Continua - Fondazione Trivulzio

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Continua - Fondazione Trivulzio
ALESSANDRA ROZZONI
I funerali di Gian Giacomo Trivulzio nelle testimonianze dell’epoca:
«Exequie solenne e sontuosissime di lo illustre et invitto Signore Ioanni Jacomo da Triulci, capitano
generale di l’arte militar» del Notturno Napoletano
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza,
18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi,
Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 9788890790546
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=581
[data consultazione: gg/mm/aaaa]
© Adi editore 2014 I cantieri dell’Italianistica
ALESSANDRA ROZZONI
I funerali di Gian Giacomo Trivulzio nelle testimonianze dell’epoca:
Exequie solenne e sontuosissime di lo illustre et invitto Signore Ioanni Jacomo da Triulci, capitano
generale di l’arte militar del Notturno Napoletano
L’intervento si propone anzitutto di offrire una rassegna dell’ampia produzione encomiastica dedicata a Gian Giacomo
Trivulzio nel corso della sua vita e appena dopo la sua morte; soltanto un esiguo gruppo di testi, tutti scritti dopo la morte del
Magno, fu composto in lingua volgare: il capitolo del Notturno Napoletano, oggetto specifico di questo intervento, il suo gemello
anonimo e inedito del cod. Trivulziano 2098, gli otto sonetti di Martino Bovolino, l’epitaffio di Girolamo Casio e l’ode di
Renato Trivulzio. Probabilmente in cerca di riconoscimenti economici e letterari, il Notturno Napoletano, pseudonimo che cela
un’identità ancora sconosciuta, tentò di entrare nelle grazie della famiglia Trivulzio, componendo il capitolo ternario dal titolo
Exequie solenne e sontuosissime di lo illustre et invitto Signore Ioanni Jacomo da Triulci, capitano generale di l’arte militar in
cui dava testimonianza della magnificenza delle esequie rese al Magno a Milano il 19 gennaio 1519. Il capitolo presenta
una netta bipartizione tra la prima parte, in cui si rievoca, con un’allegoria mitologica priva di alcun nesso con gli eventi
realmente occorsi, la morte di Gian Giacomo, e la seconda, fedele descrizione del funerale.Se la letteratura panegiristica sorta
attorno alla figura di Trivulzio offre un ampio substrato ideologico e allegorico cui attingere, nello specifico della prima
sezione, il Notturno s’ispira fedelmente al terzo cantico delle Methamorfosi di Cariteo, mentre nella seconda l’autore pare
rinunciare alle ambizioni letterarie per calarsi nel ruolo del cronista dando una descrizione dettagliatissima delle cerimonie
funebri, in piena coerenza con altre testimonianze coeve in prosa e poesia.
Soltanto con il ritorno a Milano, nel 1499, a capo dell’esercito francese, dopo un lungo periodo
al servizio degli Aragonesi di Napoli, Gian Giacomo Trivulzio iniziò a circondarsi di
intellettuali, poeti ed artisti che, in cerca di protezioni politiche e riconoscimenti economici,
concepirono numerose opere in suo onore.
Il cenacolo che si raccolse intorno a Trivulzio può vantare come personalità di maggiore
rilievo il Bramantino, che su committenza del Magno edificò la cappella Trivulzio nella chiesa
di San Nazaro in Brolo a Milano.
Carlo Rosmini, nella sua biografia in due volumi su Trivulzio, pubblicata nel 1815, fornisce
un elenco dettagliato degli autori che si erano cimentati nella stesura di panegirici dedicati al
Magno. Tuttavia non di rado le informazioni fornite dallo studioso sono incomplete o superate:
è stato quindi necessario, a partire da quella rassegna, compiere una nuova ricerca bibliografica
al fine di verificare quali di queste opere fossero ad oggi ancora reperibili rintracciandone
l’attuale collocazione.
Per quanto riguarda la poesia, la produzione encomiastica trivulziana vanta ben cinque
poemi latini, composti da autori minimi, non altrimenti noti se non grazie a questi testi; il
poema in esametri del milanese Antonio Crasso, conservato manoscritto presso l’Archivio
privato Trivulzio, rinarra le gesta del condottiero durante gli anni di servizio a Napoli; quello
del novarese Francesco Scauro si concentra invece sull’episodio della presa di Milano (1499)
compiuta dal Magno poi eletto governatore della città, mentre i quasi settecento esametri del
parmigiano Antonio Maria Sturione rievocano le imprese di Gian Giacomo a partire dall’anno
1508, allorché questi capitanò l’esercito francese accorso a Verona in aiuto dei Veneziani in
guerra con l’imperatore Massimiliano; Sturione si sofferma poi a lungo sulla formazione della
lega di Cambrai e sulla battaglia di Agnadello, che sembra il principale oggetto del poema.
Gli unici due poemi che conobbero un’edizione a stampa sono la Trivultias di Andrea
Assaraco e la Misochea Magni Trivultii di Martino Bovolino.
Essi rappresentano i due poli opposti e speculari di tale produzione panegiristica: il primo,
dato alle stampe nel 1516, accoglie la celebrazione encomiastica di maggiore consistenza, anche
quantitativa, rivolta a Trivulzio. Esso si configura come un lungo dialogo tra le dee Giunone e
Pallade che, narrando la storia d’Italia, con maggiore attenzione ai fatti avvenuti a Milano tra la
fine del ducato di Francesco Sforza e l’inizio della dominazione francese, si contendono il diritto
di attribuire l’appellativo di Magno al nobile condottiero milanese. Sarà invece la Fede ad
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imporre il titolo, in quanto senza il suo soccorso ogni impresa risulterebbe vana e l’immortalità
sarebbe negata.
La Misochea, poema in distici elegiaci diviso in tredici capitula, preceduta da una epistola
dedicatoria a Giovan Francesco Trivulzio, nipote del Magno, e seguito da una corona di otto
sonetti volgari, rende un omaggio postumo a Gian Giacomo, ripercorrendone le imprese
compiute dalla giovinezza – dopo il pellegrinaggio a Gerusalemme – sino alla morte.
Diversamente da Assaraco, Bovolino, si mostra attento e fedele al dato storico, rifiutando in
maniera netta ogni ricorso alla mitologia; forse per la consapevolezza del logoramento di tali
apparati narrativi, nel canto VII della Misochea biasima i poeti che sfruttano allegorie ed intrecci
mitologici pagani lasciando invece in secondo piano la materia storica da lui ritenuta di
maggiore importanza. Come sottolinea Fumagalli nel suo studio sulla Misochea, Bovolino
rifiutando fin dal primo canto di appellarsi alle Muse e di ricorrere a paragoni con le divinità
olimpiche sembra opporsi in maniera esplicita proprio allo stile adottato da Assaraco nella
Trivultias. I sonetti volgari riflettono, come prevedibile, le medesime convinzioni rinunciando al
meraviglioso classico, per accostarsi a quello cristiano, denunciando inoltre la finalità pratica di
educare il giovane Gian Francesco.
Numerosi sono inoltre i carmi e gli epigrammi – sempre in latino – che celebrano la figura
del Magno: anche in questo caso ci si trova di fronte a testi di qualità mediocre, composti da
autori minori se no addirittura minimi.
Oltre a Michele Nagonio e Callimaco Siculo si possono ricordare due poeti di maggiore
importanza – almeno per la letteratura milanese del Quattro e Cinquecento – Piattino Piatti e
Lancino Curzio che accolgono all’interno delle rispettive raccolte brevi panegirici di varia forma
metrica; ad essi si può accostare Giovanni Biffi autore di testi in prosa e poesia in cui esprime
massima riconoscenza al Magno per avergli concesso il titolo di canonico della Cappella di San
Nazaro.
Vi sono infine testi adespoti, come l’Epicedium funebre latino, il capitolo volgare Poi che si
piacque a Dio summo motore (conservati entrambi presso l’Archivio privato Trivulzio nel ms. Triv.
2098) e il Carmen In Iacobum Trivultium cognomento Magnum cum eiusdem responsione (inc. Magnus eras
factor BAMi L.43 (9) inf., u.c. 1, c. 1r) e frammentari, come i pochi versi in esametri trascritti per
mano di Mazzuchelli nel codice ambrosiano BAMi S.18 inf., cc. 398r-399v.
Purtroppo non mancano componimenti dispersi: grazie ad alcune indicazioni di Argelati, poi
riprese da Rosmini, si è a conoscenza del fatto che il poeta Aurelio Albuzio, luganese di nascita
ma milanese di adozione scrisse una Oratio funebris in morte Joanni Jacobi Trivultii e un Carmen in
morte eiusdem, che, a giudicare dal titolo, dovevano rendere un omaggio postumo a Trivulzio, ma
che paiono per il momento introvabili. Argelati e quindi Rosmini sostenevano che questi testi
fossero conservati alla Biblioteca dei fratelli Marchesi Visconti, i cui materiali – se non dispersi e
se ancora esistenti – sono però inaccessibili.
Edoardo Fumagalli ipotizza che il frammento ambrosiano del codice miscellaneo vergato da
Mazzuchelli S 18 inf. (cc. 398r-399v), già citato in precedenza, possa coincidere proprio con il
Carmen di Albuzio. Seppur suggestiva, rimane solo un’ipotesi che comunque non ripara del tutto
alla perdita di queste opere.
I testi in lode del Magno, nonostante siano, come si è visto, estremamente diversificati per ciò
che riguarda il genere, utilizzano quasi unanimemente la lingua latina; ciò è in parte dovuto al
fatto che, ad esclusione di pochi casi, come il canzoniere di Gasparo Visconti, all’inizio del
Cinquecento una letteratura milanese in volgare stentava ad affermarsi, mentre il latino si
confermava la lingua eletta per la trattatistica e la poesia.
Soltanto un esiguo gruppo di testi, tutti scritti dopo la morte del Magno, tra il 1519 e il 1520,
fu composto in lingua volgare: il capitolo del Notturno Napoletano, il suo gemello anonimo e
inedito del cod. triv. 2098 Poi che si piacque a Dio summo motore, entrambi focalizzati sulle esequie
funebri del Maresciallo, gli otto sonetti di Martino Bovolino in appendice alla Misochea,
l’epitaffio tetrastico del fiorentino Girolamo Casio ed infine l’ode XI di Renato Trivulzio, in cui
si rievocano alcune delle più note imprese di Gian Giacomo.
Capitolo a parte – che in questa sede non sarà possibile trattare – è rappresentato dalle
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dediche in prosa e meno frequentemente in poesia rivolte a Trivulzio. Si possono ricordare
almeno l’epigramma latino del poeta editore milanese Francesco Tanzi, contenuto in un ampio
volume di testi poetici di Battista Spagnoli, la lettera prefatoria alle opere di Cicerone curata da
Alessandro Minunziano (1499), e le dediche ai due volumi medici che trattano di malattie che
afflissero il Magno per tutta la vita e ne provocarono la morte, il Lotii difficultate (1515) e il Liber de
Complexione (1517), del medico milanese Pietro Arluno.
Le singole opere che compongono questo imponente corpus poetico non hanno in realtà
nessun merito estetico particolare che ne giustifichi uno studio e un’analisi stilistico-retorica più
approfondita; tuttavia nel loro complesso danno prova di un fenomeno culturale – certamente
ristretto all’ambito milanese – di una certa importanza, ed inoltre illuminano sulla
considerazione di cui godeva Trivulzio nella sua città natale. Se si guarda soltanto alle prove
letterarie prodotte in quegli anni, e all’attività mecenatesca praticata, il prestigio della famiglia
Trivulzio, ed in particolare di Gian Giacomo, rischiava seriamente di oscurare quello degli
Sforza, che a Milano avevano avuto un ruolo politico attivo per gran parte del secolo
precedente.
Il Notturno Napoletano, autore di cui a tutt’oggi non si conosce l’identità, dopo la caduta
della dinastia aragonese fu costretto a lasciare Napoli iniziando un’instancabile peregrinazione
che lo condusse in varie città e corti italiane.
Durante il soggiorno milanese egli si avvicinò alla famiglia Trivulzio, omaggiando il suo
maggiorente di un capitolo ternario in cui si descrivono minuziosamente le esequie resegli il 19
gennaio 1519. Nel medesimo anno il Notturno compì un’operazione analoga componendo un
capitolo in terza rima per la morte del condottiero Francesco Gonzaga, avvenuta proprio nel
1519.
Data la straordinaria ed inusitata magnificenza delle esequie pubbliche rese al Maresciallo,
degne davvero di un re, letterati, uomini politici e cronisti lasciarono testimonianza dell’evento,
perpetrandone il ricordo per secoli.
La sontuosità dell’allestimento, che testimoniava il prestigio di cui il condottiero godeva in
Italia e in Europa, doveva, in una certa misura, risarcire Gian Giacomo del trattamento
riservatogli dal re di Francia e dell’entourage francese di stanza a Milano nei mesi che
precedettero la morte.
Difatti, nell’agosto 1518 Trivulzio, consapevole del fatto che l’allora governatore di Milano
Odet de Fois visconte di Lautrec, aveva diffuso calunnie e malevole dicerie sul suo conto, si
trovò costretto ad intraprendere un viaggio oltralpe nel tentativo di discolparsi di fronte al re
Francesco I. Il viaggio fu compiuto in lettiga in quanto le precarie condizioni di salute e l’età
avanzata non gli permettevano più di cavalcare.
Nonostante, come sostengono fonti coeve, Trivulzio riuscì ad ottenere udienza dal re e da
altri membri della famiglia reale, la situazione non ebbe alcuna evoluzione positiva: ormai la
stella del Maresciallo si stava spegnendo ed ogni tentativo di recuperare la stima e la fiducia dei
regnanti sembrava ormai vano.
Il viaggio di Gian Giacomo si concluse a Chartres, dove morì il 5 dicembre 1518, di notte,
nella casa del ricettore generale delle imposte, rifiutando fino all’ultimo di essere visitato dai
medici di Francesco I.
Dai versi dell’ode encomiastica scritta da Renato Trivulzio trapela un sentimento di
giustificata indignazione per il trattamento riservato alla zio da parte di re Francesco, unito
all’orgoglio per l’atteggiamento fiero e dignitoso con cui il Magno, ormai «decrepito et
infermo», non si rassegnò alle calunnie e cercò di respingerle anche a costo della vita.
Dopo essere stato imbalsamato il cadavere venne trasportato a Milano dove sarebbe stato
sepolto, secondo le indicazioni testamentarie, nella cappella di famiglia costruita dal Bramantino
all’interno di San Nazaro.
Il capitolo Exequie solenne e sontuosissime di Notturno Napoletano rende conto della
magnificenza delle celebrazioni funebri allestite per il Magno il 19 gennaio 1519 a Milano. Esso
presenta una netta bipartizione tra la prima parte, in cui viene annunciata, con un’allegoria
mitologica priva di alcun nesso con gli eventi realmente occorsi, la morte del Magno, e la
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seconda, fedele descrizione delle esequie.
La sezione a tema mitologico accoglie un lungo dialogo tra Marte e Giove e a seguire tra
Giove e la Morte a proposito delle sorti del Maresciallo di Francia: il poeta, con chiaro intento
celebrativo, tenta di sostenere che la morte di una figura così nobile e illustre come Trivulzio
non potesse essere stata causata dalla malattia o dalla vecchiaia, ma che fosse stata decisa ed
orchestrata direttamente dalla volontà divina.
