Vedi prefazione - Circolo Proudhon

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Vedi prefazione - Circolo Proudhon
Introduzione
Il xxi secolo: il secolo di Proudhon?
di Lorenzo Vitelli
Non si può capire il “secolo breve” – così come lo ha
definito Eric Hobsbawm – senza prima fare riferimento
all’Ottocento. Il xix secolo fu, sul piano delle idee, un periodo di trepidazione etilica, e il Novecento delle grandi
narrazioni ideologiche e della loro crisi ne rappresenta il
postumo latente. Secolo di dibattiti, sommosse, ribellioni,
apogeo della carta stampata e dei giornali, che grazie alla
nascita delle prime agenzie di stampa e all’invenzione della rotativa nel 1843, sancisce l’avvento delle grandi tirature e un’accelerazione del processo tipografico, dando il via
all’espansione generale della cultura; secolo – dicevamo –
che insieme all’industrializzazione e l’urbanizzazione ha
visto affacciarsi un nuovo attore nel panorama politico:
la massa, un complesso di individui e al tempo una forza
primitiva e inconscia canalizzata nelle strutture di partito
e ben diversa dalle improvvisate, amatoriali e casarecce
aggregazioni spartachiane del passato; l’Ottocento è un
secolo – aggiungiamo – di grandi sperimentazioni sociali,
a partire dalle utopie urbanistiche di Fourier, l’Icaria di
Cabet, il New Lanark, il lanificio di Robert Owen, il Cincinnati Times Store di Joshia Warren1, le scuole libertarie,
fino alla Banca del Popolo di Proudhon e alla Borsa del
1 Tutti esperimenti, a carattere comunitario, urbanistico e sociale, che
hanno preso piede a partire dai primi anni dell’Ottocento, per tentare
di risolvere i problemi legati al capitalismo (lo sfruttamento industriale,
l’analfabetismo, l’alcolismo e la disoccupazione).
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lavoro di Gustave de Molinari; un secolo – concludiamo
– di rivalsa e di presa di coscienza, da parte del proletariato, delle speranze tradite a seguito delle rivoluzioni sei
-settecentesche.
Ecco che in questo contesto, tra i tanti intellettuali,
politici, filosofi e studiosi che hanno tentato di trovare
una soluzione all’annosa “questione sociale” spiccano, tra
tutti, due nomi che al meglio rappresentano le istanze e
le visioni del mondo in gioco: Marx e Proudhon. Benché il nome del filosofo di Treviri abbia avuto maggiore
risonanza, va ricordato che l’operaio autodidatta Pierre-Joseph Proudhon, umile figlio di un birraio e di una
contadina di Besançon, ha segnato profondamente le sorti della prima Internazionale dei Lavoratori. Al contrario
del giovane Marx e del suo amico Friedrich, rampollo di
casa Engels, che diventerà socio del cotonificio paterno
alla morte del suo vecchio, Proudhon proviene direttamente dagli ambienti più umili della società, e la sua
adolescenza è segnata dal lavoro nei campi e dallo studio
interrotto precocemente per contribuire alle spese domestiche (si diplomò soltanto a 29 anni). Quando divenne
operaio tipografico poi correttore di bozze alla stamperia
di Gauthier de Besançon cominciò ad interessarsi autonomamente alla lettura. Approfondiva il greco, il latino, la
teologia e gli capitarono sotto mano i testi di Fourier, da
cui rimarrà particolarmente affascinato. Il suo successo fu
decretato dalla pubblicazione, nel 1840, della sua seconda
opera, dopo un precedente studio sulla grammatica, dal
titolo Qu’est-ce que la propriété?. Questo testo condizionò
anche le successive riflessioni di Marx riguardo alla teoria
del valore, inaugurando una stima reciproca tra i due pensatori2. Nel 1946, Proudhon diede alle stampa il libro Sy-
2 «Proudhon non scrive soltanto nell’interesse dei proletari; lui stesso
è un proletario, un operaio. Il suo saggio è un manifesto scientifico del
proletariato francese». K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, 1844.
