Segni n. 71 - Progetto Fahrenheit

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Segni n. 71 - Progetto Fahrenheit
RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXIV - NUOVA SERIE - N. 71 –
MAGGIO-AGOSTO 2010
Versione telematica
1
Pubblicazione promossa dal Dipartimento di Filosofia e Scienze
sociali dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di
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INDICE
Saggi
Salvatore Prinzi
QUESTIONI DI STILE: L'EROE E L'UOMO.
APPUNTI DI LETTURA FRA L'ESISTENZIALISMO E IL QUOTIDIANO
Santo Arcoleo
J.-P. SARTRE E M. MERLEAU-PONTY. FRA “GÊNE” E “DOUCER”
Aurelio Rizzacasa
IL DUPLICE ASPETTO DELLA COSCIENZA
Giacomo Fronzi
VALGONO ANCORA LE REGOLE ETICHE NELLA COMUNICAZIONE?
Graziella Morselli
ELABORARE UN’ESPERIENZA UNIVERSALE
Giuseppe Bornino
DALLA VOLONTÀ DI POTENZA ALLA VOLONTÀ DI CHANCE:
LA MESSA IN QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SOGGETTO
E DELLA BELLA FORMA DA NIETZSCHE A BATAILLE
Giuseppe Nolé
L’ARISTOTELISMO GALILEIANO DEGLI SCRITTI GIOVANILI
Note
Marina Pia Pellegrino
NOTE INFORMATIVE IN MERITO A
RICOSTRUZIONE E NUOVA DATAZIONE
DI ALCUNE OPERE GIOVANILI DI EDITH STEIN
4
Francesco Clemente
ANALOGIA,PROIEZIONE,CORPOREITÀ:
LA RIAPPROPRIAZIONE FEURBACHIANA DEL NATURALE
Rosa Sidella
DIGIUNO D’AMORE, DIGIUNO MISTICO E DIGIUNO NARCISISTICO
Recensioni
Pubblicazioni ricevute
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QUESTIONI DI STILE: L'EROE E L'UOMO.
APPUNTI DI LETTURA FRA L'ESISTENZIALISMO E IL QUOTIDIANO
di Salvatore Prinzi
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi!
Bertolt Brecht
A camminare per strada, di questi tempi, bisognerebbe davvero aver paura.
Stare contratti, diffidare. Non tanto per i rischi che tutti immaginiamo, rischi
che, ossessivamente proposti dalla «chiacchiera» dei mass media, sono
diventati parte integrante della nostra percezione del mondo; non tanto per
quel passante che fissa il nostro sguardo, che viene da non sappiamo dove e
che va in un posto che non ci riguarda, e che è sempre un potenziale
nemico, un'aggressione, un attentato alla nostra sicurezza... Ciò che ci
dovrebbe davvero inquietare, e quindi far riflettere, non è il problema
imposto, ma la soluzione proposta. Ovvero la grande offerta di salvezza, la
quantità di eroi che – a sentire sempre la stessa «chiacchiera» – circolano a
piede libero.
Anche ad uno sguardo superficiale risulta che nell'odierna comunicazione di
massa ci sono poche parole inflazionate come 'eroe'. Tale qualifica è
distribuita con una certa generosità, in genere a chi ha avuto il solo merito di
morire, per semplice sfortuna o per mano di quelli che la nostra società, più o
meno civile, ha unanimemente riconosciuto come «nemici». Tuttavia non ci si
esime dall'attribuire un po' di eroismo anche ai vigilantes che di notte
perlustrano le nostre strade, ai militari che occupano terre straniere, a
supposti benefattori dell'umanità attivisti di qualche ONG, a figure pubbliche
che a vario titolo si fanno portatori della nostra grandezza nazionale.
Contraltari e soluzioni magiche all'angoscia diffusa nella nostra società,
questi 'eroi' sono enfaticamente presentati come i tutori dalle avversità. Più
che singoli individui sono dunque segni, strategie simboliche che ci
domandano una comprensione.
Una riflessione critica sul termine, sulla sua applicabilità, sui suoi usi, su ciò a
cui allude, si impone come ineludibile. Perché stabilire ciò che eroico, e farlo
diventare senso comune, ha sempre voluto dire proiettare nell'immaginario
collettivo certi valori, certi costumi, certe relazioni con gli altri, e farli valere in
modo assoluto. Ha sempre voluto dire interpretare produttivamente
l'esistente, e occupare uno spazio mentale di ammissibilità, impedendo
l'emergere di cattivi pensieri. In questo senso l'eroismo è un po' il distillato
etico di una società. Negli eroi si sublimano pulsioni, inquietudini, desideri, e
da questo empireo di figure e azioni ne derivano poi atteggiamenti concreti,
scelte di vita. Le narrazioni epiche in cui si sviluppa la nostra assunzione del
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1. A sembrare, da questo punto di vista, quanto mai interessante, è quella
fase storico-culturale che è passata sotto il nome di esistenzialismo: in
questo passato prossimo si può cogliere un importante momento di quella
produzione mitica di massa che interessa la nostra quotidianità, e l'emergere
di alcuni temi che ancora oggi ossessionano la nostra cultura. In questo
senso, scandagliare in profondità i contesti generativi delle idee, attraversati
nella prima metà del Novecento da dinamiche di estensione
dell'alfabetizzazione, di affermazione di nuovi media, di simultanea
massificazione dell'intellettuale e apparizione di un'intellettualità di massa, di
penetrazione di alcuni elementi filosofici nel senso comune (come d'altronde
sempre avviene in tempo di crisi), potrebbe spiegarci meglio da dove
provengono alcune forme della nostra produzione culturale, apparentemente
incomparabile con quella di sessant'anni fa, quali siano le linee di continuità e
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mondo, sin da bambini, ci spingono a misurare le azioni sui loro parametri,
perpetuando meccanismi di riproduzione ideologica che hanno precise
ricadute concrete. Mito e rito sono strettamente legati, l'uno è la controparte
dell'altro, la sua compensazione; la figura dell'eroe è, così, istituzionale:
insediata in un ordine di scambio fra il Reale e l'Immaginario, nella dialettica
fra situazione materiale e proiezione ideale.
Come tutte le istituzioni, anche l'eroismo è soggetto alla dinamica storica:
sarebbe quindi interessante, per capire la storia che stiamo facendo, per
comprendere l'Oggi, passare in rassegna tutto ciò che viene presentato come
'eroico', e cercarne l'intima connessione con la realtà che viviamo. Sarebbe
interessante vedere come alle comparse del nostro eroismo vengano
demandate le stesse funzioni della tragedia antica: ridefinire i valori della
polis, i concetti di bene e merito, di male e colpa, suscitare pietà e terrore,
confrontarsi col Fato, misurarsi con la furia, la benevolenza o l'ira del
pubblico – con il coro dello show mediatico che accompagna gli avvenimenti,
proponendone la morale, assolvendo alla catarsi collettiva. Ma per un lavoro
di questo tipo bisognerebbe disporre di un buon metodo. Per non
improvvisare, per non farsi assorbire dal presente, vale dunque la pena
trovare e affinare i propri concetti sul passato: non perché di esso non si
possano dare diverse interpretazioni, ma perché vi si può trovare una
genealogia che ispiri l'azzardo di un discorso sulla contemporaneità.
Prendiamo quindi un'epoca a noi vicina, in più sensi, e fissiamo la
comprensione che essa ha saputo sviluppare di sé attraverso l'immaginario.
Potremo così elaborare e testare alcuni strumenti per arrivare a leggere,
nelle forme simboliche attuali, i mutamenti epocali, l'ethos della nostra
società, le logiche che innervano e gli elementi che colonizzano la nostra
esperienza del mondo.
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le risposte di marketing che hanno mostrato un carattere duraturo. Ci si
potrebbe spingere sino a vedere la proposizione di elementi di riflessione,
precedentemente estranei alla cultura popolare, come funzionale alla
conquista di un nuovo spazio commerciale: attraverso una 'merce' ancora
'nuova' (l'angoscia, l'assurdo, un certo lifestyle esistenzialista), si sarebbe
tentato di rinnovare la produzione letteraria per sincronizzarla e renderla più
appetibile ad una larga fetta di popolazione che da poco accedeva al
'mercato delle idee'. Da qui la commistione dell'autore col pubblico, il dato
scandalistico sulla sua vita, le campagne pubblicitarie dispiegate
simultaneamente su diversi mezzi di comunicazione, la sinergia delle diverse
arti (trasformazione dell'opera letteraria in film, scrittura scenica, lavoro
pittorico sulle scenografie, introduzione di elementi visivi nell'impaginazione
del testo) apparirebbero come le strategie più adeguate alla produzione e alla
mercificazione del sapere nei paesi a capitalismo maturo. Un fenomeno
complesso e di larga portata, che non può essere analizzato riduttivamente,
perché ha la sua dialettica, i suoi punti di forza e le sue ambiguità, accenna i
suoi progetti di emancipazione là dove svolge le sue funzioni anestetiche.
