RS38_ Antonio_Ferrariis

Transcript

RS38_ Antonio_Ferrariis
i i1
i il til
I
1111
1111Ft1
111IIIIÌtiiIII
Illt ul
II1T11
I
DINA COLUCCI
Antonio De Ferrariis
detto il Galateo
Cap. IV
La filosofia del Galateo
(Continuazione o. A. V., N. 2, p. 128)
=
E' vano fra gli scritti del de Ferrariis cercarne uno che
esponga un completo sistema filosofico : nelle sue opere, come
in quelle dei contemporanei, bisogna invece andar rintracciando
passi e frasi staccate che ci facciano capire — e fino a un certo
punto, perchè le contraddizioni non mancano — come egli la
pensasse riguardo ai vari problemi di filosofia e di morale.
Le sue vedute filosofiche furono influenzate da quelle del
Pontano ? Non sembra che il Pontano come filosofo abbia
molto influito sul Galateo. Erano, sì, aristotelici ambedue, ma
l'aristotelismo del Pontano era colorato da un determinismo
di origine astrologica, mentre nei riguardi dell'astrologia il Galateo si mostrò o scettico o decisamente contrario. Egli afferma
di conoscere i principi astrologici — anche Pico della Mirandola nel commento alla prima Enneade di Plotino aveva ammesso che il tener conto del cielo significante potesse giovare
ai medici nell'esame dei morbi (1) —, però non ne disputò mai,
e nel De Podagra spiegò perchè : « Res enim difficilis est, tam
semota a nostris sensibus cognoscere » (2). Nell'epitaffio di Alfonso si ferma a considerar l'oroscopo di quel principe e sembra quasi che ne faccia derivar le sventure dall'essere quegli
(1) SOLDATI,
La poesia astrologica nel '400. Firenze, 1906, p. 209.
(2) Coll. III. p. 198.
119 1
I
II
1
_;Hu l
liA`fi
i
1. 11 V i n HnY,
iw
H! 11!IIHI1T,'
Rinascenza Salentin a
s-
>11:7
r-
)-■
■-
nato sotto il segno dello Scorpione (1). Il piccolo Ferrante, duca
di Calabria, invece era nato « secundis sideribus » (2) — ironia
delle predizioni ! — Al Conte di Potenza il Galateo scrive che
una « quaedam occulta vis stellarum, ni non satis nostra
tempestate certa ars fallit » lo induce a credere che i turchi muoveranno ad assediar Rodi (3). Non bisogna meravigliarsi di piccole contraddizioni e oscillazioni: a Napoli l'ambiente era favorevolissimo all'astrologia. Lasciando da parte
l'inclinazione al fatalismo del superstiziosissimo volgo meridionale, dobbiamo ricordare che a Napoli in quel tempo Giovanni
Abioso scriveva la sua « Difesa dell'astronomia divinatrice » (4),
Alessandro d'Alessandro e Giuniano Majo si occupavano con
molta serietà di sogni (5), Egidio da Viterbo cercava di trapiantarvi la cabala (6) e il Pontano costruiva sull'astrologia un
intero sistema etico (7). Si aveva la smania di tutto conoscere,
tutto abbracciare, dí rompere le chiuse dighe, di avventurarsi
nel mare del futuro ignoto, di trovare un perchè al torturante
enigma del fato. Il Galateo sentì come tutti gli altri — e forse,
natura pensosa e meditativa, più degli altri — l'assillo del dubbio, ma si limitava ad osservare gravemente che « molti, mentre tentarono di risolvere questioni insolubili e, cosa negata ai
mortali, di svelare tutti i consigli della natura, caddero in vani
sofismi, anzi nella follia : 'sapere plusquam licet desipere est » (8).
Scetticismo? Non credo. Il Galateo, così entusiasta esaltatore
di quella « virtus intellectualis per quam homines quantum
possunt similes fiunt Diis » (9) non è tipo di scettico : riconoscere che quel che ci appare è in sè come ci appare ma che,
oltre all'apparire, c'è qualcosa ancora, significa attribuire alla
(1) Coll. III, p. 149.
(2) Coli. III, p. 163.
(3) Coli. III, p. 82.
(4) Napoli - SIGNORELLI, op. cit. cap. IX.
(5) lvi, cap. X.
(6)
FR. FIORENTINO,
Egidio da Viterbo
napol., vol. IX, pag. 444.
(7) Rossi, op. cit., p. 487.
(8) Coll. IV, p. 90.
(9) Coll. III, p. 8.
e
i pontanianì di Napoli. Arch. stor.
n
w I wt illw
i'19,11111il
unit 1111111
il 11 1 `i')1111111'11Y 1il
ihll fiwill
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 3
nostra mente incompletezza di visione, non incapacità di conoscenza. (1) Salvo qualche momento d'incertezza naturale a spiegarsi, il Galateo combattè sempre nelle sue opere l'astrologia.
E' facile che dopo il 1495 subisse anche l'influenza delle « Disputationes » del Mirandolano (2). A queste accenna in una lettera al Summonte, affermando che alla sentenza di Pico consentono sancti viri et ipsa veritas, et si qui sunt qui vere
philosophantur » (3). La sua attestazione — osserva il Soldati —
per quanto fuggevole, è molto importante, poichè discorda profondamente dall'opionione del Pontano e dimostra che in senno all'Accademia non tutti furono del parere del maestro ;
« essa ha poi un valore speciale in quanto ci rivela nel de Ferrariis, aristotelico peritissimo, uno spirito scientifico, insolito al
tempo suo, tanto che si potrebbe paragonare al Toscanelli » (4).
Qui conviene osservare che non si può avvicinare molto il Galateo al Toscanelli. Questi rappresenta la negazione dell'astrologia in nome del senso scientifico : il Galateo invece, ogni volta
che le dà addosso, lo fa solo in nome del concetto cattolico
della Provvidenza (5).
Stando così le cose, si capisce come al Galateo non potesse piacere la concezione pontaniana delle passioni influite
dagli astri considerate come primi elementi di virtù. Il suo aristotelismo invece sembra sia passato attraverso il filtro tomista.
Ecco un tentativo di ricostruzione del sistema (se così
si può chiamare) filosofico galateano :
Ne sta a base la fede nella trascendenza. Questo è inutile
provarlo perchè basta ricordare che il Galateo fu sacerdote
cattolico di rito greco. Caratteristica della sua filosofia come
di tutta quella umanistica è la larga parte assegnata all'etica ;
Nihil in vita divinius, quam seipsum cognoscere » (6). Il punto
(1) Fu.
OLGIATI,
L'anima dell'Umanesimo e dei Rinascimento. Milano, 1924
P. IV, cap. Il.
(2)
DE FABRIZIO,
op. cit. p. 66; cfr. ivi a pag. 63 la rettifica di un giudizio del
Burckhardt.
(3) Coll. III, pag. 189.
(4) SOLDATI, op. cit., p. 266.
(5) DE FABRIZIO, op. cit., p. 62 e segg.
(6) Coli. II, pag. 180.
w
i w IH't1 willt 1111 wcif HJ m i19,111 nrITHHITInn
(i"
il
ri
lari
h ri
r11
Pinaseenea Salentina
5_
2=
5—
2=
2=
di partenza è quello aristotelico-tomista : l'ilemorfismo. Nel De
nobilitate, parlando delle comuni divisioni che del genere umano si fanno in patrizi e plebei, nobili e non nobili, esce in questa espressione: « Sumuntur hae differentiae non ab ipsa substantia, sed accidentibus, ac siquis dicat, hominum alii albi,
alii nigri, ecc. Vera rerum differentia ea est, quae sumitur a
forma, quae dat esse rei » (1).
Questo ilemorfismo è applicato alla psicologia: l'anima intellettiva è la forma sostanziale dell'uomo. Nel De nobilitate, al
passo citato tien dietro la dichiarazione: « Illa enim in hominibus differentia ratio est... Nobiles igitur recte appellabimus
quicumque plus ratione valent ». Le stesse idee si trovano nel
De distinetione et nobilitate hantani generis ». L'intelletto è
glorificato come la più alta potenza dell'uomo. Il « De dignitate disciplinarum » è tutto un'esaltazione della virtù contemplativa: « hane partem intellexit conditor Deus cum dixit: faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram. Et cum
ceteris carebimur, illa sola virtus nos in futura vita comitabítur. Ideo dixit Dominus et magister noster : haec est vita aeterna ut cognoscant te Deum » (2). Il fine dell'uomo è dunque
posto in una operazione dell'intelletto, proprio come affermava
S. Tommaso, contro lo Scoto che vedeva nella beatitudine della
volontà il primo ed essenziale elemento del fine ultimo nell'altra vita (3). Una delle ragioni per cui il Galateo aveva un po'
d'antipatia per Cicerone era proprio questa: un « vir forensis »
osava mettere il naso in questioni filosofiche e dichiarare che
è meglio « versari in agendo » che darsi alla contemplazione! (4)
Fra la conoscenza intellettiva e l'apprensione sensitiva esiste
una stretta relazione : « Magna est inter sensus mentemque affinitas... Sicut negare sensum propter rationem, rationis est
indigere, sic et ratione non persuaderi propter aliquam apparentiam stultum est. Tunc enim res bene cedit, cum ratio ap-
=
s=
5—
=
5=
=
(1) App. 1°.
(i) Con. III, p. 13.
(3) GRABMANN, op. cit., p. 159.
(4) Coli. III, p. 19 e segg. cfr. pei giudizi su Cicerone, anche: Coli. III, pp. 19,
30, 55.
w
ri
w
Him
,
i14 1 ril il i
w T 11111
w
il dl Ya
ilfiw
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
?
P
1iYi i [1111Y1 i p 111!i'till 11 .1`'i ti 1111
5
parentibus attestatur et apparentia rationi» (1). Questo passo è inserito nella famosa pagina ove si parla dei fantasmi che il popolo crede di veder sorgere dalle paludi dell'agro p eritino, e di altre superstizioni e fantasticherie volgari. Il Galateo cerca di dare una spiegazione razionale di questi deliri e, meravigliandosi come una diceria
destituita da ogni fondamento acquisti credito e vada rapidissimam ente divulgandosi, « maliconicamente riconosce che la ragione devia dalla sua attività normale e prevede, ciò che poi
si è avverato nei giorni nostri, l'ipotesi che il mondo sia un'illusione della nostra mente » (2). Hegelianismo avanti lettera?
Il Galateo testualmente scrisse: « Quanta caligo detinet animos,
alioqui rationales et divinos, ut non ab re quis credere possit
omnia humana simillima esse his, quae dicemus phantasmatis l » (3)
Mi sembra esagerato tirar le sue parole sino a far di lui un precursore della filosofia idealista della natura, dimenticando quel
ch'egli aveva affermato nel De Situ elementorum: Negare il senso
per la ragione significa mancar di ragione. « Quod sensui patet, non indiget certiori dem onstratione » (4). Più che anticipare alcuna posteriore concezione filosofica, egli qui si mantiene sulla linea della tomistica : era stato S. Tommaso ad affermare — attenendosi strettamente ad Aristotele, contro Platone, S. Agostino e la scuola francescana — che tutto il contenuto
della conoscenza intellettiva viene acquistato ed elaborato col
sussidio dei sensi (5). Il Galateo non ebbe bisogno di rinnegare
nè il suo Aristotele nè l'Aquinate per volgersi all'osservazione
diretta dei fenomeni fisici e anticipare alcune spiegazioni date
dalla scienza moderna. Egli non si allontanò per nulla dalla
vecchia sintesi nè dalla vecchia astrazione, e se allora i difensori della filosofia medioevale avessero avuto tutti il suo buon
senso ed acume nel saper discernere lo schietto tomismo dalla
soprastruttura dello scolasticismo degenere, se avessero sentito
così squisitamente palpitare nella loro anima l'anima dell'Urnanesimo italiano, la « philosophia perennis » non avrebbe avuto
quattro secoli di oscuramento.
(1) De Situ Japygiae, Coll. II, pp. 94-95.
(2) DE FABRIZIO, op. cit., pp. 70-71.
(3) Coll. II, p. 93.
(4) Coli. IV, p. 20.
(5) GRABMANN, O,). cit. p. 144.
t
Hfil
19, w
IJ 1111
1TH n i 4`', 11111
1H illY1
=
7-=.1
6
Rinascenza Salentina
3--
Andiamo innanzi nell'esame. Nella famosa disputa circa
la individualità dell'anima, egli si oppone, per quanto un po'
puerilmente, agli averroisti, in nome della sua esperienza pro=
le liti avvengono per la « disformità de costumi et de
nature; che se altramente fosse, tutti gli homini sanano uno, secondo la opinione de lo impio A verroe « de unitate intellectus ».
Dicono li medici, che è impossibile trovare dui individui di
-st•
una medesima complexione » (1).
E' accettato il principio, comune a tutta la morale umanistica, della virtù come giusto m azo fra due estremi: « Dice il
Beato Hieronimo in più lochi la sentencia dei philosophi
31=1•
- ilei6TIC2 T&Q dcpet&;, úrcep(3oMp xoodag, cioè le vertudi son nella
mediocrità, la superabondancia è vicio. Questo prova Aristotile
nel 20 di la Etica, ecc. » (2). Anzi, la misura è eletta a regola di
vita : « Tutti semo di carne fragile, ma in omne cosa se biasma lo soverchio, et se lauda lo mezo et la misura » (3).
I mezzi che conducono al fine dell'uomo — la beatitudine
eterna — sono gli atti umani. Nel « De gloria contemnenda » :
« Non tanti est ista umbrarum gloria, ut tot labores subeamus
In hoc uno summopere laborandum est, ut rette vivamus in
hoc saeculo ut in altero participes simus aeternae gloriae nunquam defuturae » (I). E ancora nel « De principum amicitia »:
« Vis deos propiciari? Bonus esto ; satis illos colit quisquis
imitalus est, ut est propheticum illud: boni estote, quia ego
bonus sum » (5). E nell' « Esposizione del Pater poster » : « Se
parole sole darimo senza opere, parole averimo (6) ».
