi presso la Fondazione
chiedendo ai presenti di mettere una
benda agli occhi, in modo da fare
affidamento sul solo udito e non sulla
vista…
Penso che un approccio multisensoriale
alla realtà aiuti tutti, non solo chi non
vede, a cogliere tutto ciò che ci circonda –
le cose, ma anche le relazioni umane – nella loro globalità ed interezza e proprio per questo vorrei,
quando sarà completato il “Distretto di Cittadinanza” poter gestire dei laboratori – con gli Ospiti
delle strutture, ma anche con gli studenti delle scuole – che vadano in questa direzione. Tra i vari
obiettivi che mi sto ponendo, questo è sicuramente quello a cui tengo di più.
Al momento sto partecipando con altre persone, dipendenti della Fondazione come me ma anche
volontari, alla realizzazione di varie iniziative.
Anzitutto sto curando assieme ad una collega – da noi i progetti sono sempre portati avanti da più
persone proprio per creare una sinergia delle risorse - un progetto volto alla diffusione tra gli Ospiti
dell’audiolibro, strumento indispensabile a chi ama la lettura ma non è più in grado di leggere in
autonomia; partner del progetto è il Centro Internazionale del Libro Parlato di Feltre,
un’associazione che io conosco molto bene poiché è anche grazie ad essa che ho potuto compiere i
miei studi universitari: volontari di tutta Italia registrano – ieri su audiocassette ed oggi su cd-rom –
testi di ogni genere. E’ bellissimo essere accompagnati nelle proprie giornate dalla voce di una
13
Questo contributo è infatti stato scritto a beneficio del Gruppo 3 dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle
Persone con Disabilità, istituito ai sensi della relativa Convenzione dell’ONU (Convenzione sui Diritti delle Persone
con Disabilità), firmata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009. La Fondazione
OIC è parte in diversi gruppi di lavoro dell’Osservatorio, fra cui quello sull’empowerment e la vita indipendente delle
persone disabili a cui anche io partecipo.
41
persona che nemmeno si conosce… Spesso lo ripeto agli Ospiti ed agli educatori che collaborano
con me…
Con altri educatori e con il determinante supporto di una persona esperta, sto anche prendendo parte
ad un laboratorio di ceramica dove anche persone affette da demenza senile e da Alzheimer
riescono ad esprimere le loro emozioni e sensazioni (“Sentimenti tattili” è il nome che abbiamo dato
a questa attività). E’ per me proprio questo l’aspetto più significativo, ovvero il fatto che tutti
mentre lavorano si pongono in una positiva relazione con gli altri, sicuramente agevolati in questo
dall’ambiente allegro ed accogliente che si è creato. Per me inoltre è facile svolgere un’attività in
cui l’uso della vista non è fondamentale: mi sento a mio agio e soprattutto riesco ad instaurare un
tipo di comunicazione con chi mi sta vicino che va al di là delle parole…
Un altro progetto da poco iniziato mi vede come un osservatore silenzioso: i protagonisti sono i
Soci dell’Associazione Agorà e gli Ospiti della Residenza Santa Chiara, che tutti insieme
concorrono a costruire uno “spazio di autonomia” dove chi lo desidera può far conoscere al gruppo
le proprie esperienze o può raccontare sé stesso… Non c’è nulla di preconfezionato e tutto è lasciato
all’iniziativa del singolo e del gruppo… A me piace molto stare a guardare ed osservare le
dinamiche di gruppo che nel contesto si vengono a creare…
Ho invece concluso da pochi giorni la mia esperienza
presso il Museo del Giocattolo, dove assieme ad un
gruppo dei Soci sempre di Agorà è stato costruito un
libro tattile (creato cioè con materiali “poveri” quali
stoffe di vario genere, cartonati, plastiche, materiali
naturali come legno e sassi…) che parla della “Scuola al tempo dei Nonni” e che ora portiamo
presso le scuole: gli alunni ma anche gli insegnanti guardano con stupore il risultato del nostro
lavoro, un volume che si può vedere con gli occhi e con le mani…
L’unico rimpianto che ho è di non essere riuscita a rendere il Museo accessibile a noi persone
disabili visive: infatti i giocattoli sono tutti racchiusi in teche e non si possono esplorare al tatto.
Spero vivamente di poterlo fare prima o poi, anche perché considero l’inaccessibilità in genere una
grave discriminazione, inconcepibile nel XXI secolo: e qui due parole le voglio spendere sul
rapporto fra ciò che è nella realtà e ciò che dovrebbe essere. So perfettamente – sono prima di tutto
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una giurista – che molte sono le norme che sanciscono i principi di accesso alla cultura e
all’informazione, ma spesso la quotidiana realtà è assai lontana da esse, per cui è nostro compito –
intendo di noi persone disabili – fare in modo che le regole poste a nostra tutela trovino la maggior
realizzazione ed applicazione possibile. Del resto penso che la mia esperienza al Museo del
Giocattolo non si chiuda qui: in “Civitas Vitae” non ci sono addii, ma solo degli arrivederci…
Quando mi viene richiesto, passo allo scanner delle immagini tratte da libri o dei disegni fatti a
mano che i servizi socio-educativi poi utilizzano nelle molte attività: una persona non vedente che
lavora con le immagini… Qualcuno ha riflettuto su questo… E per me è del resto una bella sfida
quella di far comprendere che anche chi non vede può seppure con strumenti e per vie differenti
svolgere attività a torto ritenute basate esclusivamente sul senso della vista.
Le difficoltà, certo, non sono mancate, specie nel primo periodo e ancora non mancano. Per
lavorare qui, ho dovuto lasciare la mia città e i miei familiari più stretti, ad eccezione di mio figlio:
non è stata una decisione facile ed i primi due mesi sono stati più difficili di quanto pensavo.
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Gli spazi qui, poi, sono molto ampi ed è difficile per chi non vede imparare ad orientarsi in assenza
degli appositi sistemi tattilo-plantari e mappe tattili. Però col determinante aiuto di tutti sono in
grado di superare ogni difficoltà… Anche quelle che io ritengo invalicabili… Come vuole la
filosofia di ICF, un ambiente favorevole permette di andare oltre il deficit.
Sul piano delle relazioni, riconosco che a volte il lavorare in un grande ambiente comporta, almeno
per me, una concentrazione ed un consseguente dispendio di energie non indifferente: a volte
sentirei il bisogno di spezzare questi momenti di socialità con momenti in cui poter starmene un po’
da sola a lavorare in assoluto silenzio e tranquillità, magari seduta alla scrivania di casa e con la sola
compagnia del mio pc e della voce sintetica che mi accompagna.
