MI CHIAMO GIULIETTA Traduzione dal francese di Mabi Col
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MI CHIAMO GIULIETTA Traduzione dal francese di Mabi Col
MI CHIAMO GIULIETTA Traduzione dal francese di Mabi Col (Mioglia, Savona) e Marcello de Santis (Tivoli, Roma) Mi chiamo Giulietta Napo e sono nata in Togo, in un anno che non so. Il nome del mio villaggio d’origine è Bassar e si trova al Sud del paese. Mio padre si chiama Safiou e mia madre si chiamava Kiscaou. Sono figlia unica ma mio padre ha avuto 4 figli da un’altra donna. Non ho conosciuto mia madre: è morta il giorno della mia nascita. Mi hanno detto che, quando restò incinta, mio padre la lasciò per andare a Lomé, capitale del Togo. Una volta abbandonata, mia madre andò ad abitare presso i suoi genitori fino al giorno del parto. Dopo la mia nascita, mi tennero in famiglia ma fu mia nonna ad allevarmi. Ancora molto piccola, mi portarono dal nonno paterno perché s’occupasse della mia istruzione. Il nonno non accettò il peso del mio mantenimento e allora fui rispedita alla famiglia materna. Quando andai a scuola, cercai di sapere di sapere dov’erano finiti i miei genitori, perché non mi avevano detto che mia madre era morta. Non volevano dirmi la verità ma un giorno vidi una foto nella mano di mio nonno e gli posi una domanda su di lei. Egli mi rispose di pazientare che col tempo avrei capito tutto. Allora avevo 10 o 12 anni. Dovevo passare alla classe superiore e, siccome se ne dovevano pagare gli oneri, io lavoravo nei campi di arachidi e così avevo potuto mettere da parte dei soldi. La mia zia materna, però, aveva utilizzato questi soldi e questo mi aveva preoccupato non poco perché non avrei avuto i mezzi di continuare gli studi. Gli altri bambini al contrario avevano ricevuto regali e abiti. Questo mi aveva fatto arrabbiare e avevo richiesto con forza che mi si facessero conoscere i miei genitori. Fu in quel momento che la nonna confessò la morte di mia madre e l’allontanamento di mio padre in luogo sconosciuto. Siccome per la ripresa scolastica mi si domandava il certificato di nascita, mi si mandò a cercarlo presso il nonno paterno, il quale mi rinviò da mio padre. La nonna materna vendette il suo cane per pagare un atto sostitutivo. Da quel momento ho molto amato i cani. Ne ebbi uno che, malvolentieri, dovetti abbandonare fuori casa. Dopo aver avuto il mio certificato, senza dir niente a nessuno, mi appropriai di 1000 CFA (1 Franco CFA = 0.0015 Euro) che la nonna teneva in una zucca (usata come salvadanaio) e 3000 CFA che avevo potuto mettere da parte e fuggii a Lomé. Il solo contatto che avevo era il numero di telefono di uno zio materno. Avevo 15 anni. Arrivata alla stazione degli autobus di Lomé, feci amicizia con un signore a cui avevo raccontato il mio problema senza sapere che quel signore era in effetti il mio vero padre. Quando mio padre era giunto alla stazione, in seguito alla mia richiesta, era molto arrabbiato con me. Aveva chiesto alla mia famiglia la ragione per cui mi avevano lasciata partire da sola. Più tardi venni accompagnata da lui da mio zio, al quale avevo chiesto di contattare mio padre. Lo zio aveva risposto che mio padre non ne voleva sapere niente di me e mi aveva portato a casa sua. Il giorno seguente, egli se ne era tornato a scuola e io alla stazione degli autobus. Lì, avevo incontrato un altro signore al quale avevo raccontato la mia storia. Lui mi aveva domandato il nome di mio padre, affermando di conoscerlo in quanto aveva lavorato con lui in un cantiere come muratore. Avevo potuto così chiamare mio padre e dirgli dove mi trovavo e che avrei voluto incontralo. Egli mi chiese se il numero di telefono corrispondesse al mio e, dopo la mia risposta affermativa, non ha mai più risposto alle mie chiamate. Nel frattempo, lo zio non s’era più interessato a me. Alcuni vicini mi spinsero a rivolgermi a una associazione di diritti dell’uomo, dislocata a Lomé. Io ci ero andata e mi suggerirono di rivolgermi al Tribunale, dove fui invitata a raccontare di nuovo la mia storia. Mi chiesero se conoscevo mio padre e io risposi che ne conoscevo solo il numero di