La volontà umana è libera : omne peccato è volontario » (7)
e più oltre: « in nostra potestate è di ben vivere o male, perchè Dio creò l'homo et pose nelle sue mani la vita et la morte,
lo bene et lo male » (8).
;•••••
(1) Coll. XVIII, p. 22.
(2) Coli. XVIII, p. 80.
(3) Ivi, 57.
(4) Coli.
p. 93.
(5) De principum amicitia - pubblicata da A. Croce in « Archivio storico per
0—
=
3=
3-■
0--
le prov. napol. ». Anno LXII, fase. 1937.
(6) Coli. IV. p. 170.
(7) Coli. XVIII, p. 74.
(8) Ivi, p. 86.
i 11tY1 I i
wm
il
t ill li
w
li FI"
h[lTi
Hil wl'w
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo i
li1s Y ll
7
Le potenze fondamentali dell'operare morale sono ragione
e volontà: « Quanto saria beata, quanto saria fortunata la vita
umana, se la nostra virtù intellettuale che è superiore comandasse allo appetito che è inferiore secundo la natura ; se le
nostre passioni, li nostri affetti, li nostri desideri sfrenati se
lasciassero reger da la ragione...; a che ne facemo chiamar animali razionali, e solo differimo da li bruti per la ragione...
si non ne usamo di quella? » (1). « Si noi comandarimo allo
appetito nostro,... si farimo lo corpo sobto alla anima, non farimo extima di la tentacione di lo inimico, ecc. 3, (e).
Però non è rinnegata la vita affettiva e l'arricchimento di
umanità che essa conferisce all'anima: « Nobis qui stoicitatis
severitatis non laudamus, cum peripateticum dogma profiteamur, licet et timere et dolere et misereri et irasci, ubi, quando,
quomodo et quorum et quibuscum oportet.., istud nihil timere
non contigit sine maxirna mercede immanitatis in animo, stuporis in corpore (3).
Il Galateo riconosce quella che S. Tommaso chiama « sinderesi » o « scintilla animae », riflesso nel cuore dell'uomo della
legge eterna e che costituisce la legge morale e naturale. Porta
spessissimo, specie nell' « Esposizione del Pater Noster », esempi antichi a dimostrazione e documentazione di verità e virtù
cristiane: « Il savio Poeta, dutto dal bene naturale, consentia
a questa sentenzia, ecc. » (4). Ma la fonte dell'etica, il legislatore
e il rimuneratore, è sempre Dio. Nella concezione galateana
della contemplazione come regina delle virtù e termine ultimo
della filosofia, non c'è posto per una concezione della morale
puramente umana. Per il Galateo come per S. Tommaso, la
morale è sempre teocentrica. Vedendo ruotare sul suo capo
il firmamento sereno, sente l'anima allargarsi in un immenso
anelito all'infinito: « Haec coelestia semper spectare debemus, et
illa humana contemnere: ab his sedibus egressi ad easdem redibimus, ut cum superis aeternam beatamque vitam agamus » (5).
(1) Coll. IV, p. 209.
(2) Coll. XVIII, p. 96.
(3) De turcarum apparato, Coli. III, pag. 79.
(4) Coll. XVIII, pag. 60.
(5) Coll. III, p. 73.
8
Rinascenza Salentina
Virtù e felicità son per lui una cosa sola. Nel « De principum amicitia » confuta l'edonismo di Epicuro : « ‘irtutes
omnes ad voluptatem retulit non voluptatem ad virtutes » Sembrerebbe un gioco di parole: invece tra le due opposte concezioni è la rivelazione cristiana che passa e che ispira la osservazione che segue : « habet enim et moralis et contemplatrix
virtus non extra, sed intra se summam voluptatem ». Qui il
nocciolo è greco, ma il tono d'interiorità tradisce la meditazione religiosa. Dotato di un grande senso storico — così vivo
l'ebbero soltanto pochi dei suoi contemporanei — il Galateo
non pensò minimamente alla possibilità di far risorgere integralmente la filosofia greca, astraendo dalla rivelazione cristiana. Quel consiglio all'Acquaviva di leggere Aristotele « purum
et simplicem », volendo filosofare, non può trarci in inganno.
Egli, sebbene non vi accenni, ha il bisogno della sintesi, come
l'ebbero il mite Marsilio e il Mirandolano. Se nella sua multiforme opera non affiora la prepotente tortura dello « spasimo »
di cui parla lo Zabughin (1), non credo che ciò avvenga per
sua superficialità — abbia mo già avuto occasione di notare
ch'egli era natura pensosa — ma perchè crebbe nell'atmosfera
spirituale di un aristotelismo appreso sì alla prima sorgente
greca, ma integrato dal limpido commento tomista. La sintesi
egli se la trovò dinanzi già fatta e non ebbe da sostenere il
travaglio in cui dolorarono i banditori del nuovo verbo fiorentino (2). Ci fu un periodo della sua vita durante il quale si
dedicò a lunghi studi biblici e patristici. Già nel 1496, scrivendo
1' « Eremita », fa un grande sfoggio di cultura in proposito ;
nell' « Esposizione del Pater Noster » questa cultura poi si dimostra veramente meravigliosa. Di tale studio, condotto con
grande amore, egli si è vantato più volte, affermando la gemina derivazione di quelle correnti che in lui si univano a
formare un solo placido fiume : « Galateo, orno sessagenario,
chi s'ha invecchiato in la lezione degli antistiti de la sapien-
(1) Stor. del Rin. ecc., passim.
(2) Rossi op. cit., p. 323 e segg.
(ti I II
q':11 1 11,1 1 111 I IIIII t mi! il i 1 1 1
wilr
i
li :YlmilY+1'w
Mlvi li III
Din a Colucci - Antonio de Ferrariis detto il Galateo
9
zia Platone ed Aristotele, in la lezione de lo Vecchio e Novo
Testamento e de lo Beato Jeronimo ed Angustino... (1) ». « Optarem, si qui mea lecturi sunt, quod viderint primo divinam
Scriptura m, quae fons est salutis et bene beateque vivendi
norma, denique platonica et aristotelica dogmata. Deinde explicent vires suas in expugnando Galateo » (2). Se la sua evoluzione intellettuale si svolse così, linearmente, senza deviazioni
salienti, senza lotta, non per questo la sua figura oggi riesce
meno interessante. Questo sistema di saldissima morale, -- una
morale dalle larghe vedute, che abbraccia e valorizza tutte le
potenze congenite all'anima umana — costruito, per così dire,
intorno ad un'ossatura di schietta religiosità e di immenso
amore per i classici — illumina un altro volto del nostro umanesimo, splendente prisma dalle mille sfaccettature, attraverso
il quale possiamo ammirare scomposta in gamma di colori
quella che era prima un'unica luce, e al tempo stesso possiamo anche ricomporre le infinite onde policrome nell'armonia
di un sol raggio luminoso.
Classicismo e tradizione cristiana si trovano pienamente
d'accordo nel Galateo. E' interessante a questo proposito
1' « Argonautica » o « De Hierosolymitana peregrinatione »,
scritta probabilmente nel 1499. Uno dei due Acquaviva, forse
Matteo, aveva promesso al circoletto pontaniano un viaggio in
Palestina, con relative tappe in Grecia. Il Galateo non cape in
sè dalla gioia : l'agile fantasia lo trasporta di volo nell'idolatrata antichità. Ecco, loro saranno i novelli Argonauti : nel duca,
tornerà redivivo Giasone, il dolce Sannazzaro sarà Orfeo, Cariteo o Summonzio saranno gli argonautografi, egli farà le veci
di Melampo; gli altri sortiranno poi i lor nomi. Premio del
viaggio non sarà il Vello nè Medea, ma il Paradiso e fama
immortale fra i cristiani e perizia di molte cose. Già da Brindisi si levai' le ancore; Japíge e gli Etesi gonfiano prosperamente le vele. Appaiono gli Acrocerauni e Corfù, Panormo e
l'arce di Butroto. Già si respirano le aure mitissime di Grecia,
già si bevono sacre acque e piene di numi. Oh, quanto più
(1) Coli. IV, p. 194.
(2) Col/. II, p. 220.
w r i
i w
il imfil
il`111 1 1111 Pl'• i ili il Ti
10
w i i°:1iii
r
il ii iTw
P1';', i il 111
w 1r
Rinascenza Salentina
gradito vedere queste rovine, questi sepolcri di città, queste
terre feraci di eroi, piuttosto che le pompe e le vanità di Spagna e di Gallia! Dalle ridenti isole dell'Egeo, riconosciute e
indicate una per una, si levano i fantasmi del mito e dell'antica storia. Melo, Nasso, Paro, Delo, Andro, l'Attica, 1'Eubea,
Lemno e Lesbo, Chio e Samo e Coo, « corculum mundi »
ogni nome suscita una visione piena d'incanto. Ma il timoniere
volge a destra la ruota : ecco Creta e Rodi e la molle Cipro
sacra a Venere; l'Ellade resta a manca, a dritta si leva Alessandria. Una rapida scorsa per l'Egitto, una sguardo alle piramidi ed alla reggia dei Re saraceni, ed ecco la Palestina : « Salve
chara Deo tellus sanctissima, salve in qua natus est salvator
mundi Bethlehem sancta: salve porta cwli, ianua Paradisi » (1).
E' proprio questa la grotta ove avvenne l'immenso mistero'?
La fantasia che aveva suscitato i fantasmi pagani, si compiace
nel ricostruire minutamente la scena della santa Natività: « O
bove, o asinello, guardatevi dall'offendere il tenero corpicino,
lambite le molli membra. Non avvolgere, o madre, il santo
corpicciuolo in strette fasce. Ridi, o fanciullo, Salvatore nostro:
« Incipe parve puer risu cognoscere matrem ». Il bel verso di
Virgilio torna ad allargare la sua melodia intorno alla culla
del divino infante, e in ciò non v'è ombra di profanazione.
« Accogli lieto le nostre preghiere, volgi i lieti occhietti a noi,
che ti abbiam cercato per così lontani e lunghi e ignorati mari ». « Per tam longimqua et ignota quaerimus aequora ». Di
quanti nostri umanisti fu questo il destino ? C'è stato un tempo in cui li abbiam creduti tuffati in un risorto paganesimo, o
almeno indifferenti a qualsiasi dottrina religiosa (2): gli studi
posteriori hanno dimostrato che il problema religioso interessò
tutti i migliori, e che in molti divenne vero e proprio travaglio
spirituale. Perchè non riconoscere alla poesia e alla speculazione di alcuni un fremito sincero di religiosità'? Ecco qui il
Galateo: si è commosso al ricordo della grecità serena: la
stessa commozione se la ritrova vergine e intatta dinanzi alla
culla di Bethlehem. Perchè negar carattere di sincerità alle « pias
et veras lacrimas » che sparge sul Golgota ai piedi della Croce?
(1) Coll. III. p. 176.
(2) VornT, Il Risorgimento dell'antichitd classica. Firenze, 1888-90, p. 204.
1'4'1111 1 11 11`+
? Yil i
)=7
2—■••
2—
r il 111`
11
11 il i w
i il TI
a il 1YYIld lY aI
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
1 1' 111 11:Y m1 Y I il11'Ill
11
Attraverso il bell'Jonio e l'Egeo, passando per Atene ed Alessandria, è giunto a prostrarsi sui « sanctis locis »: come Dell' « universus rnundus » medioevale il gentilesimo ancora ha
ministrato e il cristianesimo imperato (1).
La filosofia del Galateo culmina nel concetto della Provvidenza: la sua metafisica, la sua logica ed etica — come nelle
Somme — sono ad essa informate. La sua vastissima cultura
scientifica, l'osservazione attenta e sagace della natura, l'amore
che portava alla storia, intesa non come arida sequela di nomi
e di fatti ma come documento dell'umana evoluzione morale
e intellettuale, la brama torturante di dar fondo all'universo,
rafforzavano in lui il senso della legge superiore che governa
armonicamente il cosmo, guidandolo a un unico misterioso
fine. Col concetto della Provvidenza risolveva tutti i problemi;
ad essi, come àncora di salvezza, si attaccava nei momenti di
dubbio ; in suo nome si opponeva all'astrologia o almeno la
spiegava in senso cristianò. Se qualche volta parlò di dnsana
fortuna » e di « cieco destino » — e chi mai allora, pur credendo
alla libertà dell'umano volere e alla presenza di Dio nella storia, non usò almeno una volta queste parole ? (2) --, quando si
trattò di porre la questione in termini precisi, affermò nettamente la Provvidenza. Specialmente nell' « Esposizione del Pater Noster » ne parla spessissimo: forse per recar cristiano conforto al cupo dolore d'Isabella d'Aragona ? Nel descrivere l'ordine mirabile della natura, spesso il suo tono si eleva ad entusiasmo commosso: l'armonia delle sfere, le ordinate veci dei
mutamenti terrestri, l'isonomia del regno delle api, il piccolo
complesso organismo della zanzara sono descritti in bellissime
pagine ove palpita un'infinita simpatia — nel senso originario
della parola — per tutto il creato. Se ci sembra che le cose di
questo mondo non vadano secondo giustizia, « cattivamo, ligamo, incatenano lo ingegno nostro debile e lo saper nostro
obscuro e spesse volte fallace, submittimolo allo ossequio de
Dio ». « Più ragionevole cosa è dare la colpa alla obscura in-
(1) Cfr.
ZABUGHIN,
(2) GRAF :
p. 273 e segg.
o. e., p. 11.