Quanto ai colleghi, non tutti accettano volentieri di rapportarsi con una persona non vedente. Ed
infatti, delle due l’una: se tu persona con disabilità rendi meno degli altri hai una scusante, se invece
te la cavi piuttosto bene… Non sempre i colleghi lo ammettono e tantomeno lo accettano… Ho
versato lacrime amare per questo, ma dopo mi sono detta che, tutto sommato, non ne vale la pena…
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…MA IL BUIO E’ DAVVERO IL NULLA?
CHIUDO GLI OCCHI ED È TUTTO SCURO
Chiudo gli occhi ed è tutto scuro
Anche aprendoli la luce scivola via da me.
Sento il tuo affetto un po' deluso;
abbracciami, mamma: sono un riflesso di te,
Non ci sono colori a dipingere il mio mondo
Ma nei sogni tutta l'esistenza è con me.
Mille suoni nei miei pensieri fanno girotondo
come il tempo che sento addosso perso in sé.
Sfumature e forme volano libere tra le mie ciglia:
la mia immaginazione non è certo arginata!
sono sempre curioso di modellare qualche nuova meraviglia:
non sono rimasto senza sogni, scoperta la vita.
Non sono diverso dagli altri.
Anche loro credono in un Dio senza volto, come me.
Stammi vicino brillandomi con il tuo amore:
nel cielo scuro dei miei occhi, sei l'unica stella che c'è.
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Parte 3. – …Ma il buio è davvero il nulla?
La diversità fa paura: lo sappiamo tutti. Forse ciò che a chi vede spaventa di più della cecità è –
almeno stando a quanto apprendo dalle persone vedenti che conosco o comunque con cui ho a che
fare - il buio, che è concepito come il nulla. Chi vede è infatti portato a pensare che oltre la vista c’è
il niente e questo in apparenza può essere plausibile, posto che attraverso il senso della vista passa
la quasi totalità delle informazioni che noi apprendiamo, oggi ancor più di ieri, dato che la
comunicazione attuale avviene soprattutto per immagini.
In realtà non è così. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che il buio è una dimensione del vedere
(chi è totalmente cieco non può cogliere nemmeno cosa è il buio: semplicemente non coglie
nulla…). Chi non vede invece deve affinare tutti gli altri sensi (il tatto e l’udito in primo luogo) per
poter arrivare a conoscere ciò che lo circonda, cosa che chi vede non fa perché non ne averte la
necessità.
Ma io penso che questo non fare, non attivarsi per, è una occasione mancata: quante cose si possono
capire anche toccando, ascoltando, annusando, odorando… Se siete per esempio al buio e dovete
trovare il buco della serratura per infilare la chiave, provate a cercarlo con le mani anziché con gli
occhi: vi assicuro che ci metterete molto meno tempo!14
In queste pagine, ho voluto raccogliere alcune testimonianze di persone che hanno partecipato alle
cene al buio. Queste vorrebbero essere – almeno per me – occasioni in cui chi vede può
sperimentare che un approccio multisensoriale alla realtà ci consente di capire ciò che ci circonda
nella sua interezza e che viceversa un approccio basato solo su uno od alcuni dei sensi di cui
disponiamo ci dà una “visione” parziale, incompleta, riduttiva…
14
A chi voglia approfondire il tema della multisensorialità, consiglio il volume “Lo straordinario potere dei nostri sensi.
Guida all’uso”, scritto da Rosenblum Lawrence (Bollati Boringhieri, 2011).
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Al buio...
di Laura Cegalin15
Il 25 giugno alcuni docenti e simpatizzanti di Porte Aperte sul Web si sono recati alla Cena al buio
organizzata dall'Istituto dei Ciechi di Milano. È stato un momento importante per sperimentare
nuove modalità comunicative ed espressive.
Molto di quella serata è rimasto in noi, così come ci racconta Laura rovistando con leggerezza ed
intensità tra le sue e nostre sensazioni di quel giorno.
Mi chiamo Laura, sono un'educatrice professionale, ed ho avuto il privilegio di conoscere Alice,
una preadolescente non vedente, che da quattro anni mi insegna a guardare oltre.
Io, che sono stata la sua insegnante di sostegno, e che ora mi cimento con lei nell'apprendere un
buon metodo per comprendere e usare Lambda, o per sostenere tre ore di algebra, mi trovo spesso
ad osservarla, quando fa le sue facce buffe, commenta il mio nuovo profumo, o scandaglia il mio
astuccio o la mia borsa con le sue mani curiose.
È grazie a lei, che, tra gli altri tesori che la mia professione mi ha regalato, sono entrata in contatto
con L'Istituto dei Ciechi di Milano. Un contatto fugace, per un corso di informatica, che mi ha però
instillato la curiosità per il misterioso Dialogo nel Buio.
Anche alcuni miei alunni di una scuola superiore avevano già fatto questa esperienza, e il desiderio
di portare qualche compagno di classe di Alice, nel buio, a sperimentare quanto sia poco scontato
avere il dono della vista, magari per apprezzare e riconoscere gli sforzi quotidiani della loro vicina
di banco, mi tentava.
Poi, per questioni logistiche, il tutto è caduto, tranne il desiderio di sperimentarmi, in prima persona.
Accompagno Alice nei corridoi, in giro per Milano, abbiamo perfino partecipato a diverse gare di
corsa campestre, fatto spinning, orientiering, salto in alto, in lungo… ma non avevo mai potuto
provare che il mio modo di accompagnarla non fosse un trascinamento, un portarla…
Fino a lunedì.
15
Fonte: www.porteapertesulweb.it/newsletter/materiali/newspasw2.pdf.
47
Entrando nel suo mondo mi è venuto naturale accettare l'invito a partecipare alla cena nel buio del
25 giugno, comprensiva di un assaggio del percorso di “Dialogo”. Ora che mi trovo a dover scrivere
di questa esperienza, del tutto inedita, e meravigliosa, non so neppure da dove iniziare, ho paura che
qualsiasi cosa scriva finisca per essere banale e retorico.
Ma è ben poco banale quello che ho provato, nell'entrare in una dimensione che da piccola temevo
terribilmente, e che invece ci accompagna, per tutta la vita, ricordandoci che ogni cosa, come la
luce, ha il suo rovescio, il buio.
Affascinata. Mi sento così.
Muoversi nel buio più totale, passare dall'essere l'esperta, la guida, alla completa incompetenza, al
sentirmi buffa, impotente; sperimentare l'evidente fatica, la paura, la frustrazione di fronte al non
riuscire; condividere con un gruppo di avventurosi l'inesperienza, la novità, la frustrazione nel non
riuscire ad esplorare se non una frazione dell'ambiente; e insieme, nel momento in cui tutto sembra
perso, e le emozioni ti affluiscono alla testa in un vortice, e ti chiedi “perché sono qui?” o minacci
Alberto di fargliela pagare, ecco che un braccio esperto ti raggiunge, ti sorregge, ti ha individuato,
chissà come, ha sentito la tua difficoltà, il tuo disagio. È Paolo, la mia guida.