cellulare. Il Giudice allora aveva convocato il Tribunale mio padre e mio zio. Fu lì che riconobbi mio padre come il signore a cui avevo raccontato la mia storia alla stazione dei bus al momento del mio arrivo a Lomé. Lo zio si era messo a piangere, quando avevo raccontato che io volevo andare da mio padre, e lo stesso giudice aveva abbassato la testa. Allora anch’io mi ero messa a piangere. Mio padre mi guardava senza dire una parola. Io gli avevo domandato dove avrei potuto trovare mia madre e lui aveva risposto ch’era morta. Dopo di che egli s’era inginocchiato davanti a me e m’aveva chiesto perdono. Allora anche io gli chiesi perdono, perché avevo creduto che mia madre fosse una prostituta e che non avrei mai saputo il suo nome. Seppi allora che il mio certificato di nascita si trovava presso il nonno. Dopo qualche giorno mio padre mi portò a casa sua, ma la moglie mi maltrattò perché avevo trascinato suo marito in Tribunale. Nel frattempo mio zio non voleva più saperne di me così come mio padre: mi ripudiarono. Dopo un mese me ne andai da casa sua per ritornare al villaggio. Ma anche al villaggio non mi vollero più e io ritornai a Lomé da mio padre, che mi mandò da mio zio. Riuscii a spiegare il mio problema a una vicina, originaria della Guinea, che prima mi prese in casa e poi cominciò a maltrattarmi. Facevo la serva. Le lavavo persino le mutande. Ma nonostante tutto rimasi a casa sua quasi un anno senza andare a scuola. Avevo 18 o 19 anni. Nel frattempo, mio nonno era morto nel 2009. Ritornai ancora al villaggio e poi ancora a casa di mio zio a Lomé. A lui affidai i soldi guadagnati facendo la serva. Però lo zio si ammalò e usò i miei soldi ben al di là delle spese ospedaliere. Si mangiò il resto dei soldi con mio grande dispiacere. Trovai un altro lavoro come bambinaia ma dopo 5 o 6 mesi cambiai un’altra volta. Mi affidarono un vecchio di quasi 100 anni, la cui moglie era membro del Cristianesimo Celeste. Alcune volte, di nascosto, lei metteva dell’olio d’oliva sui miei piedi, mentre dormivo, e questo mi aveva molto spaventata. D’altronde, questa coppia era sempre in comunicazione con i figli che abitavano negli Stati Uniti. La signora mi dava uno stipendio di 10.000 CFA e poco alla volta riuscii a mettere da parte 100.000 CFA, somma che però non era sufficiente per pagare la scuola di cucito che io volevo intraprendere. Dopo l’esperienza negativa d’aver affidato i miei soldi allo zio, presi un camion e partii per il Niger. La notte precedente dormii sul camion per paura di perdermi la partenza ch’era di buon’ora la mattina. Era il 2010 e avevo 20 o 21 anni. Avevo scelto il Niger perché a Niamey avevo una zia che si era già occupata di me e che mi avrebbe ospitato a casa sua. Tutto ciò venne fatto all’insaputa dello zio. Il viaggio durò 4 o 5 giorni e io dormii sul camion. Ero da sola ma il guidatore mi rispettò. Mi aveva domandato 10.000 CFA, che comprendevano anche il cibo durante il viaggio. La zia venne a prendermi alla stazione dei camion. Vivevo con lei ma dopo un paio di mesi lei mi aveva cercato un lavoro presso un bar. All’inizio avevo rifiutato, perché sapevo che lì le ragazze veniva maltrattate e avevano un salario minimo. Succedeva anche in Togo dove il salario era di 15.000 CFA al mese. Mia cugina mi aveva raccontato quello che succede in quei posti. Per questo andai a lavorare presso una signora nigeriana, che faceva la maestra. Mi occupavo dei suoi bambini e della casa. Mi pagava 50 CFA al giorno più vitto e alloggio. La donna mi maltrattava e io, scoraggiata, me ne andai: non mi diede neppure i soldi del viaggio di ritorno. Dissi a mia zia che andava bene, che avrei lavorato al bar. Ma sapevo che non sarebbe andata bene; allora lasciai e trovai un altro bar. E fui costretta a lasciare anche mia zia perché pretendeva tutto il mio denaro per sé e la sua famiglia. La vita di una ragazza di bar è pericolosa. Ci vedono e trattano come puttane. Non si guadagna niente, solo 15 mila CFA al mese. Se un cliente e ne va senza pagare, tocca a noi rimetterci la somma da lui dovuta. Talvolta se la prendono con noi e insultano la nostra fami-glia. E