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stème des contradictions économiques, più noto come Filosofia
della miseria, in cui rivolgeva una serrata critica all’economia politica classica (Smith, Ricardo, Say, Malthus) e al
comunismo (pur non citando mai il nome di Marx). Tra
l’anarchico bisontino e il filosofo di Treviri cominciarono
i primi dissensi, che culminarono con la rottura definitiva
nel 1847, quando Marx pubblicò la Miseria della Filosofia,
dove scrisse che il suo avversario «vuole librarsi come
uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e
non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente
fra il capitale e il lavoro, fra l’economia politica e il comunismo».
Proudhon tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei
Cinquanta si cimentò nell’attività giornalistica dando vita
a diverse testate (ne ricordiamo quattro: «Le Représentant du Peuple», «Le Peuple», «La Voix du Peuple» e poi
di nuovo, nel 1850, «Le Peuple»). Prese parte attivamente
al dibattito pubblico e riscosse una notevole popolarità
tra le masse operaie e contadine, finché nel 1848, sorpreso dalla rivolta scoppiata a Parigi, di cui non condivise
i metodi di lotta, partecipò comunque alle barricate e il
4 giugno dello stesso anno venne eletto deputato all’Assemblea Costituente, sebbene fosse uno dei pensatori più
invisi e ridicolizzati dalla stampa borghese per le sue proposte sul credito gratuito. Dopo i moti del ‘48, che infiammarono tutta l’Europa, da Palermo fino a Berlino,
la restaurazione più o meno autoritaria di tutti gli assetti
politici precedenti costrinse i grandi movimenti socialisti
europei a dare vita, consapevoli coralmente del problema capitalista, all’Associazione Internazionale dei Lavoratori, per organizzare le forze antagoniste. L’ail nacque
con l’occasione dell’Esposizione Universale di Londra del
1862, quando 200 operai francesi incontrarono i colleghi
inglesi e formarono il primo consiglio generale con sede
nella capitale britannica. A redigere lo statuto fu lo stesso
Marx, ma intorno alla prima Internazionale orbitavano
elementi molto eterogenei: a partire dai rappresentanti
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delle unioni corporative inglesi, i mutualisti francesi di
Proudhon, i socialisti di Fourier e Saint-Simon, i blanquisti, l’Associazione dei lavoratori tedeschi di Lassalle, fino
ai seguaci italiani di Mazzini e gli anarchici di Bakunin.
Nel 1866, un anno dopo la scomparsa di Pierre-Joseph
Proudhon, all’Assemblea di Ginevra si scontrarono le due
grandi fazioni: quella mutualista influenzata dal francese,
che rifiutava la lotta di classe e promuoveva l’abolizione
dello Stato in favore dell’avvento di una società federata di piccoli produttori autonomi attraverso la creazione
del credito gratuito, e quella di Marx, la frangia collettivista che patrocinava la creazione del partito comunista,
la rivoluzione, lo Stato socialista, la “dittatura del proletariato” e l’avvento definitivo del comunismo. Il congresso
dell’ail di Bruxelles del 1868 vide la totale sconfitta dei
proudhoniani e il predominio dei marxisti e dei libertari
bakuniani, in nome della socializzazione di tutti i mezzi
di produzione. I proudhoniani e i mazziniani uscirono
dalla scena e non ebbero più alcuna influenza sul destino
dell’organizzazione.
In questo clima, la grande battaglia nella storia delle
idee si giocava tra mutualismo e collettivismo, tra il pensiero anarchico-libertario e individualista di Proudhon, che
reclutava sostenitori dalle fila di piccoli agricoltori, lavoratori autonomi e artigiani, e il marxismo ortodosso che
guardava alle industrie, agli operai, al proletariato e al sottoproletariato urbano. Se pensiamo che la rivoluzione industriale era avvenuta da tempo, e il passaggio dell’economia dal settore primario a quello secondario era assodata,
la vittoria non poté essere che di Marx e del suo manifesto
puntuale e programmatico. Sebbene il filosofo di Treviri
abbia vinto la battaglia ideologica novecentesca, il crollo
del muro di Berlino nel 1989 però, ne ha dichiarato anche
la sconfitta.