Marte, invidioso della fama del Maresciallo e spaventato che un giorno il condottiero possa
privarlo del suo regno, si rivolge a Giove in cerca di aiuto e sostegno; quest’ultimo, dopo avere
rinnovato le lodi nei confronti del Magno, assicura al figlio che avrebbe trovato presto una
soluzione. Giove allora impone alla Morte di uccidere Trivulzio affinché il nobile milanese possa
essere eletto in paradiso. Tuttavia il compito appare talmente arduo che la Morte, atterrita,
teme di non poterlo compiere in quanto considera Trivulzio già un’immortale e quindi fuori
dalla sua giurisdizione. L’uccisione del Magno, assalito a tradimento dalla Morte durante il
sonno, dà l’avvio alla seconda parte del capitolo in cui, con minuzia di dettagli, si descrive il
funerale, sontuoso e solenne, così come viene annunciato nel titolo.
Se la letteratura in lode del Magno offre un ampio substrato ideologico e allegorico cui
attingere, nello specifico del ternario delle Exequie, il Notturno s’ispira fedelmente al cantico
terzo delle Methamorfosi di Cariteo, in cui si rievoca, sotto il velo mitologico, la morte di don
Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, ucciso a tradimento dai francesi durante l’invasione del
Regno di Napoli nel 1495, mentre strenuamente difendeva l’ultimo baluardo aragonese.
La scelta di imitare in maniera così fedele e riconoscibile il cantico del poeta barcellonese
non sembra dettata solo da motivazioni di ordine letterario, ma appare come un’ulteriore
conferma dell’alto valore encomiastico del testo elaborato dal Notturno. Difatti l’Alfonso
D’Avalos celebrato nelle Methamorfosi altri non era che il fratello di Beatrice, vedova di Gian
Giacomo: la presenza in filigrana de Le exequie solenne della figura del marchese di Pescara,
perfettamente sovrapponibile a quella di Trivulzio, voleva essere evidentemente un segnale di
stima e ammirazione rivolto a Beatrice, sorella del primo e moglie del secondo.
Abbandonato il modello laico delle Methamorfosi di Cariteo, per la seconda parte, che, come si
è detto, accoglie la lunga e compiaciuta descrizione del funerale, il Notturno sembra accostarsi,
sia per i contenuti sia per lo stile, ai trionfi della Morte di matrice popolareggiante, e in misura
minore ai capitoli del Triumphus Mortis, probabilmente troppo imbevuti di cultura classica e
reminiscenze filosofiche.
Il Notturno, diversamente da Bovolino, pur prediligendo un’allegoresi di tipo cristiano e
concentrando l’attenzione sul dato storico, non rinuncia all’immaginario mitologico: egli
mescola così elementi diversi, dando al testo una maggiore densità iconografica, nonostante
l’affermazione del punto di vista religioso e realistico si riveli infine definitivo.
Nella seconda sezione, il Notturno, pur guardando ai modelli trionfali, sembra in parte
rinunciare alle ambizioni letterarie per calarsi nel ruolo del cronista, avvicinandosi
incredibilmente ai versi dell’anonimo capitolo Poy che si piacque a Dio sommo motore, già ricordato
sopra, privo certamente di alcun valore estetico ma ricco di dettagli sulla processione funebre.
A tal proposito entrambi i testi possono essere proficuamente messi a confronto con le
numerose cronache in volgare – sempre anonime – che descrivono con estrema accuratezza i
preparativi della cerimonia funebre e il suo svolgimento.
Oltre ai testi manoscritti, ora conservati all’Archivio privato Trivulzio, in appendice alle
edizioni in folio dell’orazione pronunciata dall’oratore Antonio Tilesio dopo la messa si legge
una breve ma dettagliata cronaca di autore anonimo, intitolata Morte, e funerale del Signor Gian
Iacomo Trivultio Magno, in Milano; la pubblicazione in un’edizione così prestigiosa del testo di
Tilesio dà al resoconto un’autorevolezza superiore ad altre fonti coeve.
Nelle prime battute della seconda parte de Le exequie del Notturno, il poeta rende noto, con
piglio giornalistico, il momento esatto della giornata in cui iniziò a radunarsi intorno a
Sant’Eustorgio la folla che avrebbe composto il corteo (vv. 85-86 «Da mane a diecenove de
genaro / di ’l cinquecento e disnove serati») e persino l’ora («a quindece ore») in cui la
processione si avviò, con passo lento e solenne, verso S. Nazaro, dove si sarebbe svolta la
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cerimonia funebre.
Gran parte della seconda parte del capitolo è occupato dall’elenco dei partecipanti al
funerali, tra cui non mancano personalità politiche di spicco come Teodoro Trivulzio, cugino
del Magno e Odet de Fois visconte di Lautrec.
Il Notturno dà del Lautrec una descrizione ambigua, che lascia maliziosamente intendere
quali fossero i rapporti tra Gian Giacomo e il governatore di Milano; egli fa la sua apparizione
nei versi finali del ternario, quando ormai la processione volge al termine:
E per mostrar un segno di letizia
de un tanto onor, quel da Lutrech di seta
vestito andò senza portar mestizia.
(Exequie, 145-47)
Apparentemente la gioia espressa dal francese sembra essere figlia della consapevolezza
dell’onore – terreno e ultramondano – toccato a Trivulzio, anche se i sintagmi in posizione di
rilievo «segno di letizia» e «senza portar mestizia» appuntano con insistenza l’attenzione sullo
stato d’animo lieto, che dati i reali rapporti con il Maresciallo, doveva apparire alquanto
sinistro. L’atteggiamento mostrato dal francese è tanto più equivoco se confrontato con le
esternazioni di inconsolabile afflizione espresso da tutti gli altri partecipanti.
Inoltre, come testimoniano alcune fonti documentarie in prosa, il Lautrec fu l’unico tra i
presenti a non portare il lutto, ed anzi ad ostentare un abito di colore diverso dal nero. Il
Notturno è l’unico, tra i poeti e redattori di cronache che si occuparono del funerale, a lasciare
un chiaro indizio di tale particolare, dalla portata simbolica eccezionale, seppur solo per
contrasto: data la martellante pervicacia con cui egli tiene a sottolineare che tutte le categorie di
partecipanti al funerale fossero vestite di nero, la scelta di non esplicitare il colore dell’abito del
Lautrec, benché ne sia ricordato il materiale – la seta – non può non passare inosservata; oltre a
confermare un dato reale, il Notturno tiene a mettere in rilievo, grazie agli strumenti retorici di
cui dispone, la mancanza di sincerità e limpidezza del Lautrec nei confronti dei Trivulzio; come
il francese non esprime mestizia, così il suo abito non è né nero né bruno (come è invece quello
di tutti gli altri). Ciò conferma inoltre, nel gioco di simmetrie e parallelismi creati nel ternario,
l’esatta ed elementare corrispondenza tra aspetto esteriore e sentimenti interiori.
Non diversamente dalle Exequie del Notturno, il capitolo Poy che si piacque a Dio summo motore
descrive con dovizia di dettagli lo svolgimento della cerimonia funebre del Magno ed elenca i
vari personaggi che ne presero parte – con particolare attenzione agli ecclesiastici – prendendo
verosimilmente a modello la cronaca in prosa di Morte, e funerali.
Riguardo al Lautrec, l’autore di Poi che piacque a Dio summo motore opta invece per una
descrizione più consona alle circostanze, anche se forse non rispondente al vero «Finito questo,
tutto il parentato / e Monsignor Doltrech se condolea» (Poi che piacque, 148-49) così da non
creare ulteriori tensioni.
Seppur di valore letterario modesto, questo ternario riveste un’importanza fondamentale
anche ma non solo nel confronto con Le Exequie del Notturno. Esso difatti rappresenta
idealmente l’anello di congiunzione tra la cronachistica e le varie testimonianze del funerale
scritte in lingua volgare da autori evidentemente illetterati e la rielaborazione artisticamente
compiuta dell’evento realizzata dal Notturno.
La conclusione parenetica e didascalica del ternario del Notturno, disarmante nella sua
semplicità moraleggiante, si rivolge ai regnanti invitandoli, sull’esempio di Trivulzio, a coltivare
la virtù per potere, dopo la morte, assurgere ai cieli. Difatti il Notturno, per l’intera lunghezza
del ternario, preferisce porre l’accento sullo zelo religioso del Magno e sulle opere di carità da
lui compiute, mentre riserva un ruolo di secondo piano alla dimensione pubblica e politica del
personaggio nella convinzione che l’uomo possa realizzarsi pienamente solo nell’aldilà e che i
mezzi per raggiungerlo siano essenzialmente di natura spirituale.
Nonostante i toni da sermone, questi ultimi versi offrono un definitivo omaggio celebrativo al
nobile condottiero in quanto la sua parabola esistenziale diviene paradigmatica per coloro che
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hanno uno status sociale e sono investiti di responsabilità politiche ben più importanti di quelli
del Magno.
Il Notturno, confermando di accogliere una prospettiva fortemente conservatrice e connotata
in senso cristiano, distingue, nel verso conclusivo, (v. 175 «al mondo han fama e nel ciel gloria
eterna») il concetto di fama, petrarchescamente inteso come un ‘vento’ destinato a disperdersi e
a dissolversi a causa dell’azione del tempo, e la gloria, eterna proprio perché dotata di solidi
fondamenti metafisici. La caduca fama terrena, nonostante la grandezza del personaggio, non è
altro che effimera vanità, mentre la gloria, che solo Dio è in grado di concedere, deve essere il
fine ultimo dell’esistenza umana.
Seppur il Notturno volga lo sguardo a modelli letterari alti, come Cariteo, Petrarca, e più in
generale la panegiristica latina che faceva ampio ricorso alla mitologia, il suo ternario rimane
volontariamente ancorato a schemi e figurazioni tipiche della poesia popolareggiante tardo
medievale.
Le Exequie non raggiungono mai un grado di solennità stilistica e di profondità filosofica
sufficienti per affermare efficacemente i principi cristiani che costituiscono l’ingombrante
substrato ideologico del ternario. Pur rifiutando il laicismo delle Methamorfosi di Cariteo, il
Notturno non rivela alcun interesse nel modellare, a partire dai principi dell’etica religiosa,
riflessioni di carattere esistenziale, come invece avviene, per esempio, nei Triumphi di Petrarca.
Il ternario, nel suo complesso, rimane una testimonianza fondamentale di un evento che
all’epoca dovette essere vissuto con grande partecipazione e solennità. Congiuntamente agli altri
pochissimi esemplari in volgare della panegiristica trivulziana, con cui condivide la natura
funebre, esso offre un affresco storico significativo di un momento particolare che venne
ricordato per secoli per la sua magnificenza.
6 MATTEO BOSISIO
La Misochea di Martino Bovolino: encomio di Gian Giacomo Trivulzio
e speculum principis per Gian Francesco
In
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MATTEO BOSISIO
La Misochea di Martino Bovolino: encomio di Gian Giacomo Trivulzio
e speculum principis per Gian Francesco*
Martino Bovolino, nato a Mesocco in Val Mesolcina, fu una figura di spicco all’interno della propria comunità.. La morte
del Magno nel 1518 spinse Bovolino a scrivere la Misochea Magni Trivultii (Milano, de Ponte, 1519), opera oscillante tra
l’encomio di Gian Giacomo e lo speculum principis per Gian Francesco, suo nipote e unico erede. La Misochea è composta da
tredici capitula in distici elegiaci, preceduti da una lettera di dedica a Gian Francesco, e si conclude con una corona di otto
sonetti in italiano. Il contributo intende presentare i sonetti (cc. C 1r-4v), soffermandosi sulla loro specificità contenutistica e
stilistica: Bovolino celebra Gian Giacomo paragonandolo a famosi personaggi biblici (es. I e II), sino ad accostarlo
iperbolicamente alla Vergine (VIII); lo contrappone a celebri generali della storia antica (IV), ne ricorda le sventure patite
come prova di coraggio e forza d’animo (VII) e, nello stesso tempo, lo scagiona da alcune imprudenze commesse durante il
governo sulla Mesolcina (I). La corona, costruita da componimenti dall’eterogenea forma e matrice, mira in ultima istanza a
dimostrare al giovane Gian Francesco di incarnare il «vero herede / de l’avita virtude» (VI, 7-8), spronandolo a seguire le
orme del nonno.
La Misochea Magni Trivultii, composta nel 1519 da Martino Bovolino, è formata da tredici capitula
in distici elegiaci, preceduti da una lettera di dedica a Gian Francesco Trivulzio, unico erede di
Gian Giacomo Trivulzio.1 L’opera si conclude con una corona di otto sonetti in volgare (cinque
dei quali caudati: I-III, VI e VII),2 definita dall’autore «girlandeta a fior cernude», ossia
“antologia di testi scelti” (III, 8). Lo scopo della Misochea, libello catalogabile tra l’encomio e lo
speculum principis,3 è educare e invitare Gian Francesco – che si trovava all’età di quindici anni a
gestire un ingente patrimonio di beni e di titoli – a imitare le imprese del nonno, scomparso
l’anno precedente.
Sulla vita di Bovolino, di fatto il primo “scrittore” grigionese in lingua italiana, grazie ai
sonetti, possediamo poche informazioni. Figlio di un notaio di nome Guglielmo, al quale
subentrò intorno al 1497, nacque a Mesocco, in Val Mesolcina (da cui il titolo della raccolta
Misochea).4 È presumibile che sia nato negli anni Settanta del secolo XV; non sappiamo, però,
Desidero esprimere la mia gratitudine a Simone Albonico, Riccardo Contini, Edoardo Fumagalli,
Claudio Griggio e Marino Viganò; un particolare ringraziamento va alla Fondazione Brivio Sforza e alla
Fondazione Trivulzio di Milano.
1 Gian Giacomo Trivulzio (1442-1518), figlio di Antonio e di Franceschina Aicardi Visconti, entrò a soli
nove anni nel seguito di Francesco Maria I Sforza. Soprannominato il Magno per le doti di condottiero,
servì gli Sforza (dal 1465) e i Trastamara (dal 1486). Dopo la rottura con Ludovico il Moro e il passaggio
al servizio del re di Francia (1495), venne creato da Carlo VIII comandante e governatore di Asti, mentre
fu nominato da Luigi XII marchese di Vigevano, Maresciallo di Francia e, nel biennio 1499-1500,
luogotenente generale di Milano. Ritiratosi in Francia dopo il ritorno degli Sforza, guidò la riconquista di
Francesco I (1515). Sposato due volte, ebbe un solo figlio legittimo, Gian Nicolò Trivulzio, padre di Gian
Francesco, che morì a Torino il 7 luglio del 1512. Sul personaggio, in mancanza di una biografia recente,
rinviamo all’ancora utile C. ROSMINI, Dell’istoria intorno alle militari imprese e alla vita di Gian-Jacopo Trivulzio
detto il Magno, Milano, Destefanis, 1815.
2 c. IVv: «postremo autem octo vernacula epigramata, que vulgo sonetos appelant, diversis temporibus,
locis et causis, magno avo tuo tibique alias per me aedita apponere curavi». I testi inediti da qui in poi
vengono trascritti in conformità ai criteri esposti in appendice. Sulla sezione latina dell’opera rinviamo
all’analisi di E. FUMAGALLI, Martino Bovolino e la poesia encomiastica per Gian Giacomo Trivulzio, in Tra due
mondi. Miscellanea di studi per Remo Fasani, Locarno, Dadò, 2000, 193-229.
3 Sui due sottogeneri si vedano da ultimi Specula principum, a cura di A. DE BENEDICTIS, Frankfurt am
Main, Klostermann, 1999; Forme e occasioni dell’encomio tra Cinque e Seicento, a cura di D. BOILLET e L.
GRASSI, Lucca, Pacini Fazzi, 2011 e Principi prima del Principe, a cura di L. GERI, Roma, Bulzoni, 2012.