Miti, leggende e superstizioni nel medio evo. Torino, 1892, vol. I,
Ì IIIIIIII9
(^
11111h111:1Wil
12
IlaÌ1111111‘111111111'n'H PIII:n011Wril11111
Rinascenza Salentina
telligentia nostra, che non alla divina sapientia, che non può
fallir » (1). « E' da tenere per articolo di fede che ciò che Dio fa
è ben fatto » (2). Nel « De Situ Japygiae »: « Nos sumus finis
omnium. Deus et natura nihil frustra faciunt, nec deficiunt
necessariis: et ex bonis et possibilibus quod optimum est faciunt (3) ». Sembra l'eco del motto del buon Ficino: « A bono
in bonum ». In che cosa dunque il sistema del Galateo dissente dalle conclusioni tomistiche E' vero che la filosofia scolastica di Hentisberg, di Strodus, di Occham — « nomina ipso
paene timenda sono » (4) — gli era molto antipatica, ma seppe
non coinvolgere in un unico disprezzo anche quella di S. Tommaso. Se il 7 novembre 1474 i platonici fiorentini celebrarono
nella villa di Gareggi il « Dies natalis » di Platone, ogni anno
ai 7 di marzo il Galateo celebrava nel Salento la festa del suo
Aquinate, come più tardi, il 18 ottobre, onorava piamente
S. Luca convitando a « lautissima mensa » dodici poverelli (5).
Ora, giacchè ci siamo arrivati logicamente e cronologicamente, prendiamo in esame il dialogo « Heremita »
(1) Coli. IV, p. 234 e segg.
(2) Coll. XVIII, p. 37.
(3) Coll. II, p. 28.
(4) De interpr. Them. ad Herm. Bar.
(5 Heremita, Coli. XVIII, pp. 79 e 128.
"w
ontimmi
1 117 i I 1 1 1 ili
m w
IÍii 111 11 1 7 111 , 117; i i w
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 13
Cap. V
Il dialogo « Heremita »
Insieme col « De Situ Japygiae 3, e col « De educatione »
è questa l'opera del Galateo più conosciuta e discussa.
I giudizi dei biografi più antichi si raccolgono in quello
del Pollidori, che la chiamò « opus intemperans ». I moderni
incominciarono ad occuparsene dopo che il dialogo apparve
per la prima volta stampato nel vol. XXII (1) della Collana degli Scrittori Salentini, curata dal Grande. Allora il Maggiulli (2)
scrisse che ivi il Galateo « stigmatizzò i maledici ». Il Gothein (3)
lo chiamò « forse il più notevole prodotto della cultura del
Rinascimento », giudicandolo invece « un attacco a tutto l'organismo della Chiesa cattolica e specialmente al punto più delicato di essa, il primato del Pontefice romano » (4). Il Barone
affermò l'ortodossia dell'autore, « cattolico senza manto d'ipocrisia » e avvertì che il dialogo non è tale da potersi giudicare
con un rapido sguardo. Luigi d'Atena (5) ricordò che bisogna
tener conto di alcune dichiarazioni che il Galateo fa nello stesso
Heremita », delle lettere ai Vescovi Tolomei e De Caris e
delle sincere espressioni di fede sparse qua e là nelle sue opere ».
Il De Fabrizio accettò, pur con qualche riserva e cadendo in
contraddizioni, il giudizio del Gothein : il Galateo « pensò di
scrivere un libro con l'intento di far la requisitoria degli uomini più venerati dalla Chiesa, quando Lutero, si noti, era
ancor fanciullo ». Pur ammettendo il significato allegorico dei
personaggi del dialogo, è certo « ch'egli si mise davanti la Bibbia e la interpretò razionalmente, nè sappiamo qual senso allegorico si possa attribuire alle discussioni intorno alla Provvidenza, all'immortalità dell'anima e simili » (6).
(1) Lecce, 1875.
(2) L. MAGGIULLI e S.
CASTROMEDIANO, Bio-bibliografia Salentina - ms.
(3) Die Culturentivicklung Sud - Baliens in Einzel Darstellungen. Breslau,
1886, p. 462 e segg.
(4) p. 176 della trad. ital. già cit.
(5) Il pensiero di A. G. - in Bass. Pugliese, XXI 1904, pp. 167-182.
(6) Op. cit., p. 137
I
wI I
;IF rim i i:1111 , 11 1 7 [Hi r ir
14
rl"
(i`!i
Flua n
il w1iY1HIIYiw Ifiw 11 11Y11 i
l'rf n n l'4)Y11111111YY1111
Rinascenza Salentina
L' « Heremita » è veramente una strana opera che, quando
la si è finita di leggere per la prima volta, lascia molto meravigliati e incerti. C'è nella vita del Galateo un punto oscuro,
su cui forse non si riuscirà mai a gettar luce, e che c'impedisce la piena comprensione di questo dialogo. Noi non sappiamo per qual precisa ragione egli dovette, volente o nolente,
abbandonar la corte aragonese nel 1495; nè in che cosa precisamente consistessero nè quanti granelli di verità contenessero le accuse che gli furono mosse. Molte sono le allusioni
che troviamo nelle sue opere, ma sono tutte accuratamente
velate.
Secondo il Gothein, il Galateo « di confessione greco » e
il Tolomei, destinatario del dialogo, « vescovo greco-unito »
di Lecce, si erano attirate delle inimicizie per la loro professione di fede dissenziente (1): tutto questo non è per niente
esatto. I Vescovi greci nel Salento erano stati già da parecchi
secoli sostituiti con la gerarchia latina; quanto al rito greco,
esso si osservava ancora in qualche chiesa, unitamente al latino, ma di confessione si era cattolici (2). Nella lettera galateana a Ferdinando Re di Spagna si ha una dichiarazione esplicita di cattolicesimo. Si potrebbe obiettare, che rivolgendosi
alla Maestà Cattolica per antonomasia, l'autore sentisse il bisogno di « affermare la sua ortodossia, checchè si possa dire
di questa » (3); ma che cosa c'è ín quella lettera di men che
dignitoso e di men che vero ? It Galateo non vi chiede favori,
nè vi difende il suo particolare interesse : quelle poche pagine
son tutte una vibrante esortazione a rivolgere le armi dalla
Libia, ove si colgon solo sterili vittorie, allo stesso cuore dell'impero turco, Costantinopoli. Vendicare il sangue versato ad
Otranto dai martiri cristiani: ecco l'unica brama del nostro
pugliese. Solo gli spagnoli sin ora non hanno imperato ; venne
il lor turno, non perdano l'occasione. « Habemus Christum ducem, sequamur nobis oblatas sponte victorias »: il fine delle
lunghe guerre sarà la riconquista della città dí Dio, la santa
(1) Op. cit., p.
177.
(2) DE GIORGI,
Geografia ecc., vol. I, p. 193 e segg.
cit., p. 186.
(3) GOTHEIN. op.
lí
wi ,! `) h w
1111.1
Tilillwr
II H111 1 wIÌi il il 111)111111111Y,w1 111,'11 p i r,1`Yll i 1111i
Dina Colucci - Antonio De errariis dette il Galateo 15
Gerusalemme (1). Agli inizi del sec. XVI c'era ancora chi pensava alla possibilità di una guerra santa! E' questa una delle
tante volte in cui mi è accaduto di domandarmi se il Galateo
non fosse per caso un dugentista in ritardo. Quando non bastasse la testimonianza della lettera al Re Cattolico, ecco quella
dell' « Esposizione del Pater Noster , che è anteriore: « Se troverà forse el Regno de Dio nella Ecclesia greca, quasi separata
dalla nostra cattolica?, (e).
Le accuse in materia di religione vi furono sicuramente,
ma nel 1495 dovettero essere anche di altro genere. Inviando
a Marc'Antonio Tolomei il dialogo, il Galateo lo faceva precedere da una breve lettera, in cui dichiara di aver composto la
favoletta non per i posteri, ma per i viventi; non per acquistarsi gloria ma per opporla ai morsi dei maledici, come una
focaccia a Cerbero. Soltanto il Tolomei sa come avvenne che
i maldicenti da cigno lo tramutarono in corvo. Ecco ch'egli
si vendica: « Tua intererit parcere, cum sanctos viros a me
lacessitos audiveris; quoniam nosti me sub alio am persona
alios ferire » (3). Ha introdotto i santi a parlare, perchè le loro
opere sono note a tutti, sicché « ab uno quolibet exempla capere possis ».
L'argomento della favola è ancor più noto al Tolomei che
allo stesso Galateo, perchè anche quegli fu colpito sovente
dalle stesse frecce: « Ego quam potui bene meritos principes
verbis et inanis litterulis, tu factis iuvisti ». Ecco che abbiamo
appreso una cosa: c'entrava lo zampino dei principi. Infatti,
nella « De villae incendio, scritta a Crisostomo durante la composizione dell' « Eremita » o poco dopo, consigliava all'amico
— che unico serbava ricordo di lui e gli inviava frequenti lettere — di badar che non gli nuocesse l'amicizia di uno sfortunato, ed esponeva le proprie disavventure : nella guerra turca
e nelle venete i barbari e gli stradiotti gli avevano tolto quel
poco che si era acquistato con buone arti e con continuo lavoro; poi, affinché neppure la guerra gallica passasse senza
(1) Coli. III, p. 112.
(2) Coli. IV, p. 184. Cfr. anche il De Situ Japygiae, Coli. II, p. 89.
(3) Coli. XXII, pp. 3-4.
fli mTw
16
A vo I i litri ihri i t Yll i 'in
rinascenza Salentina
fargli danno, « calumniae — ut scis — paene aboleverunt tot benefacta et benedicta »; ora, anche la sua villetta di Trepuzzi
gli era andata distrutta da un incendio. Nell' « Esposizione del
P. N. » sostiene che i re possono esigere fedeltà dai sudditi
solo fino a un certo punto : « Io non tengo per bon Signore,
nè per boro homo chi vole la disfacione, la morte, lo dishonore de li sudditi, o vero che castiga tanto acerbamente li peccati fatti per necessità come per volontà, ma per vero non son li
Signori mali, ma alcuni « canes palatini », li quali stanno come Cerbero con tre bocche aperte ad inghiottire si le robe et
lo sangue de quelli, chi hanno peccato, et anchora de li innocenti ». « Servare se vole da uno homo da bene la fede, ma si la
necessità ni forza, che culpa è la nostra ? « Lo mio parlare
dispiacerà a quelli, chi son sviscerati, come loro dicono, partesani; ma io metto li exempli de li grandi homini, non de
queste bocca telle, chi non sanno stare, si non alle rote, come
lo strumolo, et portare et reportare et racogliere le reliquie de
li naufragii de altri (1).
Cosí il Galateo scriveva nel 1504 ad Isabella d'Aragona.
Che le sue parole alludessero ai fatti del 1501 non è probabile; allora egli fu fedele fino all'ultimo a parte aragonese, e,
costretto ad allontanarsi in gran fretta da Napoli pel sopraggiungere dei francesi, si ritirò in Puglia dove prestò la sua
opera alle truppe spagnuole (2). L'allusione è rivolta ai fatti
del '94: entrato Carlo VIII in Napoli, la fede del Galateo forse
pencolò e quando il giovane figlio di Alfonso ricuperò il Regno, i « canes palatini », peste delle corti, ne approfittarono
per mordere l'umanista. Non sembra ch'egli sia mai entrato
nelle grazie di Ferdinando II: che anzi, durante il breve regno di questo, rimase sempre in Puglia e:ritornò a Napoli solo
fra il 1499 e il 1500. Quanto alle accuse di empietà che pure
gli furono mosse, è da notare che nel « De principum amicitia », forse sincrono all' « Eremita », si lamenta che alcuni ipocriti santoni — sepolcri imbiancati ricolmi di putridume — di-
(1) Col/. XVIII, p. 71-72.
(2) App. 2°.
1111:Y1w
_,. 1 111111 1 : 11 , 11 711111,11T1111111F111111111711111111711111111r1.711111111-111111111[VIIIIIIIITIIIIIIN1T11111111T7017111E111:T11,1111:r1H11111Y+Ì'WHIli
=„
Dina Colucci - Antonio de Ferrariis detto il Galateo 17
vidano coi principi le laute cene, mentre coloro che veramente
son buoni e fedeli restano abbandonati alla propria miseria.
Se il fatto a cui allude si verificò alla corte aragonese e se
a Napoli egli fece risuonare troppo alto il suo biasimo, si comprende come questi monaci, fatti bersaglio ai suoi strali, non lo
potessero soffrire.
A capir la situazione che condusse il Galateo a ideare e
comporre il dialogo, giova sopratutto una lettera inviata in quel
torno di tempo al Sannazzaro, la « De inconstantia humani animi ». E' una fra le più belle del Galateo, forse la più interessante,
per un tono petrarchesco di amara introspezione. Arrivato a
casa sano e salvo ma stanco e affaticato dal lungo viaggio, si
è recato subito all'Abbazia di S. Niceta (1), per fuggire la città,
gli uomini, sè stesso. Le città son nido di delitti, gli uomini son
bestie efferate: egli è a se stesso di peso perchè mai eguale a
se stesso. Lo strepito, il tumulto, la confusione e corruzione
della grande città gli dà fastidio e nausea: ecco, l'ha lasciata,
e già subito s'annoia della eterna silente solitudine campestre
e dell'incolta faccia della natura. La semplice vita dei pastori,
tanto sognata, già lo attedia. O incostanza umana! E quando
mai saremo d'accordo con noi stessi In città ci son gli amici,
senza i quali non si vorrebbe neppure vivere, tanto grande e
nobile cosa è l'amicizia; ma apporta dolore, ma è anch'essa mutevole e oscillante: « nosti enim quantum mali mihi ex amicis
accidere potuit, risi amici me in tam bona causa defendissent (2).
L'uomo può molto nuocere al suo simile, e forse è vero quel
che diceva il savio di Grecia: « O amici, nessuno è amico ».