Ora, se il nostro tentativo è isolare alcuni punti essenziali dell'esistenzialismo
(intendendo per 'essenziali' quegli elementi strutturanti e mai del tutto
strutturati che ne animano l'esperienza) per vederne l'analogia di forme e
contenuto con il presente, dobbiamo soffermarci sugli stili esistenzialisti che,
in quanto fattori organizzativi dei materiali esperienziali di quel passato, non
possono dirsi esauriti col tramontare di quella stagione. Dobbiamo insomma
privilegiare le vie di ricerca rispetto alle stabili acquisizioni, le aperture e le
innovazioni, la filiazione e il prosieguo rispetto al fenomeno in atto;
considerare quindi l'esistenzialismo come un segno vacuo, come un
dispositivo che si attiva quando è sfiorato da alcune problematiche. Questa
elasticità dell'etichetta non negherebbe l'esistenzialismo come determinata
corrente culturale, ma lo mostrerebbe come profonda ispirazione filosofica
che ha saputo contaminare e problematizzare la cultura europea, facendo
giungere la sua onda lunga sino ad oggi.
In questo quadro, bisogna innanzitutto legare l'esistenzialismo francese alla
stagione avanguardista, di cui ha per certi aspetti rappresentato l'ultimo
episodio. Di quel complesso di esperienze, geniali intuizioni, sperimentazioni
sul filo dell'espressione, l'esistenzialismo ha saputo riprendere alcuni temi: il
rifiuto di un'arte elitaria, la discordanza fra realtà e moralità, la critica all'idea
di verità come 'rispecchiamento', la rivalutazione della dimensione
dell'inconscio e dell'anonimo, persino l'arte come gesto, come azione, spesso
provocatoria e provocante, come lavoro sulla materialità, come tecnica della
produzione... Anche per l'esistenzialismo il mondo semplicemente dato è un
deserto, un magazzino di oggetti, uno scenario in cui non è possibile
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l'esperienza viva e autentica; ed anche l'esistenzialismo prende atto di un
complessivo processo storico di svuotamento, che diffonde la mancanza di
senso e inquina il prodotto estetico. In siffatto contesto si aprono differenti
strategie artistiche, che però passano tutte per l'impossibilità di accedere a
una qualche immediatezza e per la denuncia dell'insignificanza del rapporto
umano nell'epoca della modernità. Se insomma le avanguardie erano riuscite
a porre seriamente il problema della presenza effettiva dell'artista nei punti
sensibili della società, se erano state le prime ad avere a che fare con le
masse, misurando su questa taglia sproporzionata le questioni che nella
speculazione occidentale avevano riguardato il 'piccolo' filosofo con il suo
limitato bagaglio concettuale, sta ora all'esistenzialismo muoversi sul terreno
dissodato negli anni precedenti, portando la filosofia fuori dall'accademia,
diventando un fenomeno 'contagioso', misurando temi e forme espressive
della cultura 'alta' con l'esperienza popolare, grottesca, immorale.
È così che in questa corrente culturale si trovano confermati i tratti di
interartisticità che avevano fatto ricca l'esperienza avanguardista. Letteratura,
pittura, scultura, cinema, musica, persino le movenze e i segni esteriori
dell'abbigliamento, sono convogliati per incarnare la stessa ossessione
filosofica. Grazie a questo passaggio, l'esistenzialismo potrà diventare, dalla
metà degli anni '30 fino alla metà degli anni '60, un vero e proprio stile di vita,
uno stile che non a caso attecchirà sul nuovo soggetto sociale e di mercato
che si delinea più precisamente negli anni '60, quello giovanile. Riprodotto e
smerciato oltre la Francia, l'esistenzialismo potrà così influenzare le scelte di
numerosi individui, gruppi culturali, band musicali, che ne daranno una
personale declinazione nelle loro scelte artistiche e nella propria biografia.
L'atteggiamento esistenzialista, espandendosi oltre la cerchia dei suoi
pensatori più o meno rigorosi, diviene insomma parte del sentire comune:
nichilismo, abbigliamento nero, malinconia di fondo, ribellione alle
convenzioni sociali, professione di individualismo, comportamento estremo e
autodistruttivo... E ancora jazz, romans noirs, disobbedienza, tabù, insolenza:
questi sono i modi di un’intera generazione che tenta faticosamente di
rimuovere la guerra che ha solo subito; e questi sono gli elementi ripresi dalle
grandi multinazionali della cultura quando devono rielaborare queste
innovazioni e questi bisogni in chiave di mercato, riproducendoli in forma più
o meno compatibile.
È in questa dinamica giovanile, che arriva sino all'esplodere del rock, del
punk, del dark, alle soglie degli anni '80, è in questi rapporti di imitazione, in
questo operare metodico per la creazione di un modello stereotipato, che si
possono intendere le relazioni che l’esistenzialismo intrattiene con la
produzione culturale odierna. Implicazioni che non si limitano a discreditarlo,
ma anzi mostrano la ricchezza di un'epoca che ha saputo a suo modo
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generare dei miti di massa, e assecondare e rinforzare quella convergenza di
culture e di stili che è oggi tipica della nostra esperienza intellettuale. Proprio
per questo si potrebbe sostenere un po' provocatoriamente che la migliore
etichetta per l'esistenzialismo sia quella di fenomeno pop1. Muovendosi fra
l'accademia e il rotocalco, sviluppandosi a stretto contatto con le polemiche e
le censure, coniugando praticamente il ricorso a temi elevati e la loro
drammatizzazione, beneficiando di una notorietà che è frutto e stimolo di
un'ininterrotta ricerca espressiva, l'esistenzialismo è il primo fenomeno
culturale a meritare la qualifica di popular2. Ecco individuata – dall'esterno,
per così dire – una fisionomia un po’ atipica del movimento: compreso come
risposta a più dimensioni e a più accessi a una domanda che l’epoca poneva,
iniziativa interna al circuito commerciale e slancio che oltrepassa gli ambiti
ristretti dell’intelligentzia, si può spiegare quel peculiare rapporto
partecipativo e quell'attenzione che riesce a mobilitare. Pensiamo ad
esempio alla produzione in serie di individualità che finiva per essere l’esito
della sua riflessione: ad ogni ricevente veniva detto di essere in un certo qual
senso unico, libertà nuda di fronte ad un mondo fatto di convenzioni e di
vincoli ingiustificabili; gli veniva cioè chiesto di manifestare la sua
individualità, ma nell’unico modo in cui poteva accomunarsi e sentirsi
accomunato agli altri. Nel giro di una ventina d’anni questo fenomeno di
differenziazione nella standardizzazione diventerà dominante e, se si pensa
ai suoi risultati nel mondo occidentale, persino una forma di controllo sociale.
Si sveleranno così molte delle ambiguità che hanno contrassegnato i
fenomeni pop, le culture giovanili e i movimenti underground, fino alle ultime
esperienze sperimentali, in cui i contenuti emancipativi sono quasi sempre
andati di pari passo con quelli compatibili, ovvero attinenti alla mera
ostentazione di un contrassegno o ad una vana protesta.
2. Colti questi elementi di continuità, che non cessano di esercitare effetti nel
nostro presente, facciamo un piccolo passo indietro, e stringiamo la
narrazione esistenzialista, proviamo a seguire più da vicino la fisionomia dei
suoi eroi, le sedimentazioni che quell'epoca difficile ha lasciato
nell'immaginario. Anche qui c'è un aspetto che dovrebbe attirare la nostra
attenzione: nell'universo dell'insignificanza realizzata, gli eroi esistenzialisti
sono tutti attanagliati dal problema dell'«assurdo». È infatti proprio questo
attributo a rappresentare il trait d'union fra l'ultima avanguardia propriamente
detta, il surrealismo, e la nuova fase culturale che si aprirà verso gli anni '60,
ed è questo tema a diventare un comune retroterra concettuale fra i diversi
autori. L'incompiutezza delle azioni, l'indecifrabilità del senso, che si
preparano e covano lungo tutto il primo trentennio del Novecento, con
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l'esistenzialismo si fanno emergenza. Vale allora la pena approfondire la
riflessione sul termine, per tentare di ca(r)pirne la dimensione epocale.