4 Ricordiamo che il Trivulzio nel 1480 aveva comprato dalla famiglia De Sacco la signoria sulla
Mesolcina e sulla Calanca, estesa nel 1493 dall’acquisto del Rheinwald e del Safiental; il padre di Martino
compare nel 1481 in un giuramento di fedeltà a Gian Giacomo, mentre il figlio racconta in un passo della
Misochea di aver fatto parte del suo seguito per un anno (cc. IIr-IIv). Sul Magno e il governo della Valle si
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quali studi intraprese e la sede, anche se si suppone che avesse ricevuto un’educazione simile a
quella decisa per il figlio.5 Comunque sia, fu una figura di spicco all’interno della comunità
grigionese: dal 1527 al 1529 ottenne il vicariato in Valtellina durante la reggenza di Giorgio
Beeli di Belfort; partecipò, per conto delle Repubblica delle Tre Leghe (unione della Lega
Caddea, Grigia e delle Dieci Giurisdizioni), a varie missioni diplomatiche presso la Repubblica
di Venezia e lo Stato pontificio. Nel 1531 venne assassinato a Cantù dagli scherani di Gian
Giacomo Medici, castellano di Musso, ostile a un’alleanza tra le Tre Leghe e gli Sforza, che
Bovolino stava cercando di favorire.
La sezione latina della Misochea tratta, come sostenuto dallo scrittore nel primo capitolo (c. A
1v, vv. 7-10), solo alcuni episodi della vita del Trivulzio, che si collegano non di rado a riflessioni
e commenti di carattere generale: nel secondo capitolo (cc. A 1v-2v) l’elogio del personaggio
viene accompagnato all’invito rivolto a Milano perché renda pubblico omaggio a una
personalità così eminente; nel terzo (cc. A 2v-4v) la rievocazione del pellegrinaggio del Magno in
Terrasanta spinge Bovolino a esortare gli stati europei più influenti a indire una crociata; nel
quarto (cc. A 4v-6r) viene raccontata la vittoria di Fornovo; nella quinta (cc. A 6r-7r) viene
rievocata la battaglia di Agnadello, combattuta dal Trivulzio contro Venezia; nel sesto (cc. 7r-8r)
sono presentate le azioni militari del Maresciallo in Romagna, rese necessarie per contrastare le
mire espansionistiche di Giulio II; nel settimo (cc. A 8r-8v) risalta un’invettiva contro i poeti che
si servono solo della mitologia pagana e trascurano le vicende contemporanee; nei capitoli VIIX (cc. A 8v-B 4r) Bovolino riassume la battaglia di Marignano, inserendo frequenti ricordi del
Magno di carattere morale e religioso; nei capitoli XI-XIII (cc. B 4r-8v), invece, lo scrittore stila
un bilancio finale sulla vita del Trivulzio e conclude l’opera con la preghiera a Cristo perché
possa accogliere il personaggio in Paradiso.
I sonetti (cc. C 1r-4v) recuperano e sintetizzano alcuni temi espressi lungo i tredici capitoli in
distici non senza ricercare, però, una peculiare autonomia stilistica e contenutistica di cui
daremo conto. Il contributo si concentrerà soprattutto sui testi in volgare. I sonetti della
Misochea, letti sino ad ora nella non impeccabile trascrizione di Zendralli,6 erano da tempo
irriperibili, poiché i due esemplari del testo conservati presso la Biblioteca Nazionale Marciana
sono mutili nella parte finale, che tramanda la sezione volgare della raccolta.7 Un testimone,
integro, di cui si erano perse le tracce dopo la Seconda Guerra Mondiale, è conservato presso la
Fondazione Brivio Sforza di Milano, di recente costituzione.8
Il primo sonetto si apre con il rilievo dato del poeta a sé («i’ vedo»), che sembra affermare la
centralità dell’atto creativo (cfr. anche II, 15 e VII, 4). Segue una rassegna di personaggi da
interpretare in modo allegorico, secondo quanto sostiene il cappello introduttivo in latino
(«vernaculum carmen alegorice»), che, come per gli altri testi, ha la funzione di fornire alcune
vedano S. TAGLIABUE, La signoria dei Trivulzio in valle Mesolcina, Rheinwald e Safiental, Milano, Società
Palatina, 1927 e F.D. VIELI, Storia della Mesolcina, Bellinzona, Grassi, 1930.
5 Ci può aiutare una lettera del 3 luglio 1530 a Erasmo da Rotterdam, in cui raccomanda il figlio Lazzaro,
appena partito per seguire i corsi dell’umanista Glareano a Friburgo in Brisgovia. Le due missive di
Bovolino a Erasmo sono pubblicate in E. ROTERODAMUS, Opus epistolarum, VIII, a cura di S. ALLEN,
Oxford, Clarendon Press, 1934, 59-60 e 465. Documenti e indicazioni biografiche sono ricavabili da
A.M. ZENDRALLI, Il Grigioni italiano e i suoi uomini, Bellinzona, Salvioni, 1934, 102-105; C. SANTI, Notai
moesani, «Quaderni Grigionitaliani», LVIII, 1989, 242-261 e M. BUNDI, I primi rapporti tra i Grigioni e Venezia
nel XV e XVI secolo, Chiavenna, Centro di Studi Storici Valchiavennaschi, 1996, 74-87, 270-74 e 281.
6 A.M. ZENDRALLI, Eruditi di Mesolcina: un “carme” e otto sonetti di Martino Bovollino, «Quaderni
Grigionitaliani», VIII, 1938-1939, 19-22.
7 Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Misc. 0547. 007 e 2486. 002. La possibilità di leggere il
colophon (c. C 4v) ha dato modo di attribuire la pubblicazione dell’opera a Gottardo da Ponte (Gothard des
Bruges o Van der Bruggen) e non a Giovanni da Legnano, come si supponeva in passato (E. FUMAGALLI,
Martino…, 197-199). Sul tipografo vd. F. ASCARELLI e M. MENATO, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze,
Olschki, 1989, 150-151 (con bibliografia pregressa).
8 Per il testo dei sonetti vd. M. BOSISIO, Edizione dei sonetti della Misochea di Martino Bovolino, «Archivum
Mentis», 2015, in cds.
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chiavi di lettura ed elementi di contestualizzazione: la persona intravista da Bovolino pare
l’arcangelo Michele, un «novo Achile», un «bon Camillo», un «Ciceron» e il «felice marito di
Rachel», ossia Giacobbe (vv. 1-4). I riferimenti ricorrono a precise simbologie: San Michele non
è soltanto il paladino del Cristianesimo contrapposto agli antichi culti pagani o, nell’Apocalisse di
Giovanni (XIII, 7-8), colui che conduce gli angeli nella battaglia vittoriosa contro il demonio
(«sopra el drago»); la sua presenza allude al collare dell’Ordine di S. Michele, onorificenza
cavalleresca ricevuta da Gian Giacomo Trivulzio nel 1496 e che ne contraddistinguerà
l’iconografia.9 I rinvii ai restanti personaggi potrebbero alludere più genericamente alle virtù
belliche (Achille), politiche e oratorie (Marco Furio Camillo e Cicerone) e di gestione del genus
(Giacobbe) impersonate da ciascuno.10
Ciò prelude alla seconda quartina, in cui vengono presentati altri personaggi scritturali
secondo un elenco costruito anaforicamente (vv. 6-8): all’articolo indeterminativo maschile
seguono l’apposizione, il sostantivo trisillabo terminante in -tor e il relativo complemento di
specificazione. Il Trivulzio è ora accostato a Mosè, liberatore del popolo di Israele (vv. 5-6); ad
Apollo, vincitore del «gran Phiton» e addirittura a Dio, equo vendicatore dello «iusto Abel» (v.
8). L’ultimo raffronto è da intendere in modo allegorico, in quanto si incarica di sottolineare le
doti di chi ha saputo governare con saggezza la Val Mesolcina.
Ipotizziamo che questo accenno intenda scagionare il Trivulzio da un grave abuso compiuto a
Mesocco e rimasto vivo per anni nell’immaginario collettivo della comunità: nella Valle la
giustizia non era ad appannaggio dei feudatari, giacché antiche usanze prevedevano l’elezione
diretta dei giudici da parte del popolo;11 ciò nonostante nella seconda metà del 1482 Gian
Giacomo «violentemente et sforzatamente, senza alcuna raxone, fece impichar per li muri del
castello» il notaio Gaspare del Negro di Andergia, legato alla precedente amministrazione.12
Nelle terzine il componimento cambia ritmo e stile per mezzo di una netta partizione,
impiegata in ogni testo della corona, tra la fronte e la sirma; appare evidente la commistione di
lingue semitiche, del latino, del greco e di nomi biblici, grazie alla quale viene creato un testo
mescidato.13 La Lombardia, ridotta a un «rabaäm» prima dell’intervento del Trivulzio, deve
intonare «sallamellech» al «redemptor», temuto come fosse «Ballaam» (vv. 7-9).14 Il concetto
viene sviluppato tramite variatio nell’ultima terzina e nella coda: l’autore si augura che i nemici
del Trivulzio siano «sposech», in attesa della comparsa sulla terra di «Melchisedech», secondo
quanto sostiene il Salmo CX, 4: «tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem
Melchisedech».15 L’intonazione apocalittica – accentuata al verso 17 con l’allusione alla valle di
AFT, codice 2136. Una parte dei documenti che si citeranno dell’AFT (Milano, Archivio Fondazione
Trivulzio) – che riguardano lettere, appunti di Gian Francesco, abbozzi di biografie sul Magno da parte di
Giovan Giorgio Albriono e Giovan Antonio Rebucco – sono pubblicati con criteri diplomatici da M.
Viganò, Vita del Magno Trivulzio, Milano, Fondazione Trivulzio, 2013.
10 L’ultimo riferimento a uno dei patriarchi del popolo di Israele è forse sollecitato dai problemi dinastici
della casata.
11 S. TAGLIABUE, La signoria…, 14.
12 Ibidem e F.D. VIELI, Storia..., 99-100.
13 Riscontriamo alcuni possibili legami formali tra gli otto sonetti e la tradizione burchiellesca, da cui,
però, Bovolino non eredita l’intento dissacratorio e parodico: lo schema metrico di ogni testo segue il
modello principale (ABBA, ABBA, CDC, DCD e, se presente la coda, dEE); le rime tronche riprendono
una scelta non insolita in Burchiello (XXXVII, LXIII, XCIV e XCV), così come la presenza di
personaggi storici, mitologici o biblici (XVI, XLVIII, CVI), l’utilizzo di inserti in latino (XXVII;
XXXVIII; XLVIII; LXXXIII) e di lessemi che ricalcano l’ebraico (XXXVII). Cfr. l’edizioni dei Sonetti, a
cura di M. ZACCARELLO, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2000.
14 L’invito espresso alla Lombardia e a Milano affinché celebrino Gian Giacomo si ritrova ai capitoli II e
VIII della sezione latina (cc. A 1v- 2v e A 7r-7v).
15 Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, a cura di R. WEBER, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 1994. Per
una lettura più agevole delle citazioni bibliche, si introdurrà l’uso della punteggiatura, non utilizzata
nell’edizione di riferimento.
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Giosafat, sede del Giudizio Universale (Gl III, 2) – viene bilanciata dalla certezza che il Trivulzio
riposi «in sinu d’Abraam» (v. 13) e che la sua fama attraversi il mondo intero.16
Il secondo sonetto si collega al primo senza soluzione di continuità, perché viene mantenuto lo
schema bipartito tra quartine (immagini e personaggi scritturali) e terzine (commistioni
linguistiche e temi escatologici) e le peculiari parole-rima, formate da nomi propri tronchi,
terminanti in consonante (es. vv. 12-14: «Hector… Ysach… Nestor»); pur tuttavia notiamo
alcuni elementi di variatio quali il passaggio dal paragone allegorico all’augurio e l’introduzione
indiretta di Gian Francesco. Il testo si apre con la speranza che Emanuele, ovvero Gesù Cristo
stesso, protegga il Trivulzio come Dio ha fatto con Aronne (Es IV-XVII) o come l’arcangelo
Raffaele con Tobia (Tb XII).
La seconda quartina assume una valenza differente, in quanto si attribuiscono al Maresciallo –
con una disposizione anaforica degli elementi analoga al sonetto precedente – alcune
caratteristiche come la forza di Sansone e il coraggio di Salomone. La sequenza si chiude con la
speranza che lo scudo del Magno sia protetto da Gabriele, l’angelo dell’Incarnazione. I versi
menzionati vengono preceduti dall’endecasillabo 5, in cui la funzione provvidenziale del profeta
Daniele pare saldare le diverse sezioni del componimento: la figura di quest’ultimo compare
nelle terzine mediante l’accenno alla vicenda di Abdenago, Misach e Sidrach (Dn III, 31-52),
salvati da un angelo mandato da Dio, dopo essere stati condannati alla pena capitale da parte
del sovrano babilonese Nabucodonosor (v. 9). Il miracolo elargito ai tre personaggi viene
equiparato a quello che Daniele dispenserà a Gian Francesco: l’«agios» (“santo”, v. 9) lo
renderà un nuovo Ettore, longevo come Nestore, mentre ne proteggerà la discendenza, affine a
quella di Isacco (vv. 12-14): non sfugge l’ennesimo riferimento – canonico, ma in questo caso
cogente – al bisogno di infoltire i rami familiari.
Nella coda del sonetto è inserita una formula in latino «sic deprecor», che attesta l’importanza
del poeta, quasi interceda per avverare gli auspici appena formulati. Il tutto viene concluso da
un riferimento geografico rivolto al dominio del dedicatario, per poi allargare e distendere la
panoramica attraverso il cenno all’Apocalisse (Ap XI), preannunciata dalla comparsa di «Elya et
Enoch» (vv. 16-17).
Il terzo testo modifica l’impostazione sin qui adottata nella forma e nel contenuto, poiché è
volto all’encomio del personaggio nella sua dimensione “storica”. La prima quartina è costruita
secondo un’accumulatio di virtù e abilità proprie del Trivulzio, mentre forse la iunctura «sangue
gentile» richiama un passo di Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (RVF CXXVIII, 74-75), in cui
Petrarca sprona il «latin sangue gentile» ad allontanare le compagnie mercenarie dalla
Penisola.17 Ciò si attaglierebbe a un segmento finale della carriera del Magno, che sconfisse nella
battaglia di Marignano le truppe svizzere (1515),18 le quali avevano ottenuto il controllo sul
Proviamo a chiarire il significato letterale delle terzine e della coda: v. 9: «rabaäm», probabilmente
dall’arabo «ar-rabāṭ» (“avamposto fortificato”) o dal turco «rahbān» (“guardia di frontiera”), quindi, per
traslato, “instabile, insicura”; v. 10: «ti dica… sallamellech», dall’arabo «as-salām ‘alayk» (da cui
«salamelecco»), “ti omaggi”; v. 11: «Ballaam», potente profeta chiamato dal re delle pianure di Moab per
maledire il popolo ebraico (Nm XXIII-XXIV); v. 12: «sposech», di difficile attribuzione, ma dal senso di
“vinto, sconfitto”; v. 15: «simellech», dall’arabo «malāk» o dall’ebraico «mal’aakh», “angelo”. È ovvio
che, tenendo presente il carattere mimetico del linguaggio inserito, siano possibili diverse interpretazioni;
però – in base allo spoglio del Lessico dialettale della Svizzera italiana, Bellinzona, Centro di dialettologia e di
etnografia, 2004 – possiamo affermare che nessuna espressione individuata sembri echeggiare il dialetto
grigionese.