Buona cosa è di quando in quando nascondersi. Perchè l Per
fuggire l'odiato genere umano, per fuggire noi stessi, cui mai
possiamo fuggire, a noi stessi discordi e nemici. Crlpiano oppone che è vergognoso nascondersi. No; se ciò si fa per evitare
la consuetudine dei malvagi e l'occasione di far male, è da probi
e virtuosi. Questa vita menarono un tempo i profeti e i santi
uomini che preferirono la compagnia delle belve a quella dei
(1) GABRIEL!. L'Abbazia. ecc.
(2) Coll. III, pp. 101-102.
D
m i -":111 1
tr In
mr iliirririllilTiillilTnir n i T, n il
w
111
Rinascenza Salentina
18
loro simili; questa persuaso agli amici S. Girolamo. Se l'uomo
cerca la solitudine per peccare è un bruto, ma se per ben vivere, è Dio.
Questo è il clima spirituale in cui germogliò l' « Heretnita ».
Nel monaco battagliero che sulla porta del Paradiso discute
cogli angeli e coi santi, riconosciamo facilmente l'umanista che,
nella solitudine dell'antico cenobio basiliano, ripensava nostalgicamente alla bella compagnia degli amici di Napoli. La piccola, vivacissima opera non è un attacco alla tradizione cattolica: è semplicemente un'apologia e una satira di costumi contemporanei.
Incomincia con un nostalgico rimpianto del buon tempo
antico: passò l'età della religione sincera, quando nella Chiesa nascente si venerava piamente il Signore e fiorivano a migliaia i
santi e i martiri. Ora siamo diventati vecchi e abbiamo macchiato
di eresie e di inutili dispute la candida fede dei padri. Gli antichi ordini più non fanno per noi: l'ingegnosa umanità ha escogitato nuove regole. Gli Apostoli e gli Evangelisti sono lasciati
da parte per i nuovi santi. Prima i monaci cercavano solitudine e povertà nei deserti della Tebaide, eleggendo vita eroica
e vicina a Dio; ora invece entrano negli ordini per trovarvi
lauta mensa e lusso e onori. Negli scritti del Galateo ritorna
spessissimo il lamento sul mal costume ecclesiastico: nel « De
Hypocrisi », nell' « Esposizione del P. N. », nel « De Situ Japygiae », nel « De Principum amicitia », per non citarne che
alcuni. Non si può senz'altro dedurne che l'autore fosse contrario alla gerarchia ecclesiastica ed al monachesimo. Lo Zabughin osserva che l'inveire contro il lusso e il fasto del clero
può essere segno di un interessamento vivo e sincero alle cose
della religione, e che nel « Quattrocento » questi attacchi erano
un luogo comune, usato e non di rado abusato con grande slancio dalla letteratura mistica e ascetica ;1).
Uno di quei vecchi eremiti di antico stampo — buon uomo
o almeno certo uon cattivo, nato nel Salento, mediocremente
istruito nelle lettere greche e latine — che si era ritirato nella
solitudine per vivere senza peccato, soltanto a sè e a Dio, e
(1) V. ZABUGUIN,
Giulio Pomponio Leto, Vol. I, Roma 1909, pp. 230-231,
2L't 0111
1U
t
11111 1 t1111!IITI1111 1 11(
`f
w
ilY
li hai i h 111171111 11711
Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 19
per non veder oppressi i buoni ed esaltati i malvagi, essendo
venuto a morte, è subito afferrato dal diavolo. Accorre in suo
aiuto l'angelo, ed ecco una graziosa scenetta tra il cattivo e il
buon genio. Questi, per verità, non ci fa una molto brillante
figura perchè l'avversario sfoggia maggior eloquenza e riesce a
far vedere i minimi falli del povero mal capitato come dietro
una lente d'ingrandimento. Gli fa colpa dell'aver riso in faccia
a un vecchio eremita che russava stanco dall'orazione — attacchi agli ipocriti ? del non aver dimostrato molto valore contro i saraceni — si allude alla famosa guerra otrantina dell'80
Delle altre accuse, che vertono su inezie, ci sfugge il significato, o forse non ne hanno.
L'angelo cede le armi, confessa che gli uomini vengon misurati non dalle virtù e dai vizi, ma dalla fortuna — che il Galateo pensasse proprio ai giudizi celesti TI Gotheiu dice di
sì, ma mi sembra un po' ingenuo crederlo — ed esorta l'eremita ad andarsene di buon animo all'inferno, perchè tanto la
virtù finisce sempre col vincere. Ma il buon vecchio, che matura già un suo progetto, chiede di poter vedere almeno di fuori
quel Paradiso, per cui tanti affanni ha sofferti e tante lacrime
sparse. Il diavolo acconsente di buona voglia, per fargli soffrire
un po' del supplizio di Tantalo, e vanno. Ecco la santa città
dalle mura luminose; unica e angusta la porta di diamante, e
molti secoli passano talora senza che alcuno la varchi. Ma una
lunga teoria di candide anime osannanti si avanza incedendo
solenne sui verdi prati. L'eremita ne addita alcune al compagno: sono Ferdinando I e II e Alfonso d'Aragona, Ermolao Barbaro e Paolo Attaldo, Roberto da Lecce. Mentre il diavolo guarda ammirato, il vecchio coglie il destro: gli dà uno spintone
che lo manda a ruzzolare giù per le scale, spicca un salto ed
eccolo in Paradiso. S. Pietro, il celeste portinaio, scorge l'intruso e vuol mandarlo via, ma quello è deciso a non andarsene.
Cosa ha fatto di male per essere scacciato ? Si è dedicato alla
filosofia fin da giovinetto, non ha offeso nessuno; cresciuto in
famiglia cristiana, è stato sempre devotissimo alla santa Trinità, per quanto — come conviene — abbia venerato anche gli
altri santi (sembra quasi che anticipi la difesa per le accuse
future); è entrato nell'eremo per sfuggire gli uomini e se stesso
(ritorna un'espressione del « De inconstantia humani animi »).
',H I wiThir
rfir
20
1111:YL IH',11'w
111:Yli
Rinascenza Salentina
La sua mente disprezzò sempre le cose terrene e si mantenne
rivolta al cielo, dove con ogni riverenza si strinse affettuosamente ai servi di Dio. A dir vero, non ha compiuto atti (li
valore: le sue mani sono state create a salvar gli uomini, non
ad ucciderli. Forse per questo piacerà meno al Signore l Che
S. Pietro ascolti le accuse, che gli permetta di difendersi; se
non riuscirà a dimostrare la sua innocenza, accetterà di andarsene nell'inferno. Ma S. Pietro dichiara di non aver tempo
da perdere per sedere in giudizio. L'eremita: Sarò condannato
senz'essere udito ? E l'apostolo: Che me ne importa ? Allora l'altro inviperito dà la stura alla sua loquacità salentina: la superbia ed insolenza di Pietro hanno nociuto al Signore più delle
iniquità dei farisei. Che cosa mai abbandonò per seguir Cristo ?
Una vecchia barca e reti rattoppate, ed ora invece ecco a sua
disposizione scrigni colmi e laute mense; le chiavi, già di ferro,
son diventate d'oro e muovono le guerre, sconvolgendo il mondo
cristiano: sono esse a sovvertire dal fondo la nostra fede. Sì
grande premio concesso a un ingrato, a un perfido ! E' proprio
vero che il Signore non venne per i giusti, ma per i peccatori.
E' chiaro che qui gli strali si appuntano verso il papato:
ma dov'è che è combattuto il primato del romano pontefice ?
Forse lo combatterono Dante e il Petrarca e S. Caterina ? Qui
ci troviamo nel loro stesso punto di vista. E non dimentichiamo
che, mentre il Galateo scriveva, sedeva sul soglio di Pietro
Alessandro VI. « Summus pontificatus p oster est ! » — esclamava
nel De educatione — «U tinam romanos, ut quoudam, pontifices
haberemus, utinain nunquam a Francis aut Gothis occupata
fuisset illa Italis debita sedes ! ». Callisto e Alessandro furono
la rovina d'Italia: non cosa Pio, Sisto e Innocenzo, italiani, che
stesero agli Aragonesi la mano amica. « Nunquam fuit barbarus
papa, quin Italia iugentibus malis afflicta fuerit ».
Ora le speranze si raccolgono su Giulio: « Speramus illum
ablaturum fore opprobrium nostrum...: Italus enim est » W. Non
è chi non legga e non pensi qui al famoso « Fuori i barbari ! ».
A Giulio II il Galateo si presentò nel 1510 recandogli in dono
nientemeno che una copia di un esemplare della donazione di
(1) Coli. II, pag. 112 e segg.
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
3-■
3=_•–
=
2=
3—>
2=
3
3—>
377
Costantino, tolto all'Archivio Imperiale di Costantinopoli e
portato nel 1207 all'Abbazia basiliana di Casole dall'abate Niceta. Gli argomenti che nella lettera di dedica adduceva a sostegno della donazione per verità non valgono molto, però è
da notare una sua parola assennata, una delle poche giuste che
fossero state pronunciate fino ad allora nelle grandi dispute fra
guelfi e ghibellini: « Se alcuno non si lascerà persuadere dalle
ragioni esposte, almeno non potrà negare questo, che sì gran
cosa (la costituzione del dominio temporale dei papi) non potè
compiersi senza la volontà di Cristo; nè alcuno di sano intelletto stimerà più il ricevere dagli uomini che da Dio, al cui
cenno si ordinano tutte le cose » (1). Dopo tanto discutere, oggi
si è finito col tornare alla vecchia opinione del nostro umanista.
Man mano che, allontanandosi gli anni tristi, si è allargata
la prospettiva e si è potuto ragionare con calma, si è anche venuta profilando sempre più nitidamente sull'orizzonte storico
l'utilità e la necessità del potere temporale nei tempi di mezzo.
Esser cauti nel giudizio degli avvenimenti storici e saperli guardare dall'alto: il '400 — e chi se l'aspettava l — cì dà anche
questa lezione.
Ma S. Pietro già si è stancato e invoca l'aiuto di S. Paolo,
che è « acutus et in lege peritissimus et gladiator acerrimus ».
Già da queste prime parole si comprende che la figura del santo
quale comparirà nel dialogo non è veramente quella che rivive
negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, ma che nella sua rappresentazione entrano motivi della tradizione popolare liberamente rielaborati. Infatti, le accuse mosse a S. Paolo sono superficiali: si limitano al fatto dell'essersi calato vilmente in una
cesta giù dalla torre. La figura di Paolo non si prestava a nessun addentellato con la realtà moderna, non poteva essere utilizzata pel fine principale del lavoro, onde il Galateo se ne
sbriga in poche parole. Ben altro avrebbe potuto rispondere
in sua difesa l'Apostolo delle genti: invece volta le spalle e
se ne va.
Ed ecco gli Angeli: ad essi il Galateo rimprovera di essersi
nascosti nelle complicate anfrattuosità del cielo quando si sca-
.3
o
21
(1) Co//. 1V, p. 99.
^IIIII
I
111,11,1
22
111:YL
Iillll
T irrim
il
, T
illtuir'111371
Rinascenza Salentina
o=
5=
5
5=
tesò la terribile guerra fra il Signore e Lucifero. Vedendo la
loro volubilità e volendo impedire che peccassero, Iddio li privò
del libero arbitrio. Tutto questo è forse nella tradizione cattolica ? E' leggera fantasia poetica, non polemica disciplinata.
Credo" che gli angeli compaiano in scena solo per porgere il
destro di farsi mandar via con queste parole: « Abite, quaeso,
vos agile3 spiritus et leves, quibus non uxor, non fluii, non bona
aliqua sarcinae erant. Bella optastis in quibus nihil perdere,
magna vero lucrari proprium erat • (1).
S'inoltra solennemente Adamo, il primo padre, creato direttamente dalla mano di Dio: appena tenta di aprir bocca è
travolto da un torrente d'ingiurie. Egli, semenzaio del genere
umano ? Semenzaio di tutti i mali, piuttosto, e primo maestro
di peccato. Nessuna questione è sollevata intorno al peccato
originale, al libero arbitrio, ecc.: dopo aver rimproverato ad
Adamo la sua superbia ed insolenza, il Galateo vien fuori con
una sentenza generica: « Plures enim in maxima incidernnt delieta, dum aliorum Aelicta ferre non possunt », e starebbe per
chi sa quanto tempo a commentarla, se S. Pietro che ha fretta
(teme che sopraggiunta la sera, venga il Signore e clemente
accolga l'intruso: « O hominis iuhumanitatem ! — osserva questi — bene dicitur: dominus largus et servus avarus ! ») non chiamasse Abramo.
Nel contrasto coi patriarchi si è voluto vedere una critica
al giudaismo. Il Galateo rimprovera ad Abramo i vizi senili
ed osserva che anche quell'antichità veneranda non mancò di
delitti, e quando Isacco lo riprende della sua oltracotanza, ribatte: « La vostra impudenza ci costringe all'ira; poichè voi piacete troppo a voi stessi e tutti gli altri disprezzate: tutto rivendicate a voi, non stimate un capello Dio nè gli uomini. Io
non perseguito i santi, ma i vizi: 'perchè anche i santi furono
uomini come noi e poterono peccare » (2). Quando mai la Chiesa
cattolica ha insegnato il contrario? Quando mai ha dichiarato
eroiche le virtù dei patriarchi, dei giudici, dei Re, dei profeti
d'Israele T Nell'Antico Testamento la tradizione cattolica rico-
(1) Co/i., XXII, p. 29.
(2) Ivi, p. 35.