Il pensiero di Proudhon, intanto, dopo l’espulsione dei
suoi seguaci dall’Internazionale, è sopravvissuto negli ambienti più svariati e la sua opera ha continuato a suscitare
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l’interesse di studiosi, giuristi, politici, partiti e militanti.
Durante la Comune di Parigi del ’71, tra la minoranza dei
consiglieri dei comitati si contavano dei proudhoniani che
cercarono di evitare la deriva autoritaria, tra cui Pierre Denis, autore del programma della Comune, ispirato dalle
idee federaliste e comunaliste di Proudhon. Negli ambienti
sindacalisti francesi, ad operare una rilettura atipica del padre dell’anarchismo fu Georges Sorel, il teorico dello sciopero generale («mito nel quale si racchiude tutto intero il
socialismo»). Sorel, pur adoperando concetti che hanno
poco a che vedere con la sensibilità dell’anarchico francese
– pensiamo all’eroismo sovversivo o la mitopoiesi – vide
in Proudhon un maestro e un anticipatore del Novecento.
Ciò che lo affascinò di più del bisontino erano l’anti-intellettualismo, l’anti-romanticismo e il disprezzo per i valori
borghesi e liberali. A questi si aggiunge l’idea di un popolo
che si emancipi da sé attraverso la sua capacità auto-organizzativa e l’azione diretta per costruire una società di produttori autonomi sulle macerie della società borghese. È il
prevalere dell’azione – un’azione che in Proudhon diventa
condizione stessa della vita, distinzione del vivente dall’inerte – che avvicina l’impostazione mentale di Sorel alla
concretezza e alla vivacità di Proudhon rispetto alle astrazioni metastoriche ed hegeliane di un Marx che vuole invece attendere il naturale declino della borghesia e l’ascesa
del proletariato. In Sorel convivono Marx e Proudhon rivisitati in un’ottica bergsoniana, ma il vitalismo del secondo
prevale sul positivismo del primo. Il sindacalista contrappone all’utopia intellettuale marxista il mito sociale come
il motore dell’azione rivoluzionaria diretta.
«Il mito – dice Sorel – è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni
della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna».
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Lo spontaneismo irrazionalistico di Sorel proviene in
parte da Proudhon, che giustifica la guerra e la violenza
del proletariato come produttori di diritto e faits divins.
Come sottolinea Gramsci nei Quaderni del carcere «per il
Sorel è “proudhoniano” ciò che è “spontanea” creazione
del popolo, è “marxista ortodosso” ciò che è burocratico»
e aggiunge che per Sorel, «ciò che conta in Proudhon, è l’orientamento psicologico, non già il concreto atteggiamento
pratico, sul quale in verità non si pronunzia esplicitamente:
questo orientamento psicologico consiste nel “confondersi” coi sentimenti popolari che concretamente pullulano
dalla situazione reale fatta al popolo dalla disposizione del
mondo economico, nel “calarsi” in essi per comprenderli
ed esprimerli in forma giuridica, razionale»3.
Tra gli altri anche i russi rimasero affascinati dall’anarchico francese, autore di un breve saggio dal titolo La guerre et la paix. Tolstoj, in omaggio al filosofo di Besançon,
intitolò il suo romanzo più celebre, Guerra e Pace (il russo,
come il latino, non contempla l’articolo), dopo che i due si
conobbero a Bruxelles nel 1860. Dostoevskij, tra gli altri,
citava l’anarchico nei Fratelli Karamazov, e quando nell’aprile del 1849 la polizia fece irruzione in casa sua per arrestarlo, colpevole di atti sovversivi, vi trovò un libro allora vietato di Proudhon: La celebrazione della domenica. Il principe
anarchico Kropotkin si formò sulle pagine di Proudhon,
così come Bakunin. Benché questi prediligesse l’azione violenta in nome della collettivizzazione, non esiterà nel dire
che «Proudhon è il maestro di noi tutti». Émile Pouget,
il segretario del sindacato cgt (Conféderation Général du
Travail), e una buona parte dei teorici anarchici che segneranno profondamente le battaglie politiche del secolo decimonono, si diranno proudhoniani.