17 F. PETRARCA, Canzoniere, a cura di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 1996.
18 C. ROSMINI, Dell’istoria..., 483-517.
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Ducato di Milano; la vittoria avrebbe propiziato due anni dopo la restituzione al Trivulzio della
Mesolcina, occupata dalla Lega Grigia nel 1513.19
Nella seconda quartina, Bovolino giustifica l’elogio svolto dai propri sonetti, definiti nella loro
unità come «girlandeta a fior cernude» (v. 8); nondimeno l’autore decide di prendere le distanze
dal proprio «picol stile», contrapposto al sommo valore del signore (vv. 5 e 7). L’abusato topos di
modestia viene impiegato nei capitoli latini con varie declinazioni: ad esempio nel V il poeta
afferma il suo disappunto per essere costretto a narrare le imprese insigni del Trivulzio
«succincto carmine», benché il personaggio meriti di essere ricordato «excelso carmine» (c. A 6v,
vv. 13-14), e nel X non sarà la Misochea a dare lustro al Trivulzio, bensì l’esatto contrario (c. B 5r,
vv. 18-19): «non tua gesta igitur celebrantur carmine nostro, / imo loqui de te gloria multa mihi
est».
La prima terzina pare capovolgere il significato di una nota apostrofe dantesca (Inf. XXVI, 13): la popolarità del passo in questione e la facilità nel trasformare l’invettiva contro Firenze in
adesione sincera rendono perspicua l’operazione di riuso. Se Dante si congratula dolorosamente
con Firenze, perché la sua pessima fama viaggia «per mare e per terra» (v. 2),20 qui si elogia il
Trivulzio, la cui «voce» viene distesa lungo l’intera Germania (v. 11). L’esagerata attribuzione
dei possedimenti del Trivulzio, che semmai domina la sorgente del Reno (situata nei Grigioni),
non certo la «foce» (v. 10), viene iperbolicamente dilatata nella terzina successiva, perché il
nome del laudatus è conosciuto in ogni parte dell’Oriente e dell’Occidente, dall’Oceano al
Tirreno. L’argomentazione viene ripresa nella coda, diversificando di nuovo la struttura con
una similitudine per cui la reputazione del personaggio corre come un «baleno» dall’India
all’Africa (v. 15), certificandone l’esclusività nell’ultimo endecasillabo: «et tuto el mondo sol de te
ragiona».
Nel quarto componimento il poeta propone alcune riflessioni più articolate e riprende la
tecnica del raffronto, sviluppandola però per antitesi secondo il motivo dell’ubi sunt (Bar III, 1619): il Trivulzio non può trarre elementi positivi dai personaggi elencati, poiché è superiore. La
prima quartina si apre in modo piano e apparentemente scontato: «li Asirii, i Persi, i Greci e i
Troiani, / ma sopra tutti i famosi Romani» si distinsero nel mondo per «l’opere de virtù», tanto
da essere ancora ricordati (vv. 1-3). Ciò nonostante i «virtuosi ingegni humani» che fecero parte
di tali nazioni non solo si esposero a eccessive «angustie» per ottenere beni terreni e caduchi, ma
ora «son tutti in el Inferno» (vv. 1-2 e 4). La profonda religiosità di Bovolino, testimoniata anche
dalle lettere a Erasmo, spiega la requisitoria contro la vanità degli onori privi di un valore
superiore (Qo I, 2 e XII, 8).21 La medesima idea viene trasmessa nell’ultimo capitolo della
Misochea, là dove lo scrittore, alla domanda retorica su che cosa servano dopo la morte
«stemmata, fastus / arma, aurum, imperium, gloria, pompa, decus», risponde con un eloquente
«nempe nihil» (c. B 8r, vv. 1-2).
Nella prima terzina Bovolino riprende in modo macchinoso e ripetitivo l’apostrofe dantesca, il
cui assetto formale è sfruttato per consigliare a Gian Giacomo di vivere «iocundo», dato che ha
raggiunto in virtù gli «antiqui» (vv. 9 e 11). Nella seconda, però, viene esibito un dato
determinante, ovvero la fede, che permetterà al signore di sopravanzarli e vivere «nel ciel
sempre immortale» (v. 14).
Questo sonetto, abbastanza esile e privo di labor limae, offre comunque allo scrittore l’occasione
per esporre alcuni concetti importanti. La questione della netta dicotomia tra pagani e cristiani
19 L. ARCANGELI, Gian Giacomo Trivulzio marchese di Vigevano e il governo francese nello Stato di Milano (14991518), in Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano, UNICOPLI, 3-70
e AFT, codice 2077.
20 D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Milano, Mondadori, 19661967.
21 Un elogio dei valori cristiani del Trivulzio si riscontra nel penultimo capitolo (cc. B 7v e B 8r). La
noncuranza del Maresciallo per le proprie gesta pare comprovata da AFT, codice 2076, c. 6: «che mai,
quando veneva de l’imprese, volse trionfi et veneva in la patria secretamente per non volere nesuna
gloria».
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– risolta seguendo un approccio più medievale che non rinascimentale – viene affrontata in più
punti della Misochea; pare che, secondo Bovolino, non si debba idealizzare il passato, poiché i
moderni, grazie alla rivelazione di Cristo, sono posti necessariamente su un piano più elevato:
ad esempio nei capitoli II e X il Trivulzio dimostra di aver sovrastato i modelli militari dei Greci
e dei Romani (c. A 2r, vv. 8-13 e c. B 4r, vv. 1-14); nell’undicesimo, Bovolino, passando in
rassegna i condottieri che si sono meritati l’appellativo di “Magno”, antepone indirettamente il
Trivulzio ad Alessandro III il Macedone, Pompeo e Carlo Magno, dal momento che l’italiano
ha sempre vissuto secondo virtù e ha conosciuto la «vera fides», ignota ai primi due (c. B 5v, v.
9).22
Tale riflessione sembrerebbe da estendere, a tutta prima, anche alla letteratura; nel capitolo
VII lo scrittore muove una dura reprimenda contro i numerosi poeti del proprio tempo, che si
servono della mitologia e dei repertori stilistici classici, trascurando i temi contemporanei,
incarnati, ad esempio, dalle iniziative del Trivulzio (c. A 8r, vv. 1-12):
O vos praeclari verba haec audite poetae,
aeternum quisquis nomen habere cupit:
quid replere iuvat, nugis mendacibus, orbem?
Fabula honestorum est turpis in ore nimis
nec falsos celebrasse deos nec talia vestris
somnia scripturis inservisse decet.
Carmina scribentes pereant lasciva poetae,
non sunt digna probis mollia scripta viris!
Quam male thesauros multi amissere [sic] laboris,
ingenii, studii, temporis atque sui,
somnia scribentes belli falsosque deorum,
cultus faetentis luxuriaeque luem!
Il topos della falsa modestia dimostrato nei passaggi seguenti, attraverso cui Bovolino si lamenta
per la mancanza di un uomo degno che possa riferire le «splendida gesta» di Gian Giacomo (c.
A 8v, v. 14), esalta di riflesso l’operazione della Misochea.23 Resta da capire, però, come si concili
questo passaggio con la critica agli scrittori coevi: iniziamo a dire che, per l’autore, sono da
condannare sì i «nostros modernos scriptores et presertim poetas», ma non la letteratura in
quanto tale, che, quando abbraccia i valori cristiani, assolve una funzione morale e pedagogica
rilevante (c. IIIv).24 In una missiva di Bovolino a Gian Francesco, pubblicata da Cesare Santi,
troviamo un ulteriore chiarimento:25 il mittente tenta di porgere alcuni consigli al giovane
interlocutore, che necessita di un’istruzione adeguata in vista dei futuri impegni pubblici (p.
242). Il suggerimento di Bovolino è di seguire «virtude e veritade» mediante il mezzo più
adeguato, ossia «imparare [le] littere» (p. 243). Oltretutto rammenta al Trivulzio di godere del
«diletto e dolceza» che la letteratura dispensa, abituandosi così a seguire la «verità», che «non è
vile parola», perché «Deus est veritas» (pp. 243-44).26
22 La devozione di Gian Giacomo viene abbondantemente spiegata nel capitolo IV, dedicato al
pellegrinaggio in Terrasanta del 1476. Per l’episodio vedi anche AFT, codice 2134, 3, c. 5 e C. ROSMINI,
Dell’istoria…, 33-49. La sua supremazia militare viene ribadita in AFT, codice 2076, c. 8: «fu el primo che
insegnò a francosi levare sopra carri et pasare li monti per ponti».
23 Un espediente affine è rintracciabile al termine del capitolo X (c. B 5r, vv. 12-15): «quis laudes
numerare tuas, heu, quisve tuarum / virtutum hoc humili carmine gesta potest? / O quot ab antiquis
celebrantur facta poetis, / quae minima aut potius forte fuere nihil!».
24 Non a caso nel capitolo VIII Bovolino afferma quasi programmaticamente (c. B 1v, v. 15): «nitor enim
purum tantummodo dicere verum».
25 C. SANTI, Lettera di Martino Bovollino a Gian Francesco Trivulzio, «Quaderni Grigionitaliani», LIX, 1990,
236-46. La lettera è custodita presso l’AFT con la segnatura 2077 V.
26 La coscienza del fine pratico della lettera ( 242: «el desiderio che io ho da te Signore mio è magno e
sublime e facilimo: vorebe che tu venisti un homo come fu la felice memoria de tuo patre per quanto
vivette, ma precipue come fu il tuo magno avo») non viene disgiunta da quello più personale ( 245): «so
che tu impari a legere littere scripte a mano: dovendo legere tanto poterai legere de questa come de una
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Il quinto testo pare configurarsi quale “intermezzo” tra la rivelazione della superiorità di Gian
Giacomo e lo speculum rivolto al nipote. Le quartine, piuttosto statiche, descrivono le
caratteristiche del castello di Mesocco, mentre le terzine, più animate, riassumono alcuni
avvenimenti recenti riguardanti la comunità grigionese. Le quartine sono divise in modo netto,
visto che, se nella prima il castello medesimo esalta, attraverso la prosopopea, la posizione
favorevole scelta da Dio per l’ubicazione, nella seconda vengono passati in rassegna gli
interventi umani sul paesaggio circostante promossi dal Magno.
La seconda quartina sembra esibire riferimenti significativi: ai versi 5 e 6 si parla della
«creatura» di alto livello tecnologico di cui fu dotato il castello; tale richiamo potrebbe riferirsi
alle opere fatte costruire e adottare dal Trivulzio, quali il muraglione che proteggeva la fortezza
e l’artiglieria importata da Bellinzona, comprendente cannoni, spingarde, mortai, falconi,
schioppi.27 La sicurezza garantita da simili accorgimenti è legittimata dall’endecasillabo 8, in cui
il castello afferma di non aver «pagura» di alcun attacco nemico, e viene implicitamente
comprovata da un dispaccio di Gustavo Panigarola, collaboratore di Ludovico il Moro, il quale
sostenne che «per avere dicta rocha è bisogno tradimento o fame, aliter è un altro ragionare
dell’impossibile quanto alla forza»;28 proprio la concordia tra i cittadini è assicurata dalla «fé»,
che al verso 7 rappresenta la condizione grazie alla quale Mesocco si manterrà sempre «invicta».
I cenni storici si consolidano nelle terzine: la prima è funzionale alla seconda, perché la veloce
sconfitta del re di Francia viene contrapposta alla resistenza del castello medesimo. Difatti il
«Roi», lessema utilizzato direttamente in francese, fu sconfitto dagli italiani in meno di due anni,
perdendo ogni possedimento e le «castella» (vv. 9 e 11). Forse l’autore si sta rifacendo alla
battaglia di Novara del 1513, in cui le truppe della Lega Santa piegarono i francesi, guidati dallo
stesso Trivulzio, costringendoli ad abbandonare Milano dopo più di dieci anni.29 La precisa
allusione temporale, che segna il fallimento della politica estera transalpina (v. 10), si può
intendere con il periodo intercorso tra la formazione della coalizione antifrancese (1 ottobre
1511) e il definitivo ritiro di Luigi XII (6 giugno 1513).30
La seconda terzina loda il Trivulzio e, in particolare, Mesocco, opponendo le numerose
«castella» perse dal re di Francia al baluardo grigionese, resistito nonostante la lontananza
coatta del suo signore. Qui Bovolino con «quatro anni» intende forse il periodo dal 1513 al 1517
in cui il Trivulzio, giusto a causa della sconfitta patita a Novara, venne privato del feudo (v. 13).
Tuttavia la capacità della popolazione di difendersi dagli attacchi stranieri è stata ripagata con il
ritorno del condottiero: per questo il sonetto può concludersi con un periodo gnomico posto in
coda, in base al quale «Misoco» detiene il primato di bastione inespugnabile a differenza di
qualsiasi «forte loco» italiano a disposizione di Luigi XII (vv. 16-17).31
La strategia dello scrittore di insistere nella «girlandeta» sulle sole virtù morali e religiose del
Trivulzio32 – lasciando in secondo piano le imprese belliche, che, qualora evidenziate, sono di
frequente alluse attraverso la presenza di personaggi biblici – rischia a volte di essere ambigua. E
qui siamo di fronte a un caso palese, in quanto pare un accorgimento forzato e insieme ingenuo
mettere in risalto un suo fallimento: è vero che il ricordo della battaglia di Novara è funzionale a
altra de la quale non ne riporti alcun frutto et fatta per facende de altri et non tue: se questa non ha altra
virtude in se l’ha al mancho questa che l’è fata per amor tuo».
27 M. VIGANÒ, L’età dei Trivulzio: dall’acquisto alla demolizione (1480-1526), «Quaderni Grigionitaliani»,
LXXIX, 2010, 213-215.
28 S. TAGLIABUE, La signoria…, 12.
29 AFT, codice 2134, 4, c. 1.
30 C. ROSMINI, Dell’istoria…, 467-483; M. Pellegrini, Guerre d’Italia (1494-1530), Bologna, Il Mulino, 2009
e M. Viganò, L’età…, 2010, 199-220.
31 Dopo il 1513 le Tre Leghe occuparono la Mesolcina, ponendo Vincentino Jos di Ilanz come
commissario; pur tuttavia costui non riuscì a conquistare il castello di Mesocco, a difesa del quale rimase
Toso da Candia, castellano fedele a Gian Giacomo.
32 Non a caso il vocabolo «virtù» e suoi derivati, su ottocentoquarantanove lessemi impiegati nei sonetti,
risulta il più frequente (12 attestazioni).
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celebrare la patria di Bovolino e, di conseguenza, il suo feudatario; tuttavia il personaggio era
noto presso i contemporanei (e sarà ricordato dai posteri) quale uomo d’azione, celebre per le
vittorie campali, l’astuzia, la spregiudicatezza, le strategie militari.33
Nel componimento successivo l’attenzione viene finalmente spostata su Gian Francesco, cui
spetterà raccogliere l’eredità del nonno. Il sonetto – che Bovolino, come si vede dalla didascalia,
finge con ogni evidenza di aver scritto otto anni prima («illustrissimo Francisco Trivultio comiti
Misochi dum adhuc esset septennis praesente Magno Trivultio avo suo») – traccia un percorso
di progressivo approfondimento, che mira a rintracciare le somiglianze esteriori e morali che
avvicinano Gian Francesco al Magno.
Nella prima quartina l’attenzione si raccoglie sulla «presentia e l’indole iocunda» del
personaggio, che, malgrado la «tenerella etade» (vv. 1-2), offrono un chiaro indizio di parentela.