—
5-=
nw
idl`H il u ff19,
iTH il n
ihnh
1111111 1iYn i i ?1Y i w illfiw I 11Yll i t Irlr
Dina Coltoci - Antonio De Ferrar iis detto il Galateo
23
nosce simboli e figure: e quando Isacco si rivolge all'eremita
esclamando: « O quanta confundis, o quanta ignoras Nescis
quod omnia erant inisteria, sic iubente deo ? Lege scriptores,
lege patres; nam in omnibus tibi facient satis », il Galateo
tace e fa uscire in campo Giuseppe. I patriarchi furono uomini
da bene, buoni pastori, buoni coloni: l'eremita lo ammette; ma
furono rozzi e incolti, e rusticamente vissero. Proprio questo
lo angustia: « primum, quod doctissimos viros indoetissimi instruunt in christianam religionem, secundum quod mali bouos
ducunt in Paradisum. Veniunt rustici, et rapiunt coelum; nos
cum nostra scientia mergimur in infernum » W. Credo che queste parole si riferiscano non all'antico popolo d'Israele, ma a
condizioni reali e presenti del secolo XV.
Giuseppe ostenta la sua sapienza nell'interpretar sogni. E
il Galateo: Con quanta facilità si dà nome di sapiente a colui cui arride fortuna, che i re amano, il popolo onora e le
ricchezze aiutano. « Marcet quae sub pailiolo sordido est sapientia ».
Ed ecco Mosè. Dapprima l'eremita lo accoglie molto male,
ma poi si riduce a più miti consigli ed anzi si. apparta con lui
a colloquio su un verde prato. E' meravigliosa la disinvoltura
che il Galateo conserva in questo mondo di personaggi biblici e di santi, e la facilità con cui son messi sullo stesso piano
e impastati bizzarramente insieme leggenda cristiana e storia,
filosofia e letteratura, l'antico mondo ebreo e il classico, il mitologico e la realtà vivente, che preme e urge pur sulla soglia
serena dell'empireo: il tutto pervaso e unificato da un'agile arguzia e al tempo stesso da una serietà appassionata, che ci tengono sempre in contatto con l'autore. Di che cosa mai parlerà
con Mosè ? Ecco: anzitutto gli domanda qual lingua avesse usata
per parlare col Signore. Tutte le lingue, a seconda degli argomenti — risponde quegli — e dall'enumerazione che fa, risulta
che ne conosceva una dozzina. Ma quale più spesso ? La greca,
naturalmente. C'era da stupirsi come mai il Galateo non avesse
ancora spezzata una lancia in favore dei suoi Greci, ma ci siamo. E fra le cinque lingue greche quale a preferenza L'attica,
(1) Co//., XXII, p. 37,
ill'+>Y11111111ril w
} •
24
=:
Rinascenza Salentina
e propriamente quella di Aristotile quando si doveva parlare
con dottrina, semplicità, verità e sottigliezza; quella di Platone se si esigeva riverenza, buon gusto, candore e facondia.
Quella di Senofonte è da storico e quasi da soldato, e quella
di Demostene e Cicerone capziosa e imbellettata, adatta pel
tribunale, ma non pel cielo. L'eremita domanda stupito: Perchè
hai annoverato Cicerone fra i Greci .E Mosè: Perchè quel greco
di Arpino mi sembra il più greco di tutti i greci. L'altro resta
ammirato per tanta sapienza, e il patriarca con buona grazia ne
svela il segreto: bastò che una volta sola parlasse con Dio per
diventar dottissimo. Non c'è da farsene meraviglia, perchè anche i principi sanno rendere i loro favoriti da oscuri illustri e
potenti, da poveri, ricchi e — mirabile a dirsi — da stolti sapienti, da ignoranti dottissimi, da cattivi buoni: e all'arbitrio
di chi a stento saprebbe governare sè stesso e la sua casuccia
e un piccolo gregge di caprette, affidano il timone dei regni
e l'amministrazione dello Stato (l'ironia di questo passo chiarisce quella delle pagine precedenti contro i patriarchi). Poi
Mosè passa a discutere del fato, problema scottante. Gli dei
pagani giuravano per lo Stige, che significava l'eterno e immutabile ordine delle cose: Mosè ha udito Iddio giurare invece
per sè stesso. In Lui, dunque, necessità e volontà coincidono:
« fortasse haec est summa libertas, semper velle quae optima
sunt; divina enim mens quo fertur voluntate, eo vocat et necessitas » Se chiameremo fato la volontà divina, non erreremo. Il Verbo è la Sapienza del Padre: forse quella che gli antichi filosofi chiamarono anima del mondo, nella quale son contenute le idee di tutte le cose.
A questo punto il Gothein così riassumeva il dialogo:
« Mosè dice che Dio si potrebbe chiamare l'anima del mondo,
ed approva senz' altro la dottrina platonica », e più oltre:
« Mosè e Platone pel Galateo sono tutt'uno » (2). Piano: la
teoria delle idee divine è, sì, dottrina platonica, ma rimaneggiata dall'agostinianismo e accettata e svolta dal tomismo in
quella dell'esemplarismo divino. Secondo la « Summa theolo-
(1) Op. cit., pag. 46.
(2) Ivi, p. 180.
1
g-=>
Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 25
Oca », Dio è la causa prima della sostanza e dell'essere, ma
è anche la causa esemplare di ogni ente, in quanto, creando
la sostanza e l'essere, sostanzializza le sue idee divine (n. Mosè
parla più da discepolo di S. Tommaso che da seguace dell'Accademia: La sapienza divina produce le cose, come la nostra
è prodotta dalle cose ». Si può essere più tomisti di così?
Il patriarca continua: il vero bene è quello a cui Iddio è portato da somma libertà e necessità, onde Egli con saldissimo vincolo ha unito quel che è buono e bello a quel che è amato e desiderato. Anche la nostra mente è mossa dalla speranza del bene,
ma l'ignoranza fa sì che questo bene per lo più non sia il vero,
ma il falso; l'ignoranza è dunque causa di tutti i mali (principio esposto e sostenuto più volte del Galateo). Iddio solo
conosce sè stesso e tutte le cose attraverso sè stesso; gli Angeli e i Santi conoscono sè stessi da sè, le cose dalle loro apparenze; l'uomo, mente più debole, conosce anche sè stesso
attraverso le cose esteriori. Il nostro intelletto si annebbia davanti al lume divino: di Dio bisogna parlare con riverenza
immensa, con modestia, con terrore: non come i moderni, che
impudentemente discutono di questioni teologiche nei trivi e
nelle osterie, come se conoscessero tutti i consigli « In
abditis res divina agenda est ». Anche questa è un'opinione
sostenuta altrove dal Galateo: egli pensava che al popolo i
predicatori dovessero parlare solo intorno alle virtù morali (2)
— argomento anche dei dialoghi pontaniani e delle conversazioni dell'Accademia —, proprio come sappiamo che faceva
Egidio da Viterbo, molto gustato a Napoli ( 3). Segue la spiegazione di alcuni provvedimenti adottati da Mosè nei riguardi
del popolo ebraico. Il Galateo gli rimprovera di essersi fatto
tiranno, considerando malinconicamente il destino delle sfrenate democrazie: anche agli italiani, cupidi di libertà più che
ogni altro popolo, è accaduto di essere oppressi da gravose
tirannidi. Per lo smodato amore di libertà il genere umano,
nato libero, serve a coloro che per natura son servi : questo
(1) GRABMANN, Op.
cit., p. 118 e segg.
(2) Coli. XVIII, p. 60.
(3) FIORENTINO, Op. cit., pp. 445-446.
26
.rinascenza Salentina
stesso concetto è ripetuto nel « De educatione »
e nell' « Esposizione del P. N. » (2).
Mosè avrebbe finito, ma vuol soggiungere una cosa: bisogna sopprimere dal programma di studio pei fanciulli le fa;
vole licenziose della mitologia classica che li spronano al male.
Quante nefandezze conteneva l'antica religione egiziana e la
greca e la romana! Ma tutte le distrusse Gesù Cristo, redentore delle anime, vera sapienza del Padre, mente del mondo,
e la « Romana Maiestas ». Qui il patriarca termina il suo dire,
e l'eremita s'inchina a salutarlo santissimo protonomoteta, vero
interprete delle leggi divine.
S. Pietro testardo non vuole cedere e chiama David. Il
contrasto col re salmista potrebbe avere a commento la materia del « De nobilitate », del « De distinctione humani generis », del « De Neophytis perchè è un attacco alla nobiltà
gonfia di sè, dei suoi titoli, della sua ricchezza, della sua prodezza militare. « Virtus non fortuna nos nobiles facit » dichiara
l'eremita, ma non ha bisogno di discutere a lungo, perchè David,
dichiarando che il contendere cogli inferiori è indecoroso pel
potente, batte senz'altro in ritirata. Gli sottentra Salomone, il
sapiente per antonomasia. « Proprio questo mi tormenta! esclama il Galateo — che ove non è fortuna, là si crede che non
sia neppure sapienza ». Anche 'qui è evidentissimo che la figura biblica serve solo da schermo e che il biasimo si appunta
contro persone e costumanze contemporanee.
Si avanza Sansone, il tipo della forza bruta ed ebete. Si
vanta di aver sepolto sè ed i filistei sotto le rovine del tempio.
« Hic est fortium virorum exitus » osserva l'eremita, e gli domanda come abbia fatto a conciliarsi col Signore dopo aver
commesso il suicidio. Ciò avvenne per suo volere — risponde
quegli, e il Galateo: Non chiedo altro. Dopo il forte del Vecchio Testamento, ecco i forti del Nuovo. Cristoforo rappresenta
il tipo della forza superba: che ha da fare questo litigioso col
candido « portatore di Cristo » della tradizione cristiana? Esso
serve al Galateo per far sapere ai lettori che i prepotenti e
(1) Co//. II, pp. 125 e 160.
(2) Coi/. IV, p. 182.
il w i riti] llwt llm it h il wiltlwilliirlill
illui ai limil'Il',
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
coloro che a forza fanno valere le proprie ragioni, anche se
ingiuste, sono rispettati e favoriti più di coloro che, molto superiori intellettualmente, se ne stanno tranquilli senza molestare nessuno. Si avanza S. Giorgio, bel cavaliere, vestito di
armi splendenti. La sua vista suscita forse nel vecchio medico
il ricordo di molti giovani soldati, ai quali aveva giovato con
la sua arte, perchè porta subito il discorso sulla medicina e
fa la predica al cavaliere in tono bonario: — Gli uomini sono
strani. Quando alcuno muore, danno la colpa al medico ; quando
risana dicono che ciò è avvenuto per opera di Dio, come se
Iddio non avesse altro da fare che occuparsi delle nostre malattie. Egli, quando creò l'uomo, mise in sua mano la vita e
la morte, il male e il bene. C'è chi attribuisce alla necessità
del fato il nostro vivere, ammalarsi, guarire o morire, e mantiene invece soggette al proprio arbitrio tutte le altre cose.
Perchè dunque tutti gli apparecchi di difesa militare? Perchè
non togliere di mezzo ogni umana cura? O solo la medicina
è sottoposta al fato?. -- Giorgio vorrebbe che i medici o sapessero curare tutte le ferite, tutte le malattie, o, non potendolo
fare, lo dicessero subito. E l'eremita pacato: — « O castrensem
sapientiam I » Non sai, Giorgio, che tu chiedi all'arte cosa che
non è sua ma di Dio? Forse il soldato prevede l'esito dell'incerta battaglia? Così nè l'agricoltore conosce qual sarà il provento delle messi, nè il nocchiero può dire se prosperamente
avverrà la navigazione. — Ma il superbo cavaliere prende in mala
parte un'arguzia e allora il medico perde la pazienza: — Non sei
niente altro che strepito e vano agitarsi di armi. Vuoi che te
lo dica, soldato? La disciplina militare è morta, voi militate
da bettolieri: laute mense, vino, molli giacigli, capelli arricciati, eleganza, sciupio, bestemmia, non son cose da buon soldato, ecc. — Che tutto questo sia detto proprio contro S. Giorgio?
Evidentemente il Galateo ha dimenticato di stare in Paradiso
e di parlare coi santi ; ancora una volta la vita, la vita terrena e contingente, ha fatto capolino alla fulgida porta, col
fardello dei suoi crucci.
A S. Giorgio sembra sfrontato quest'uomo che giudica di
arte militare senza essere mai entrato in un accampamento,
ma l'altro gl'insegna che tra la filosofia e le altre scienze corre
la stessa differenza che fra l'architetto e gli esecutori : « Sic
11 1'171 li
VIII!
IIIIÌNII
IiIIIF111llii!lwr
28
I-
=
wi
il i il
I Alvi oli gril li
i
Rinascenza Salentina
et philosophi de rebus omnibus generatim et universaliter indicant ». Anche questo è un principio su cui il Galateo è tornato ad insistere altre volte: la filosofia dev'essere maestra
della vita (1), perchè unica la mente dei filosofi ha per confini
i confini stessi del mondo (2 ). Esso non sembra un'eredità del
Medio Evo, eppure lo è. Gli anelli dell'aurea catena medievale
partivano dalla teologia e in essa tornavano a saldarsi, mentre
qui parrebbe che si tratti quasi di una filosofia umana, indipendente dalla trascendenza. Ma chi ponga mente al carattere tutto tomistico e teocentrieo della metafisica e dell'etica
del Galateo, quali esse si rivelano nella sua opera, vedrà come
egli abbia raccolto dai secoli passati il loro più vitale insegnamento e l'abbia trasmesso, arricchito di esperienza, reso più
concreto e adatto alle esigenze moderne, ai secoli venturi.
Proprio in questi ultimi tempi sí è sentito più acuto e impellente il bisogno di organizzare le proprie cognizioni, a qualunque campo esse appartengano, per specializzate che siano,
nella robusta, incrollabile inquadratura della sintesi filosofica.
Viene Giovanni, il Battezzatore, la voce che grida uel deserto, colui che incontrò la morte per essere stato innocente
e per aver perseguitato i vizi dei potenti. L'i naturalissimo che
l'eremita gli dimostri subito una immensa simpatia. Se il dialogo fosse stato davvero, nell'intenzione dell'autore, un attacco
alla tradizione cattolica e al culto dei santi, perchè mai sarebbero stati risparmiati Mosè, S. Giovanni, e, come vedremo,
S. Luca e S. Tommaso? Appar chiaro invece che essi si salvano solo perchè espongono idee del Galateo, e queste idee
sono pienamente consone alla tradizione cattolica.