A recuperarne l’identità intellettuale, furono anche
esponenti del conservatorismo e del nazionalismo, tra cui
3 A. Gramsci, Quaderni del Carcere, iv, Libro xiii, Einaudi, Torino,
2014, p. 450.
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il monarchico Charles Maurras. Quest’ultimo, per creare
un ponte con i sindacalisti rivoluzionari eredi di Sorel e
una sintesi tra le forze antagoniste fondò, nel 1911, insieme
ad Edouard Berth e Georges Valois (i due più fedeli e brillanti discepoli di Sorel) il “Cercle Proudhon”, un progetto
metapolitico che alcuni storici e filosofi contemporanei,
tra cui Zeev Sternhell (Nascita dell’ideologia fascista) e Bernard-Henry Lévy (L’ideologia francese) hanno misinterpretato. Rei di essere evasi dalla dimensione storiografica per
fare un processo ai protagonisti di quel periodo, entrambi
hanno designato il Circolo Proudhon come anti-camera del
fascismo italiano, vedendo negli scritti dei suoi esponenti
– riuniti nei Cahiers – il corpus ideologico pre-fascista, senza comprendere le sfumature di questo gruppo di intellettuali per altro molto ristretto e poco influente sulla scena
pubblica. Pensiamo che sia Sternhell che Lévy non prendono in considerazione il fatto che il Circolo Proudhon si
estingua nel 1914 e che il fascismo sia un movimento determinato in buona parte dall’esperienza e dal disagio della
Grande Guerra. Berth, inoltre, fu un ammiratore di Lenin,
mentre osteggiava Mussolini e la sua politica, che definì
reazionaria, centralizzatrice e statalista. Georges Valois, al
contrario, apprezzava apertamente il fascismo, tanto da
fondare, in Francia, un movimento analogo, il Faisceau. Nel
1934, però, si convertì ed entrò a far parte della Resistenza,
morendo di tifo nel 1945 dopo esser stato deportato dalla Gestapo a Bergen-Belsen. È vero, tuttavia, che il Cercle
Proudhon interpretava il pensiero dell’anarchico attraverso
il filtro viziato dell’eroismo mitico-sindacalista di Georges
Sorel (Proudhon, ad esempio, era contrario allo sciopero),
e si allontanava quindi da una lettura pura e autentica del
suo padre spirituale.
L’esperimento francese ebbe un omonimo in Italia, che
si esaurì negli stessi anni, e a cui parteciparono sulle colonne di varie testata – tra cui la “Lupa” e “Pagine libere”
– Enrico Corradini, Enrico Leone, i futuristi di Filippo
Tommaso Marinetti e i grandi teorici del sindacalismo
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rivoluzionario: Paolo Orano, Arturo Labriola, Lanzillo,
Oliviero Olivetti.
Successivamente, in Italia, tra gli eredi di Proudhon
vanno ricordati Carlo Rosselli, socialista liberale, e Camillo Berneri, anarchico e federalista. Ambedue concordavano
su una presa di distanza sia dallo statalismo marxista che
dal liberalismo ed erano alla ricerca di un socialismo e di
una sinistra anti-autoritaria. Rosselli, dopo aver fondato
a Parigi nel 1929, il partito anti-fascista Giustizia e Libertà,
venne ucciso in Spagna nel 1937 durante la guerra civile da
assassini legati al regime mussoliniano. Berneri morì nello
stesso anno, sempre in Spagna, ma per mano dei comunisti, e nel 1935, sulla falsariga di Proudhon, scriveva: «L’antitesi inevitabile sarà: comunismo dispotico centralizzatore
o socialismo federalista liberale».