«Assurdo» viene dal latino absurdus, composto da un suffisso che indica
l'allontanamento e la separazione, e da una modificazione dell'antico verbo
sardare, che indicava il 'parlar saviamente'. 'Assurda' è dunque
un'affermazione che si allontana bruscamente da un parlare sensato,
condiviso. Ma la provenienza del verbo sardare è la stessa del verbo svar,
suonare; l'absurdus sarebbe dunque, nella sua radice profonda, ciò che non
suona bene, che è ingrato all'orecchio, e in questo senso disorienta. Ciò che
squilibra, visto che proprio tale organo custodisce la possibilità
dell'equilibrio3. È proprio in quanto elemento stonato, che viene percepito
come non in accordo con l'armonia della frase o del contesto, che esso
offende il senso comune. Si vede quindi come l'assurdo non sia il falso in sé,
non sia ciò che si pone in antitesi con un paesaggio vero, ma ciò che in un
articolazione vocale, in un ragionamento, in un determinato contesto di
riferimento viene percepito come sbalzo, salto illegittimo. Poiché non è agli
antipodi dell'evidenza, l'assurdo potrebbe quindi essere il vero, soprattutto se
il contesto rispetto a cui l'affermazione si colloca viene avvertito come falso, o
si riesce a dimostrare tale. Una simile assunzione dell'assurdo, un simile
privilegio concesso al dissonante, non può che avvenire a costo di una
sofferenza persino fisica. Qui il disturbo cacofonico può limitarsi a vanificare
la melodia che teneva insieme il contesto precedente, ma anche tentare di
erigere una nuova uniformità etica.
L'esplosione surrealista aveva ben presente questo piano. Ecco quello che
Artaud scriveva, nel 1925, con tono profetico: «I cieli rispondono al nostro
atteggiamento di insensata assurdità. L'abitudine che avete di voltare le
spalle alle questioni, non impedirà che i cieli, nel giorno stabilito, si aprano, e
un nuovo linguaggio si installi in mezzo alle vostre sciocche contrattazioni,
vogliamo dire alle sciocche contrattazioni del vostro pensiero. Ci sono dei
segni, nel Pensiero. Il nostro atteggiamento di assurdità e di morte è quello
della migliore ricettività. Attraverso le fessure di una realtà ormai
impraticabile, parla un mondo volontariamente sibillino»4. Per i surrealisti non
si può restare sul piano di una realtà che ripete sempre la stessa stonatura,
bisogna farsi carico dell'assurdo e del limite, «abbandonare le caverne
dell'essere», «cedere al pensiero integrale», predisporsi ad accogliere il
nuovo che annuncia in ogni scontro la sua venuta. La realtà non è reale e
non è qui, non è il presente meramente inteso, ma un'eternità di produzione e
riproduzione della specie. In questo senso il lavoro politico e artistico
coincidono: entrambi consistono nella creazione di un nuovo linguaggio, che
porti a fondo il 'no', che a partire dall'opposizione a ogni concertazione renda
possibile l'impensabile, che non ci regali un diverso panorama sulle cose, ma
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stenda fra i nostri passi un nuovo cammino. Il lavoro che c'è da fare è allo
stesso tempo interstiziale e frontale: registrare i segni del Pensiero, seguirne
le rughe, iniziare a parlare a ruota libera, per cercare così di riformulare le
ambiguità e gli accenni del mondo.
I surrealisti riuscirono senza dubbio a imporre la domanda dell'assurdo, un
po' meno a condurne le risposte, che saranno delle più diverse. Celebre è
quella di André Malraux, che di questa Weltanschauung di crisi e rivolta
seppe essere brillante diffusore. Anche per lui il problema è decisivo: «Au
centre de l'homme européen, dominant les grands mouvements de sa vie,
est une absurdité essentielle»5. Un suo romanzo del 1928, Les Conquérants,
prova ad indicare una via per affrontare questo cuore di tenebra
dell'Occidente6. La maturazione politica, la partecipazione a una rivoluzione,
viene intimamente legata alla gratuità ed alla vanità della vita. I comunisti
appaiono al giovane avventuriero europeo uomini del tipo «conquistatore»,
perché cercano di strappare un senso alla realtà, perché sono gli unici a
poter riproporre, nell'epoca contemporanea, un epos credibile. È evidente
come qui il comunismo non sia solo un partito o una certa posizione politica,
piuttosto – nel suo esprimere non un punto di vista personale, ma il sentire di
tutta una comunità – la possibilità di un riscatto più grande, di un'innovazione
radicale, dell'unica poiesi che valga la pena. È una lotta interiore che ha
come banco di prova l'esteriore: «la malattia, non si può sapere che cos’è
quando non si è malati. Si crede che sia una cosa contro la quale si lotta, una
cosa estranea. Macché! La malattia è noi, noi stessi»7. Morbosa
appartenenza alla vita, gioco contro il destino, volontà di ritrovare una calda
fratellanza con gli altri uomini: il comunismo viene presentato come la
risposta a una mancanza, come un desiderio di superare l’assurdo che ogni
volta «ritrova i suoi diritti»8. Fuori dalla metropoli europea, dagli anestetici
della vita civile, la vanità del mondo si ribalta in forza, in una lucidità quasi
mistica, in una tensione che cancella questa stasi insopportabile. Sono questi
stessi temi che tornano ne La condition humaine, dove i personaggi sono
modalità di risposta al dolore dell'esistenza, che nella condizione infima del
proletariato cinese trova il suo suggello, la sua forma più lampante e
manifesta, ma non l'unica: «Ovunque gli uomini lavorano nel dolore,
nell'assurdità, nell'umiliazione...»9. La condizione umana è l'abbandono, la
violenza, l'istituzione di una scissione con i propri simili, da impedire in ogni
modo. L'epica battaglia dei rivoluzionari non è una lotta fra le altre, è il
tentativo di strappare all'altro uomo il diritto di essere tale, di riconoscersi
come essere sociale, di sostenere questo di più che ci distingue dalle bestie.
Lo scenario stavolta è globale: nella marea orientale quella che viene
chiamata in causa è tutta la civiltà europea, colpevole di aver fabbricato una
vita senza dignità. Gli inglesi e i francesi corrotti, che si trascinano fra casinò
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e bordelli, hanno tolto all'uomo ciò che ha di proprio, hanno espropriato
l'uomo delle sue immense possibilità. Quello che conta è dunque combattere
«per quello che [ha] il maggior peso di significato e speranza», morire «per
aver dato un senso alla propria vita», farlo insieme agli altri: «è facile morire
quando non si muore soli»10. Ecco dove sfocia il programma del giovane
Malraux nell'epoca della compiuta mancanza di senso: nell'impegno,
nell'attivismo – verso la vita come «affermazione recisa»11.
È Paul Nizan a riprendere questo insegnamento. La sua stessa esistenza si
vuole fare «affermazione recisa»: figlio di un operaio che aveva rinnegato la
sua classe, ne vuole riconquistare il credito; adolescente eccentrico e votato
all'Assoluto, pensa alla conversione, conduce una vita snob e bohémien, è
ancora insoddisfatto; intraprende un viaggio in paesi lontani, tenta
l'Avventura, fallisce ancora: si consacra al Partito; scrive articoli, romanzi,
saggi di critica letteraria, intavola polemiche; sempre un passo avanti ai suoi
compagni normalistes, viene considerato «il migliore della nostra
generazione», «il comunista perfetto»12; infine, rifiuta nel '39 la sudditanza
del PCF alle politiche di Mosca, esce di scena, combatte e muore ucciso dai
tedeschi sul fronte di Dunkerque... L'opera di Nizan inizia con un rifiuto:
J’avais vingt ans. Je ne laisserai personne dire que c’est le plus bel âge de la
vie: ecco l'incipit straordinario del suo primo libro, Aden Arabie (1931). Si
tratta innanzitutto di demistificare il mito della gioventù, della pienezza delle
forze, del futuro aperto alla costruzione di una bella carriera: si tratta di farlo
con rabbia e senza concessioni, mettendo sotto accusa un'epoca e
un'umanità sfinite, che meritano solo spregio o furore13. Quando la «pigrizia,
l'incertezza, l'ignoranza di un mestiere» non bastano più a sopportare
l'ipocrisia di questa vita, che fare? «C'era un'infinità di scappatoie: e quante
porte per non andare in nessun luogo» [78]: la religione, la depravazione,
l'obbedienza, il suicidio – non resta che partire: magari in qualche posto
lontano ci si può mettere alla prova, si possono superare quelle «divisioni,
alienazioni, conflitti e discorsi inutili» [72] che ci abitano, dire finalmente un sì.
Ma no, nemmeno in questa fuga è la soluzione: una partenza «figlia della
paura» è destinata allo scacco, non troverà altrove ciò che si negava in
Patria. Ma il volto scavato dell'Oriente, quella vita ricondotta alla sua
dimensione economica essenziale, è l'occasione per sorprendere l'essenza
occidentale: Aden è «un concentrato di Europa» [123]. Quasi come in un
ipertesto, in un prologo ideale ai massacri descritti da Malraux, appaiono
sullo sfondo le rivolte in Cina, la repressione transnazionale: «i depositi di
truppe europee fornivano soldati per incrementare l'incivilimento dei cinesi.