Lui sa dove sei. Ti riconosce. E sa perfettamente cosa stai vivendo. Non lo ha studiato sui libri, lui,
no. Lo vive sulla sua pelle, tutti i giorni. E in maniera sorprendente mi accompagna, lui, un non
vedente, in questo labirinto, attraverso situazioni di possibili quotidianità.
Mi fido, la sua voce è calda, rassicurante: è lui l'esperto adesso e io finalmente posso vedere, so
dove devo andare, e non sono sola.
Lo stomaco brontola, non solo il mio, nel buio i suoni sembrano più confusi, e io mi sento
imbranata, non capisco da dove vengono. Ogni cosa sembra più difficile, ma ho la guida ideale: lui
c'è, e interviene solo se davvero ne hai bisogno, senza che tu lo chieda, ma senza sostituirsi.
Arriviamo finalmente nella sala ristorante: Paolo ci fa accomodare, siamo smarriti, ma sollevati.
Siamo tutti insieme, e la condivisione, in questi casi non è una cosa da poco.
Con imbarazzo, ma forse complici del buio, cerchiamo di comunicare tra noi. Come? Io non mi
ricordo neanche il viso dei miei commensali, siamo tutti uguali, il non verbale è più sottile, ci vuole
tanta concentrazione.
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Eppure pochi minuti, e la conversazione si avvia, in modo spontaneo. Tra una presentazione e l'altra
tastiamo il tavolo, e gli oggetti davanti a noi. Inizio a pensare che la scelta dei pantaloni bianchi non
sia stata in effetti molto azzeccata.
Paolo e i suoi colleghi si muovono con esperienza, mi domando come facciano a comunicare tra
loro, a non scontrarsi, a ritrovarsi.
Abitudini, ordine condiviso, ci risponde la nostra guida: io però penso che sia necessario essere
speciali.
Mi sento meglio, nel locale c'è un piano bar. Fantastico! E che estro…
Le note addolciscono i miei pensieri, ascolto le voci, guardo nel piatto (con le mani…) cosa mi
aspetta. Mi gusto la cena, come non mi era mai capitato di fare.
È difficile, ma non impossibile, mi ripeto, e Alice affronta tutto questo tutti i giorni. Mi commuove
l'idea della mia befanella che mi parla dei suoi miti musicali, e di questo o di quel compagno, senza
averli mai visti.
Eppure sento che lei sì che li vede, e li conosce: non è retorica, lei può apprezzare nel profondo una
persona, e non lasciarsi incantare dall'aspetto.
Sento di stimarla ancora di più, lei e tutti coloro che nelle sue condizioni, a vario titolo camminano
per le strade caotiche di questo mondo di immagini e velocità.
Il mio respiro si sintonizza sulla musica, sono serena. Il vedere, per il momento, non mi manca: io
so che questa condizione finirà. E per ora non mi serve: sto parlando con calma, e mi sto divertendo con persone che non conosco, che non vedo, e che probabilmente non vedrò mai più, ma che
hanno condiviso con me un momento, un assaggio di vita inedito, che resterà chiuso nella parola
esperienza, o volerà attraverso i nostri racconti.
La cena finisce, ci riaccompagnano verso l'esterno; ho l'occasione per esplorare le mani di Paolo, lui
complice mi lascia fare. È una mano che non scorderò.
All'uscita la luce mi investe, tutto riprende forma troppo velocemente, gli occhi mi fanno male.
Guardo le persone intorno a me e mi chiedo chi siano, le riconosco dalla voce, una voce che mi
racconta di questa esperienza, del percorso dall'angoscia allo stupore, di persone che sfidano la vita
ogni giorno, e ogni giorno ci ricordano che non è indispensabile la vista per guardare oltre.
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SANT'ANASTASIA.
CENA AL BUIO:
QUANDO L'ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI
22/04/2012
Autore: Rita Terracciano16
L'evento, organizzato dall'U.I.C.I. e Real Vesuviana, si è svolto presso i locali del "Centro
Polifunzionale Giuseppe Liguori". Sessanta i commensali, dieci i camerieri non vedenti ed un ospite
d'eccezione: il cantautore Enzo Avitabile.
Un'affascinante e "spiazzante" cena, un itinerario che si serve del cibo e del buio per far vivere
nuove sensazioni e scoprire nuove possibilità di conoscenza di noi stessi e degli altri: è stato questo
lo spirito che ha animato la "Cena al buio", che si è svolta per la seconda volta presso i locali del
Centro Polifunzionale "Giuseppe Liguori".
All'evento, organizzato dall'Unione Italiana Ciechi di Sant'Anastasia in collaborazione con l'A.S.D.
Real Vesuviana, hanno partecipato 60 persone provenienti da Pompei, Castellammare di Stabia,
Mugnano, Giugliano, Napoli, Massa di Somma, Pollena, Volla, Cercola e Pomigliano d'Arco,
insieme alla giunta del Comune di Casola di Napoli quasi al completo con gli assessori Pasquale
Santarpia, Mario Cavaliere e Catello Sorrentino. Dieci i camerieri non vedenti che hanno condotto
ai tavoli, in una sala oscurata per l'occasione, i commensali allietati dall'animazione di un cantantecameriere ed un maestro pianista (anche loro non vedenti), e 20 volontari che hanno dato una
preziosa mano a cucinare ed organizzare il buffet offerto (alla luce) prima della cena, occasione per
mostrare agli invitati le iniziative dell'associazione sportiva dilettanti "Real Vesuviana" alla quale è
andato il ricavato della serata utile per finanziare le attività dello sport.
16
Fonte: http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=17024
50
Nel gennaio 2009, partecipammo alla cena anche noi de ilmediano.it in qualità di commensali e fu
un'esperienza singolare e memorabile mentre questa volta abbiamo fatto parte dello staff volontario.
Ci siamo ritrovati a cucinare gustosi piatti, ad affettare rustici, tortani, chili e chili di pane, ad
impiattare le pietanze ed a caricarle sui carrelli che mandavamo all'ingresso della sala. Carrelli che
poi venivano afferrati dai camerieri non vedenti, impeccabili nel servizio a tavola. La cucina
diventava sempre più calda ma a grandi ritmi abbiamo tutti lavorato con gioia e con il sorriso sulle
labbra: cuori, menti, mani attive per non scontentare i nostri ospiti.
