Nona lezione - Scuola di scrittura Omero
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Nona lezione - Scuola di scrittura Omero
Corso di narrativa Scrivere racconti a cura della Scuola di scrittura creativa Omero Nona lezione Continuiamo a occuparci del tema avviato nella scorsa lezione dedicata alle storie e al loro rapporto con lo scorrere del tempo. L’ultima parte di questa lezione sarà destinata invece a una specie di ripasso su un argomento basilare che abbiamo toccato nella prima fase del laboratorio e cioè la presentazione dei personaggi. Parleremo infatti della scelta dei nomi. Così se avete battezzato i vostri personaggi in un modo che non rientra in una qualche categoria compresa in quelle che oggi indicheremo sarete ancora in tempo a cambiare nomi e appellativi. Come d’altra parte succede quando sta per nascere un neonato e si tentenna da un nome all’altro, da una suggestione all’altra. Finché si sceglie il nome del nonno! Sicuramente i più attenti di voi avranno notato che con l’avanzare del corso i brani dei grandi scrittori portati come modelli letterari hanno ricevuto sempre più spazio. In questa lezione c’è un vero e proprio fuoco d’artificio di citazioni. Questo crescendo rossiniano di grandi autori e di loro passi sempre più ampi è una nostra scelta editoriale che si basa sull’idea che ormai avendo esaminato insieme le diverse componenti della struttura narrativa possiamo godere con più cognizione di causa degli exploit narrativi di autori che ammiriamo. Quante parole per scrivere un racconto L’ingrediente più personale e stilisticamente raffinato è quello che riguarda la quantità di parole usate per scrivere una storia (con effetti di dilatazione e cristallizzazione del tempo o viceversa di accelerazione). Per fare un grande esempio su tutti pensiamo a quante parole compongono l’Ulisse (1922) di Joyce che si svolge in appena 24 ore. Lo scorrere del racconto è così rallentato che il tempo sembra fermo, centellinato. E questo effetto è provocato dal filo continuamente intrecciato tra le parole monologanti di Leopold Bloom e le diverse tecniche narrative di esposizione in terza persona. Sulla soglia si tastò nella tasca posteriore dei pantaloni per accertarsi se aveva la chiave. Non c’è. Nei pantaloni che mi sono cambiato. Devo prenderla. La patata c’è. L’armadio scricchiola. Inutile disturbarla. Quando lei si è rivoltata era piena di sonno. Si tirò dietro la porta d’ingresso molto piano, ancora un po’, finché la parte inferiore del battente ricadde piano sulla soglia, lento coperchio. Pareva chiusa. Bene finché torno, comunque. Ulysses, 1922, romanzo, di James Joyce, ed. Arnoldo Mondadori, 1991, pag. 63, traduzione di Giulio de Angelis. Ben sette righe per descrivere l’apertura di una porta. Un vero e proprio ralenti narrativo che passa con grande maestria dal monologo interiore allo stile indiretto libero alla descrizione letteraria tradizionale. E anche Laurence Sterne nel suo capolavoro Tristram Shandy dilata verbalmente lo spazio attorno ai personaggi e svolge o riavvolge la storia secondo il filo dell’associazione delle idee, procedendo per digressioni. Tutto per raccontare un arco narrativo di 24 ore. Vorrei che mio padre e mia madre, o meglio, tutti e due, come era loro dovere, avessero pensato a quello che facevano, allorché mi misero al mondo. Diamine! Avrebbero dovuto considerare le conseguenze di certi loro atti! Poiché non si trattava soltanto di produrre un Essere pensante, ma di occuparsi della buona formazione del suo corpo, forse, e fors’anche della sua intelligenza e del suo carattere; e per quanto essi ne sapevano, fino a prova contraria, il destino stesso di tutta la sua famiglia poteva dipendere dalle condizioni di spirito in cui si trovavano nel momento culminante. Vita e opinioni di Tristram Shandy, The life and opinion of Tristram Shandy, 1760, di Laurence Sterne, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, 1958, pag. 19, traduzione di Giuliana Aldi. Come esempio comico dell’uso minimale di parole fatto per descrivere passaggi di tempo tra epoche lontanissime tra loro vale la pena di citare questo passo di Italo Calvino, già incontrato nella seconda lezione. Il brano è preso da Le cosmicomiche, il racconto Gli anni luce, 1965, ed. Garzanti, 1989, pag. 145. Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: TI HO VISTO. Feci rapidamente il calcolo: la luce della galassia aveva impiegato cento milioni d’anni a raggiungermi e siccome di lassù vedevano quello che succedeva qui con cento milioni d’anni di ritardo, il momento in cui mi avevano visto doveva risalire a duecento milioni d’anni fa. Quando tutti i tempi di un racconto sono governati e resi con maestria scaturisce un fascino unico che appartiene solo a quella storia e a quell’autore. D’altronde il potere assoluto che ha uno scrittore sul tempo della sua storia lo rende una specie di dio Cronos. “Tutte le opere di finzione (soprattutto quelle buone) hanno un loro tempo peculiare, un sistema temporale che è loro proprio, diverso dal tempo reale in cui viviamo noi lettori.” Mario Vargas Llosa Legatissimo al senso del tempo in ogni racconto è lo svelamento successivo di notizie e di informazioni che l’autore porge al lettore con la giusta disponibilità A questo punto, Sherazad, accorgendosi che era giorno e sapendo che il sultano si alzava di buon mattino per recitare le sue preghiere e tenere consiglio, smise di parlare. “Buon Dio! Sorella mia, - disse allora Dinarzad, - che racconto meraviglioso! - Il seguito è ancora più stupefacente, - rispose Sherazad, e sareste d’accordo con me, se il sultano volesse lasciarmi vivere ancora per oggi e darmi il permesso di raccontarvelo la prossima notte.” Le mille e una notte, tra il X° e il XVI° secolo, vari autori arabi ignoti. Quest’ultimo esempio letterario è usato come simbolo generale di una proprietà che può far generare allo scrittore quella specie di incantesimo da Mille e una notte che tiene legato il lettore alle storie, racconti o romanzi che siano. Sull’esigenza di velocità sentiamo cosa ci dice una grande scrittrice americana di gialli come Patricia Highsmith “Nel descrivere una stanza, per esempio, non occorre descrivere tutto quanto essa contiene – a meno che non sia piena di interessanti incongruità come ragnatele e torte nuziali. Di solito una cosa o due basteranno a caratterizzare una stanza come ricca, povera, ordinata, trasandata, pignola, maschile o femminile. Anche nel dialogo spesso si può dare il succo di una conversazione di quaranta righe in tre righe di prosa. Per esempio una lite tra coniugi può essere riassunta così: “Howard rifiutò di cambiare parere, sebbene lei avesse discusso per una buona mezz’ora. Alla fine lei rinunciò”. Dopo di che si potrebbe aggiungere un’unica frase, in un paragrafo a se, del tipo: “L’hai sempre avuta vinta tu”, disse Jane. “Perciò segnati un altro punto”. Patricia Highsmith Sull’esigenza opposta e contraria a quella appena raccontata dalla Highsmith ecco cosa dice invece il regista Wim Wenders sulla lentezza (Wenders tra l’altro ha girato il film L’amico americano tratto dall’omonimo libro della Highsmith) “Lentezza significa mostrare con la maggior dovizia di particolari possibile gli avvenimenti che devono essere descritti. Significa servirsi del montaggio e della variazione dei piani non solo per evidenziare lo svolgersi della vicenda, ma anche per sottolinearne la durata. Significa che nessun avvenimento è così poco importante da doverlo affrettare, abbreviare o addirittura eliminare, solo per far posto a un altro più avvincente o più importante. Dato che tutte le immagini sono equivalenti, non esistono tensioni che producono alti e bassi, ma solo uno sforzo uniforme: rendere il più possibile chiari e comprensibili tutti gli avvenimenti fisici e psichici, nella loro giusta successione temporale.” Wim Wenders Ma la lentezza o la velocità di scorrimento di un testo non possono essere un fatto puramente legato al proprio gusto o a un semplice elemento stilistico. Sono proprio i personaggi e le storie a esigere un certo tipo di prosa più o meno rilassata oppure più o meno agitata. “…C’è ne “La donna che visse due volte” una certa lentezza, un ritmo contemplativo che non si trova negli altri suoi film, spesso costruiti su passaggi rapidi e improvvisi.” François Truffaut “Esatto, ma questo ritmo è perfettamente naturale, perché raccontiamo la storia