Un'economia mal regolata comincia sempre dagli altri» [122]. Vediamo cosa
fanno questi uomini prima che vadano a combattere, prima di diventare
sanguinari. Altra assurdità: prendono il fresco, escono dalle caserme, vanno
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in giro – esistenze come le altre, sono strumenti ottusi di piani economici e
militari da cui in ogni caso non avranno nessun tornaconto. Allora l'unico
modo per uscire dalla vanità del dolore, dall'ostinazione di una vita ignobile, è
impegnarsi perché quella fratellanza che si intuisce nella rovina sia la legge
dell'avvenire. «Combattere e mettere a terra i padroni degli uomini, questo è
necessario. Le belle conoscenze le faremo dopo» [121].
È questa stessa dinamica che entra in gioco quattro anni dopo ne Le Cheval
de Troie: ancora dei viaggi, ma stavolta nella vecchia Europa, ancora delle
fughe, ma stavolta non dal proprio male di vivere, ma per il vivere stesso, per
sfuggire alla fame, per cercare un lavoro. Anche qui, però, chi vede
assottigliarsi giorno dopo giorno la propria piccola riserva di possibilità, chi
vede logorarsi il coraggio, non può sfuggire al dilemma del suicidio o
dell'impegno. Ecco dunque Bloyé, «qui croyait parfois que tout ce qu'on
pouvait faire serait de donner un sens à la souffrance et à l'angoisse des
hommes», ecco il suo autore, parafrasare ancora Malraux: «on ne se défend
contre la vie qu'en la vivant»14; ecco infine la disperazione che attanaglia
entrambi: «l'absence d'issue, les actions impossibles, les impasses, des
murs absolument lisses, impénétrables»15. Le scene finali del libro sono
epiche e sconcertanti: davanti all'assurdità della vita, Bloyé capisce che
bisogna rischiare tutto, «accepter la mort quand elle offre la dernière chance
d'être un homme»16. Si deve rischiare di finire, per iniziare veramente.
Mettere in gioco la sola cosa che resta, il corpo, sconfiggendo quella malattia
che sembra un destino esteriore e incoercibile, ma che siamo noi stessi,
finché non avremo riconquistato noi nell'altro uomo. Bisogna battere il dolore
universale per inverare il benessere individuale, riappropriarsi della propria
genericità di specie proprio a partire della rinuncia a ciò che c'è di più proprio,
compiere il gesto inaspettato che frantumi il consono: ecco la radicalità della
proposta di Nizan.
Si vede bene come, nella diagnosi condivisa di una realtà impraticabile
perché assurda, ma assurda e vera, costitutivamente dissonante, questo il
punto, si azzardavano delle risposte etiche. Il surrealismo aveva impostato il
problema, Malraux aveva detto la sua: avventura, impegno, donazione di un
senso. Nizan l'aveva seguito a suo modo: prima rifiutando l'accademia, poi
assumendo una disciplina politica e artistica, mettendosi sulla strada della
costruzione di una umanità nuova, tentando di erigere una nuova uniformità
morale a partire da una domanda vertiginosa e dal rischio del corpo.
Scomparso Nizan, è Camus che riprende questo progetto, a partire da un
certo abuso dell'assurdo, da un suo esercizio reiterato, da una sua
applicazione metodica e saturante.
Si pensi proprio a quel vincolo fra la pronuncia dell'insignificanza della vita e il
dolore fisico che abbiamo visto apparire: esso trova nel Caligola sofferente
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SAGGI
per la perdita di Drusilla, la donna amata, una mirabile rappresentazione17.
L'assurdità della morte, inattesa, inaspettata – perché in fondo, nel nostro
inautentico contesto, non è mai prevista – incatena il corpo alle cose, lo
rende vincolo e punto assoluto di partenza. La comprensione della propria
situazione avviene prima di essere tematizzata, nella spinta pulsionale del
desiderio, nella marea montante dai nostri nervi: è «tutto il rimpianto della tua
carne che mi sale alle labbra». Che vuol dire che qualcuno non c'è più? È un
odore che si attenua, il nostro sguardo che non potrà catturarlo, le nostre
braccia che non potranno stringerlo, e uno scatto, un'abitudine irriflessa che
non troverà più nessuno ad accoglierla. Era nel corpo di Drusilla, nei suoi
gesti, nella sua voce che si svelava l'accordo e il senso stesso della sua vita:
«non era lei, era il mondo che rideva attraverso i suoi denti»; era una
garanzia, il luogo di transito della significanza, che solo lei riusciva
compiutamente a esprimere. Dopo una tale perdita, ogni concordanza è
falsa, e questo scarto assurdo e dissonante è ormai lo sfondo da cui
muovere. Poiché non si è tutelato prima, poiché non ha saputo vedere come
l'impianto della sua vita aveva una manutenzione esterna, Caligola smarrisce
del tutto la sua coscienza, che s’aliena in un sadismo illimitato. Così, non gli
rimane che la libertà del condannato a morte, libertà a cui tutto è concesso,
perché «tutto gli è indifferente». Possiamo misurare qui la distanza con il
progetto di Nizan: il dolore e lo smarrimento non sono l'occasione per una
battaglia, per una riconquista, ma una ricetta di abbandono; non sono
l'occasione per una ricomposizione del legame sociale (certo, dopo il
sacrificio e l'espiazione dei responsabili della sofferenza), ma la liberazione di
ogni convulsione, perché ad un mondo ormai deregolato, si fa fronte con
l'arbitrio. Nell'assurdo camusiano con l'umanità non ci si allea: ripugna.
Qualcosa di analogo, ma di più grave, si potrebbe ad esempio sostenere per
quello straniero che aveva assunto su di sé tutti i caratteri di chi abita
l'assurdo. Mersault è diverso da Caligola, forse è situato meglio: la morte non
lo tocca nel fondo, perché nel suo fondo egli ha già scoperto tutto quello che
(non) c'è da sapere sulla vita. «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non
so»: Mersault non ha il rimpianto di un'armonia per cui soffrire, non ha un
tempo da dannarsi, l'evento è passato senza lasciare traccia. Se pure fa del
male non è per rispondere sadicamente ad una mancanza, ma proprio
perché non c'è male, non ce ne può essere in un universo in cui gli eventi si
concatenano senza significato. In questo senso possiamo parlare di gravità:
un enorme peso lo priva di ogni trascendenza, divina o assiologica, lo
schiaccia al suolo, lo porta fuori dalla comunità istituita, e lo rende
straniero18. Una responsabilità immane poggia su di lui: quella di rifare la
gerarchia delle azioni al di là dell'istituzione che esteriormente lo condanna.
Ma étranger, estraneo, egli, almeno, si appartiene? No: Mersault è straniero
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già nel luogo della vita intima. Rileggendo con meno attenzione il racconto,
cercando meno il senso delle azioni, si vede che è proprio la partecipazione
alla sua interiorità ad esserci preclusa: il racconto vero è il suo tempo morto,
lo scarto interno alla narrazione di cui possiamo chiedere conto. Mersault non
è mai là dove ci dice Camus, là c'è una descrizione che ci viene riportata
senza dare opinioni o punti di vista; l'unico punto di vista è quello meramente
fisico: se vita c'è, è altrove. Alla lettera, Mersault non fa nulla, rispetto al reale
è inoffensivo, e il problema è appunto questo: nella recrudescenza
dell'assurdo si ha accesso all'esistenza solo dall'esterno.
La consapevolezza di una vita priva di significato, una consapevolezza così
radicata che non abbisogna dell'evento, lo rende estraneo ad ogni nesso
attivo ed operante. Mersault riposa in gesti privi di sbocco, anche e
soprattutto durante il suo processo: «tutto si svolgeva senza il mio intervento.
Si decideva la mia sorte senza chiedere il mio parere»19. È perché non
appartiene nemmeno a se stesso che la sua moralità non può essere quella
della tradizione: non può riconoscersi negli altri, nelle convenzioni largamente
accettate, che gli risultano anch'esse esteriori, e che quindi non pretende
nemmeno di contestare. A differenza di Caligola, lascia fare: non ha bisogno
di negare tesi, che d'altra parte la sua esistenza non contiene. In questo
senso la moralità di Mersault è tutta da inventare, e lo si dovrebbe fare
proprio a partire da quel tempo morto, nell'attesa della pena, nel fondo che
non appartiene a nessun soggetto. Non si tratta solo di uno sfasamento
spaziale fra il soggetto e le cose, si tratta del sentimento che la strada che ci
porta a loro sia interrotta, del fallimento nel compiere un'azione. È lo spazio
interno di Mersault a rappresentare un altro paese: uno sfasamento
temporale profondo che è nel dimenticare un pensiero, nel non sapere,
nell'aver voglia di intervenire e poi ritrarsi. Se rispetto al ritmo del mondo
siamo sempre un po' prima o un po' dopo, si spiega la frantumazione di
un'esperienza unitaria, si spiega l'ira di Mersault verso chi vuole redimerlo,
facendosi portatore di una moralità insostenibile, di una riverenza verso un
possesso di sé che l'uomo non ha più.