«Beati loro - pensavo tra me e me - quelle persone stanno condividendo momenti di forte empatia
con la diversità sensoriale, momenti che ho vissuto anch'io qualche tempo fa, dove anche se si
azzera la vista, gli altri sensi si potenziano a mille ed allora ti accorgi che non vedere non vuol dire
non vivere, ma vedere le cose con gli occhi del cuore e dell'anima». E mentre eravamo avvolti da
una montagna di piatti da lavare e patate da cuocere, mi venivano in mente questi pensieri e la
bellissima frase tratta da "Il Piccolo Principe": «L'essenziale è invisibile agli occhi». Una frase che
trovai interessante la prima volta che lessi il libro ma che non compresi fino in fondo. Oggi, invece,
posso dire di aver capito il senso di quelle parole grazie alle esperienze fatte con cene e bar al buio
ed in particolare con l'amicizia con ragazzi non vedenti, con gli stessi che erano anche i camerieri di
quella cena ed avevano animato la serata con musica e canti.
«Potessi rivivere anch'io quello che stanno vivendo lì dentro.». Ma c'era ancora da affettare pane,
spalmare la salsa tonnata sulle fettine di vitello, caricare i carrelli. E via, altro giro altra corsa,
sempre con allegria anche se la stanchezza iniziava a farsi sentire. «Portiamo qualcosa da mangiare
ai camerieri!», annunciava con voce squillante la "capo-mastra" Enza Cicatiello. Ed ecco
l'occasione da me tanto desiderata. «Vado io!». Mi si chiedeva se fossi capace attraversare da sola
la sala al buio ed arrivare al tavolo dove c'era la consolle: lì lo spazio bastava per far mangiare gli
animatori ed i camerieri. «Certo che ce la faccio!». E allora mi sono attrezzata con un paio di piatti
di gnocchi al sugo ed entro nell'anticamera già buia. Dall'altro lato, un cameriere mi ha aperto il
telone che conduce alla sala e. ecco la magia. Mi sono ritrovata in un salone grande che avevo già
visto e dunque non è stato difficile orientarmi. Le voci dei commensali si accavallavano: c'era gioia,
aria di festa anche se non si vedeva niente di niente.
«Caspita è buio, ma quanta vita che c'è qui.». Con una mano reggevo i piatti e con l'altra toccavo la
parete che mi avrebbe condotta alla consolle. La gioia di portare da mangiare ai miei amici mi
faceva attraversare la sala a passo veloce. «Ragazzi, sono Rita, dove siete?». «Rita, aspetta, vengo a
prenderti!». È il maestro pianista che ad un tratto mi ha afferrato dolcemente la mano che già
cercava qualcuno: l'emozione di ritrovarsi al buio è stata forte e riuscivo a vedere il musicista. Si,
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era buio ma vedevo i suoi occhi, il suo volto, le sue labbra socchiuse appena appena. Mi ha preso la
mano, dunque, e condotta alla consolle: lì ho ritrovato gli altri ragazzi e ci siamo abbracciati tutti.
Era bello rivedersi dopo sole due ore anche in quella condizione particolare per me ma normale per
loro. Sono uscita dalla sala con il cuore che mi batteva a mille, felice come non mai.
E proprio mentre attraversavo l'androne del Centro per ritornare in cucina ho visto un volto noto
seduto a chiacchierare con un paio di ragazzi. Era Enzo Avitabile, sassofonista, flautista, cantautore,
ospite dell'evento. Mi avvicino a lui, mi presento ed iniziamo a parlare del sound e del ritmo
caratterizzato dal patrimonio lessicale, afro-americano e mediorientale delle sue canzoni. Gli chiedo
come mai non sia nella sala a cenare: «Ho fatto un'esperienza per vent'anni da ipovedente - ci ha
dichiarato il famoso cantautore che nel corso della sua lunga carriera ha scritto canzoni per
importanti donne della canzone internazionale come Giorgia e Amal Murkus - Dopo l'Università ed
il Conservatorio non ho visto più: avevo un velo bianco davanti agli occhi che è più confortevole
ma non si vede nulla lo stesso. Poi ho avuto quattro trapianti grazie ai quali ho riacquistato la vista e
quando ho avuto l'invito della cena al buio qui a Sant'Anastasia, ho partecipato ben volentieri come
testimone ma ho detto agli organizzatori di non voler entrare nella sala, perché non volevo rivivere
una cosa già vissuta».
Dopo un po', però, la curiosità di vedere cosa succedeva in sala ha spinto Avitabile ad entrarci ed ha
affidato ai nostri microfoni le sue sensazioni: «Mi sono reso conto di scoprire ancora un'altra cosa:
il contatto con l'altra persona che è fondamentale perché nella mia vita ho vissuto un rapporto
introspettivo, di grande nostalgia molto di chiusura, ero un po' distaccato da certe cose. Stasera ho
visto invece dei grandi talenti. Ho visto cose che nella mia vita mai avrei potuto immaginare: come
ci si può muovere nel buio meglio degli altri che si muovono alla luce. Ho assistito ad un grande
viaggio di solidarietà e di entusiasmo. Una grande risposta alla sofferenza ed al non possibile.
Stasera non ho avuto alcuna percezione che niente era possibile».
Avitabile è rientrato una seconda volta in sala, durante la fase finale della cena, e qui tutti i presenti
hanno cantato la sua "Mane e mane", un toccante pezzo del 1999 che è a tutt'oggi una delle tracce
che incarnano alla perfezione il dialogo spirituale, sociale e politico fra le culture del Mediterraneo.
Lo stesso cantautore originario di Napoli ha poi voluto ricantarla personalmente. «L'evento è stato
organizzato molto bene e mi è piaciuto lo spirito dello stare insieme; faccio i miei complimenti ai
maestri per la musica che hanno suonato con grande cuore e dedizione - ha concluso Avitabile Sono rimasto molto commosso della citazione di questa canzone "Chi nun cunosce 'o scuro, nun po'
capì 'a luce". È una frase che ho scritto dopo il secondo trapianto quando avevo riacquistato il visus
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ed il mio era un canto di felicità perché ero uscito fuori da un grande tunnel. Ho cantato questo
pezzo per molti anni ma mai al buio e con questa grande autenticità».
Il buio
Di Emanuela Nava
Avvenire 8/05/201017
Certe facce possono sembrare ostili: conoscersi fa superare ogni diffidenza
C’era un uomo in Piazza del Duomo quando ero una bambina, con il bastone bianco e gli occhiali
scuri. Vendeva i biglietti della lotteria.