Nella seconda quartina Gian Francesco viene indicato con un tricolon quale «personeta gentil,
prompta e facunda» (v. 5), che assume un valore iperbolico se pensiamo alla verde età in cui il
personaggio si sarebbe impadronito di tali virtù.
Nelle terzine l’elogio di Gian Giacomo si riflette sul nipote e viceversa, istituendo alcune
corrispondenze: nella prima il Maresciallo viene detto «felice… e fortunato» mediante un verso
in cui le due apposizioni sono inserite in posizione enfatica e vanno a incorniciare nel mezzo
l’espressione «grando avo»; nell’ultima viene accostata la giovinezza del nipote con l’«ætà
matura» del nonno, desideroso di essere sostituito da un degno successore: le due quartine, che
avevano illustrato le proprietà pratiche e interiori del personaggio, vengono riepilogate, poiché è
giunto il momento in cui Gian Giacomo accolga un «altro Trivultio rinovato» uguale «in gesti e
in figura» (vv. 13-14). I temi finali – e gli schemi letterari e retorici dell’encomio e dello speculum
– si sovrappongono: se nella seconda quartina venivano fatte presenti a Gian Francesco le doti
del nonno, nelle terzine i termini di raffronto vengono invertiti, giacché è Gian Giacomo a
doversi compiacere per aver trovato un ottimo erede.
Il sonetto esaminato si collega a due capitoli della Misochea: nel X è presente il medesimo
espediente, in quanto vengono definiti felici i parenti del signore se seguiranno le sue «virtutis
vestigia clara» (c. B 4v, v. 26). Nel seguente, l’elogio della discendenza viene accompagnato da
un’esortazione rivolta ai famigliari del Trivulzio ad accettare la morte del Magno con
tranquillità, poiché Dio premierà il defunto con la vita eterna (c. B 7r, vv. 3-4): «gaudendum est
igitur fidei munimine namque / dantur post vitam gaudia certa bonam».34
Il settimo componimento rievoca l’ultima sciagurata spedizione del personaggio, secondo
quanto suggerisce il cappello introduttivo («Magno Trivultio dum esset apud regem in Britania
agitatusque magnis rebus laete viveret»): le maldicenze diffuse dal visconte di Lautrec riuscirono
a porre in discredito il Trivulzio presso la corte di Francesco I. Per recuperare il rapporto il
Maresciallo volle recarsi in fretta dal sovrano; però la lunga e debilitante traversata delle Alpi,
l’età avanzata e l’umiliazione subìta per le udienze ripetutamente negate contribuirono ad
aggravare lo stato di salute già malfermo del Trivulzio, che morirà a Chartres il 5 dicembre
33 Si prendano come esempio le rievocazioni del Notturno Napoletano (Exequie solenne e sontuosissime di lo
illustre e invitto signore Ioanni Iacomo da Triulci capitano generale di l’arte millitare, Milano, s.t., 1519, CNCE
71641), di Ludovico Ariosto (Orlando Furioso XIV, 9, 5-8), di Paolo Giovio (Elogia virorum bellica virtute
illustrium veris imaginibus supposita, Firenze, Torrentino, 1551, 202, CNCE 21175), oppure di Torquato
Tasso (Genealogia della Serenissima casa Gonzaga, LXXIII, 1-6 e LXXXI, 1-4).
34 Nella lettera pubblicata da Cesare Santi il Maresciallo è definito «corona et spechio de virtude non
solum de la sua caxa et patria, ma de tuta la Italia et de tuto il presente seculo» ( 242), mentre Bovolino,
prima di congedarsi dal corrispondente, raccomanda a Gian Francesco di non seguire gli insegnamenti
dei classici, poiché «tu hai inanti a li toi ochi, nel tuo proprio sangue, in la tua propria casa, imo tu sei solo
et unico erede de colui da cui piglia et po’ pigliar forma et esempio a ben vivere, a farsi virtuoso et grande
qualunque omo non solum de Milano, ma de tuta Italia» ( 246).
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1518.35 Il sonetto, quindi, si contraddistingue quale exemplum finale diretto a Gian Francesco
perché impari a riconoscere la fragilità della vita umana e l’irrazionalità della fortuna, i cui unici
rimedi vanno rintracciati nella religione cristiana.
Il testo mostra una certa cura formale, in quanto alle parole-rima delle quartine – tronche,
con le vocali toniche terminanti in o oppure u e per lo più monosillabiche («pò… virtù… più…
to… no… tu… su… so») – vengono accostate quelle delle terzine (polisillabiche, piane e con
vocali toniche i o a: «gradito… stato… attribuito… travagliato… reuscito… sublimato») e della
coda (bisillabiche, piane e con vocali toniche e o a: «dato… sei… lei»)36, mentre i numerosi
lessemi, impiegati sovente nelle terzine in sede explicitaria, portano il discorso a saturazione
tramite accumulazioni e figure etimologiche: «gradito… grado… gradito; travaglia…
travagliato; sublime… sublimato». Inoltre il ragionamento serrato delle terzine si differenzia
dall’andamento conciso e moraleggiante delle quartine, sino alla «continua e vittoriosa
ascensione» della coda37.
Nelle quartine Bovolino esorcizza il problema del destino, invitando la «Fortuna» a fare pure
«tuto quel che pò» contro la virtù del Trivulzio (vv. 1-2): il risultato non sarà di abbattere il
personaggio, anzi di fortificarne «el viver» sereno (v. 4). L’immagine della forza reattiva di Gian
Giacomo contro l’arbitrarietà della fortuna viene riassunta dal verso 5, che potrebbe tradurre la
locuzione frangar, non flectar, ed è specificata negli endecasillabi successivi: la fortuna non è mai
riuscita a vincere il Trivulzio, poiché il suo ingente «poter» non possiede la capacità di scalfirne
la «virtude» (v. 8). Queste affermazioni, di per sé piuttosto scontate, vengono elevate dal verso 7,
in cui la vigorosità della palma trasmette il messaggio cristiano della vittoria sulla morte.38
Le terzine rivelano un tono argomentativo più complesso; la prima è interamente dedicata a
un periodo ipotetico dell’irrealtà, funzionale a ribadire la dimensione quasi celeste del Trivulzio:
se la sua felicità fosse stata raggiunta senza «travaglia», allora il «sublime stato» sarebbe da
attribuire interamente al volere del caso (v. 9). La seconda terzina si apre con una avversativa in
sede incipitaria, che confuta l’ipotesi appena esposta (vv. 13-14): i traguardi raggiunti sono da
assegnare alla «virtù», perché il Maresciallo, nonostante fosse angustiato dalla sorte, è riuscito a
superare ogni avversità con «honor». Nella coda viene sciolto ogni dubbio intorno al reale peso
della fortuna: il «grado excelso» (v. 16), conquistato dopo anni di sofferenze, non è merito del
solo Trivulzio, che deve riconoscere nell’aiuto di Dio, e non nella sorte o nella semplice condotta
ammirevole, il motivo per cui ha trascorso una felice esistenza.
L’ultimo sonetto chiude la «girlandeta» secondo un processo che accosta Gian Giacomo a
Maria.39 Bovolino si avvale della figura della Vergine per costruire una similitudine con il
dedicatario, mentre il ragionamento viene sviluppato per mezzo di uno stile concettoso come
nelle terzine del componimento precedente.
35 C. ROSMINI, Dell’istoria…, 531-541 e AFT, codice 2077. L’episodio è trattato nell’ode XI di Renato
Trivulzio, dall’incipit Apollo ove mi meni (Canzoniere o Libro delle rime, Milano, Biblioteca Ambrosiana, V 24
sup). Sul poeta si veda S. ALBONICO, Il ruginoso stile: poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del
Cinquecento, Angeli, Milano, 1990.
36 Lo sperimentalismo dei sonetti non sembra anticipato nei distici elegiaci della Misochea; Bovolino,
infatti, se dimostra nella sezione latina «una assimilazione lenta dei classici… cerca di occultare, con
maggiore o minor successo, i suoi prestiti… [si sforza di] nobilitare il proprio dettato… illeggiadrisce il
testo con l’impiego di diminutivi anche non classici, secondo la moda apuleiana imperversante fra
Quattro e Cinquecento» (E. Fumagalli, Martino…., 222, 223 e 226), tuttavia non si serve di tecniche,
registri ed espedienti formali paragonabili a quelli della «girlandeta».
37 R. FASANI, Martino Bovollino: un poeta, «Quaderni Grigionitaliani», LXV, 1996, 300.
38 Vd. per es. Ps XCI, 13-16 («iustus ut palma florebit ut cedrus Libani multiplicabitur. Plantati in domo
Domini in atriis Dei nostri florebunt. Adhuc multiplicabuntur in senecta uberi et bene patientes erunt, ut
adnuntient quoniam rectus Dominus Deus noster et non est iniquitas in eo»).
39 Si tenga presente che la Cappella Trivulzio (quadriportico della Basilica di San Nazaro in Brolo a
Milano), voluta dal Magno e progettata da Bramantino, fu dedicata alla Madonna il 5 agosto del 1518.
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La stravagante interpretazione teologica del poeta si apre con una domanda, «chi me sa dire»,
conclusasi con la risposta diretta al verso 4 («io dico»). Il quesito, animato da una forte
inarcatura e dalla struttura chiastica (vv. 2-3), riguarda il legame tra la Vergine e i peccatori;
cioè Bovolino chiede se, nell’economia del disegno divino, sia più importante la presenza di
Maria o dei peccatori. La risposta sembra prevedere che siano i peccatori a determinare il ruolo
della Madonna e non viceversa.
Nelle terzine viene ribadito il giudizio, spostando l’attenzione sul Trivulzio: è vero che la
grazia distribuita da Maria agli uomini è maggiore di quanto mai i peccatori potranno
ricambiarle con le preghiere, nondimeno è certo che la Vergine rimanga «obligata» nei
confronti dell’umanità, in quanto il peccatore rappresenta la ragione «del suo ben» (vv. 10-11).
L’ardita considerazione viene spiegata dalla terzina conclusiva, in cui si scopre che il
macchinoso artificio è funzionale a omaggiare il Maresciallo, tanto che Maria assolve un ruolo
retorico di supporto:40 il Trivulzio, che viene invitato ad amare il motivo della propria
sofferenza, «causa» di perfezionamento, pare così innalzato a guisa di martire moderno e
paladino della cristianità (vv. 13-14).
Alla luce del testo conclusivo sembra che l’insieme dei componimenti formi un organismo
armonico e in sé concluso: il numero otto, come, già segnalato da Remo Fasani, simboleggia «la
resurrezione di Cristo dopo la settimana di passione, e qui potrebbe significare la virtù che deve
risorgere di avo in nipote».41 In effetti l’andamento del discorso suggerisce un percorso
ascensionale, reso unitario dalla presenza di rispondenze interne piuttosto scoperte: se i primi
due testi elogiano il Trivulzio, trasfigurato secondo temi biblici, e preannunciano il
sopraggiungere dell’Apocalisse, dal terzo al quinto sonetto l’attenzione si sofferma sul
personaggio nella sua dimensione terrena; infine lo scrittore, concludendo con la singolare
preghiera alla Vergine, che recupera e porta a compimento le tesi escatologiche iniziali, invita
Gian Francesco a comportarsi quale degno erede.
Ma quest’ultimo, che dimostra di ricordarsi vagamente dell’opera,42 sembrerà non aver
appreso nulla dalla Misochea, se è vero che la confisca dei beni per aver tentato di avvelenare
Francesco Maria II Sforza (1522), le reiterate condanne a morte ricevute (1534 e 1550), il
soggiorno coatto a Lione e ad Avignone, la demolizione del castello di Mesocco imposta dalle
Tre Leghe (1526), la dissipazione del patrimonio ereditato e il pessimo governo sulla Mesolcina,
persa definitivamente nel 1549,43 non furono episodi degni della memoria del «grando avo».
Notiamo che il massimo sforzo celebrativo ha chiamato in causa la figura della Madonna, che, all’inizio
del capitolo I della Misochea, era invocata dal poeta insieme a Gesù, al posto delle Muse e delle divinità
pagane consuete (c. A 1v, vv. 10-16).
41 R. FASANI, Martino…, 294.
42 In AFT, codice 2076, c. 1 troviamo appuntato il seguente pro memoria: «guardare el libro Bovolino che
ho me, che dice S.re mio avo, in Avignone».
43 Risulta commovente il tenativo di Giovan Giorgio Albriono, notaio di Asti nonché governatore del
feudo di Mesocco, di dissuadere Gian Francesco dal cedere il possedimento (AFT, Feudi, cart. 14, fasc.
1537-1545): «lo Ill.mo S.r Io. Iacomo diceva: “Vigevano, Cassino e le altre terre del milanese sono nostre,
però Musoco è mio”. E diceva el vero, perché quelle terre del milanese sono date in preda e ruina e a saco
e angarizati, ora da soldati e officiali imperiali, ora da franzesi, ora da duchesi o da altri S.ri armati. […]
Nel contato de Musoco non accade fare tanti restori, però sempre ne ha goduto o poco o assai».
40
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GIUSEPPE ALONZO
«Porporeggiando la Trivulzia Aurora».
Versi encomiastici per il cardinalato di Gian Giacomo Teodoro Trivulzio
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza,
18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi,
Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 9788890790546
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=581
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I cantieri dell’Italianistica
GIUSEPPE ALONZO
«Porporeggiando la Trivulzia Aurora».
Versi encomiastici per il cardinalato di Gian Giacomo Teodoro Trivulzio
Capitano ‘spagnolo’, principe imperiale, cardinale e politico, Gian Giacomo Teodoro Trivulzio (1597-1656) raccolse
l’eredità dei grandi maggiorenti cinquecenteschi del casato e lo riportò al centro della vita sociale, civile e intellettuale milanese e
non solo. Fra gli strumenti di questa ascesa si deve anche annoverare il generoso mecenatismo, ricambiato da una messe innumerevole di versi in lode del personaggio, incentrati in particolare sul suo cardinalato ma a tal punto duraturi e capillari da
istituire, tra Milano e Roma, una vera e propria topica encomiastica, in diretto dialogo con le pratiche del barocco letterario.
Costituisce operazione certamente lecita parlare di crisi dell’encomiastica trivulziana nella seconda metà del Cinquecento. Il tramonto della grande stagione umanistico-rinascimentale dei
Gian Giacomo e dei Teodoro, ma anche dei segnalati cardinali espressi dal casato in quegli stessi anni, unito al netto declino comportato dall’inettitudine degli eredi e dalla frammentazione
del patrimonio familiare, provocò infatti il disfacimento di quel fertile mecenatismo che l’epoca
precedente aveva incarnato.1 Le vicende letterarie di personalità come Renato Trivulzio, nipote
del Magno e distinto interprete del bembismo settentrionale, morto nel 1543,2 e Luca Contile,
attivo nel circolo del cardinale Agostino Trivulzio e poi morto a Pavia nel 1574,3 possono dirsi
gli ultimi apici qualitativi e quantitativi di quel fermento poetico sorto intorno al casato sin dai
primi anni di Gian Giacomo, capace di riscuotere persino il plauso dell’Ariosto del Furioso, che
lo elogiò come «buon Traulcio veglio» (XIV, 9, 5), insieme a Renato (XXXVII, 12, 7) e alla letterata Domitilla (XLVI, 4, 4).
Il rinfocolamento della letteratura trivulziana richiedeva pertanto il risollevamento delle sorti
del casato intero, condizione che si lasciò attendere almeno fino agli anni estremi del Cinquecento, con l’ascesa alle glorie militari di Carlo Emanuele Teodoro, discendente alla lontana dei
Marescialli di Francia ed eccelso capitano di Spagna morto eroicamente nelle Fiandre nel 1605.