S. Giovanni è tutto un magnifico vibrante ardor di lotta
contro ogni scelleratezza, e intende come un apostolato il dirigere i principi al bene, « poichè in un sol capo si insegna
a tutto il popolo a vivere onestamente e felicemente » (3). Il
Galateo invece fa quasi la parte del diavolo, (perchè ficcarsi
nei fatti degli altri? I principi devono essere sopportati quali
(1) Co//. III, p. 84.
(2) Co//. II, p. 173.
(3) Op. cit., p. 76.
i
iII IIIiIIÌ'4111 p I ri',1 H IL
illill'Illillil1iYh t i
11111 IIM
il
ilfiw il 111'll t litlYm
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 29
sono. Io ho preferito morire da confessore come dicono, piuttosto che da martire, ecc.), ma finisce coll'esaltare il Battista,
vero dominatore, vero imperatore del mondo, perchè non le
armi, ma l'animo ci rende imperatori. Anche Giovanni ha molta
stima del suo interlocutore, e, non potendolo aiutare, andandosene gli dà un consiglio: Persevera, se vuoi vincere.
Comincia la sfilata degli Evangelisti. Luca, il medico di
Antiochia, venerato patrono del Galateo, fa la parte dell'amico bene intenzionato e anche sollecito sì, ma fino a un certo
punto. Eccolo che parla in greco, per non farsi capire dai presenti; ma ciò non va a sangue all'eremita: — Usa il latino e parla
chiaro, come me, che ho avuto sempre libero animo e libera
parola. S. Luca ripete le accuse: — Sei stato dubbio nella fede;
ora ti comportavi da filosofo, ora da cristiano: ti sei mostrato
amico dei saraceni nemici di Cristo. E l'altro: — Anzi, io spesso
sedevo anche a mensa con quelli che dominavano e mi adattavo ai tempi, per conservare, misero, la vita. Che sarebbe giovata a Cristo la morte di un poveretto come me? Avrei dovuto morire perchè non seppi adattarmi a mutar vita e fortuna?
— Ancora un'altra allusione alla guerra otrantina? Credo di sì,
perchè, ch'io sappia, dal 1481 in poi i saraceni non avevano
più fatto lunga permanenza nel Regno di Napoli. Non sappiamo dire come si comportò in quella guerra il Galateo. Che
si trovasse in Terra d'Otranto e che avesse assistito a qualche
fatto d'arnie, è certo. Già nel marzo 1481 re Ferrante pensò di
ottenere pacificamente dal Turco la restituzione di Otranto :
se il Sadoleto e Bernai si recarono a parlamentare a Valona,
più numerosi furono i messi che andarono e tornarono fra
l'assediata città e il campo di Alfonso, e molti gli ostaggi scambiati. ( 1 )
facile che, data la facilità e la frequenza delle relazioni, anche il Galateo si recasse qualche volta in Otranto,
dove il suo amicissimo Ladislao do Marco, nobile figura di
vecchio pieno d'esperienza e di dottrina, era stato costretto ad
ospitare nella sua casa il quartiere generale di Keduk Achmet (2).
(1) S. PANAREO, Trattative coi Turchi durante la guerra d'Otranto.
Japygia, II 1931, f. II p. 6 e segg.
(2) MARZIANO, Successi ecc. p. 116.
In
11`YI
7
a-.
)=1
11-4.
)--=
• -
,
q iHiF
e,
*
I
h ti ll i ll w
30
i14
nil I Z I llni ilii`f 1 ,11111` . H m11:1, hilill Ti n '[1',I IfYi hI I 1 1, 1' I
Ii`t4`1, il
Rinascenza Salentina
Ma perchè rivangare fatti ormai lontani, se Ferrante I e Alfonso II, qual che si fosse stato il comportamento del Galateo
durante la guerra, avevano continuato ad averlo caro e lo
avevano chiamato a corte?
S. Luca accetta la scusa, ma soggiunge: — Avresti dovuto almeno nell'animo adorare Cristo, tuo Redentore. E l'eremita: — Ti
giuro che in questo superai tutti. Io solo amai Cristo perchè amabile, lo adorai perchè adorabile, lo temei perchè temibile, non
per timore di castigo o speranza di premio, ma perchè cosa richiede l'ordine universale delle cose. « Natura nos et vetustas
docuit impium et prophanum esse deos non agnoscere, religionem negligere, et ut supra caeteros sapiens videaris veterum instituta contemnere ». S. Luca chiede di addurre testimoni,
e — Uomo di poca fede, anche con Cristo facesti così e
non credesti se non dinanzi alla rivelazione di Emmaus. Ti
vanti di non lasciarti persuadere facilmente come un vil popolano, tu filosofo, medico e storico dottissimo? Certo ; questa
è la vostra sapienza: negare quel che gli altri affermano, sentire diversamente dal resto del genere umano; prestar fede alla
frazione del pane, disprezzare le Scritture Sacrosante. Non è
forse somma superbia o insania non voler credere a tanti santi
Profeti, Martiri e sapientissimi Dottori della Santa Chiesa? — Non
so come abbia fatto il Gothein a non accorgersi di queste
esplicitissime dichiarazioni di ossequio al magistero della Chiesa
Cattolica. Non è a S. Luca che parla adesso il Galateo, ma
a un contemporaneo filosofo, alquanto saccente e tronfio della
sua scienza umana, il quale, per non inchinarsi ai dogmi della
rivelazione divina, dichiara alteramente di non voler ammettere nulla senza ragione certa, e intanto resta incosciamente
preso nella trappola dei dogmi di questo o quel sistema particolare. -- Quante cose in filosofia sono incerte?, continua
— Tu dici nessuna Lo sono tutte invece. Le questioni particolari sono quasi tutte dubbie e disputabili da una parte e
dall'altra. Nulla v'è di tanto inopinato e difficile, che, affermato,
non appaia probabile. Di tutto dubitiamo: ignoriamo anche i
nostri sensi. — E conchiude: -- Questo solo è certo, che nulla vi
è di certo. Unico porto di salute, unica vera sapienza è il Vangelo di Cristo. Per questo alcuni filosofi si sono dedicati esclusivamente all'etica. — Luca resta persuaso: sebbene le parole in-
i
l'`?1
Dina Colucei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
31
3-.
3=
tese siano • contro l'opinione di tutti », pure non può negarne
la verità. Ridiventato il terzo evangelista, vuol difendere la
teologia: in essa non si troveranno certo deliri del genere di
quelli che si trovano in filosofia. E il Galateo: — Ve ne sono
e ancor più grandi.
— Forse hai trovato nel mio Vangelo o negli Atti cosa che
offenda le tue orecchie?
— Nulla: lo giuro per questi beati campi, per questo cielo
puro e sereno. Voi primi ci tramandaste una fede candida e
semplice: i nuovi la corruppero per voler dimostrare quello che
è indimostrabile e per cercar la ragione dove non c'è, o se c'è è
sopra di noi. La ragione massima in teologia è di non addurne
altra che la volontà di Dio e l'autorità dei santi, nè più sapere di
quel clic importi a bene e felicemente vivere: questa è la vera,
questa è la cristiana filosofia (1). — E qui segue un elenco dei problemi che affaticavano gli ultimi scolastici. Il buon Luca ne resta
meravigliato, e ancor più si accora quando apprende che anche
in medicina tutto è disordine e si serve non all'utilità del prossimo, ma al lucro e alla vanagloria; che le leggi son diventate
asilo dei ladri e laccio dei poveri, che la vita dei causidici è
una commedia; che dappertutto è discordia di opinioni, che
tutti gli studi son pervertiti. Ormai ha concepito della stima
pel suo interlocutore, che sa giudicare cosi rettamente, e andandosene gli promette di intercedere per lui presso la Vergine. A proposito di questo colloquio con S. Luca, il Gothein
osserva che il Galateo vi sostiene l'incertezza assoluta di ogni
conoscenza, come fu fatto più tardi con maggior coerenza da
Agrippa di Nettbesheim ( 2). Il concetto galateano del Vangelo
considerato come unica fonte sicura, esente da ogni dubbio,
« occupò poco dopo il primo posto nella vita intellettuale della
Riforma ». È vero, ma il Galateo, insieme con l'autorità delle
Sacre Scritture, riconobbe anche la legittimità dell'interpretazione e dell'insegnamento dei Padri e dei Dottori, come risulta dai passi già citati dell'Eremita e da questa frase dell' « Esposizione del P. N. »: « Solo , è de justizia quello che è scritto
nelli quattro Evangeli, nell'Epistole di Pietro, Paolo, Giacomo,
(1) Op. cit., p. 88.
(2) Op, cit., p. 182 della trad.
1;":11
t il il ll i,ull wiltf wil Tilw
il n(:- ri i w Flu,1 in il
w ilr
il ilfP1
TH'Il Y, i i ti
h li
1,111Y1 w
Rinascenza Salentina
32
Giovanni e di altri santi, chi la ecclesia cattolica tiene per approvati » (D. Quel rifugiarsi nella filosofia morale, secondo il
Gothein, « sembra poco addirsi all'uomo che volle spiegare la
creazione e il governo del inondo con la sola filosofia platonica ». Ma quando mai il nostro umanista si è sognato di far
questo? Abbiamo veduto quali fossero le parole di Mosè (chè
ad esse si allude) e quanto poco contenessero di prettamente
platonico. Quanto alla critica mossa dal Galateo ai teologi
contemporanei, essa è ragionevole. Le dispute fra teologi intorno a microscopiche, inutili questioni erano all'ordine del
giorno: sappiamo che a Napoli un discepolo di Egidio da Viterbo tenne un pubblico contraddittorio con gli Scotisti ( 2). Ma
abbiamo già notato più volte che il De Ferrariis non confuse
con la scolastica degenere l'opera di S. Tommaso.
Ed ecco S. Matteo: gli basta sapere che l'eremita sia stato
tacciato di malvagità per ritenere che sia malvagio. Chi può
star lì a indagare se l'accusa è vera o falsa? Basta che ci sia,
specie se l'accusatore è illustre. I testimoni? Al potente non
mancano testimoni (forse si allude a non molto onesti procedimenti giuridici del tempo). Ma l'accusato passa all'offesa e
investe l'avversario trattandolo da usuraio. Qui naturalmente
trova posto una sfuriata contro la « trapeza ». Ma l'altro scarica la colpa dei viziati metalli sugli alchimisti; e allora, tuoni
e fulmini contro l'alchimia. — Dimmi di grazia, evangelista di
Cristo, esisteva quest'arte anzi questa frode quando tu esercitavi il cambio? — E Matteo: « Nihil sub sole novum Anche
questa sentenza è da notare, perchè aiuta a comprendere il
dialogo.
Viene S. Giovanni, ma finisce per concludere che l'ospite
è un buon uomo e merita il Paradiso. S. Marco è a pochi passi
di distanza, sotto le spoglie di un leone che giace sonnacchioso
e triste. L'eremita ne chiede a S. Giovanni la ragione e questi
gli risponde che ogni tre giorni il leone si ammala e che questo
è appunto per lui il quarto giorno. Quando sta bene è fiero, audace, pronto a gettarsi sulla preda, ma, avido di gloria, la di-
(1) Coli. IV, p. 188.
Op. cit., p. 170.
(2) GOTHEIN,
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo 5-
9—■
33
vide tra gli amici e conserva con molta costanza l'amicizia.
Basta lasciarlo tranquillo, perchè, se non è provocato, non incrudelisce. L'allegoria si riferisce chiaramente alla repubblica
veneta. Strano il fatto di quella malattia ogni tre giorni. Che si
alluda alla costituzione interna della Repubblica ? Dei rapporti
del Galateo con Venezia si è occupato il Guerrieri (1 ) senza
riuscire a dare una spiegazione plausibile alla incoerenza dei
giudizi dell'umanista. Nel 1496, quando i Veneziani occuparono
Otranto, ceduta loro in pegno con Brindisi e Trani da Ferdinando II, egli non volle accettare un impiego offertogli con
ottime condizioni dal pretore veneziano, e ci tenne a farlo sapere al Sannazzaro e agli altri amici napoletani (il Sannazzaro
aveva forse preso le sue difese davanti ai principi): se qualche
cosa fosse per accadere, non voleva trovarsi presso i veneziani,
gente di cui non si conoscevano ancora le intenzioni (2). Una
lettera scritta al Loredan, governatore di Monopoli, poco dopo
la conquista spagnuola del Regno (3) e certamente prima del
marzo 1502, quando il Loredan morì, è tutta traboccante di lodi
per la bellissima città, emporio del mondo, custode dell'integrità greca e latina, rocca d'Italia, scudo della cristianità. In
questa lettera, tra le altre buone qualità attribuite ai veneziani,
si trova quell'« acceptoriun beneficiorum grata et tenax memoria », sulla quale si insiste nen'« Heremita ». Nello stesso anno
1501, o al più tardi nel 1502, narrava allegoricamente, al collega
Eleazaro, con efficacia dantesca, la sventura dell'Italia, strappata dai Re di Francia e di Spagna, per istigazione dell' infausto Rodrigo, al suo legittimo sposo, l' imperatore Massimiliano (curioso questo strascico ghibellino l), e straziata dai canes molossi », ossia dai popoli transalpini e dai veneti « quibus nulla est fides, nulla veritas ecc., nulla beneficiorum gratia,
nulla peccatorum venia » (4). Si può essere più incoerenti di
(1) Le relazioni tra Venezia e Terra d' Otranto fino al 1530. Trani, 1904,
Cap. XVII.
(2) Coll., III, pag. 179.
(3) Corno risulta dalla frase: «Grothi qui nunc Hispaniae, Sardiniae, Sieiliae, Apuliae, Calabriae, Brutíae dominantur, ecc., (Coll., III, pag. 42).