Lo osservavo mentre camminava e faceva battere piano il bastone sulla strada. A occhi chiusi a casa
lo imitavo. Con un ombrello chiuso o solo con le mani tese, aprivo la porta, attraversavo il
corridoio, entravo nella mia stanza.
Quand’ero piccola temevo il buio: la tapparella troppo abbassata; il temporale che spegneva le luci;
i passi, i fruscii, i cigolii nell’oscurità della notte. C’era un uomo in Piazza del Duomo che vendeva
biglietti della lotteria.
Era cieco. Come faceva a vivere sempre al buio? mi chiedevo.
È stato allora che ho iniziato a leggere. Mi sembrava che per leggere occorresse avere sensi
sconosciuti. Bisognava raccogliere le parole scure e trasformarle in luce, odori e voci, come faceva
l’uomo della lotteria. Oggi, dopo tanti anni, ho scoperto un luogo a Milano dove non si guarda con
la vista, ma con tutti gli altri sensi. Dove si guarda e si riguarda, con molto riguardo, come se fosse
sempre la prima volta. Si guarda nel buio con gli occhi chiusi come barbagianni in caccia.
C’è un luogo a Milano dove c’è persino il mare. È un mare scuro, rumoroso e gioioso. La ragazza
che si sporge dal parapetto è la nostra guida. Poi immerge il bastone bianco nell’acqua, sente il
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Fonte: http://www.dialogonelbuio.org/index.php?option=com_content&view=article&id=39&Itemid=65
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fresco sulla pelle. Si chiama Filippa, è cieca come l’uomo che vendeva i biglietti della lotteria. È lei
che ci conduce dal mare al bosco, dal centro della città al porto. È lei che mi segue mentre
guardando nell’oscurità mi commuovo. Mentre dentro di me tutto si muove, pulsa, si gonfia come
una vela al vento.
Sono in Via Vivaio, all’Istituto dei Ciechi, alla mostra che si chiama Dialogo nel Buio e mostra ciò
che gli occhi non possono vedere.
Quand’ero piccola temevo il buio: la tapparella troppo abbassata; il temporale che spegneva le luci;
i passi, i fruscii, i cigolii nell’oscurità della notte.
C’era un uomo in Piazza del Duomo: vendeva biglietti della lotteria. Era cieco. Come faceva a
vivere sempre al buio? mi chiedevo.
In via Vivaio ho scoperto che il buio non è scuro, non è freddo. Che al buio le mani vedono, le
orecchie vedono. Tutto il corpo vede. Che il buio è un libro da leggere per chi ha l’intuito e il
pensiero potente.
Filippa si muove tra noi: non la vedo con gli occhi ma so sempre dove è. Come so sempre dove è
Magda, l’amica che mi accompagna alla mostra. Posso avvicinarmi a lei senza sbagliare, trovarla al
primo sguardo della mano. Come se al buio avessi scoperto un sesto senso, una nuova vista che non
credevo di possedere.
Così avverto la presenza della guida e delle altre persone che alla mostra percorrono gli stessi nostri
gioiosi sentieri, non solo perché odo la loro voce, ma anche perché sento il calore della loro
vicinanza, con la stessa certezza con cui sento, quando siedo su un autobus, la presenza dei
viaggiatori che siedono dietro di me.
Ora che ci ripenso, mi accorgo che le parole più pronunciate durante il percorso al buio sono state
guardare e vedere.
54
La Nazione del 13-02-2011
Molto più di una fiaba tra le fiabe...
FIRENZE. Molto più di una fiaba tra le fiabe. Le mamme non
vedenti potranno leggere novelle ai figli che invece hanno il
dono della vista. Da Cappuccetto Rosso ai fratelli Grimm. La
Stamperia Braille di Firenze ha preparato un album con grandi
pagine nere, disegni a rilievo e testo in Braille. Esorcizzare il
buio, dice la dottoressa Cecilia Trinci, responsabile della
Stamperia e ideatrice di questa collana, fatta anche "per dare
modo ai bambini di capire che le mamme non vedenti leggono
cose che loro non vedono". E' come entrare piano piano in un
mondo fantastico nel quale le barriere, le divisioni, i distacchi,
sono stati superati…
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Parte 4 – I disabili visivi
fra pregiudizi e realta’
“Mio padre è stato il mio primo maestro. Egli era un operaio; non era istruito ma nello stesso tempo non aveva i
pregiudizi del maestro professionista che spesso fanno “di una mosca un elefante”. Egli mi voleva bene e mi faceva
partecipare alla sua vita. Nel suo laboratorio io avevo imparato a conoscere la sega, la pialla e i compassi; egli poi mi
descriveva in poche parole tutto ciò che non potevo toccare. In campagna egli m’insegnò a passeggiare accanto a lui, e a
riconoscere coll’udito la vicinanza di un muro, di una siepe, di un albero o di un fossato. Egli m’insegnò a nuotare nel
fiume quando facevamo i bagni insieme. Se c’era da attraversare una piazza in fretta, egli me la faceva attraversare
diagonalmente, spiegandomi che la diagonale è la via più breve”.
(
Augusto Romagnoli, “Ragazzi ciechi”)
“Ricordo benissimo, avevo allora quattro anni, il momento in cui fui sbendato: l'infermiera pose per terra una moneta da
cinque lire, io la vidi luccicare e, tra il grido di gioia di mia madre e la grande felicità di mio padre, mi mossi e la presi.
Com'era bella mia madre! Com'era bello mio padre! Fino a quel giorno loro erano per me solo buoni e cari; da quel
momento erano anche tanto belli. Con quel po' di vista incominciai a pretendere di correre per il paese con Natale, con
Totò, con i loro ed i miei amici. Volli partecipare ai loro giochi ed in casa, oltre a toccare tutto, incominciai a vedere
tutto”.
(
Giuseppe Fucà, “Un racconto per Chiara”)
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Parte 4. – I disabili visivi fra pregiudizio e realtà
Come viene vista la persona minorata della vista oggi?
Si sarebbe portati a credere che nella società della cultura e dell’informazione, dove tutto è ormai a
portata di clic, i pregiudizi e i luoghi comuni che un tempo rappresentavano quasi delle verità
inconfutabili siano ormai scomparsi. In realtà non è così, anzi, negli ultimi anni assistiamo a
preoccupanti fenomeni di disinformazione o, peggio ancora, di intolleranza, ignoranza e, in genere,
di scarsa conoscenza. Le riflessioni che seguono ne sono una prova.