Protagonista del consolidamento delle possessioni trivulziane nel Codognese e nel Melzese, Carlo Emanuele aveva gettato le basi per la formazione, in questi ambienti feudali e palatini al tempo stesso, di circoli culturali di discreto livello, strettamente legati al casato patrocinante e fortemente connotati in senso municipale. L’attivazione, a Codogno, dell’Accademia dei Novelli, ed
ivi la collaborazione diretta con la bottega tipografica dei Bazachi, piacentini d’origine, costituì il
germe per la rinascita dell’encomiastica di famiglia, e simultaneamente di una serie di pubblicaDesidero esprimere il mio ringraziamento alla Fondazione Trivulzio di Milano, nelle persone del
presidente, Gian Giacomo Attolico Trivulzio, e del direttore, Marino Viganò, per aver concesso il
patrocinio a questa sessione trivulziana del Congresso Nazionale dell’AdI e per aver fornito alla
consultazione materiali essenziali per la realizzazione di questa relazione. Estendo questo medesimo
ringraziamento al dott. Alessandro Brivio Sforza, per la nascente Fondazione Brivio Sforza di Milano. Le
coordinate essenziali sul casato secentesco, sul contesto e su opere e autori citati, qui in necessaria sintesi,
sono più ampiamente rinvenibili in G. SIGNOROTTO, Milano spagnola. Guerra, istituzioni, uomini di governo,
Milano, Sansoni, 20012; E. ROVEDA, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura della ‘Bassa lombarda’ tra XV e
XVII secolo, Milano, Angeli, 2012; A. SQUIZZATO, Il principe cardinale Gian Giacomo Teodoro Trivulzio mecenate e
collezionista (1597-1656). Dinamiche di circolazione artistica nella Milano spagnola, Milano, Università Cattolica
del Sacro Cuore, 2008, ora, con riduzioni nella parte storico-biografica e con il titolo I Trivulzio e le arti.
Vicende seicentesche, Milano, Scalpendi, 2013; G. ALONZO, Introduzione, in C. TRIVULZIO, Poesie, Bologna, I
libri di Emil, 2014, 9-233; richiamo infine, naturalmente, le relazioni di Alessandra Rozzoni e Matteo
Bosisio qui pubblicate e provenienti dalla medesima sessione trivulziana del Congresso.
2 Su Renato Trivulzio si legga S. ALBONICO, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà
del Cinquecento, Milano, Angeli, 1990, 13-180.
3 A. QUONDAM, Le rime cristiane di Luca Contile, Roma, Palombi, 1974; A. SALZA, Luca Contile. Uomo di lettere
e di negozi del secolo XVII [1903], a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2007; Luca Contile da Cetona
all’Europa, Atti del seminario di studi di Cetona (20-21 ottobre 2007), a cura di R. Gigliucci, Roma,
Vecchiarelli, 2009.
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zioni sicuramente finanziate – come attestano le prevedibili dedicatorie – dai maggiorenti Trivulzio.
Le crescenti disponibilità economiche dei Trivulzio tardocinquecenteschi e primosecenteschi,
figlie della sempre più stretta compromissione politico-finanziaria con un’amministrazione spagnola pur in perpetua crisi di liquidità, consentirono dunque ai notabili dell’epoca di riprendere
le fila del mecenatismo cinquecentesco, imitandone, talora con vistose velleità emulative, la floridezza e la liberalità. Al netto di alcune apparizioni pur interessantissime ma strettamente municipali – un sonetto di Lomazzo, nei Grotteschi, per le nozze tra Carlo Trivulzio e Isabella Londonio, genitori del poeta Claudio4 – fu la morte eroica di Carlo Emanuele ad ispirare alle penne
dei Novelli la realizzazione, per le cure dell’Avveduto Cesare Berinzaghi, di un folto volume
poetico epicedico-celebrativo, dal titolo Auree Spiche raccolte da Academici Novelli, in morte
dell’Illustrissimo Conte Teodoro Trivultio, stampato a Lodi per Paolo Bertoetti nel 1608.5 Richiamandosi esplicitamente ad uno degli emblemi del casato – quel fascio di sette spighe che sarebbe
tornato nel 1636 nel frontespizio di alcuni esemplari delle Preghiere d’Italia di Claudio Trivulzio –
le Spiche mettono in pratica un’operazione encomiastica affatto significativa, che ne spiega altresì
il ritardo rispetto all’evento generatore: oggetto dell’encomio, infatti, non è tanto il defunto Carlo Emanuele, appartenente ad un passato sì paradigmatico ma superato, bensì il figlio, Gian
Giacomo Teodoro, allora poco più che infante – era nato nel 1597 dall’unione del padre con
Caterina Gonzaga di Castel Goffredo – ma già in grado, pur iperbolicamente, di convogliare su
di sé gli auspici delle future sorti della dinastia.
Il messaggio propagandistico, prima che encomiastico, prevedeva naturalmente di assecondare le esigenze della committenza – fu certamente finanziatrice Ottavia Marliani, madre di
Carlo Emanuele e domina delle economie familiari fino alla propria morte – ma anche d’istituire
un forte legame di continuità fra l’exemplum cinquecentesco del Magno (occasionalmente accostato a quello, meno mitopoietico, di Teodoro Maresciallo di Francia) e gli auspici incarnati dal
giovane Gian Giacomo Teodoro, che non a caso dell’uno e dell’altro avo aveva raccolto i nomi.
Si tratta di un’istanza genealogico-pubblicitaria che l’encomiastica trivulziana avrebbe recuperato quasi ossessivamente, proponendo l’accostamento fra il Magno e Gian Giacomo Teodoro,
ora nelle palestre militari e poi insigne cardinale e politico, anche in veste iconografica, come
dimostra un’incisione di Isidoro Bianchi, Trionfo del Magno Giangiacomo, databile al 1630 e rappresentante l’ideale consegna di onori dall’uno all’altro maggiorente.
Le Spiche riservano spazio molto ampio ad Alessandro Dragoni, il Ringiovinito, che vi pubblica una grande canzone per Carlo Emanuele ed una impegnativa sestina In persona dell’Illustriss.
Conte Teodoro figlio. Nella prima l’eroe viene definito «campion di triplicata fronte», mentre nella
seconda s’insiste sull’accostamento ‘Carlo Emanuele-Sole’: espedienti eroici alquanto prevedibili, che tuttavia istituiscono alcune delle costanti più frequenti nell’encomiastica trivulziana, cioè
il lusus sull’impresistica familiare e il ricorso a meccanismi d’identificazione genealogica. Allo
stesso grado di iteratività si devono ascrivere l’iconografia arborea di casa Trivulzio, occorrente
nella canzone di Dragoni («Pianta Trivulzia in te, Teodoro, | scopra avivato il suo bel ramo
d’oro»), nonché, di nuovo, l’accostamento ad entità solari o aurorali, tant’è che il sintagma
«Trivulzia Aurora», usato da Claudio Trivulzio nelle Imprese del Marchese di Leganés nel 1639 con
riferimento a Gian Giacomo Teodoro, trova radici in un sonetto sempre di Dragoni, in cui il
tramonto del «Sol Trivulzio» viene superato dal «sorgente Teodor», cioè Gian Giacomo Teodoro, che regala nuove speranze di gloria.
D’altronde le Spiche comprendono anche un poemetto in sestine di Agostino Barattieri, allora
precettore di Gian Giacomo Teodoro, mentre un sonetto di Giuseppe Martinenghi ne richiama
il titolo di capitano spagnolo ottenuto in età puerile, ed una canzone di Paolo Martinenghi gli
G.P. LOMAZZO, Rime ad imitazione de i grotteschi, III, 34, a cura di A. Ruffino, Roma, Vecchiarelli, 2006
[In Milano, per Paolo Gottardo Pontio, l’anno 1587], 190.
5 Auree Spiche raccolte da’ Academici Novelli, In morte dell’Ill.mo Conte Teodoro Trivultio. Per Cesare Berinzaghi Dottor di
Sacra Theologia, Protonotario Apostolico, & Rettore della Chiesa Parochiale di Codogno, In Lodi, Appresso Paolo
Bertoetti, MDCVIII.
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auspica una fulgida carriera militare, riservando gli onori ecclesiastici al fratello cadetto, poi
morto infante. La silloge si conclude con un’orazione di Giovan Battista Belloni, in cui l’elogio
di Carlo Emanuele è di stretta natura genealogica (si chiamano in causa il Magno e il Teodoro
Maresciallo di Francia), e confluisce negli stessi auspici riservati al giovane Teodoro, «similissimo figlio, […] giovinetto reale di buonissima indole e di molta espettazione». I Belloni, del resto,
erano tra i più segnalati fittavoli dei Trivulzio nel Codognese: infatti un Giuseppe, certamente
stretto familiare di questo Giovan Battista e a sua volta Accademico Novello, aveva pubblicato
nel 1603 alcuni Carmina latini, oggi rari, usciti dalla stamperia arcivescovile milanese di Ponzio e
Piccaglia, e comprendenti due epigrammi per Carlo Emanuele Teodoro ed uno per il citato
precettore di Gian Giacomo Teodoro, Agostino Barattieri. Gli espedienti elogiativi praticati nei
primi due casi sono emblematici del nuovo corso dell’encomiastica trivulziana.6 Nell’epigramma
Ad Sanctissimam Trinitatem. Pro Illustriss. D. Com. Theodoro Trivultio. Preces, la rappresentazione della
Trinità trova correlativo simbolico nell’impresa di famiglia recante il capo con tre volti umani,
paretimologicamente collegata al nome stesso del casato, che ne riesce pertanto celebrato per la
devota adesione alla militia Christi. Nell’epigramma seguente, invece, l’esaltazione dei Trivulzio si
sposta significativamente sul piano del mecenatismo, tanto che a tessere le lodi del casato sono
Pallade e le Muse in reciproco dialogo. Un altro Belloni, Carlo, era invece Accademico Affidato
di Pavia – massimo centro propulsivo della sperimentazione letteraria barocca in Lombardia, in
diretto collegamento con l’establishment spagnolo – ed una pubblicazione per laurea da lui curata
nel 1633,7 con avantesto di epigrammi ed epigrafi anche in volgare, testimonia dei non labili
rapporti fra il principe-cardinale e il notevole consesso ticinese.
Il filone encomiastico inaugurato dalle Auree Spiche può dirsi concluso con la pubblicazione
delle Rime di Alessandro Dragoni, avvenuta nel 1611 a Milano per Giacomo degli Antoni e Graziadio Ferioli. La cornice paratestuale delle Rime è interamente giocata nel segno dei Trivulzio:
dedicata a Caterina Gonzaga, madre di Gian Giacomo Teodoro, la silloge si apre con undici
sonetti di Accademici Novelli, dei quali compaiono in calce al volume cinque testi tra canzoni e
canzonette, due sonetti ed un componimento latino di Giuseppe Belloni. Se già questo materiale
– in cui le lodi di Dragoni s’intrecciano con gli elogi dell’accademia e dei casati che la foraggiavano, dai Trivulzio ai Cybo agli Sfondrati – fornisce coordinate fondamentali sui Novelli, anche
il vivo della silloge costituisce un insostituibile documento di storia dell’encomiastica trivulziana.
Oggetto principale degli elogi di Dragoni è Carlo Emanuele Teodoro, cui sono dedicati, in vita
e in morte, svariati sonetti, una canzonetta morale in quartine ed una canzone, allineati sui modi della canzone e della sestina già edite nelle Auree Spiche, che sono peraltro qui ripubblicate.
Sonetti encomiastici sono riservati ad Ottavia Marliani, Caterina Gonzaga e Ippolita Trivulzio,
figlia di Carlo Emanuele e sorella minore di Gian Giacomo Teodoro, accasata nel 1616 ad
Onorato Grimaldi di Monaco.
6 G. BELLONI, Josephi Belloni Clerici Laudensis et Academici Novelli, Carmina, Illustri, et M. Reverendo Sacrae
Theologiae Doctori D. Caesari Berinzago dicata, Mediolani, Apud haer. q. Pacifici Pontij, & Io. Baptistam
Picaleum Typographos Archiepiscopales, M.DC.III., 6-7.
7 Applausi poetici d’alcuni signori Academici Affidati di Pavia per gli dottorati di filosofia, et legi del Molto Illust. Sig. Gio.
Battista Goldoni cremonese Academico Affidato raccolti dal Dottore Carlo Belloni Acad. Affid. dedicati all’Eminentissimo, et
Reverendissimo Sig. Cardinale Triultio, In Pavia, Appresso Gio. Andrea Magri, 1633. Sugli Affidati e sulla
sperimentazione letteraria negli ambienti pavesi primosecenteschi, frequentati e influenzati da personalità
del livello di Girolamo Preti, si vedano almeno C. REPOSSI, L’archivio dell’Accademia degli Affidati nella
Biblioteca universitaria di Pavia: le rime, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», LXXIX (1979), 134189, e P. BERGONZI, La nascita di una accademia del secondo Cinquecento: gli Affidati di Pavia, «Quaderni
milanesi», V (1983), 88-110. Più nello specifico U. MOTTA, Petrarca a Milano al principio del Seicento, in
Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2004, 227-273; R. FERRO,
Ritrovamenti per la biografia di Girolamo Preti, in Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, a cura di E.
Bellini, M. Girardi, U. Motta, Milano, Vita e pensiero, 2010, 417-441; EAD., Antichi e moderni in Lombardia:
Girolamo Borsieri poeta barocco, in Libertinismo erudito. Cultura lombarda tra Cinque e Seicento, a cura di A. Spiriti,
Milano, Angeli, 2011, 97-125.
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Nato nel 1597 ed allevato in seno al casato materno, i Gonzaga, a raffinati studi letterari,
Gian Giacomo Teodoro fu inizialmente destinato alla carriera militare. Alla luce dei successi del
padre e del netto avvicinamento del casato a Madrid, cominciò giovanissimo ad acquisire titoli
militari e cavalierati di spessore, ma soprattutto a riguadagnare quel vastissimo patrimonio di
titoli e fondi che la famiglia aveva disperso o frammentato dopo le vicende cinquecentesche.
Sposò nel 1615 Giovanna Grimaldi di Monaco, figlia di Ercole I, che gli diede il figlio Ercole
Teodoro e, con esso, gli consentì di riacquisire il feudo storico della Val Mesolcina e poi il titolo
di principe imperiale. Alla prematura scomparsa della moglie, nel 1620, cominciò a nutrire ambizioni ecclesiastiche, concretate in un viaggio a Roma intrapreso nel 1625 e culminato, dopo
l’acquisto di alcune prime cariche clericali minori, con il cardinalato nel 1629. L’opposizione di
Urbano VIII, pontefice filofrancese refrattario alla creazione di cardinali ‘spagnoli’ come Trivulzio, non impedì a Gian Giacomo neppure la realizzazione, intorno a sé, di un raffinato circolo segretariale e intellettuale, in stretto rapporto con gli ambienti degli Umoristi e dei Lincei.8
Restano d’altronde, nei libri mastri secenteschi dei Trivulzio, le testimonianze dei frequenti versamenti che Teodoro erogò in favore di stampatori lombardi come i Bazachi e Giovan Battista
Bidelli, segno di un orientamento mecenatesco che poteva ben far rimemorare i lustri del secolo
precedente; e non va omesso che proprio Trivulzio contribuì a una delle prime edizioni dei
Poëmata di Maffeo Barberini, cioè quella codognese del 1628, sovvenzionando a tal fine Alessandro e Giovan Francesco Bazachi, ed allegandovi l’auspicio dei Novelli, che dedicavano la stampa ad Ercole Teodoro, affinché Maffeo diventasse loro principe. Rientrò a Milano nel 1630 e,
accolto dalle sonanti feste degli organismi pubblici dello Stato, avviò parallelamente un’onorata
carriera politico-militare, che lo portò non solo ad acquisire incarichi amministrativi di altissimo
livello (Grande di Spagna e viceré d’Aragona nel 1642, presidente del Regno di Sicilia nel 1647,
viceré di Sardegna nel 1649, e persino Governatore del Ducato di Milano dal dicembre 1655),
ma anche a prender parte a momenti miliari delle guerre d’Italia, come l’invasione del Piacentino nel 1637 e l’assedio di Vercelli nel 1638. Morì nel 1656, e i funerali si svolsero nella chiesa
milanese di Santo Stefano, dove tuttora è presente il suo sepolcro, che era prospiciente all’allora
palazzo di famiglia in contrada della Signora.