L’ascendente proudhoniano si fece sentire anche nella
penisola iberica, grazie all’opera di Francisco Pi y Margall,
il secondo Presidente della Prima Repubblica Spagnola,
eletto nel 1873, che tradusse a partire dagli anni Sessanta
dell’Ottocento le opere dell’anarchico in castigliano. Già
nel 1845, però, venne fondato a La Coruña il primo giornale anarchico del mondo, El Porvenir, da un seguace di
Proudhon, Ramón de la Sagra, vicino ai cantonalisti che
auspicavano, durante la rivoluzione del 1871, una Spagna
confederata. Come testimonia invece il saggio di Augustin
Souchy in Die soziale Revolution in Spanien, la rivoluzione
anarchica spagnola interna alla guerra civile iniziata nel
1936 e terminata con il colpo di Stato di Franco nel 1939
– che segnò la fine dell’anarchismo organizzato – deve
molto all’opera di Proudhon. La collettivizzazione delle
industrie e delle terre in Catalogna, Andalusia, Aragona e
nelle province di Badajoz e Castiglia-La Mancia, avvenne
sotto il segno e l’impronta di soluzioni espresse da Proudhon, (benché arricchite dal pensiero di Kropotkin e di
Bakunin) quali l’abolizione della moneta e l’integrazione
dei buoni di scambio, il mutualismo, il rispetto dei piccoli
commerci e le piccole proprietà private evitando di fatto
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un’espropriazione violenta e generalizzata delle terre (che
invece ebbe luogo in Russia).
Tra le esperienze più recenti, vi è poi quella di Bettino
Craxi, quando, in un articolo apparso su L’Espresso nell’agosto del 1978 (“Il Vangelo socialista”), il leader del garofano
rosso vide in Proudhon un antesignano del psi e un profeta
degli orrori del comunismo e del bolscevismo. Craxi si appropriò della figura di Proudhon, che di fatto era un equilibrista tra il liberalismo e il comunismo, per bilanciare la
sua politica interna ed estera, in bilico anch’essa tra le pressioni atlantiste da un lato e le forze marxiste che guardavano ad Est dall’altro. Quello che più serviva a Craxi però,
era dimostrare che poteva esistere una sinistra radicalmente anti-marxista e anti-comunista che non rinunciasse alla
“questione sociale”, sottolineando di fatto il cortocircuito
interno del marxismo-leninismo, ossia la pretesa abolizione delle classi sociali e dello Stato, attraverso la creazione
di uno Stato collettivo onnipresente e onniveggente.
Successivamente, a riscoprire il pensiero proudhoniano,
giunse anche la Lega Nord di Umberto Bossi quando il
Profesùr Gianfranco Miglio annoverò l’anarchico francese
tra gli ispiratori del federalismo insieme a Carlo Cattaneo e
a Giuseppe Ferrari. Miglio venne eletto nel 1990 al Senato
per la sezione lombarda della Lega Nord. Nel suo mandato
di quattro anni si propose l’obiettivo di presentare il progetto di riforma dell’Italia con una visione confederata sul
modello svizzero in tre macro regioni, la Padania al Nord,
l’Etruria nel Centro, la Mediterranea al Sud. L’idea di superamento dello Stato centrale fu presentata da Miglio al secondo congresso della Lega Nord nel 1993, con il nome di
Decalogo di Assago. Qui si abbandonavano il libertarismo e
l’anarchismo di Proudhon, non si contemplavano il mutualismo e il credito gratuito, ma i princìpi che muovevano il
giurista – fiducioso nel buon senso popolare, espresso per
il tramite del referendum – erano quelli dalla sussidiarietà
democratica, e di una frammentazione capillare del potere delegato alle piccole comunità e aggregazioni locali. La
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Lega riprese solo parzialmente il discorso di Miglio, meno
ancora quello di Proudhon, preferendo invece la via della
contrattazione e del compromesso con le forze partitiche
dello Stato unitario – da qui infatti, nacque l’alleanza con
Berlusconi e Forza Italia – per ottenere qualche risultato e
qualche consenso elettorale a livello locale e ottenere più
autonomia regionale al Nord. Alle elezioni del 1994, Miglio
si disse contrario all’alleanza con il Cavaliere, e Bossi dichiarò apertamente che il leader di Forza Italia e Gianfranco Fini avevano molte riserve sulla sua candidatura a Ministro. Il Profesùr lasciò così la Lega senza però interrompere
tutti i ponti con alcuni suoi dirigenti, creando poi il Partito
Federalista che si sciolse nel 2001, anno della sua morte.