L'assunto è dunque radicale, oblitera ogni chance che ci si vuole concedere
sia pure per contrasto, a partire dalla negatività costitutiva della condizione
umana20: attraverso questi eroi la scommessa straziante dell'assurdo si erge
a nuova configurazione ontologica. «Il corpo, la tenerezza, la creazione,
l'azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo
mondo insensato. L'uomo vi ritroverà infine il vino dell'assurdo e il pane
dell'indifferenza, di cui nutre la sua grandezza» [49]. Ecco il punto di partenza
di ogni vita autentica e contemporanea: «Per l'uomo assurdo [...] tutto
comincia dall'indifferenza perspicace» [92]; nel momento in cui «si dà vita» si
dà anche quest'ossimoro, questa conversione dell'attenzione, che cancella i
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SAGGI
confini rigidi del quotidiano e sposta all'indietro ogni rinuncia. Si tratta di fare,
dunque, una lotta per mantenere aperta la nostra situazione: non per
superare l'assurdo, ma per renderlo la base di un nuovo scenario etico. «Tale
lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere
con la disperazione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la
rinuncia) e l'insoddisfazione cosciente (che non dev'essere assimilata
all'inquietudine giovanile) [...] L'assurdo ha senso solo nella misura in cui gli
venga negato il consenso» [31-32]. Non si tratta dunque di sfuggire, ma di
tenere un equilibrio e sostenere una tensione: «un perpetuo confronto
dell'uomo e della sua oscurità» [50].
Eccoci giunti a un punto che ancora oggi, in un immaginario collettivo saturo
di insignificanza, non cessa di produrre comportamenti reali: l'assurdo non è
più l'occasionale dissonante, ma la struttura stessa del reale, la sua positività,
il piano del Vero. Piano sul quale si decide il compito e il ruolo, il valore
dell'individuo e quello delle sue relazioni, che siano rappresentati da una
sfida epica o da una fatica senza scopo. Si potrebbero ben corredare queste
affermazioni prendendo ad esempio le prime opere di Sartre. Si pensi a
Ibbieta, protagonista di Le mur: alla comicità che vuole provocare, mandando
fuori strada i falangisti alla ricerca dei suoi compagni, gli eventi rispondono
con un paradosso che non si può comprendere: «tutto si mise a girare e mi
ritrovai seduto in terra: ridevo così forte che mi vennero le lacrime agli
occhi»21. La realtà gli si rivolge contro, l’azione trasparente è impossibile.
Nell'assurdo non si può agire nemmeno per scherzo, e vale la mera
constatazione di fatto: Ibbieta ha parlato – sarà per sempre confuso con la
sua sembianza pubblica, mai assolto dalle sue intenzioni. Una realtà così
fatta, espropria il soggetto delle sue stesse scelte. Si pensi ancora a Hilbert, il
protagonista di Erostrate. Come Cartesio, egli s’affaccia alla finestra e non
vede soggetti, ma esseri strani, dai movimenti sgraziati22. Perciò che egli
può progettare di uccidere altri uomini, senza nessun motivo; ma quando alla
fine riesce a sparare, non mira e corre via. Chiuso in un bagno, assediato da
quelli che voleva punire, non riesce a darsi la morte. Il soggetto che si
credeva puro trova la presenza insuperabile degli altri: non può arrivare a
negarla, come non può negare la propria. Il tentativo di Hilbert è destinato al
fallimento, perché tenta di essere lucidamente logico quando la nostra stessa
costituzione è assurda. Mentre però di questa costituzione il surrealismo
accentuava la dimensione del non-coincidente, dell'accostamento produttivo,
Sartre ne sviluppa lo statuto sociale e soggettivo. L'assurdo livella, uniforma,
rende equivalenti le scelte: è la moneta di scambio della contemporaneità.
Questo modo di aggredire e di patire, questa confinata solitudine, questa
sospensione e risolutezza degli atti, trova nel Roquentin de La Nausée una
mirabile rappresentazione. La sua vita è sconvolta perché gli si rivela
17
l’Esistenza: «m’è accaduto qualcosa, non posso più dubitarne. È sorta in me
come una malattia, non come una certezza ordinaria, non come un’evidenza.
S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi sono sentito un po’ strano, un
po’ impacciato, ecco tutto»23. La sensazione di assurdità dilaga fino a
mettere in discussione gli assunti del pensiero occidentali; il suo pacato
argomentare diventa un balbettio confuso: «sono, esisto, penso dunque
sono; sono perché penso, e perché penso? Non voglio più pensare, sono
perché penso che non voglio essere, penso che… perché… […] l’esistenza è
molle e rotola e sballotta, ed io sballotto tra le case, io sono, io esisto, penso
dunque sballotto, sono, l’esistenza è una caduta» [139]. I tempi di questa
repulsione sono dettati da ciò che è intorno; l'interno avverte come sbigottito
una pulsazione che è esteriore, che viene dall'ob-jectum: «gli oggetti son
cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne
serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più»
[22]. Invece no, ci trascinano, siamo presi nella stessa trama, il mio modo di
usare un oggetto è un uso che l'oggetto fa di me: «La sua camicia di color
azzurro spicca allegramente sulla parete color cioccolato. Anche questo dà la
Nausea. O piuttosto, è la Nausea. La Nausea non è in me: io la sento laggiù
sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt'uno con il caffè, son
io che sono in essa». Qui Sartre radicalizza Malraux e Nizan: «La Nausea
non m'ha lasciato e non credo mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più,
non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso» [34].
Gli eroi non hanno più avventure ad attenderli. L'assurdo si afferma ormai
come la marca di un'esperienza totale e totalmente coinvolgente. Non è solo
in quel soggetto e in quel corpo che ne sono afferrati, è qualcosa che ricade
sugli oggetti stessi, satura quel tessuto connettivo che è il linguaggio: «Le
parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro
uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro
superficie». L'unica locuzione che riesce ancora a configurare l'esistenza è il
di troppo, un eccesso ingiustificato: «La parola Assurdità nasce ora sotto la
mia penna; poco fa [...] pensavo senza parole, sulle cose, con le cose [...]
senza nulla formulare nettamente capivo che avevo trovato la chiave
dell'Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita stessa [...] poco fa,
ho fatto l'esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo» [171]. Il mondo è
sempre ulteriore alle ragioni e alle spiegazioni; «l'essenziale è la
contingenza», e l'assurdo è così sinonimo di «irriducibile» e di «perfetta
gratuità» [177]. Si sbaglierebbe a vedere in queste soluzioni solo la traccia
della poetica sartriana: in questi passi si condensa in modo esemplare la crisi
di una generazione, una generazione che di lì a poco farà l'esperienza
drammatica della seconda guerra mondiale. La costellazione dell'assurdo e il
suo ordine simbolico ne saranno radicalmente trasformati, avviando una
18
3. È certamente la Resistenza ad inaugurare un nuovo corso della figura
dell'eroe, ad aprire lo spazio per altri miti e servizi. Altri: perché il rapporto
della Resistenza con il mito è del tutto particolare. Da un lato, dopo il 1945, i
vincitori scrivono la loro storia, rielaborano in maniera tradizionale e
celebrativa alcuni elementi tipici delle «esperienze di guerra»24, spostano
dalle montagne alla scrivania il loro impegno, avviando una retorica spesso
compensativa della battaglia politica che stanno sempre più perdendo. Da un
altro lato, però, la Resistenza permette di pensare oltre, di contestare la
possibilità stessa di fondare un mito, perché la sua narrazione invita ad una
pratica attiva e inventiva. In questo senso la lettura di Merleau-Ponty è
attualissima: non si attesta tanto sul momento felice dell'unità cementata
sull’antifascismo, ma ne sottolinea il valore dirompente. La Resistenza è un
movimento in sé rivoluzionario, perché rimette in questione l’incontestato,
compie il passaggio fra l'essere decisi e il decidere, affronta lo stato
d’emergenza in vista di una riconfigurazione della realtà: «Per molti uomini la
Resistenza ha avuto il valore di un dubbio radicale ed il significato di
un’esperienza rivoluzionaria, poiché metteva a nudo i fondamenti contingenti
della legalità, poiché mostrava come si costruisce una nuova legalità. Per la
prima volta da gran tempo si vedevano dissociate la legalità formale e
l’autorità morale […] Qui la semplice ragione non bastava: […] essa ci
lasciava senza conclusioni, perché era necessario affermare senza riserve e
affermare contro altri uomini, perché le coscienze si trovavano ricollocate nel
dogmatismo della lotta a morte. Così emergevano le origini passionali e
illegali di ogni legalità e di ogni ragione»25. In questo senso la Resistenza
mostra come lo spazio politico è costruito a partire da alcune opzioni di fondo
mai esplicitamente sapute, più imposte che partecipate, e che quando la
collettività emerge alla storia è un tale spazio a essere sovvertito, a essere
minacciato da nuove, coscienti affermazioni senza riserve. Davanti a una
morte non più figurata, sul palcoscenico della storia, le frasi hanno di nuovo
un senso: ecco «una raggiunta esistenza»26, una nascita voluta e non
capitata, la conquista di una dignità negata; l’impressione che, ad ogni
angolo di strada, è possibile riconoscersi, nella comunanza umana che
travalica ogni singolarità27. Tornati al tempo delle rigide istituzioni, piombati
nel clima della Guerra Fredda, come tenere viva questa comunione tra il
gesto e l’intenzione, tra sé e l’altro, tra azione e riflessione? Non si poteva
SAGGI
nuova ricomposizione dell'immaginario; le difficoltà del senso ne saranno
esasperate e riformulate. Chi saprà leggere, forse meglio di tutti, questo
cambiamento epocale è Maurice Merleau-Ponty. È quindi in alcuni suoi saggi
degli anni '40 che dobbiamo reperire gli elementi per pensare l'eroismo
esistenzialista e le sue eredità.