anche i padroni se la prendono con noi, dimentichi che hanno anche loro dei figli a casa. Per avere quanto ci spetta dobbiamo pietirlo addirittura. Per lavorare abbiamo molte spese, bisogna vestirsi bene, farsi belle, e fare in modo che i clienti siano invogliati a ordinare da bere. E poi le spese dell'affitto e della luce e dell'acqua. E le spese per il taxi per rientrare al mattino presto a casa. Le spese per l'assistenza medica. Ci sono alcune di noi che si trovano dei clienti danarosi; quelle meno coraggiose di noi si lasciano trasportare dalle altre, così dopo poco tempo le vedi andare in moto, vestirsi alla moda e aver denaro da spen-dere; si fanno i turni, di giorno e di notte. Il giorno fino alla cinque e mezza del pomeriggio, e la notte fino alle 2 o alle 3 del mattino. Capita anche che la polizia chieda documenti alle ragazze e le porti alla caserma per accertamenti. E vi possono restare anche tutta la notte; c'è sempre qualcosa che non va, un documento che ritengono fasullo, il tutto per prendersi dei soldi dalle ragazze. Al mattino vengono schedate, si prendono le generalità, si scatta una foto da pubblicare in qualche parte, si scrivono su una lavagna, e la ragazza fermata può riprendersi il cellulare e il portamonete. Per essere assunta come ragazza di bar bisogna sottoporsi a una visita medica, costo 5.500 CFA, visita che deve essere ripetuta ogni mese, altra spesa: 1500 CFA. La ragazza viene fatta spogliare e distendersi su un lettino, un'infermiera infila le dita nella sua vagina, eccola la visita medica! Per fortuna la polizia non mi ha mai presa. Solo una volta mi hanno chiesto di esibire i documenti, ma è andata bene, perché ho pagato una certa somma di nascosto. Non avevo il permesso di soggiorno e facendo finta di non conoscere il francese, io parlavo della mia patente. Così l'ho passata liscia. Ma la volta appresso ho sborsato ben 2mila CFA. In questo lavoro circola una malattia, il denaro; per il denaro si fa tutto. Qualcuna di noi si accompagna a un uomo, e si fa fare senza pre-servativo, per una somma che può arrivare anche a 200mila CFA. Con la protezione il prezzo scende e va da 5mila a 10mila CFA: non bisogna mai guardare alle altre. Ho presto capito che gli uomini non guardano alla bellezza ma solo al mio corpo. Ho una compagna che è malata e nessuno dei suoi amici è venuto mai a farle visita. Io volevo imparare il cucito, e il lavoro di barista mi aveva stancato molto; non sarei andata lontano con questo mestiere. I clienti sono di ogni nazionalità, i bianchi cercano noi solo per portarci a letto, ma qualcuna è fortunata e ne aggancia qualcuno pieno di soldi e il futu-ro è assicurato. Un giorno sono andata alla casa di correzione di Niamey a visitare un amico del Togo che vi era detenuto, ci sono andata con una mia compagna, e là dopo aver dato ciò che avevamo portato di cibo al nostro amico detenuto, abbiamo conosciuto un gruppo di Liberiani anche loro rinchiusi là. La volta successiva portammo del cibo anche a loro; uno mi disse se potevo mettermi in contatto con un padre della cattedrale di nome Mauro, perché li andasse a trovare per aiutarli. E fu così che un sabato andai alla cattedrale, ho aspettato padre Mauro e quando lui è arrivato in macchina ho avuto paura di avvicinarlo, ma mi sono fatta coraggio e l'ho fatto. Gli ho riferito il messaggio, mi ha chiesto che lavoro facevo e mi ha fatto gli auguri. Gli ho aperto il cuore, gli ho narrato di me, e del fatto che volevo cambiare vita. Abbiamo riflettuto e mi ha invitato a pensare bene a dedicarmi all'arte del cucito. Così ho fatto: ho iniziato a curare la mia formazione presso la Claire Logi's a Niamey, che sta vicino a casa mia. La Juliette di prima non c'è più. Quella di adesso non lavora più nei bar e vuole vivere in dignità, senza essere additata come una puttana. Ho tentato ancora di chiamare mio padre, non mi risponde. Chissà, forse un giorno mi accetterà, se gli porto dei soldi. Sono arrivata a odiare gli uomini perché mi hanno deluso, dicono di amarci ma non è vero, vogliono solo sfruttarci. Vorrei tanto sposarmi, un giorno, per porre fine alle mie sofferenze.