In Italia l’eredità di Proudhon si esaurisce più o meno
con questa parabola, mentre in Francia il pensatore francese sta vivendo una risurrezione ad opera di Michel Onfray, uno degli intellettuali più autorevoli d’Oltralpe, che
fa uso del pensiero di Proudhon per ribadire l’esistenza di
una sinistra d’impronta socialista che non si identifichi con
il comunismo e il marxismo e allo stesso tempo non faccia
riferimento all’hegelismo, ma che possa imporsi al latere
dello Stato, senza passare per una rivoluzione violenta o
per la dittatura del proletariato:
«“Anarchia positiva”: costruire qui e ora una rivoluzione che non abbia bisogno di uccisioni, massacri,
saccheggi, per realizzarsi. Questa anarchia non ha
niente a che vedere con la sinistra del risentimento […]. I sostenitori di questa sinistra ben analizzati
da Nietzsche a suo tempo vogliono innanzitutto distruggere. E dopo? Dopo trionferà un quadro religioso: bontà, felicità, prosperità, etc., scomparsa dello
sfruttamento, delle guerra, della fallocrazia, della
miseria… Questo sistema resta hegeliano, idealista,
religioso – e per dirla tutta: cristiano»
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Benché l’influenza di Proudhon sia stata secondaria
rispetto a quella di Marx durante tutto il corso del Novecento, essa si annovera anche al di là della dimensione
politica in cui fu collocato il suo pensiero. Perché assieme
al Proudhon filosofo, sociologo e anarchico, vi è anche
un Proudhon economista che ha tentato nel 1849, dopo
aver proposto il progetto all’Assemblea Costituente che lo
bocciò, di fondare la Banca del Popolo. Prima di arrivare però a questo brillante esperimento, dobbiamo fare un
passo indietro fino al 1840, quando Proudhon diede alle
stampe quella summenzionata opera che fece un notevole
clamore nell’ambiente intellettuale francese ed europeo:
Qu’est-ce que la propriété?.
La Banca del Popolo trova i suoi fondamenti concettuali nella teoria della proprietà di Proudhon, indebitamente
definita dai suoi detrattori come una teoria contraddittoria. Alla celebre definizione di Proudhon: «La proprietà è
un furto!» – che ha fatto invaghire il giovane Marx delle
analisi proudhoniane, tanto che questi le fotocopierà in
alcuni suoi scritti – seguiva, un’altrettanto importante definizione: «La proprietà è la libertà!». Apparentemente
insanabile questa dicotomia ha un senso concreto, vivente
e attuale. Per Proudhon infatti, e qui fu tutta la sua controversia, la proprietà non è né malvagia né buona, non
è una cosa logica perché non ha alcun fondamento legittimo e perciò va analizzata soltanto come una funzione.
Alla pari del linguaggio, è una funzione che si misura con
altre funzioni e che ad esse si proporziona, creando delle
antinomie nella società, oppure generando un equilibrio
tra le forze in gioco, e quindi un bilanciamento tra l’assolutismo dello Stato, sia esso comunista o capitalista, che
può, nel caso del comunismo, annullare la proprietà nel
suo concetto ontologico, e nel capitalismo generare attraverso la speculazione, lo sfruttamento e l’espropriazione
del plus-valore, un’altra contraddizione altrettanto invalidante. Allora Proudhon vuole optare per un’abolizione
della proprietà capitalista, conservando però un tipo di
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proprietà che di fronte all’assolutismo e alla potenza centralizzatrice dello Stato possa garantire uno spazio di libertà e servire da contrappeso. Questo tipo di proprietà
viene definita “possesso”, giustificata esclusivamente dal
valore del lavoro. «Il lavoro umano – scrive Proudhon
nel 1840 – risulta necessariamente da una forza collettiva,
e ogni proprietà diventa, per la medesima ragione, collettiva e indivisa: in termini più precisi, il lavoro distrugge
la proprietà». Immotivata è invece la proprietà presso chi
non lavora, l’affitto presso chi non usufruisce della sua
proprietà. La trasformazione della proprietà in possesso,
senza optare per una rivoluzione di massa, è sufficiente
per stravolgere le istituzioni, le leggi e i governi.