Sulla “diversabilità”
Di Carlo Loiodice
...Dimostravo la quantità di errori e mistificazioni presente nell'espressione "diversamente abile". Si
tratta, in sintesi, di un errore di traduzione. L'espressione inglese è "differently abled", che si
potrebbe tradurre come "abilitato in modo differente". Chiarissimo il riferimento, non alle abilità
(differenti per ogni essere umano), ma al processo tramite il quale determinate abilità sono state
raggiunte. Un esempio concreto. Un pianista vedente legge la musica sul pentagramma; un pianista
cieco la legge in Braille in base ad una codificazione che col pentagramma non ha nulla a che fare.
Alla fine del percorso differente che ha abilitato ciascuno, i due non sono diversamente abili, ma
ugualmente abili nel suonare. E se differenza ci sarà, riguarderà la bravura tecnica, la sensibilità
musicale, la versatilità di repertorio, ma nulla che abbia a che vedere l'handicap sensoriale di uno
dei due. Conclusione: se il cieco si è fatto un mazzo tanto per "superare l'handicap", come dicono
nel loro logo quelli della Fish, questo avvenuto superamento non potrà mai essere decretato, in
quanto, nel sentire comune, sorretto dalla distorsione linguistica, Ray Charles sarà un diversamente
abile, mentre Antonello Venditti no. Naturalmente nessuno ha potere assoluto sulle parole, le quali
entrano ed escono dagli interstizi psichici che caratterizzano le relazioni umane, come fa l'acqua
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dalle fessure. Dunque a nessuno di noi è dato di poter interdire l'uso di una certa espressione.
L'importante però è saper leggere quelle espressioni. E nel nostro caso, essere consci che, quando
diciamo "diversamente abile", pensando di essere più moderni e inclusivi, in realtà, moderni siamo,
ma stiamo lavorando alla ghettizzazione di una categoria.
Le insidie della diversabilità
Di Francesco Fratta
Negli ultimi decenni si è modificata con una certa frequenza la terminologia con cui indicare la
menomazione fisica, sensoriale o mentale, ricercando, sulla base del "politicamente corretto",una
formula espressiva dalla quale fosse assente ogni traccia di disprezzo o di svalutazione umana. Così
siamo passati da "invalido" a "handicappato", e poi a "disabile" per approdare a "diversamente
abile". Ciò lascerebbe supporre che qualcosa in questo lasso di tempo si sia modificato a livello
della sensibilità comune, e che l'atteggiamento di fondo nei confronti di chi presenti un qualche
difetto fisico-sensoriale o mentale sia profondamente cambiato - in meglio - rispetto a trenta o
quarant'anni fa.
Tuttavia la nostra sensazione, anche in quanto direttamente interessati, non è precisamente questa.
Prescindiamo in questo contesto dalla legislazione, che dagli anni '70 ha fatto indubbi passi in
avanti in materia di assistenza, di diritto allo studio e di collocamento al lavoro. Osserviamo invece
che sempre più spesso ci troviamo di fronte ad atteggiamenti (e molti fatti di cronaca recente
stanno lì a dimostrarcelo) che rivelano mancanza di considerazione, insofferenza o addirittura
aperto disprezzo o ostilità. E la mente corre subito al down di Roma, aggredito e insultato da tre
borseggiatori nell'indifferenza generale perché aveva osato avvertire la loro vittima; o a quello
dell'Istituto Steiner di Torino, irriso e sbeffeggiato da alcuni suoi compagni mentre qualcuno
riprendeva la scena che molti avrebbero poi trovato "divertente"; alle giovani disabili abusate
sessualmente di cui ci hanno parlato i giornali degli ultimi mesi; ed a quelli di cui abbiamo saputo
senza che assurgessero agli "onori" della cronaca: nostri soci aggrediti e rapinati per strada, ed una
giovane donna fatta oggetto di insulti e apprezzamenti volgari perché si accompagnava ad un
cieco.
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Si dirà che ridere dello "scemo del villaggio" o divertirsi a spese di chi ha menomazioni fisiche e
sensoriali, o anche approfittarne malignamente, è sempre accaduto, specie - ma non solo - ad opera
dei più giovani. Vero. Ma è indubbio che l'assai più ridotta, o anche del tutto assente risonanza
mediatica rendeva, quando si fosse attivato, più semplice ed efficace l'intervento censorio della
parte più adulta e responsabile della comunità.
Tuttavia non si tratta di rimpiangere il passato e di demonizzare i media. La questione è un'altra,
ed è sottile e complessa.
Il senso di pietà, avvertito nei confronti di chi è in condizione di evidente debolezza e necessità
(bambini, malati, ecc.), si rivolge spesso a persone con gravi menomazioni fisiche e sensoriali, e fra
queste certamente i ciechi. La pietà provata, obbliga in un certo senso ad assumere un
atteggiamento protettivo nei riguardi di chi ne è fatto oggetto, ma, al contempo, può implicare un
misconoscimento della completezza ed autonomia della sua personalità. Per questo abbiamo
combattuto contro il pietismo e ogni altra forma esplicita o velata di discriminazione, rivendicando
la pari dignità umana, politica, culturale e sociale dei disabili, senza perciò negare i limiti e i
problemi che la disabilità inevitabilmente reca con sé.
Ora non ci sentiamo più avvolti dalla soffocante quanto sminuente pietà altrui, pubblica o privata
che sia, e quasi nessuno si sente più in dovere di esibire o di dichiarare la sua pietà nei nostri
confronti, anzi, in genere se ne guarda bene. Ora, se mai, è divenuto "obbligatorio" dichiararsi per
l'integrazione in nome dell'egual diritto di tutti e ostentare apprezzamento e ammirazione per le
capacità "speciali" di cui sarebbero in possesso i disabili.
Ci troviamo perciò a combattere contro una nuova forma di ipocrisia, dagli effetti non meno
emarginanti del pietismo: quella di chi, in nome della parità e della non discriminazione,
misconosce ogni differenza, e dichiarando che la disabilità non deve costituire un problema, non
vede, proprio perché "non c'è problema", alcun bisogno di affrontare le necessità specifiche che
ogni disabilità porta con sé. In parole più crude, visto che è political correct dichiarare tutti uguali,
che i disabili non rompano col mettere avanti la loro disabilità e che si arrangino, come tutti del
resto!