dal punto di vista di un uomo emotivo.” Alfred Hithcock La scelta dei nomi dei personaggi Pur ricordando la bella frase di William Shakespeare una rosa con qualsiasi altro nome profumerebbe altrettanto dolcemente bisogna dire che nella narrativa invece i nomi dei personaggi hanno un loro profumo particolare legandosi a suoni e a sensi precisi. I nomi scelti non sono mai neutri. I nomi dei personaggi possono avere una connotazione allegorica “Il Viaggiatore”, “Il Principe” o al contrario essere ridotti a cifra o sigla con valenza simbolica “z” “x”, ma anche avere un valore surreale con “Blue”, “White”, “Black” oppure satirico come “Ubu” o comico con “Gargantua e Pantagruel”. Ma a parte questi estremi gli scrittori preferiscono nomi più usuali con connotazioni appropriate alla propria storia. Seguiamo a questo proposito i ragionamenti a cielo aperto fatti dallo scrittore inglese David Lodge “Il mio romanzo Ottimo lavoro professore è imperniato sul rapporto tra l’amministratore delegato di una società industriale e una giovane professoressa che è obbligata a fargli da “ombra”. Nel dare un nome ai personaggi ho cercato dei nomi che sarebbero apparsi abbastanza “naturali” da mascherare la loro voluta simbologia. Ho chiamato l’uomo “Vic Wilcox” per suggerire, sotto questo nome assai comune e molto inglese, una mascolinità piuttosto aggressiva, persino volgare (mediante l’associazione con victor, will e cock – vincitore, volontà, pene) e mi accontentai quasi subito di “Penrose” come cognome per l’eroina, perché questo nome univa le contrastanti connotazioni di letteratura e bellezza (pen e rose – penna e rosa).” David Lodge Vale la pena osservare da vicino anche il frammento di un racconto dove un personaggio si è addirittura ribellato all’imposizione del nome di battesimo e se ne è scelto un altro Il suo vero nome era Joy, ma appena aveva compiuto i ventun anni e si era allontanata da casa, l’aveva fatto cambiare legalmente. La signora Hopewell era sicura che ci avesse pensato e ripensato, finché aveva scoperto il nome più brutto di tutte le lingue. Dopo di che, era andata a far cambiare il suo bel nome, Joy, senza avvertire la mamma fino a cose fatte. Il suo nome legale era Hulga. Quando la signora Hopewell pensava al nome di Hulga, le veniva in mente il grosso scafo nudo di una nave da guerra. Lei si rifiutava di usarlo. Continuava a chiamare la figlia Joy e la ragazza rispondeva, ma solo per un riflesso meccanico… …Uno dei suoi maggiori trionfi era che sua madre non fosse riuscita a trasformare la sua carne in Joy, ma il trionfo supremo era l’essere riuscita a trasformarsi in Hulga. Flannery O’ Connor Brava gente di campagna, Good Country Peaple, 1955, pag. 8-9, Tutti i racconti, volume II, Bompiani, 1994, traduzione di Ida Omboni. ECCO GLI ESERCIZI Esercizio 14 Per la prossima volta verificate la forza espressiva e d’impatto dei nomi presenti nei vostri racconti e comunque provate a suggerirne qualcun altro in sostituzione di quelli già scelti. Senza traumi da abbandono visto che i personaggi stessi dei racconti riescono talvolta a cambiarsi il nome. Esercizio 15 Collaudate di nuovo il vostro racconto riscrivendo le prime 20 righe con un’altra andatura: se avete optato per una narrazione lenta, con periodi lunghi e complessi cercate di andare su di giri frazionando e dividendo le frasi con punti fermi. Operazione inversa se avete abbracciato uno stile nervoso e brevilineo: aumentate le frasi subordinate con congiunzioni, virgole e punti e virgola. Non sono esercizi fini a se stessi perché fino all’ultimo si deve avere la forza di incanalare il vostro racconto nel movimento e nel respiro giusto per far meglio esprimere la vostra voce. “Così, col mio umore bucolico, ho cominciato a scrivere il libro, che sembrava procedere molto bene. Ma a pagina 75 cominciai a sentire che la mia prosa era rilassata come me, direi quasi flaccida, e che un’atmosfera rilassata non era quella adatta per il signor Ripley. Decisi di stracciare tutto e ricominciare da capo, sia mentalmente che fisicamente in bilico sul bordo della sedia, perché Ripley è questo tipo di giovanotto – un giovanotto in bilico sulla sedia, se pure si siede.” Patricia Highsmith