La proprietà, così concepita, rappresenta un contropotere, una forza decentrante e anti-dispotica. La proprietà
è il principio stesso della libertà e della sovranità economica, ed è perciò un correlato irrinunciabile della libertà
politica e morale dell’individuo, il momento saliente della
sua autonomia fisica e intellettuale. Per essere tale ovviamente non può essere un privilegio degli oziosi, ma una
forza viva legittimata e giustificata dalla prima risorsa di
cui dispongono gli individui: il lavoro.
A partire da questo assunto, possiamo ora introdurre
uno dei progetti più felici di Pierre-Joseph Proudhon: la
Banca del Popolo. Sebbene questo esperimento non durò
che cinque mesi, sul lungo termine influenzò non pochi
esperimenti analoghi. L’obiettivo dell’istituzione di questa
banca era quello di permettere «al lavoro che ha sempre
obbedito, di comandare; e al capitale, che ha sempre comandato, di obbedire». Per ritrovare la giusta simmetria
tra le due istanze, Proudhon propose l’abrogazione della
moneta nonché la possibilità di prestarla ad interesse (vale
a dire la causa della profonda subalternità tra chi la possiede e chi ne necessita per lavorare). L’obiettivo è quello
di instaurare una relazione reciproca tra i produttori e i
consumatori, tra l’offerta e la domanda. Il principio – e
qui c’è un’altra innovazione di Proudhon che oggi va per
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la maggiore – è lo stesso del crowdfunding, una forma di
microfinanziamento dal basso. L’unica differenza è che invece di Internet, la piattaforma d’incontro di Proudhon
è la Banca del popolo, un’associazione di lavoratori in cui
i mezzi di produzione vengono prestati a vicenda. Proudhon è uno dei primi visionari a pensare una forma embrionale di sharing economy. Presso il suo banco di credito mutualista l’imprenditore che cerca un finanziamento
incontra direttamente la domanda (composta da altri associati/produttori di materie prime, strumenti, o servizi),
che gli forniscono i mezzi di cui ha bisogno. A questi la
Banca rilascia delle “lettere di scambio”, un buono convertibile a vista dal banco con altre merci o servizi. È un
sistema di “socialismo del credito” fondato sulla disponibilità dei produttori e dei consumatori a scambiare i propri beni e servizi senza desiderio di speculazione. Non si
presta più capitale circolante (la moneta), ma capitale fisso
(i mezzi di produzione). I soci non hanno un ritorno economico sulla cessione temporanea, ma un prodotto (pari
esattamente al valore del lavoro), così il credito non è più
un prestito a interesse ma uno scambio equo: «Fare credito, sotto il regno monarchico dell’oro, vuol dire prestare
– fare credito, nel segno repubblicano del buon mercato,
vuol dire scambiare». Questo crowdfunding ante-litteram,
permette di acquistare il bene prima che venga prodotto
e garantisce l’autogestione dei produttori che non devono
subordinarsi al capitale: «Il popolo deve diventare il suo
banchiere e prestarsi i capitali di cui ha bisogno».
La pratica del credito gratuito – prima forma di mutualismo – sovverte il rapporto di subordinazione del lavoro
al capitale. Mentre la banca classica crea ricchezza dai depositi di liquidità che non gli appartengono, attraverso il
tasso di interesse, giustificato da sempre come «costo del
tempo» (Turgot), «costo della pazienza» (Fisher) o «costo dell’attesa» (Marshall), i buoni di scambio sarebbero
sempre direttamente proporzionali alla produzione e al
lavoro, senza mai eccederli.