(4) L. G. DE SIMONE, Archivio di documenti intorno la Storia della Terra
d'Otranto. Lecce, 1876, IV, II.
i
il
34
911iiin`iYri
a wilf roin
Rinascenza Salentina
così/ (1). Nel 1504, nel De educazione », dopo aver giudicato
sagacemente della costituzione delle altre repubbliche italiane
— Genova e Firenze -- viene a parlare di Venezia e addita in
questa città l'immagine dell'antica libertà d'Italia: — E' spento
ovunque lo spirito d'Italia: in Venezia soltanto vive, e preghiamo che viva a lungo. — Ne ammira la diuturnità della millenaria costituzione, la nobile lotta mossa senza tregua a turchi
e pirati, l'amore con cui vi sono coltivate le lettere; e il suo
animo commosso si lascia trasportare da un bel sogno di grandezza futura: « Ubique mortua est Italia, in illa tantum urbe
vivit vivetque, ac ex illa, ut suspicor, resurget Italiae líbertas » (2). Il Galateo amò Venezia: quella città, che fin dalla
lontana origine aveva saputo conservarsi vergine di dominio
barbaro, che aveva ereditato lo spirito guerriero ed imperiale
di Roma, che era esempio raro in Italia di concordia civile e
unico punto stabile in tanto oscillare, non poteva non esser
cara al suo cuore di italiano. Ma nato e cresciuto nel caotico
Regno di Napoli, dove si era abituati a destreggiarsi fra il debole governo centrale e i baroni spadroneggianti, egli non poteva avere la salda educazione politica di un cittadino della
Serenissima; ond'è che le leggi della Repubblica gli sembravano
troppo dure e contrarie al libero svolgersi dell'attività individuale ( 3). In fondo, doveva avere una gran paura di trovarsi sotto
di esse. I rapporti tra Venezia e l'ultimo Re d'Aragona, Federico, furono ispirati a reciproca diffidenza, e, nonostante gli
ambasciatori andassero e venissero, la città assistè impassibile
all'invasione spagnuola e francese del Regno. Questo fatto spiacque al Galateo, che però, tornato in provincia, dovette ammirare l'accorto contegno tenuto dai governatori veneziani di
Otranto e Brindisi durante la guerra franco-ispana, e riconoscere che sotto il dominio veneziano le due città avevano goduto una certa pace e una saggia amministrazione. Inclinerei
a credere che la lettera ad Eleazaro sia anteriore a quella diretta al Loredan.
(1) Veramente il DE FABRIZIO (Op. cit., pag. 42) notava acutamente
che il « veneti potrebbe riferirsi ai mercenari della Serenissima,
(2) Coll., II, pag. 128.
(3) Coll., III, p. 220.
i11Y1'w
'1.1111 1h -11'41111 mi t II
11119 iiiiii ii19,111 111 1P11
m dthil
l
ilii1A'
il i III
I
l IIfiii
Dina Colucci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
5
3—
=
2=
a.=
•.=
re—■
3=-
1iYil
35
Torniamo al dialogo. Sopraggiungono S. Girolamo e S. Agostino: contro queste due « colonne di ogni speculazione filosofica cristiana » il Galateo, secondo il Gothein, fa una dichiarazione di guerra spinta fino al fanatismo (1). Certo, queste pagine sono fra quelle del libro che più lasciano incerti, ed è più
difficile cogliervi i riposti innegabili addentellati con la realtà.
S. Girolamo è accusato di superbia, sebbene tante volte nei suoi
scritti l'avesse combattuta, e contro di lui soli rivolte le sue
stesse parole. Però è da notare che proprio qui il Galateo
sente il bisogno di ripetere che il fine della sua opera è tutto
morale, quindi non teologico. S. Girolamo lo scaccia perchè
« male sentit de sane tis viris », e il Galateo: « Io onoro e venero i santi; non rimprovero a nessuno le buone opere. Parlo
contro i vizi, e nè i santi nè gli eroi ne andarono esenti... Sferzo
gli uomini, non i santi: poichè gli altri passarono in rassegna
i miei peccati, io sono costretto a passare gli altrui » ( 2). E' così
spiegato il senso di quel «Ne judicate quia non judieabimini »
ch'egli pronunzia solennemente davanti a S. Girolamo. La sentenza di Gesù qui è ripetuta proprio perchè l'intendano i santi ?
Da chi mai essi dovrebbero ancora essere giudicati, se già l'irrevocabile decreto divino li ha innalzati al Paradiso ? E poi, a
dimostrare che il Galateo non aveva delle speciali antipatie
per S. Girolamo e che invece ne conosceva molto bene e ne
stimava l'opera, valgono le testimonianze della lettera sull'Ipocrisia a Maria portoghese, dove è addotta quasi unicamente
l'autorità geronimiana; della lettera a Bolla Sforza, alla quale
ne consiglia la lettura; e, ancor più, dell'« Esposizione del P. N. ».
Si potrebbe osservare che quest'ultima opera è una ritrattazione. Ma l'« Esposizione » non ritratta, bensì sostiene le stesse
idee che costituiscono la materia dell'Heremita. Terminato il
commento all'Orazione domenicale, il Galateo va ripensando
alla propria opera e prevede le critiche che gli saranno mosse:
« Gli ecclesiastici mi diranno, che sento un poco del philosopho, gli Philosophi che son molto Chatolico ». Alcuni diranno
(1) Op. cit., pag. 183.
(2) Coll., XXII, pag. 103.
wiwill1wilirri9dimill`
!4`11011
il i
ll
111.1iYhilli
=-4
36
Rinascenza Salentina
che è un retore, altri che è un barbaro; altri infine « penso
mi diranno Hieronymiano », tanto spesso ha citato S. Girolamo.
Dica ciascuno quel che gli piace: egli non ci bada e sente di
non poter chiudere la sua operetta più elegantemente « che con
la sentencia del suo santo et divoto vecchiarello », il quale,
offeso più volte dai detrattori, disse che chi scrivo prende su
di sè molti giudici, trovando tanto chi sfugga la sua opera come
zoppa, sol se una parola venga meno, tanto chi vada latrando
che non è prete ma retore, sol se un tantino si innalzi sui coturni dell'eloquenza. Questo dimostra che non si deve prender
sul serio l'altra accusa mossa dall'eremita a S. Girolamo, di
aver cioè adornato i suoi scritti col belletto della retorica e
di essere stato frustato davanti al tribunale del Signore perchè
virgiliano e ciceroniano. Come poteva il Galateo, seguace di Ermolao Barbaro, biasimar solennemente il monaco dalmata, appassionato cultore dei classici, per aver voluto vestire di bella
forma latina l'apologetica e la dogmatica cristiana ? S. Girolamo
sta qui a rappresentare quegl'ipocriti, dalla cui fanatica petulanza egli stesso ebbe tanto a soffrire, « Oh procedere indegnissimo ! Chiamar cattivi i veri cristiani, ed eretici i buoni, non
per altra causa se non perchè conoscono i vostri costumi e non
possono sopportare la vostra insolenza, come lo stesso nostro
Redentore non potè tollerare le scelleraggini e le simulazioni
degl'ipocriti e dei sacerdoti! ».
Non fu S. Girolamo a chiamar eretici i buoni; quel « vestros mores ) indica che dietro il vecchio anacoreta c'è una pluralità; e proprio questa è bersaglio agli strali. Al Galateo era
stato rimproverato di esser « philosopho ». Non era stato di sicuro alcuno dei dotti prelati della cerchia umanistica a fargli
questo appunto: esso gli era venuto piuttosto da qualche monaco ignorante, rivale degli umanisti nell'accaparrarsi il favore
dei principi, animato da un'istintiva diffidenza verso il nostro
medico, nemico di ogni superstizione, che coltivava con eguale
ardore gli studi biblici e i classici, che intramezzava la lettura
dei Padri con quella dei neoplatonici e degli arabi. Che cosa
c'era di falso e di vero nell'accusa ? Ecco: che nelle opinioni
religiose del Galateo tutto fosse limpido e ben definito, non
direi. Troppo vasti erano i nuovi campi che si aprivano all'avida curiosità umanistica, troppo impetuosamente ci si slan-
'11111ilitlil l ill
llim irl'Hilh 11w
Dina Colueci - Antonio De Ferrariis detto il Galateo
Giava oltre i vecchi confini, perchè si avesse tempo e modo di
incasellare ordinatamente le nuove cognizioni, man mano che
si venivano acquistando. Neppur nel Galateo mancano tentennamenti e incoerenze, come, per citare un esempio, nel caso
del problema della fortuna (riguardo al quale però influì sul
Pontano in senso ortodosso) W. Ma, come si vede dai principii
filosofici che abbiamo esposti, in lui il « philosopho » non andò
disgiunto dal « catolico .. Non si può prendere il coltello e sezionare in due la sua anima: otterremmo non due individualità
distinte, vive o vegete ciascuna per suo conto, ma due tronconi inerti. La vita è nell'unità. Egli trattò la filosofia da cristiano e la religione da filosofo; e filosofo non significa, nel suo
caso, miscredente, ma uomo pensoso dei massimi problemi che
interessino l'umana esistenza, che vuol credere con fede illuminata e cosciente, che vuol prestare il suo « obsequium », ma
desidera che sia « rationabile ». Qualcuno troppo zelante, anche
se bene intenzionato, poteva- sentire in tutto ciò quasi un odore
di eresia, ma oggi, dopo quattro secoli, noi che sappiamo quanto
il cattolicesimo moderno abbia avuto e abbia ancora da lottare
per ricostruire la coscienza religiosa, per restituirci il senso dell'intimo valore di ogni nostro atto, di ogni nostra parola, noi
apprezziamo la battaglia dichiarata al formalismo dal Galateo
e da parecchi altri dei nostri quattrocentisti. Difendendo i diritti di questa minoranza di filosofi contro l'invadenza dei monaci, il tono dell'eremita si fa aspro, prestandosi ad essere frainteso. Che hanno a fare coi filosofi coloro che vogliono essere
considerati come appartenenti a Cristo l Badino ai fatti propri.
llli naturales rationes secuuntur et sapientiam, vos miracula
et Jesum Christum veram sapientiam ». Il Gothein traduceva
« naturales rationes » con « religione naturale ». C'è una bella
differenza tra i due termini. Non sappiamo se così scrivendo,
egli annoverasse in suo pensiero anche il Galateo fra i cultori della religione naturale: dal tono, sembra di sì. Ma Postel,
Franck, Herbert di Cherbury sono lontani. Il nostro umanista
non ha nulla che fare con essi: egli vuol dire soltanto che i filo-
(1) PONTANO, De fortuna. Basilae, 1538, I, 18, I, pag. 511.
Op. cit., pag. 159.
GOTHEIN,
88
Rinascenza Salentina
sofi cercano di assegnare cause naturali a molti fatti che gl'ignoranti dichiarano senz'altro miracoli. Non si può subito parlar di razionalismo, parola di cui ci serviamo comunemente
per indicare una corrente di pensiero diversa dalla mentalità
del Galateo. Meglio del De Fabrizio (1), si espresse il Marti (2),
quando chiamò il nostro « precursore dello sperimentalismo ».
Il Galateo tornò all'osservazione diretta della natura, correggendo e completando quel che di errato e di monco trovava
nei classici, specialmente nei suoi greci: cercando di far ridiventare esperienza vissuta quella che fino ad allora era rimasta meccanica ripetizione di formule imparate a memoria di
su i manoscritti, ma non negò per la ragione i diritti di quel
ch'è sopra la ragione, e riconobbe umilmente che vi sono dei
limiti che il nostro intelletto non può oltrepassare. Il ritornello
era sempre lo stesso: « Sapere plusquam licet desipere est ».
Girolamo cede e gli sottentra Agostino. Questi, vescovo,
porge all'eremita l'occasione di lamentarsi che nella Chiesa di
Cristo siano promossi ai più alti gradi i più indegni, che l'operaio della sera e quello che ha lavorato fin dal mattino ricevano eguale mercede. Agostino dichiara alteramente: « Io giunto
per ultimo, oggi sono primo ». E l'eremita: « Proprio questo mi
cruccia; poichè io che a buon diritto avrei potuto essere primo,
ora sono ultimo ». E qui un'apostrofe agli « immortales Dii » e
sopratutto ai « reges » (caratteristici questi rapidi trapassi dal
mondo biblico o proto-cristiano alla realtà del XV secolo: essi
— che non c'entrerebbero col fine assegnato al dialogo dal Gothein e dal De Fabrizio — ne costituiscono invece il nocciolo
e l'interesse vero): concedano agli amici oro e argento, onori e
cariche, ma sappiano non alienarsi l'animo dei sudditi. Si sa che
è dovere obbedire al Re, e gli si obbedisce: ma servire ai propri
pari è contro natura e intollerabile a ciascuno. Agostino è vescovo ed ha in cura le anime: deve adempiere dunque al solo
ufficio del pastore. Perchè vuol compiere anche quello del padrone ? Piuttosto che adorar lui come padrone, l'eremita preferirebbe andarsene col diavolo all'inferno. Come si vede anche
(1) Op. M., pag. 149.
(2) Nella terra di A. G., pag. 145.
11 11 .1'11
i rt
111
li i i ll'4'll 11 ri
it 111111
11 i ilYii
3--
'Dina Colucci - Antonio De Ferraras detto il Galateo
39
dall'esempio biblico che segue, il biasimo qui si appunta contro
l'arroganza dei vescovi in materia temporale e contro 1' insolenza dei cortigiani: S. Agostino fa da schermo. Curioso quel
rivolgersi direttamente e confidenzialmente agli « Dii immortales », perchè badino a non scegliersi dei funzionari superbi.