19
ricominciare il silenzio, non si potevano smobilitare le coscienze: la guerre a
eu lieu, ci dice Merleau-Ponty, e il luogo che la guerra ha preso è anche
interno ad ognuno28. Bisogna compiere fino in fondo questo viaggio al
termine della notte, guardare malgrado tutto. Anzi, di più, apprendere a
guardare: l'unico modo per non ricominciare il disastro e, più che ricostruire,
edificare.
Merleau-Ponty mette dunque in questione i valori e gli atteggiamenti che
avevano caratterizzato l'età immediatamente precedente. L'errore della sua
generazione era nel non orientarsi sulla realtà: «avevamo segretamente
risolto d’ignorare la violenza e la sventura come elementi della storia [...]
Diffidare dei fatti, era persino divenuto un volere per noi». Si viveva
nell’astrazione, in uno spaesamento inerte: tutto ciò che si sapeva della
Germania nazista, i campi di concentramento, i detenuti politici, erano
certezze che «appartenevano all’universo del pensiero. Non vivevamo
ancora in presenza della crudeltà e della morte, non eravamo mai stati messi
nell’alternativa di subirle o di affrontarle». La Francia era un mondo ovattato,
un giardino calmo, «che pensavamo fosse la terra medesima. Abitavamo un
certo luogo di pace, d’esperienza e di libertà, formato da un complesso di
circostanze eccezionali, e non sapevamo che fosse un suolo da difendere,
pensavamo che fosse il destino naturale degli uomini». Questo falso
universalismo, questo provincialismo, questo pensare tutto il mondo come
uguale a casa propria, era il limite di tutta una generazione di intellettuali:
«Abituati sin dall’infanzia a disporre della libertà e a vivere una vita
personale, come avremmo imparato a impegnare la nostra libertà per
conservarla? Eravamo coscienze nude di fronte la mondo. Come avremmo
saputo che questo individualismo e questo universalismo erano solo sulla
carta?». La Francia era in guerra con maniere da borghesi, e «solo dopo il
giugno 1940 siamo davvero entrati in guerra». Tornati a casa, i soldati
trovano le strade d’una Parigi occupata, e fra le persone la vergogna di una
nazione umiliata e offesa. Ecco montare la rabbia che fomenta il futuro.
Bisogna farla finita con le buone maniere: «ci era necessario reimparare tutti i
comportamenti puerili di cui la nostra educazione ci aveva sbarazzato,
giudicare le persone dall’abito, rispondere senza cortesia alle loro buone
maniere simulate, vivere per quattro anni al loro fianco senza vivere con loro
nemmeno un minuto, sentirci sotto il loro sguardo “francesi”, e non uomini».
Ma l'occupazione del proprio paese è anche il modo per comprendere che
anche la libertà dei tempi di pace è fondata sulla libertà calpestata degli altri,
come sanno le classi lavoratrici che hanno sempre il nemico in casa: «Se
avessimo guardato meglio, avremmo già trovato, nella società del tempo di
pace, i signori e gli schiavi, ed avremmo potuto imparare come ogni
coscienza, per libera, sovrana ed insostituibile che possa sentirsi, si coagula
20
SAGGI
e si generalizza sotto uno sguardo estraneo, diventa un proletario o un
francese». Nell'asservimento c'è quindi la radice della libertà, se interviene la
collera, il vero inizio della politica. È nella sconfitta che inizia a nascere una
coscienza sociale, l’idea che questa terra è mia29. La contingenza storica
sveglia l’uomo dal suo riposo nell’universale e lo costringe a riprendere in
mano la sua vita. «Per la prima volta, eravamo indotti non solo a constatare,
ma anche ad assumere la vita sociale». La politica si inizia a fare in questo
spazio, tra le responsabilità, i giudizi, le occasioni irrinunciabili, nel
superamento del moralismo: «nella prospettiva della coscienza, la politica è
impossibile». L’esistenzialismo dei libri diventa pratica di un impegno,
scoperta di una perduta innocenza, del fatto che non ci si può dare una
condotta irreprensibile: «restando ci si comprometteva, partendo ci si
comprometteva, nessuno ha le mani pulite». In ogni caso, «a voler essere
liberi ai margini del mondo, non lo siamo affatto»: non possiamo superare il
nostro tempo ed il nostro luogo, né fabbricarci un’eternità privata o fittizia. La
libertà, che vive degli altri e nel tempo, diventa effettiva solo coniugandosi
con la potenza.
Rimane però da trovare il modo di onorare questa collera e inventare altre
maniere. È questo l'obiettivo che si dà un intera generazione di scrittori:
elaborare, quasi terapeuticamente, l'evento distruttivo della guerra, rompere
con il passato, trovare strumenti al futuro. La dimensione letteraria restituisce
il senso profondo di questo passaggio dall’inanità al coinvolgimento in una
vasta battaglia: lo stesso modo di concepire l’eroe registra l’evoluzione di
questi gruppi, la proiezione dei loro impulsi e tonalità emotive, il nuovo
rapporto che si instaura fra intellettuale e società. Merleau-Ponty è
consapevole di quale sia, nel '45-'46, la posta in gioco in una querelle solo
apparentemente culturale: l'immaginario è infatti un campo da occupare,
proprio perché conteso, perché fra struttura materiale e sovrastruttura
ideologica il rapporto non è di «riflesso», perché fornisce alla pratica
quotidiana un serbatoio di riferimenti. Il ritorno alla pace in Francia inizia
proprio con l'archiviazione degli «eroi», con la loro derubricazione
dall'agenda pubblica, con l'abbandono di tali figure a vantaggio di una
tranquillità che non domandi oltre. Si vuole tornare a quelle piccole certezze,
a quella cortesia ipocrita che regnava nel mondo d'anteguerra; ma una
generazione si è svegliata, e non vuole più rimettersi a dormire: «abbiamo
imparato la storia e pretendiamo che non la si debba dimenticare»30.
Il filosofo tenta così di opporsi a questa normalizzazione che vede risistemare
la letteratura in un ambito separato, al riparo della politica e della storia. Per
l'occasione mette in campo un impianto esplicativo di tipo ermeneutico, volto
a questionare «cosa c'è davvero dietro» l'eroismo, la trama dei suoi correlati.
La sua è un'indicazione valida anche per noi, perché continuare quel
21
cammino fra le principali opere esistenzialiste francesi ci permette di vedere
come nella parabola dell’epos siano riassunti una serie di comportamenti,
come vi sia, trasfigurato, un nuovo progetto di vita, e persino un'alternativa
inattuale al nostro presente. Se i protagonisti che popolano la letteratura del
periodo appaiono sempre di più come l’emblema di un’intera epoca (prima
con la loro inettitudine, poi con la loro aspirazione a fronteggiare il
cambiamento, infine nella tensione che percepiscono tra i mezzi e i fini
quando, invece del sipario, a calare è una cortina di ferro...), è anche vero
che tale epoca, colta nella sua pienezza e nella sua tragicità, riesce a parlare
oltre i suoi confini temporali. Forse, anche in un mutato contesto, l'assurdo
arretrerebbe di fronte all'engagement.