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Malgrado il fallimento (la banca raggiunse il capitale
di 18mila franchi rispetto ai 50mila richiesti dallo statuto
giuridico) gli sforzi teorici di Proudhon hanno provocato
un forte entusiasmo tra le associazioni dei lavoratori che
perseguiranno il fine cooperativo. Il problema sostanziale di questo sistema risiede, come sostiene Haubtmann,
nel fatto che è difficile generalizzare la lettera di scambio
e renderla un pagamento effettivo senza una garanzia stabile. Rispetto al bon d’échange «la banca classica fornisce
con una mercanzia direttamente scambiabile (il denaro)
il prezzo di un buono di scambio realizzabile soltanto tra
qualche mese». Il problema, lo dice anche Gesell, erede
intellettuale di Proudhon e teorico della moneta franca,
è che «né la forza lavoro, né le merci possono conservarsi
come la moneta. Ciò che offrono si degrada, necessita di
spese di manutenzione; mentre chi possiede denaro può
ritirarlo senza problemi dal circuito economico e attendere l’occasione favorevole. Il denaro non si degrada. È questo ciò che gli conferisce un carattere affascinante, diabolico. Diventa un feticcio, un oggetto che rappresenta il
valore, fuori dal tempo, e che si può stoccare».
Le intuizioni di Proudhon influenzarono i successivi
esperimenti mutualistici italiani, tra cui la Banca popolare di Lodi prima (1881) e di Milano poi (1886) nate ad
opera di Luigi Luzzatti che grazie alla creazione di un’associazione nazionale degli istituti e delle casse rurali incentivò l’unificazione italiana anche nel credito popolare.
I princìpi consociativi e mutualistici che animano ancora
oggi le banche di credito cooperativo si rifanno proprio
ai princìpi proudhoniani del voto capitario, di un limite
di possesso e della mutualità rivolta ai soci. In Italia, le
banche popolari hanno promosso lo sviluppo del territorio e delle imprese locali, crescendo nelle comunità di
riferimento – grazie ai rapporti duraturi con le famiglie
del luogo, attraverso una sinergia di fattori relazionali –
fino ad occupare una quota massima del 17% del mercato
italiano. Persino in periodo di crisi, e rispetto alle società
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bancarie per azioni, tra il 2011 e il 2013 le banche popolari
sono state le uniche ad aumentare i prestiti tra le famiglie
e le imprese con un incremento del 15%.
In breve il pensiero di Proudhon è innanzitutto uno
strumento poliforme incredibilmente versatile e fecondo,
tanto da ispirare numerose iniziative, questo perché al
fattore giuridico, economico, sistematico, legale, burocratico, Proudhon fa prevalere, in tutta la sua complessità,
il libero dispiegamento delle facoltà umane. Dice Pierre
Ansart, uno dei maggiori esegeti del bisontino, nel suo
saggio Proudhon, critique des philosophes de l’historie riguardo al federalismo proudhoniano:
«Si tratta di una forma generale in seno della
quale potranno agire e organizzarsi le comunità, i
gruppi primari, i comuni, i produttori individuali, le
compagnie operaie, oltre i vincoli e i controlli burocratici dello Stato. Il mutualismo descrive lo stesso
anti-sistema: scansa l’idea di una ragione, di una
legge, di una pianificazione che i produttori dovrebbero eseguire. Chiama le persone e i gruppi a creare
le loro relazioni reciproche, a gestire i loro scambi,
a inventare le loro forme di vita e di cultura».
Il pensatore francese non ama i galatei salottieri, ma le
sperimentazioni concrete: è prima di tutto un umanista,
un uomo che ha vissuto le sue contraddizioni, che non
si è mai sognato di creare sistemi di pensiero, partiti, che
non ha indottrinato seguaci o stilato programmi, bibbie,
codici e comandamenti. L’oscurantismo che lo ha relegato
ai margini del pensiero politico, va ricercato tutto nella
sua a-sistematicità, che lo rende più complesso, ma più
incollato alla realtà rispetto a molti suoi contemporanei.
E adesso che si sono sperimentati gli orrori sia del capita-
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l a propr ie tà è u n f u rt o
lismo che del comunismo, del liberalismo come della burocratizzazione dell’esistenza, della concorrenza e del monopolio, l’opera di Proudhon ci pare uno degli strumenti
più validi e attuali per aprire nuovi scenari nel futuro. Che
il xxi secolo sia il secolo di Proudhon?