Dopo le Auree Spiche, dunque, non deve sorprendere come l’encomiastica trivulziana secentesca s’incentrasse esclusivamente sulla figura di Gian Giacomo Teodoro, adeguandosi al gusto
estetico cui l’amministrazione spagnola pareva più incline – un barocco moraleggiante e solenne
dal concettismo tuttavia non troppo enfatico – e tendendo costantemente, sovente attraverso il
ricorso al lusus impresistico e a topoi come il puer senex, a tessere il collegamento fra i mirabilia del
maggiorente presente e quelli dei capitani e chierici del passato. Tolte le eccezioni di una Corona
funerea del già citato Novello Giuseppe Belloni per la morte dell’ava Ottavia Marliani, edita a
Codogno per i Bazachi nel 1625 – edizione rarissima, che insieme ad altre che si citeranno si
rinviene esclusivamente in una preziosa miscellanea conservata nella Biblioteca della famiglia
Brivio Sforza, di recente aperta alla consultazione9 – e di un centone virgiliano di un altro Novello, Francesco Ferrari, dedicato a Gian Giacomo e composto per la stessa occasione funebre,10
l’encomiastica di casa Trivulzio riprende nerbo vitale con l’inizio della carriera ecclesiastica di
Gian Giacomo Teodoro.
I prodromi di questo cursus honorum vennero salutati nel 1626 dal poeta latino milanese Agostino Terzaghi, autore della più nota Maphaeis, carme panegirico per Urbano VIII pubblicato in
8 B. TAVERNA, Clio. Canzone di Brvnoro Taverna. Nella Promotione del Sig. Prencipe Theodoro Trivvutio al
Cardinalato, In Roma, Appresso Guglielmo Facciotti, MDCXXX. Si vedano G. ALONZO, Due planctus urbis
secenteschi a Milano: l’«Oda per le passate calamità» di Brunoro Taverna e il «Navilio Grande inaridito da’ francesi» di
Carlo Torre, «Studi e problemi di critica testuale», LXXXVII (2013), 2, 123-157; ID., Un letterato milanese a
Roma: Brunoro Taverna fra Spagnoli e Borromei, Umoristi e Lincei, i.c.s..
9 Biblioteca della Fondazione Brivio Sforza di Milano, «Miscellanea Trivultia IV».
10 F. FERRARI, Ad Illustrissimum, et Reverendissimum Theodorum Trivultium Principem etc. De Obitu Ill.mæ Com.
Octaviæ Marlianæ Trivultiæ eius Aviæ. Francisci Ferrarij Cotoniensis I.C. Oraculum Numericum ex Virgilio, Cotonei,
Apud Alexandrum, & Io. Fil. de Bazachijs, MDCXXVI. In foglio volante incorniciato, il componimento è
conservato presso la Biblioteca Laudense di Lodi [ms. XXI A 52].
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città per Giacomo Como nel 1624. Due anni dopo, come accennato, Terzaghi pubblicò un
carme in onore dell’acquisizione da parte di Gian Giacomo Teodoro del primo protonotariato
apostolico:11 qui, nell’ambito dell’auspicio per la pacificazione dell’Europa, l’elogio di Trivulzio
si dipana lungo il codice della celebrazione genealogica e della rivalità tra Roma e Milano, in un
certo senso risolta dall’osmosi fra le due città ‘sollecitata’ dal cardinalato del nostro (si parla, ad
esempio, di «Insubri Quirites»). La celebrazione dei primordi del Teodoro ecclesiastico si rinviene però soprattutto nelle Rime dello scrittore e parente Claudio Trivulzio, pubblicate nel 1625
da Bidelli e dedicate, appunto, al maggiorente del casato. Nella dedica, il poeta – appartenente
ad un ramo minore della famiglia, allora in cerca di legami più stretti e vantaggiosi con il filone
principesco incarnato da Teodoro – augura all’illustre familiare «il viaggio di Roma felicissimo»,
e fra le carte avantestuali gli tributa un madrigale in cui vi fa stereotipicamente convogliare le
virtù di «Minerva con Marte», ereditate tanto dal padre, Carlo Emanuele, quanto dagli aviti
cardinali cinquecenteschi.12
Come si è detto, a Roma Trivulzio lasciò più di un segno negli ambienti intellettuali ed accademici, circondandosi di personalità particolarmente attive ed intrinseche ai circoli letterari di
più alto spessore. Non deve quindi stupire se le prime e più segnalate poesie in elogio del suo
cardinalato emergessero appunto da tale contesto e con singolare estemporaneità. Spiccano tre
componimenti inclusi nelle Tre Gratie di Antonio Bruni, pubblicate com’è noto sotto il diretto
privilegio papale e Umorista nel 1630, presso Guglielmo Facciotti. Alla radice del sonetto «Nella
promotione al Cardinalato del Sig. Principe Theodoro Trivultio»13 appaiono chiaramente alcune costanti di tale encomiastica, come il riferimento alla pluralità delle virtù dell’elogiato e
l’insistenza sulla loro specifica triplicità – ingegno intellettuale, virtù militare, onore ecclesiastico
– impresisticamente collegata alla triplicità dello stemma di famiglia, raffigurante un capo con
tre volti umani. Anche gli altri due componimenti bruniani ispirano alcune direttrici
dell’encomiastica trivulziana secentesca. Il primo, il madrigale «Per un Ritratto del Magno Gio.
Giacomo Trivultio, ch’è appresso il Sig. Brunoro Taverna, Mastro di Camera del Sig. Card.
Theodoro Trivultio»,14 è imperniato sul topos genealogico dell’emulazione di Gian Giacomo
Teodoro rispetto al Magno, mentre il terzo, il madrigale «Al Sig. Principe D. Hercole Theodoro
Trivultio»,15 definisce il motivo dell’elogio dell’erede del cardinale, illuminato naturalmente dalla luce riflessa delle virtù paterne.
Allo stesso circolo di Bruni va ascritto il citato Brunoro Taverna, segretario di Gian Giacomo
Teodoro negli anni romani, noto soprattutto per un’epistola ad Agostino Mascardi contenente
le Oppositioni mosse alla Congiura del conte de’ Fieschi e autore di vari componimenti encomiastici e,
più di rado, d’invenzione. Tra questi, una Clio, canzone encomiastica per la creazione di Trivulzio a cardinale, stampata a Roma presso Facciotti nel 1630. Dedicata all’allora decenne Ercole
Teodoro, l’ode fornisce del cardinale un elogio genealogico incentrato sulle sue doti militari di
capitano spagnolo. All’elogio di Trivulzio fa seguito quello di Barberini, che «fra’ suoi Primi
l’elegge», segno di quanto Taverna – così come del resto l’intero circolo romano – mirasse a
rappresentare la creazione del cardinale, con deformazione ideologica, come pacificamente accettata dalla curia. L’ode taverniana va posta in dialogo con un’altra, omologa, del letterato milanese trapiantato a Genova Carlo Giuseppe Orrigoni, ivi pubblicata da Giuseppe Pavoni nel
11 A. TERZAGHI, Theodoro Trivvltio I.V.D. S. Apostolicæ Cameræ Clerico, Protonotario ex Participantibvs in Romana
Cvria, Comiti, Eqviti S. Iacobi a spata, Principi Sacri Romani Imperii Misocchi, et Vallis Misolcinæ, in Ivrisprvdentvm
Mediolanensivm Collegivm ascito. Carmen Augustini Terzagi S.T.D. Protonotarij Apostolici, Canonici S. Thomæ Mediolani,
Mediolani, Apud hæredes Pacifici Pontij, & Io. Baptistam Piccaleum, Impressores Archiepiscopales,
M.DC.XXVI.
12 TRIVULZIO, Poesie, 237-242.
13 A. BRUNI, Le tre Gratie, rime del Bruni. Con Privilegio del Sommo Pontefice, e licenza de’ Superiori, In Roma, Ad
istanza di Ottavio Ingrillani, Libraro alla Luna, [In Roma, Appresso Guglielmo Facciotti, 1630], 361.
14 Ivi, 360.
15 Ivi, 361.
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1630 e dedicata ad Ippolita sorella del porporato.16 L’ode di Orrigoni si apre non casualmente
con un’accorata invocazione a Clio e procede a sua volta con il forzato elogio di Barberini quale
sostenitore di Trivulzio («ah non fia mai stupore | a sì illustre valore, | se appoggiò il Santo Urbano»). Nell’avantesto della Clio di Taverna, inoltre, appare un sonetto di Pier Francesco Paoli
(«Esorta il Sig. Brunoro Taverna a stampare la Canzone composta da lui per la promotione del
Sig. Cardinal Trivultio»), intellettuale Umorista tra i più segnalati, partecipante anche
all’avantesto delle Tre Gratie di Bruni e, come tutti, ammiratore delle posizioni sperimentatrici a
suo tempo incarnate da Marino: quel barocco letterario che, ormai ripudiato dagli ambienti
barberiniani di più stretta osservanza, pareva trovare nel circolo dello ‘spagnolo’ Trivulzio un
linfa residua.
A Milano, il cardinalato di Gian Giacomo Teodoro non mancò di suscitare reazioni poetiche, pur solo in funzione delle più generali festività organizzate in città per il rientro del porporato, e non tanto ad esclusiva testimonianza dell’esistenza di un circolo intellettuale animato al
suo servizio. In Lombardia, del resto, il cardinalato di Teodoro era inteso come un evento prevalentemente politico, una vittoria degli spagnoli in una Roma sempre più ‘francese’, e se mai il
prodromo per il rafforzamento del rapporto di fiducia con i Trivulzio, destinati ad incarnare,
con il principe-cardinale, buona parte del potere amministrativo e militare dello Stato fino alla
metà del secolo. Dei festeggiamenti, che si tennero il 17 e il 18 febbraio 1630 presso il Palazzo
dei Giureconsulti e alla presenza del Senato, rimangono una relazione dettagliata, redatta da
Niccolò Maioli sotto il titolo di Allegrezze fatte dall’Illustrissimo Collegio de i Signori Giudici di Milano per
la promotione dell’Illustriss.mo et Reveren.mo Signor Cardinale Trivulzio suo collega, e l’orazione encomiastica
tenuta per l’occasione dal Collegiato Carlo Moneta, entrambe date alle stampe per i tipi camerali di Carl’Antonio Malatesta contestualmente all’evento. In esergo all’orazione di Carlo Moneta si rinviene un sonetto di Claudio Trivulzio:17 benché l’oggetto dell’elogio sia piuttosto
l’oratore che il cardinale, anche in questo caso traspare l’intento di rappresentare quest’ultimo
come deus ex machina della civiltà politico-amministrativa milanese contemporanea, in grado di
convogliare su di sé le speranze di Astrea, cioè della giustizia, di riportare in auge i destini della
Milano antica, rappresentati dalle gesta di «Eroi già spenti» incarnati dai Trivulzio del passato.
Durante le festività per il cardinalato, del resto, gli organizzatori si erano premurati di adornare il salone dei Giureconsulti con i ritratti dei maggiorenti cinquecenteschi del casato, rappresentando chiaramente Gian Giacomo Teodoro come loro più che degno erede. Analogo meccanismo iconografico-encomiastico venne impiegato nel 1632 per la visita di Gian Giacomo
Teodoro al Collegio Braidense, istituzione gesuitica vicina agli ambienti spagnoli – ben più invisi, com’è invece noto, alla curia borromaica – a sua volta ricordata in una superstite relazione di
Francesco Taverna, fratello di Brunoro.18 La stessa biografia ufficiale del cardinale, redatta da
Alessandro Porri in occasione della sua morte, allude fin dal titolo, Il Massimo Trivulzio, al collegamento con il Magno, ed in più si apre con una dichiarazione definitiva in tal senso, in cui è
chiamato in causa anche il Teodoro Maresciallo di Francia:
Concorsero alla generazione, e nascimento di questo Principe coi loro più spiritosi, e più
virtuosi influssi gli astri, e le stelle, e similmente la terra coi nobilissimi, e chiarissimi sangui
di due Personaggi delle più Illustri e più principali familie d’Italia: dico di un altro Teodoro
16 C.G. ORRIGONI, Oda di Carlo Gioseppe Orrigoni, nella promozione al cardinalato del Principe Teodoro Triulzio, [In
Genova, Per Gioseppe Pavoni, MDCXXX]; si veda G. ALONZO, Il ‘trasformismo’ di un poeta istituzionale nel
‘decennio della svolta’: Carlo Giuseppe Orrigoni da Milano a Genova (1627-1644), in «Maraviglia del mondo».
Letteratura barocca tra Liguria e Piemonte, Atti dell’VIII Convegno ligure-piemontese ‘Il varco è qui?’ (Carcare,
25 maggio 2013), a cura di G. Balbis, 157-180.
17 C. MONETA, Caroli Monetæ Philosophi et Ivrisconsvlti Oratio, ab eodem habita in aula magna Collegij Mediolani,
alumno suo Principi Theodoro Trivultio, sacram purpuram est gratulatus, Mediolani, Ex Typographia Caroli
Antonij Malatestæ, MDCXXX, A1v.
18 [F. TAVERNA], Descrittione dell’apparato, e ricevimento fatto nel Collegio di Brera all’Eminentissimo Sig. Cardinale
Teodoro Trivultio Il dì 26. Gennaro 1632. Dedicata All’Illust.mo & Eccell.mo Signor Principe D. Ercole Trivultio, In
Milano, Per Filippo Ghisolfi, 1632.