E' così che, mentre a livello di cultura giuridica e di teoria politica gli uguali diritti sempre più
vengono accordati sulla base del riconoscimento delle differenze specifiche, a livello del comune
sentire vediamo avanzare invece l'indifferentismo. Liberati dalla "doverosa" pietà nei confronti di
deboli, infermi, bisognosi ed assimilati, e dall'obbligo morale di alcuni comportamenti conseguenti
(il soccorso, la difesa, la carità, ecc.), molti si sentono oggi pienamente legittimati a farsi gli affari
59
propri e a perseguire il proprio esclusivo interesse, nell'assoluto "rispetto", s'intende, dell'"ugual
diritto" altrui a fare lo stesso e nella comune indifferenza verso i problemi specifici di chiunque
altro. Per costoro chi si trova in condizioni svantaggiate è da considerarsi immediatamente fuori
gara, degno al più (ma non sempre) di commiserazione; per questo tipo di mentalità i diritti speciali
a tutela di chi è in condizione svantaggiata vengono percepiti come ingiusti privilegi; per questi
"democratici" indifferentisti i disabili semplicemente non esistono, non devono esistere, sarebbe
discriminatorio! Sarà per questo che ora siamo diventati "diversamente abili"?
Ma forse veramente "diversabile" è proprio chi ha imparato a giocare con certe parole per
nascondervi dietro comportamenti e sentimenti che poco o nulla hanno a che vedere con
l'accettazione dell'altro e il reale rispetto delle differenti specificità di ciascuno.
Noi, da ciechi, siamo del tutto disinteressati alle variazioni del vocabolario, e vediamo assai
meglio quando si tratta di cambiamenti reali di atteggiamento.
Lettera ai diversi18
Cari amici avete mai riflettuto sul concetto di diversità?
Io sì, essendo una ragazza ipovedente e tuttavia mi sono resa conto che definire la diversità è
tutt’altro che semplice.
Dalla nascita ho un deficit visivo e mi sono sempre sentita diversa dagli altri non solo per le
esperienze che vivo ma soprattutto per il comportamento degli altri.
Per me è più difficile dei miei coetanei normovedenti riuscire ad instaurare delle amicizie profonde
con loro perché sento da parte di essi nei miei confronti diffidenza e paura.
Una volta all’anno frequento un campo scuola di quindici giorni con un gruppo di ragazzi
ipovedenti e ciechi dove svolgiamo molte attività e ci confrontiamo nelle nostre esperienze.
Incontrando questi ragazzi mi sono accorta che anche se abbiamo questo problema che ci accomuna
e che ci dà un’identità di gruppo, siamo comunque uno diverso dall’altro.
Pensateci anche voi! Siete sicuri di essere proprio uguali ai vostri amici? E poi in fondo non credete
che il fatto di essere tutti diversi ci renda dunque tutti uguali? Chi decide cosa è normale? Chi
18
Lettera indirizzata da Eleonora, ragazza ipovedente di un liceo, ai suoi compagni.
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decide cos’è diverso? Siete sicuri che la diversità sia così negativa? Io mi faccio spesso queste
domande e penso che discriminare una persona con handicap o immigrata o altro sia manifestazione
di ignoranza, paura e vigliaccheria.
La diversità esiste da per tutto, chi è biondo e chi è moro, chi è basso e chi è alto, perciò bisogna
accettarla, forse è come la legge degli opposti, una cosa non esiste se non ci fosse il suo opposto.
La diversità umana esiste perché le persone “normali” possano capire quanto sono fortunati ad
esserlo.
Il fatto che ognuno di noi abbia la sua personalità e le sue caratteristiche ci rende unici ed
insostituibili e quindi diversità è ricchezza. Non dobbiamo averne timore perché a causa di questo
sentimento ci creiamo problemi inutili, compiangiamo, deridiamo e critichiamo invece di
apprezzare quello che siamo e dare di più agli altri.
Impariamo ad accogliere la diversità, è grazie a questa che noi possiamo formare la nostra identità
arricchendoci giorno per giorno nel confronto con gli altri.
Come (dis)informare sulla cecità
(di Ada Nardin)19
Pietismo, musiche strappalacrime, continue imprecisioni, persone definite come "finte cieche" solo
perché si sono "permesse" di scansare il camion che le stava investendo... Nonostante i progressi
fatti registrare qua e là, negli ultimi anni, continua purtroppo ad essere desolante il panorama
dell'informazione - che sarebbe ben più corretto chiamare "disinformazione totale" - proposta in
televisione, alla radio e dai giornali, sulle persone cieche e ipovedenti. Vediamo perché
19
Ultimo aggiornamento (Friday 09 March 2012 16:24). Fonte: http://www.superando.it/content/view/8701/112/
61
Stereotipi, luoghi comuni, inesattezze clamorose e tanta pesantezza: ecco come vengono
rappresentate le persone con disabilità in genere, e i ciechi in specie, dagli organi d'informazione,
televisiva,
radiofonica
e
della
carta
stampata.
Molto spesso mi sono chiesta la ragione del perdurare di tanti pregiudizi nei confronti della nostra
categoria, nonostante i numerosi sforzi finalizzati a far comprendere che la cecità è una condizione
e
non
una
"disgrazia
immane".
Una delle risposte che mi sono data è che i media non compiono alcuno sforzo per far luce sul
significato di disabilità, anzi, alimentano stati d'animo ansiogeni e reazioni errate, con servizi o
articoli lacrimevoli, dove regna il buio, l'angoscia e la tristezza più totale, il tutto condito da un bel
sottofondo musicale strappalacrime o da commenti tanto imprecisi quanto pietistici.
Attorno alle persone con disabilità viene creato uno squallido sensazionalismo e spesso si viene
rappresentati come dei «supereroi che ce l'hanno fatta nonostante le enormi difficoltà e le tante
prove che la vita ha voluto infliggere». E tutto questo ai biechi fini di fare più ascolti!
Preferirei che - in televisione o sui giornali - apparissero storie di semplice normalità, in cui si
raccontano le difficoltà del quotidiano e le rispettive soluzioni adottate o adottabili.
Gradirei che fossero trasmesse pubblicità progresso in cui si spiega in modo semplice l'uso del
bastone bianco, il funzionamento di uno screen reader [programma che legge tutto quanto appare
sullo
schermo
di
un
computer,
N.d.R.]
o
il
perché
dei
caratteri
ingranditi.
Vorrei che i commenti dei giornalisti fossero oggettivi e non angosciosi o che le musiche di
sottofondo
nei
servizi
fossero
meno
lugubri
e
lamentose.
Desidererei che fossimo considerati semplicemente dei Cittadini, dei consumatori, dei contribuenti,
in breve, delle persone. Insomma, mi aspetterei che la condizione di disabilità non venisse
considerata come una questione annosa ed esclusivamente foriera di "scomodi problemi da
62
risolvere", ma che fosse affrontata normalmente e trattata come possibile risorsa, dato che molte
persone con disabilità sono professionisti competenti e fanno attivamente parte integrante della
società
e
non
certo
come
degli
assistiti.
Un altro elemento antipatico è costituito dalle numerose imprecisioni che circolano sulla disabilità
visiva
e
che
sono
alimentate
da
tanto
cattivo
giornalismo.