Sicuramente, dice Merleau-Ponty, «il culto degli eroi è di sempre»31: ogni
civiltà incarna i suoi valori e la sua vita materiale in alcune figure mitiche.
Ovviamente ogni cultura ne rielabora in maniera specifica, e secondo le sue
esigenze, le linee e i contenuti. Nell’antichità o nel medioevo, ad esempio,
l’uomo cercava un ancoraggio trascendente, e credeva in un qualche ordine
superiore a quello dato nel mondo. Per tali civiltà era giocoforza immaginarsi
l’eroe come «ministro d’una Provvidenza», come un semidio incaricato di
eseguire la disposizione divina. Con la modernità, infranta questa credenza
sovrannaturale, il mondo diviene un movimento a cui è impossibile
assicurarsi, e ci troviamo di fronte altri miti. Come Hegel mette bene in luce,
soltanto nella civiltà moderna la forza dell’eroe diviene veramente tragica,
perché si trova a rispondere solo di se stessa e della sua capacità di
preveggenza. Seguendo, nella solitudine della propria intimità, un
presentimento senza prove, gli eroi «compiono e conquistano per altri quel
che poi si rivelerà come il solo avvenire possibile e il senso medesimo della
storia»; rinunciando alla propria felicità essi trovano «il congiungersi
insperato di non-ragione e ragione». Per Hegel questi individui «bisogna
chiamarli eroi in quanto hanno attinto i loro fini e la loro vocazione non solo in
un corso degli eventi tranquillo, ordinato e consacrato dal sistema in vigore,
ma a una fonte il cui contenuto è ancora nascosto e non pervenuto
all’esistenza attuale». Il decreto che mette in campo l’eroe non è più divino,
ma storico, e questi diventa il corpo fisico dell’idea, che lavora per il
progresso dello Spirito. Eppure la modernità arriva, con Nietzsche, ad
immaginare anche un altro tipo di eroismo. In un mondo senza un
benefattore o un padrone trascendente, senza nemmeno un ordine
immanente ed un corso stabilito, l’azione dell’eroe perde qualsiasi appoggio
esterno, e deve cercare in sé, secondo la propria interpretazione, la direzione
del proprio impegno. Solo che questo mandato si risolve in una smodata
dichiarazione di libertà, in un esercizio di potere che ha bisogno di qualcuno
che lo subisca, per affermarsi ancora più risolutamente. In quest’ottica, non
22
SAGGI
c’è nessun compito tranne il dominio, e non c’è vicenda che non sia
imposizione: quello di Nietzsche è l’eroismo del padrone, un eroismo «senza
regola né contenuto».
Questi due ideali di eroismo che la modernità ha elaborato, e che MerleauPonty prende in analisi, erano maturati a lungo nel seno della borghesia
ottocentesca. La Prima Guerra Mondiale era arrivata con i suoi proclami, e
aveva rappresentato un momento di eccezionale mobilitazione di questi strati
intellettuali: gli veniva promesso una missione, un riscatto rispetto a uno
status ormai perso. Il rampollo della borghesia diventava così il volontario, il
fedele patriota, e allo stesso tempo l’uomo superiore e sprezzante del
pericolo, che domina la morte e domina gli altri. La Grande Guerra aveva
portato Hegel e Nietzsche nel vivo della storia: soldato entusiasta e caduto
per la nazione, l’eroe stava in piedi, poggiato sul suolo eterno della Patria e
sul corpo dell’avversario sconfitto. Ma il modello che i governi avevano
preparato per le masse non fu effettivamente assunto dalle giovani
generazioni, soprattutto in Francia ed in Inghilterra. Accanto alle celebrazioni,
riprendeva spazio e si consolidava un forte sentimento pacifista: mentre si
continuavano a incensare le vittime della guerra come martiri di una Giustizia
Storica, chi aveva perso i padri nel conflitto non poteva più credere a questa
retorica. Che senso poteva avere l’eroismo, dove trovarne l’ethos e i motivi,
se quelle che venivano commemorate erano le vittime inconsapevoli dei loro
governi, la carne da cannone dell'instrumentum regni? Un anarchismo senza
azione e senza prospettiva, protesta e antidoto alla propria classe, era la
condizione di molti intellettuali.
Emblematiche sono, anche a questo proposito, le prime opere di Sartre. In
ogni pagina vi è il rifiuto della propria classe, la confutazione dei suoi principi,
e allo stesso tempo ciò che prevale è la frustrazione, la chiusura di ogni
orizzonte. Gli eroi sartriani non sono capaci di entrare nell’azione e di
determinarla, si lasciano essere, paralizzati da un senso d’inutilità; sono degli
eroi che non possono. La migliore trascrizione, ma anche il punto di rottura di
questa condizione, si trova nella figura di Oreste, il protagonista de Les
mouches. Oreste è un solitario che vuole fuggire dalla solitudine, un
individualista alla ricerca di un significato da dare ad una vita senza peso32;
è senza radici, passa sopra la vita senza affondarvi, senza lasciare impronte,
avverte come la cultura l'abbia defraudato dell'azione33. Ma se da un lato
Oreste sembra essere il perfetto uomo esistenzialista, come Meursault,
estraneo a ogni impegno, disposto a tutto perché tutto gli è indifferente,
dall'altro egli avverte la condanna della sua condizione, la maledice, e la sua
cognizione della mancanza è così forte che si direbbe nostalgia.
Quell’impegno che nel primo esistenzialismo era escluso perché finzione,
impresa inutile in un mondo assurdo, viene ora invocato. La borghesia è al
23
suo tramonto, e trova ormai impossibile una vita così sospesa. L'assurdo
deve essere espiato.
Al culmine di questa disperazione privata, quando ormai si è risolto a
custodirla continuando il suo peregrinare, Oreste incontra Elettra, sua sorella,
tenuta schiava dalla madre e dal suo amante, che passa il suo tempo ad
immaginare il giorno della vendetta e del riscatto. Sentire per la prima volta
una tale consonanza con la sofferenza lo porta a immaginarsi finalmente un
destino, gli consente di calarsi davvero in una vita. Ma l’accordo con gli altri e
con la storia è fatto di troppe opacità, ed Oreste non può compiere nulla
finché è se stesso: per questo Elettra pur riconoscendolo lo rifiuta: «Chi sei
per dirti dei nostri? Hai passato la tua vita all’ombra di un assassinio? [...]
Avevi fiducia negli uomini perché facevano grandi sorrisi […] perché sono
fedeli servitori dell’uomo; nella vita, perché eri ricco e avevi molti giocattoli:
qualche volta dovevi pensare che il mondo non era fatto male e ch’era un
godimento l’abbandonarvisi». Elettra non può confidare in Oreste, perché tra
di loro c’è un abisso – Elettra è il servo, la storia da fare – e Oreste stesso sa
che non può essere un complice, perché la sua condizione senza
appartenenza è di per se stessa infida: «per amare, per odiare, bisogna
darsi. [...] Chi sono, io, e che ho da dare, io? Esisto appena»34. L’intellettuale
è un universale vuoto: «io ho conosciuto amori di fantasma, esitanti e radi
come vapori; ma ignoro le dense passioni dei viventi [...] nessuno mi
aspetta... vado di città in città, straniero agli altri e a me stesso, e le città si
richiudono dietro di me come un’acqua tranquilla [...] io voglio i miei ricordi, la
mia terra, il mio posto tra gli uomini [...] io voglio essere un uomo di qualche
parte, un uomo fra gli uomini». «Tu non sarai mai altro che uno straniero» gli
risponde Elettra. Uno straniero, appunto: coincidenza fra finzione e vita reale,
l'opera di Camus aleggia sulla scena mentre il suo autore siede in platea, e
segue l'appassionante rappresentazione. Di lì a un'ora conoscerà Sartre di
persona, incontrerà Merleau-Ponty: la pièce continuerà sotto il palco, nel
gruppo Socialisme et liberté, in una Parigi sotto l'occupazione nazista. Mentre
nell'intellettuale Oreste matura l’idea di compiere un gesto che segni un
punto di non ritorno, che abbia una pesantezza tale da ancorarlo per sempre
alla città e ad al suo destino, si prepara l'avventura della Resistenza. Ecco
l’abbandono del solipsismo nell’azione collettiva, il recupero degli altri come
compagni e non come fantasmi di una soggettività, la possibilità di accedere
al senso della propria vita.