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Trivulzio, vero rampollo, e successore, come delle copiose ricchezze,
dell’impareggiabile militar valore del primo Teodoro, e del Magno Trivulzio.19
così
La poesia, come si è più volte riscontrato, si adeguò pertanto a questa direttrice encomiastica,
non mancando, a numerose riprese, di ricordare la figura del Magno Trivulzio: è il caso, dopo
Bruni, di Girolamo Borsieri – intellettuale comasco vicino tanto agli ambienti borromaici quanto ai circoli spagnoli, noto soprattutto per il Supplimento alla Nobiltà di Milano di Paolo Morigia –
che lasciò manoscritto un madrigale dedicato, appunto, al grande condottiero rinascimentale.20
Ma non si può a proposito omettere il richiamo ad una nota canzone del primo Chiabrera,
pubblicata già nelle Canzoni del 1586 e intitolata ad alcune delle più significative imprese del
Magno: «Per Giovangiacopo Trivulzio. Fu col Re di Francia nella battaglia di Ghiaradadda; in
quella del Taro; condusse l’essercito per nova strada fra l’Alpi».21
Dei filoni encomiastici prefigurati da Bruni, anche quello in onore di Ercole Teodoro si rivela
particolarmente prolifico. Tolta la nota dedica di Agostino Mascardi della Congiura del Conte de’
Fieschi nel 1629, occorsa allorché Ercole aveva solo nove anni e ricca di implicazioni storiche e in
senso lato apologetiche,22 al figlio del cardinale risultano dedicate, con versi omologhi, la seconda e la terza raccolta di Claudio Trivulzio. Già Cavaliere dell’Ordine del Tosone e formalmente
insignito di cariche militari, l’adolescente Ercole è infatti il dedicatario delle Preghiere d’Italia, uscite dai tipi di Bidelli nel 1636. Scontati, nella prosa e nel madrigale d’avantesto riservati al personaggio,23 i motivi genealogici legati ai lustri dei genitori, così come prevedibili appaiono i riferimenti al nomen omen incarnato dal giovane rampollo. La dedica interessa forse di più, allora, per
il suo stridore con l’altro referente della silloge, quel ‘francese’ Urbano VIII cui l’Italia si finge
inoltrare le proprie lamentazioni implorando la pace universale. Analogamente, più che la dimensione encomiastica, interessa delle vicende del casato l’allusione, nella canzone «Per una miracolosa imagine di S. Girolamo», all’antica residenza di famiglia in via Rugabella e, poi, al palazzo trivulziano di Locate di Triulzi ed ivi al santuario di Santa Maria ad fontem, protetto dal casato e sede di frequenti villeggiature.
Come anticipato, Ercole è anche il dedicatario della terza silloge di Claudio Trivulzio, quella
cioè dei poemetti eroici in sestine raccolti sotto il titolo di Imprese fatte ultimamente in Italia
dall’Eccellentiss. Sig. Marchese di Leganes, Capitano Generale di Filippo IV il Grande, con riferimento al
ruolo del Governatore spagnolo dello Stato e delle sue campagne militari in Piemonte tra il 1635
e il 1638. Pubblicate nel 1639, le Imprese recano, dopo una breve dedicatoria, un madrigale per
lo stesso Ercole – che sostanzialmente ripete i concetti encomiastici utilizzati nell’avantesto delle
Preghiere d’Italia – ed un sonetto per Gian Giacomo Teodoro, in cui più efficacemente s’insiste sul
topos della triplicità delle sue virtù («e Padre, e Duce, e Sacro») e sull’archeologia della loro genesi («Ne la Fiandra sprezzò mortal periglio | il Genitor per la Real Corona, | egli per lei
s’adopra, e ’l segue il figlio»). Le virtù sono naturalmente sottese alla luce dell’impero spagnolo e,
retoricamente parlando, vengono espresse mediante il recupero dell’impresa di famiglia filtrato
da una vaga memoria tassiana: «Così tre Capi, e una sol alma ei dona | al gran Re con la man,
l’Oro, e ’l Consiglio, | così conforme a l’opre il nome suona».24
Anche in questo caso, tuttavia, le pieghe più interessanti dell’encomiastica trivulziana vanno
ricercate nel corpo dell’opera piuttosto che nel paratesto. Nell’incipit del secondo poemetto, dedicato alle vittorie del marchese di Leganés in Valtellina e a Breme, si ricorda ad esempio il ruolo centrale svolto da Trivulzio nella riacquisizione dello Stato farnesiano alla sfera d’influenza
19 A. PORRI, Il Massimo Trivulzio cioè La vita di Teodoro Cardinale Principe Trivulzio Governatore di Milano &c.
Oratoriamente descritta e rappresentata da Monsignor Illustriss. et Reverendiss. Alessandro Porri Vescovo di Bobio e Co:
Nella funebre festività solennemente celebrata per le sue Esequie nella Chiesa di S. Pietro Gessate, alli 12. Marzo dell’anno
1657., In Milano, per Gio. Pietro Cardi, [1657], 4r.
20 Biblioteca Civica di Como [ms. Sup. 3 2 45], 60.
21 Si legge adesso in G. CHIABRERA, Opera lirica, I, 9, a cura di A. Donnini, Torino, Res, 2005, 28-30.
22 E. BELLINI, Agostino Mascardi tra ‘ars poetica’ e ‘ars historica’, Milano, Vita e Pensiero, 2002, 104-107.
23 TRIVULZIO, Poesie, 443-446.
24 Ivi, 525-526.
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spagnola, dopo un momentaneo avvicinamento di Parma a Richelieu nel 1636; il ripensamento
scaturì da una campagna nel Piacentino di Gian Giacomo Teodoro, che aveva a disposizione
unità militari proprie, azione mossa anche per tutelare le possessioni del casato nel Codognese,
ma celebrata dallo scrittore con un’allegoria tanto enfatica quanto efficace:
Cangia l’Italia afflitta, e rasserena
ormai la bella, e nubilosa faccia
per lui, che Primavera a noi rimena,
le nevi ecco del Po distrugge, e scaccia;
l’azurro Giglio a noi torna, e s’infiora,
porporeggiando la Trivulzia Aurora.25
Nel quarto poemetto, dedicato alla presa di Vercelli da parte delle milizie spagnole, Trivulzio
appare come più degno contraltare del cardinale de La Valette, luogotenente delle milizie reali
francesi e sottoposto di Richelieu, ed al contempo come emulo dell’esperienza politico-militare
dei propri antenati:
Ma, se abbagliar la nostra vista i Franchi
forse credean col fiammeggiar de l’ostro,
ben il gran Diego sa, come non manchi
l’ostro del gran Trivulzio al Campo nostro,
e già ne l’opre il vede, e nel’ingegno
varcando gir de’ suoi grand’Avi il segno.26
Anche la conclusione delle Imprese, affidata al medesimo componimento, rappresenta in un
trionfo encomiastico la famiglia Trivulzio nell’atto, prima fra tutte, di giubilare per i successi castigliani nel Settentrione italiano: «Per allegrezza allor non sarà loco | di Giove nel Castel, che
non avampi, | […] né Trivulzia magion, che non risplenda, | col Teatro del Ciel quasi contenda».27 Interessanti anche le apparizioni di elogi del casato tra le poesie manoscritte di Claudio
Trivulzio, segnatamente comprese nel ms. 1001 della Trivulziana. Si distingue in particolare il
madrigale L’inserto di tre fiori,28 in cui, dietro ad un velame allusivo alquanto oscuro, pare stagliarsi il solito legame genealogico fra il principe-cardinale e il Magno (vari, in questo testo, i sintagmi recuperati dalla canzone chiabreriana in lode di quest’ultimo), che avrebbe lasciato in eredità
al discendente le virtù rappresentate da tre fiori («mostra il Candor del’alma il gelsomino, | la
rosa spiega il suo purpureo manto | e ’l garofano il zelo aceso e santo») innestati su un tronco
d’arancio recato dai flutti del Benaco, lago simbolico per numerose azioni del Maresciallo. Il fatto che l’«antichissima insegna di tre volti», prevedibilmente presente anche in questo Inserto, costituisse un tema elogiativo ormai quasi logoro, è confermato dal suo riuso comico-parodico, da
parte dello stesso Claudio Trivulzio, nel Madrigale per il contrario del Pastor fido, incluso nel medesimo ms. 1001.29 Scagliando un’invettiva contro un ignoto che non mantiene la parola data, Trivulzio recupera il titolo di una pastorale pubblicata a Milano nel 1622 da Luigi Rusca e finge di
considerare questo «infido Pastor» degno «di portar la Trivulzia antica insegna»: i tre volti
dell’impresa del casato, cioè, vengono sarcasticamente capovolti in simbolo di ipocrisia e volubilità, dunque riletti in malo («così fugendo ogni promessa a volo, | ha tre volti, o stupore!, e sembra un solo»), ma pur sempre all’interno di un relativizzante codice burlesco.
L’esperienza di Claudio Trivulzio, in un certo senso, completa ed esaurisce la rassegna
dell’encomiastica trivulziana secentesca. D’altronde, la vertiginosa ascesa politico-ecclesiastica di
Gian Giacomo Teodoro era giunta in porto e semplicemente si assestava, mentre le doti del figlio Ercole, nei medesimi campi, si andavano dimostrando sempre meno eccezionali. Gli encoIvi, 551.
Ivi, 599.
27 Ivi, 610.
28 Ivi, 686-689.
29 Ivi, 685-686.
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mi poetici di casa Trivulzio – su quelli prosastici, concentrati in innumerevoli dedicatorie, si è
qui sorvolato – subiscono dunque un rallentamento quantitativo e uno smorzamento tematico e
concettuale. La figura di Ercole continua a destare qualche interesse. La citata miscellanea trivulziana rinvenuta presso la famiglia Brivio Sforza ha infatti riportato alla luce due sillogi pubblicate in occasione della nascita dei primi due figli di Ercole, personalità ancora da scoprire
persino per la ricerca storico-genealogica. Autore di tutto rispetto per la prima, intitolata Il vaticinio della Poesia e pubblicata nel 1641 per la nascita di Carlo Luigi Trivulzio con dedica a Gian
Giacomo Teodoro: si tratta, infatti, di Carlo Torre, erudito ed intellettuale milanese di parte
spagnola, più noto, decenni a seguire, come autore del Ritratto di Milano, e distinto, in quegli anni, per una panegiristica schiettamente filogovernativa.30 La seconda silloge, impressa nel 1647 a
Codogno per la nascita di Carlo Domenico Trivulzio (il titolo è, appunto, In Ortu Caroli Dominici
Trivulti), vide invece la cooperazione di vari autori, ascrivibili a vario titolo alla superstite Accademia dei Novelli, tra cui si segnalano Bartolomeo Lucchini e Giovanni Pasta.
Anche per la rimanente encomiastica di casa Trivulzio è necessario ricorrere a late testimonianze o reperimenti fortunosi. Sotto la prima fattispecie ricadono due elogi di Ercole Teodoro,
testimoniati da alcune carte conservate presso l’Archivio di Stato di Milano.31 Uno è relativo
all’assedio di Cremona dell’ottobre 1648 da parte delle milizie franco-modenesi, terminato con
la liberazione della città da parte delle truppe dello Stato guidate dal marchese di Caracena, governatore del Milanesado in quegli anni; il titolo tradito dell’opera, che rivela Ercole aver preso
parte all’impresa, è Encomij del S.r Pr. Hercole Teod. Trivultio per il molto che ha operato per S.M.C. in occasione dell’assedio di Cremona, con alcuni ordini a stampa di S.E. come Gov.re delle milizie dello Stato di Milano, della Città di Lodi e sua Provincia. Nella medesima veste, ad opera dei decurioni lodigiani, Ercole
aveva ricevuto anche un altro encomio, sotto la data del 25 aprile 1648: Elogio del S.r P.pe Don Hercole Teodoro Trivulzio fattogli dalla Città di Lodi con ord.ne de’ SS.ri Decurioni di d.a Città. Nello stesso faldone dell’Archivio di Stato di Milano si rinviene anche testimonianza di un elogio di Gian Giacomo Teodoro, altrimenti irreperibile, ma certamente coevo di questi e peraltro confermato esistente dalla Bibliografia siciliana di Mira:32 si tratta di un’Iride colomba. Ode pindarica per la venuta del
Principe Cardinale Teodoro Trivultio Luogotenente e Capitano Generale nel Regno di Sicilia del medico e letterato Giuseppe Galeano.33
All’ultimo Gian Giacomo Teodoro risultano infine dedicati due componimenti di Lodovico
Leporeo, un sonetto e un «leporeambo» estravaganti, pubblicati nel 1652 a Roma e Bracciano
su fogli volanti e conservati presso l’Archivio della Fondazione Trivulzio.34 Il primo ne celebra la
luogotenenza nel Regno di Sicilia per conto del re di Spagna («Signor degli Avi tuoi superi i
vanti, | […] che il Monarca d’Iberia rappresenti | nella Città de’ saggi, e trionfanti»), mentre il
secondo, basato sulle complesse geometrie ritmiche ideate dal noto scrittore friulano,35 insiste sul
trito motivo encomiastico dell’insegna dai tre volti («sotto a’ tuoi piè vinti di Re tre Volti | t’ergi
Se ne rinvengano le coordinate in ALONZO, Due planctus urbis secenteschi a Milano…, 123-157.
Archivio di Stato di Milano, Trivulzio. Archivio Milanese, b. 221.
32 G.M. MIRA, Bibliografia siciliana, I, Palermo, Ufficio Tipografico diretto da G.B. Gaudiano, 1881, 383.
33 R. CONTARINO, Giuseppe Galeano, in Dizionario biografico degli italiani, LI, Roma, Istituto per la
Enciclopedia Italiana, 1998, 387-388.
34 Archivio della Fondazione Trivulzio di Milano, Araldica Cardinale Trivulzio, b. 26, cart. 611: In lode
dell’Eminentiss. e Reverendiss. Sig. Cardinale Gio. Giacomo Teodoro Prencipe Trivultio. Estraordinario Ambasciatore della
Maestà Catolica di Filippo Quarto Austriaco Re delle Spagne, & Indie, per la funtione del Tributo Feudale del Regno di
Napoli, trasferita da S. Em. nella Persona dell’Eccellentissimo Signore Don Camillo Prencipe Panfilio Nipote di N.S. Papa
Innocenzo X. l’Anno Ottavo del suo Pontificato M.DC.LII. Di Lodovico Leporeo, In Roma, Per Giacomo Fei,
M.DC.LII. (sul medesimo argomento si rinviene ivi, per lo stesso editore, anno, e sempre in foglio volante,
un componimento in quattro distici «leporeambi»); Leporeambo Alfabetico, Trisono, Eroico, irrepetito. In lode
dell’Eminentiss. e Reverendiss. Sig. Cardinale Gio. Giacomo Teodoro Prencipe Trivultio. Di Lodovico Leporeo, In
Bracciano, Per Giacomo Fei Stampator Ducale, M.DC.LII..
35 Si ritrovino le coordinate biobibliografiche nell’edizione dei Leporeambi, a cura di V. Boggione, Torino,
Res, 1993, ed ora nelle Opere, a cura di M. Turello, Pordenone, Accademia San Marco, 2005, nonché in
D. VAGNONI, Ludovico Leporeo, in Dizionario biografico degli italiani…, LXIV, 2005, 676-678.
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I cantieri dell’Italianistica
Trofei di Semidei sepulti»). Conservata nello stesso faldone, non datata, ma da ascrivere alla
medesima stagione, è infine un’elegantissima pubblicazione per laurea dedicata al cardinal Teodoro e promossa dall’Accademia degli Animosi, che era attiva a Brera anche sotto il nome di
Partenia minore. Uscita dai tipi milanesi di Filippo Ghisolfi, essa reca il titolo, entro un frontespizio decorato con rara finezza e comprendente anche l’impresa trivulziana, di Academiæ Animosorum Plausus in Laurea Caroli Antonii Agudii Academiæ Arysophorum Principis Sub Auspicijs Emin.mi Principis Theodori Card. Trivult. In Coll. Brayd. Soc. Iesu celebrata, con dedica del principe Giovan Battista
Archinto, esponente di un casato intrinseco all’amministrazione spagnola. L’ambiente gesuitico
braidense, che già aveva tributato a Gian Giacomo Teodoro gli onori del recente cardinalato,
tornava dunque ad esaltare in Trivulzio il profilo ideale dell’ecclesiastico non curiale e del politico filospagnolo, incardinando tale giubilo – come da tradizione ormai consolidata e pressoché
unanime nei vari carmi latini che compongono la silloge – sul topos dell’impresistica triplicità delle virtù del casato e sul collaudato motivo del suo mecenatismo, tradotto adesso nella rappresentazione apollinea del principe-cardinale.
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