Poniamo il caso dei "falsi invalidi". Quante volte si è gridato al "falso cieco" - non sempre con
ragione - scrivendo che egli o ella si muoveva con disinvoltura e senza accompagnatore,
attraversava sulle strisce pedonali, fermava un autobus con la mano, dava informazioni ai passanti,
faceva la spesa da solo, curava il suo giardino, piantava un ombrellone in spiaggia, apriva e
chiudeva a chiave il cancello di casa sua, riconosceva le monete - perfino i centesimi - praticava
sport o, come in un caso clamoroso di linciaggio mediatico, guidava un treruote nel suo orto?
Orbene, forse che un cieco o un ipovedente - categoria, quest'ultima, che sfugge troppo spesso ai
giornalisti che non si documentano - non è in grado di fare tutte queste cose e anche di più?
Una persona con disabilità visiva più o meno lieve è in grado - se si trova nel suo ambiente o se è
ben addestrata dal punto di vista dell'autonomia personale - di compiere tanti gesti che paiono
inconsueti o impossibili alla platea ignara dei lettori e di chi li informa. Azioni come camminare
con sicurezza, occuparsi della propria casa o del proprio giardino, praticare sport o, guarda un po',
riconoscere monete o tanti altri oggetti, sono, per noi, all'ordine del giorno e non dovrebbero
ingenerare reazioni di stupore e meraviglia. Senza contare che alcune patologie consentono di
leggere alcune scritte o di orientarsi con un colpo d'occhio, se la luminosità è buona o, al contrario,
non
eccessiva.
In un articolo, ad esempio, mi è capitato di leggere che il "finto cieco" in questione si era scansato
per evitare che un camion lo investisse… Lascio ai Lettori le considerazioni che riterranno più
opportune!
In un altro articolo, invece, ho letto che si accusava il cieco di non appoggiarsi al bastone bianco,
come se stessimo parlando di un bastone da passeggio o da appoggio! Chiaramente il giornalista
era, e ha voluto restare, ignaro di come si utilizza l'ausilio fondamentale per la mobilità autonoma
dei
ciechi,
altrimenti
non
avrebbe
emesso
la
sua
sentenza
con
tanta
leggerezza.
Anche servirsi delle strisce pedonali è un'azione obbligata per i ciechi, in quanto non solo
l'attraversamento è adeguatamente segnalato con i percorsi tattili, ma, in un corso di orientamento e
mobilità, veniamo addestrati a utilizzare ogni elemento a disposizione per muoverci in piena
sicurezza.
Nel caso del "finto cieco" che guidava il trattore, infine, non si trattava altro che di un buon
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ipovedente che ha compiuto, senza pericolo per alcuno, un piccolo tratto nel suo orto, tutto qui.
Eppure si è gridato subito allo scandalo, in luogo di documentarsi sul tipo di disabilità da cui era
affetta la persona in questione, disabilità che lascia molte più abilità di quante possa credere la gente
comune
che,
giustamente,
non
conosce
i
diversi
gradi
di
una
patologia
oculare.
Spetterebbe appunto ai media portare l'audience a conoscenza delle tante sfumature causate da un
disturbo visivo, ma, per mancanza di preparazione, voglia, od onestà intellettuale, è infinitamente
più comodo lanciare il sasso e vedere i danni d'immagine che provoca, quasi sempre, ahimè,
impunemente.
Mi auguro, quindi, che questa mia umile e breve dissertazione, non certo scritta da una penna
autorevole, ma composta con cognizione di causa, faccia riflettere e, perché no, contribuisca a
cambiare lo spirito con cui le persone con disabilità vengono raccontate.
Ombre e ipovisioni
Di Franco Frascolla
E' passato ormai qualche mese da quando mi sono reso conto che la mia ombra fa paura.
Se ad alcuni fa paura anche la propria ombra... posso assicurarvi che sono vissuto 42 anni pensando
alle ombre come a interessanti e a volte utili effetti ottici.
Ho sempre camminato per strada badando al paesaggio, alle persone e alle cose che mi circondano;
l'ombra degli oggetti e della gente la prendevo in considerazione quasi esclusivamente in estate,
quando il sole costringe a trovare riparo.
Camminando tanto e all'aperto mi capita di usare scarpe poco rumorose; le suole di cuoio sono
adatte a persone sedentarie.
Faccio spesso lunghe passeggiate, camminando quasi sempre ad un passo doppio rispetto a chi mi
precede.
Cammino soprattutto al tramonto o di sera, quando le ombre prodotte dal sole basso o dai lampioni
sono più lunghe.
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Probabilmente un ipovedente deve fare più attenzione a dove mette i piedi che ad evitare di
calpestare le ombre proprie e altrui; questo significa che anche l'attenzione verso gli atteggiamenti
di chi precede o si incontra per strada non è prioritaria.
Com'è come non è, la scorsa estate mi sono reso conto che quando mi avvicinavo a delle persone
che mi precedevano sul marciapiede, queste si giravano per vedere chi sopraggiungeva.
Dopo un po' ho considerato che in strada c'è rumore e costoro non potevano quindi aver sentito i
miei passi felpati di gomma.
La circostanza ha continuato a verificarsi e io sono stato sempre più attento a osservare cosa
succedeva per coglierne il fattore scatenante.
Ad un certo punto l'illuminazione: quando la mia ombra sopravanzava chi mi precedeva scattava il
meccanismo del voltarsi a guardare.
Insomma, le persone camminano facendo attenzione e diffidando delle ombre altrui.
E' sempre stato così e da ipovedente non ci ho mai fatto caso?
Si tratta di un effetto collaterale del clima di paura che sta dilagando nella nostra società?
Probabilmente è più facile fare attenzione e diffidare delle ombre di chi cammina accanto a noi che
dubitare, guardarsi e contrastare le ombre, affatto virtuali, proiettate dalla quotidianità e da coloro
che ne tendono i fili.
Le ombre non sono tutte uguali; quelle più pericolose rendono tutti ipovedenti...
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Indicazioni bibliografiche
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66
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Pronello Marco – Prelato Sergio: “Cronache dalla cecagna”, Elena Morea Editore, Torino,
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2002.
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Sartena Bruna: “Integrazione sociale dei ciechi. Attualità e prospettive”, Omnia Servizi,
Torino, 2a edizione, 1987.
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Sartena bruna: “Uno sguardo dal buio. Psicologia dei ciechi”, Omnia Servizi Editore,
Torino, 1989.
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Unione Italiana dei Ciechi: “Pagine di un cammino. Da incapaci per il Codice ad artefici del
proprio destino”, Edizioni Associate, Roma, 1990.
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