Viste venir meno le sue speranze nei sommi Dottori, S. Pietro chiama nientemeno che il Buon ladrone, perchè cerchi di
scacciar l'intruso. All' inaspettata apparizione questi resta di
sasso: è proprio vero che il mondo è dei ladroni e che essi vi dominano. L'amara conclusione non può esser che questa: a nulla
giova compiere il bene; la fortuna aiuta i malvagi.
S. Pietro pensa che forse soltanto le donne sapranno tener
testa al chiacchierone. La prima ad avanzarsi è Eva, ma basta
che il suo discendente le rinfacci il primo famoso peccato, perchè quella sia costretta a battere ritirata. L'eremita è già stanco
di discutere con donne: « Mandale via, Pietro: sono troppo ciarliere, leggere, vane. C'è chi preferisce alla monarchia l'oligarchia e la democrazia, appunto perchè ivi non dominano nè porporatuzzi nè donne » (ecco perchè poco fa abbiamo visto l'arroganza dei prelati connessa con quella dei cortigiani). Viene
Maddalena, ma a malincuore, perchè ha vergogna di parlar con
un uomo: immaginarsi, in seguito a questa dichiarazione, il torrente d'insolenze con cui l'accoglie il Galateo. Ma ecco Susanna, l'ebrea saggia e modesta, che un giorno conobbe anche
lei quanto crudele sia il morso della calunnia. Allora Dio suscitò Davide in difesa dell'innocenza, ma adesso chi viene in
aiuto dei buoni? Il Signore è invecchiato : dorme notte e giorno e non guarda alle cose umane. Per qual somma ingiustizia
gli antichi tempi, che pur si macchiarono d'iniquità, ebbero clementi i Numi, e i nostri secoli no? E Susanna: — L'avete pur voi,
nè ve ne accorgete. Non soli venuta per scacciarti, io che ho
sofferto un giorno quel che ora tu soffri, ma per darti un consiglio: « Iacta cogitationes tuas ad Dominum » ed Egli ti salverà, nè voler credere con gli empi che Iddio non cura le cose
umane. Guarda come lentamente si svolga l'ordinato lavoro
della natura, tale che al senso umano sfugge : così opera, nella
sua ammirabile Provvidenza, Dio, dispensatore di tutte le cose.
Considera attentamente: hai tu veduto mai un malvagio procedere a buon fine? Quegli che a te sembra più fortunato, forse
1tYim
m111'41'11'11111'
1111111 triih
ff19,111 40
l'il hillw ( . 1111111
inhri
1iYiill),1Y il Tlf■I
i'‘)YHt
, 1 i 111 911111 ,, 11?Yit
Rinascenza Salentina
è più infelice di tutti. « Foelicitas hominis in animo est ». Tu
vedi quel che è all'esterno: nel cuore dell'uomo guarda solo
Iddio —.
A questo punto la piccola opera potrebbe già considerarsi terminata : il colloquio con Susanna -- la cui importanza
è sfuggita al Gothein — ha risoluto il dubbio angoscioso, la
cui ombra ha pesato fin ora su tutto il dialogo. C'è una superiore giustizia, c'è un'ordine irrevocabile che vuole esaltato
il giusto e punito il malvagio: questo voleva sapere il vecchio
eremita; il suo ideale viaggio nell'Empireo non ha avuto altro
scopo. Intanto, pianamente, si è avvicinato S. Tommaso ed ha
assistito all'ultima parte del dialogo. S. Pietro volgendosi, lo
scorge e riverente gli s'inchina; l'eremita lo saluta commosso:
« Agnosco magistriun, agnosco fautorem, agnosco Aquinatern
meum ». Il Gothein dice che questa è una strana inconseguenza,
dopo la battaglia dichiarata dal Galateo ai principii della
scolastica. Ponendo il dialogo nella sua vera luce, essa invece
appare quello che è propriamente: una conclusione logica. « Perchè — chiede S. Tommaso — hai dato addosso con tanta acrimonia ai filosofi, ai medici, ai teologi, ai giurisperiti del nostro
secolo? » L'eremita è stupito: ne aveva parlato a quattr'occhi
con un amico; come ha fatto S. Tommaso a risaperlo? E il
santo sorridendo: « Non sai che anche le mura hanno orecchie? »
Forse con queste parole non si allude soltanto alla situazione
del dialogo, ma ad un impiccio in cui il Galateo si era realmente ficcato. Per scusarsi, egli afferma di aver parlato da
poeta — i poeti possono dire quel che vogliono — e da scettico. Con queste facezie, per mezzo delle quali esprime quel
che pensa, ha escogitato in sua difesa un nuovo modo di scrivere. « Nos non deos in jus vocamus, sed eos, qui sunt aut
fuerunt homines: aliud dicimus, aliud » (1). I santi
non se l'avranno a male, perchè sanno ch'egli ha parlato a
fine di bene. L'Aquinate non è ancor persuaso: il suo vecchio
amico ha detto cose vere, ma chi mai gli presterà fede contro
personaggi così importanti ? « Tantos proceres » : non credo
che questo appellativo si riferisca ai santi. Sarebbe davvero
(1) Op. cit., p. 130.
3
r'id
il N lliwtililw "l' iliiii
1111111 mi liHlH
Y
111111iYi
1 -",1Y
Dina Colueei - Antonio De Ferrariis detto il Galateo Hlfiw lii
41
tanto difficile credere alle accuse del Galateo, quando esse
vertono su fatti notissimi a chiunque ? E come calzerebbe l'esempio, che è arrecato in seguito, di S. Tommaso che, avendo
parlato veramente a Carlo d'Angiò, se n'ebbe in premio il veleno ?
Visto che l'eremita non sa far violenza alla propria natura, e non sa simulare nè dissimulare, S. Tommaso gli consiglia di rivolgersi alla Vergine. Già si fa sera. L'eremita leva
la sua preghiera trepida e ardente. Ecco: Maria benignamente
fa cenno di sì, ed egli felice è ammesso in Paradiso.
Qual'è dunque — torniamo a domandarcelo — il significato
del dialogo ? Secondo il Gothein, Antonio Galateo, « ha domato il clero, ha rigettata la tradizione, ha circoscritta l'autorità in una sfera ristretta, ha esercitato un'acuta critica anche sulle figure della Bibbia, ed ha tentato di spiegare con la
filosofia i dogmi del cristianesimo » (1). Trovo che, dopo aver
fatte tutte queste cose, doveva anche possedere una discreta
dose di faccia tosta, per poter dichiarare, come dichiarò, a S.
Tommaso: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? » Il De Fabrizio attenua le conclusioni del Gothein, affermando che il
dialogo è un ritorno alla fede spoglia d'ogni artifizio, pura e
semplice, quale l'aveva predicata il Maestro ( 2 ). Credo ché, per
capire l'Heremita, lo si debba inquadrare tra le altre lettere
ed opuscoletti del Galateo, che lo spiegano e a lor volta ne
ricevono luce. Il Gothein non conobbe — o almeno mostrò di
non conoscere -- tutta intera l'opera galateana, e sfigurò il
dialogo assegnandogli uno spirito anticattolico, che discorda
profondamente con lo spirito che informò la vita e la dottrina
dell'umanista pugliese. Lo scopo dell' « Heremita » è contenuto
in quattro parole dello stesso Galateo : « vitia insectari, maledictis respondere » ( 3 ). Un fine apologetico e un fine morale,
dunque. L'avevano accusato di esser poco religioso — perchè
non superstizioso — di aver mosso attacchi al clero, di essersi
comportato vilmente nella guerra contro i turchi, di essere
stato poco fedele ai principi. Egli si fa ripetere queste accuse
nel mondo dell'al di là, da uno stuolo di venerande figure del
(1) Op. cit., p. 185.
(2) Op. cit., p. 151.
(3) Con. XXII, p. 130.
11Y11 1
11'+'1111111
=-.
=
=
=
__..
=
Thiwil,r1Thillilrl'ImwasillssMumHMiillillrl'Iii111117111I1111711111111:1"1111111r1T111111171111111.111illliTnIHIIII'1"1W1117111
42
Rinascenza Salentina
Vecchio e del Nuovo Testamento, e si difende, ora direttamente,
ora indirettamente, con una finezza e un'arguzia divertentissime. In quest'apologia egli mette tutto sè stesso, ed è così
che vi ritroviamo la sua salda morale, il suo innato buon senso,
il suo acuto giudicare di uomini e cose, la sua italianità. E
poichè qui i santi per lo più, funzionando da accusatori, impersonano il male che il Galateo vuol combattere, è necessario che man mano che gli sfilano davanti egli cominci coll'attaccarli in qualche loro punto che paia effettivamente debole. Se facilmente gli accade di eccedere, questo dipende dalla
concezione stessa del dialogo. Quando il Galateo scriveva al
De Caris quello che, sotto le spoglie dell'eremita, aveva già
detto a S. Tommaso, di essersi cioè comportato da poeta, adduceva una scusa che a prima vista può sembrare puerile, ma
che in fondo è vera. Un'agilissima fantasia percorre infatti tutto
il dialogo, da cima a fondo, e vi domina da sovrana, e vi scherza
con brio, passando da un tono all'altro, era memore, ora dimentica di trovarsi nel cielo più alto, ora assorta nella contemplazione del dolcissimo vero, ora tornando in fretta sulla terra per
ripescarvi un cruccio segreto e portarlo lì, dinanzi a un santo,
perchè dia anch'egli il suo parere, come un buon amico del circolo
pontaniano. E non è forse la fantasia facoltà poetica per eccellenza ? Come in tutte le opere di vera e schietta poesia, qui la costruzione fantastica sorge su una base di profonda umanità: è
dessa che avviva col suo largo soffio pieno di simpatia la materia
del dialogo, sì che noi in quegli uomini di civiltà lontane, tolti
per un istante ai loro scanni beati, ritroviamo noi stessi e tutto
il nostro mondo, senza che una stonatura interrompa il gusto con
cui seguiamo la tenue vicenda. Non menava un inutile vanto
il Galateo quando scriveva a Federico d'Aragona: «Hominem
vero pagina nostra sapit ». Il Gothein dava più peso all'altra
scusa addotta dall'eremita, e parlava senz'altro di uno scetticismo che trova il suo contrappeso solo nel culto di Maria. Ma
le testuali parole del Galateo a S. Tommaso sono: « Vel si poetam non admittis, sceptico more me disseruisse existima » (1).
Ciò significa soltanto ch'egli ha discusso a mo' degli scet-
(1) Coli., XXII, pag. 129.
?li mi i 11
IIIIIII
n i
11
willt
11111 ill vd il 11
:Dina Colucei - Antonio De l'errariis detto il Galateo
lfYi
1 Yil wilYw
43
tici, affettando un'incredulità che di fatto non aveva (incredulità del resto più morale che metafisica, che si limita a dubitar
della presenza del giusto giudizio di Dio nella storia umana):
il Galateo non vuoi dire certo di avere avuto le stesse idee di
Pirrone, perchè ciò sarebbe stato non un discolparsi, ma un tirarsi addosso più presto la condanna. Già il Gothein però aveva
avuto occasione di avvicinare il nostro umanista ad Agrippa
di Netthesheim. L'avvicinamento, pnrchè inteso con le dovute
riserve e cautele, può essere forse accettato. Lo scetticismo fu
per Cornelio Agrippa, l'assertore entusiasta delle scienze occulte, l'anticamera della fede ( 1). Mi sembra che tanto il Galateo
quanto il Netthesheim siano fuori di quella corrente scettica francese del 500, che va dall'antiaristotelismo del Ramus alla « scientia unitis rei » di Francesco Sanchez: il Galateo concilia l'orientamento alla concretezza e all'osservazione sperimentale colla fedeltà ai principii basilari del peripatetismo e porta il suo dubbio sulle « quaestiones particulares », salda mantenendo la fede
negli universali.
Ci potremmo domandare perchè il Galateo non avesse scelto
a protagonista, invece del mondo cristiano, quello pagano, che
gli avrebbe lasciata maggior libertà di parola e risparmiate tante
seccature. Questo servirsi di angeli e santi come di « donne dello
schermo », questo parlar così liberamente con loro, senz'ombra
di soggezione, può sembrare indizio dello spregiudicato spirito
del secolo — e non si può negare che questo vi abbia la sua
parte — ma mi sembra anche una prova che nel Galateo la cultura religiosa aveva lo stesso carattere d' intimità vissuta che
in lui e nei suoi colleghi aveva la cultura classica. Quanta affinità, e insieme quale distacco -- e non solo dal punto di vista
del magistero dell'arte — fra il grande mondo della Divina Commedia e il piccolo mondo dell'« Heremita ». Tutto quello per
cui il Galateo aveva e avrebbe combattuto, tutto quello che
amò e odiò, si trova raccolto nell'opera che abbiamo esaminata.
Essa è combattiva, è ribelle: ma non alla tradizione cattolica,
non alla sintesi tomistica, bensì al mal costume del secolo. Intendendo le allusioni, risolvendo gli enigmi, leggendo tra rigo
(1) OLGIATI. Op. ed., III, 20.
11 ?Yij
illt Illrw
mr14,
10 11 HilillTill
1`
Yt.1
I w +1)1P or n
il
u
Hi 1 -r
Rinascenza Salentina
44
e rigo quel che l'autore lasciò volutamente nella penna, si può superare ogni contraddizione e sì può comporre questa con tutte
le altre opere del Galateo in un ordinato armonico svolgimento
di pensiero. Il centro vitale ne è costituito da quello spirito di
riforma che aveva già animato parecchie grandi figure del primo Rinascimento italiano, e che ardeva nell'animo dei nostri
migliori umanisti nel Rinascimento maturo. Il Galateo è fra coloro che tentarono di ridare alla coscienza italiana un contenuto, religioso, etico, politico: egli perciò rientra nella nostra
grande tradizione più e meglio che se avessimo conservato al
suo dialogo l'aureola di luteranesimo avanti lettera.
DINA COLUCCI
(Continua)
w
w