Per questo Merleau-Ponty, aprendo la sua recensione del '43, aveva scritto
che «la publication des Mouches est opportune»35. Trincerandosi dietro la
critica letteraria, il filosofo aveva parlato del suo tempo e dei resistenti; aveva
scritto di teatro, ma appellandosi alla vita. «Les Grecs ont fondé un théâtre
qui est fait pour montrer un héros en situation tragique, c'est-à-dire une
24
SAGGI
liberté en péril». Fra la libertà dell'indifferenza e la fatalità delle tradizioni c'è
una terza via: «on n'est pas libre quand on est rien, on est libre quand on est
ce qu'on a choisi d'être. Oreste s'engagera. Mais non pas à demi et [...] dans
l'humiliation et dans l'envie». È questo ciò che lo rende un eroe: laddove gli
uomini ordinari sono divisi, non assumono mai in pieno i loro atti – «ils
n'essaient pas de vivre, ils sont en complicité avec la mort, ils se blottissent
dans l'Ordre» – gli eroi agiscono «sans rien réserver». Oreste compie, come
tutti i resistenti, il crimine puro della libertà – non uccide per regnare, ma per
dare a quello che ora è il suo popolo «le courage de vivre». Coraggio che
ognuno dovrà fare proprio, perché non si vive per delega. L'uomo è quello
che vale di fronte alle dolci forze che lo invitano al sonno, è la libertà ad
animare la sua eccedenza e la sua povertà: «le choix est entre cette vie
difficile et la paix des tombeaux». Ecco «sur quel fond de terreur et de
cruauté les Grecs ont fait paraître la liberté», ecco su quale fondo appare
durante la guerra. Eppure, se chiamata con sincerità, non cessa di produrre
effetti.
Gesto risolutivo, riappropriazione della vita: la Resistenza lascia intravedere
la possibilità di un’intima compenetrazione tra azione storica ed azione
individuale. Questo è il vero momento felice della guerra: quando
l’appartenenza si dilata oltre qualsiasi logica di provenienza. La Resistenza
«sfuggiva finalmente al famoso dilemma essere-fare, che è quello di tutti gli
intellettuali davanti all’azione. Donde quella felicità nel pericolo, che abbiamo
visto caratterizzare certi nostri compagni, di solito tormentati»36. Felicità che
deriva dalla consapevolezza di stare dalla parte del Bene, per una volta sia
nelle intenzioni che nelle conseguenze, con la salvezza a disposizione,
marciando nello stesso senso della storia. La Resistenza, ci racconta lo
stesso Merleau-Ponty, trovava davvero parecchi esempi di un eroismo vero e
tragico, insediava il mito letterario nel cuore stesso della realtà. Non a caso,
prima di morire, Nizan aveva detto che «il comunismo è un progetto eroico
del mondo»37. Nell’accoglienza riservata ai partigiani, nel plauso spontaneo
della popolazione, l’eroe tornava dunque ad essere quello che era con Hegel,
l’anticipazione e la sofferenza della storia, la sua astuzia, la sua
realizzazione. L'avanguardia poteva assolvere compiaciuta ai riti del trionfo.
Oppure no?
In realtà, «è fin troppo chiaro che questo equilibrio fra vita personale e azione
era per l’appunto collegato alle condizioni dell’azione clandestina e non
poteva sopravviverle»38, e la sensazione di accordo profondo tra l’uomo e la
storia non reggerà alla confusa situazione del dopoguerra nemmeno in
letteratura. L’idea di una liberazione tradita, di un processo interrotto verso un
mondo più giusto e conforme a ragione, il conflitto tra le volontà dei singoli e
quelle dei partiti, l’imposizione di una pratica politica in cui i fini si spostano
25
ogni volta più in là, e comportano l’uso di qualsiasi mezzo: tutto questo porta
alla necessità di rappresentare degli eroi internamente scissi, indecisi sul da
farsi. Mano a mano, scemato l’entusiasmo, con l’evolversi del clima
internazionale, condizionato dall’opposizione tra due sistemi che apparivano
entrambi ingiusti e violenti, l’eroe non è più rappresentato come un punto di
immediata coincidenza con la storia, ma come un personaggio piegato e
piagato dalle situazioni, che è costretto continuamente a reinventarle,
incaricandosi della sua appartenenza. La rivolta passa ora per tentazioni e
dimenticanze: gli eroi sono messi di fronte al male, costretti a combatterlo,
ma anche a pensare ai modi, alla legittimità delle loro azioni.
Si pensi a La Peste di Camus. Fare politica è un modo sì per superare la
malattia, ma la politica stessa rischia ogni volta di aggravarla. Bisogna quindi
«rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive
ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire»39. Rieux, il medico
che si prodiga per combattere la peste, afferma: «Non ho inclinazione, credo,
per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo mi interessa». È
quello che vuole anche Yanek, il rivoluzionario de Les Justes, che si oppone
a chi afferma che tutto è permesso, che «nulla di quanto è utile alla causa è
proibito». Per lui la rivoluzione non vale il futuro che prepara, ma i crimini che
compie; la crudeltà non ha mai giustificazione ulteriore, il potenziale e
l'attuale coincidono: «ho scelto di morire perché l’omicidio non trionfi. Ho
scelto di essere innocente»40. Sartre riprende ne Les Mains Sales questa
moralità tutta da fare. Il suo Hugo è l'Oreste moderno, l'eroe del dopoguerra:
un intellettuale borghese che s’impone l’azione per riscattarsi dalla sua
classe, per assicurarsi un’appartenenza. Dopo il felice momento della
Resistenza, bisogna passare fra intransigenza ideologica e necessità del
compromesso, e qui non solo non esiste un'unica strada per giungere allo
scopo, e dunque l’eroe non può trovare davanti a sé un compito assicurato,
ma i mezzi impiegati rischiano anche di stravolgere il senso dell'opera41. Il
nesso tra decisione, azione, sua interpretazione, è spezzato: come tutti gli
altri protagonisti del periodo42, Hugo non può trovare un disegno che lo
sovrasti, e non vuole affermarsi sugli altri; è fatto di esitazioni, accordi mai
fatti e sempre da fare. Hugo è sprofondato in una sua guerra fredda privata,
dove la politica del tempo e i tempi della politica si sono incartati l'uno
sull'altro. Uscito dal recinto privato, si confronta con una storia non lineare,
che frammenta le appartenenze, altera le intenzioni, insedia una spia nel
nostro monologo interiore. L'assurdo è ormai passato nella vita sociale, si è
concretato nella storia che facciamo.
Ma allora, se questi sono i segni che la politica e l'epoca depositano finanche
nella letteratura, bisogna davvero ripensare tutto, guardare meglio la figura
mitica per capire quale rito dev'essere celebrato: «L’eroe dei contemporanei
26
SAGGI
non né quello di Hegel, né quello di Nietzsche»43. Nemmeno la Resistenza
può chiudere questa lacerazione che appartiene alla modernità. O almeno, lo
può fare se non viene assolutizzata, ma colta al suo stato nascente,
nell'attimo di sicura ed incerta ribellione. Ad una Resistenza ormai vittoriosa
può sembrare di aver fondato il proprio agire su un movimento infallibile della
storia, ma in realtà si sceglie sempre nella precarietà. L'avanguardia
cammina avanti, sì, ma solo di un passo. Proprio in questa dis-illusione di
principio, dice Merleau-Ponty, sta l’eroismo della nostra epoca. Chi combatte
nella guerra di Spagna o nel giugno del ’40, chi inizia la battaglia partigiana
nel momento in cui sa che la vittoria è tutt’altro che certa e che comunque
non sarà lì per vederla, è eroe solo perché prende la sua strada fino alla fine,
perché si vuole fino in fondo per quello che è sempre stato. Non c’è, a
sostenere la rinuncia alla propria esistenza, un ordine futuro o uno sprezzo
della vita, ma innanzitutto la linea della propria fedeltà portata fino in fondo,
perché il gesto coincide con lo stile che la vita ha tenuto, perché la decisione
è la chiusura ed il ripiegamento di tutto un orizzonte. Quest’eroismo moderno
è veramente il prodotto di una nuova sensibilità, di un mondo che ha sciolto i
giuramenti, e che lascia libero l’uomo di declinare la sua appartenenza. È un
eroismo che il soldato non può imparare nelle trincee della Prima Guerra
Mondiale, dove è inteso che si eseguono degli ordini, ma che è in grado di
apprendere quando trova davanti a sé il caos, e deve decidere da sé. È un
eroismo che si fa nel «servizio inutile», quando la strada della storia è
incerta, quando non si sa bene dove si marcia. È la cerimonia di una
previsione impossibile, di un'impossibilità che è già condanna.
Bisogna dunque opporsi a chi critica l'eroismo per tornare alla supina
accettazione della Storia e dell'Ordine, ma bisogna anche mostrare e
rivendicare un eroismo fatto di contingenza, silenziose preparazioni,
occasioni, che immetta il mito nel rito quotidiano. Le risorse che MerleauPonty ha a disposizione per una tale operazione sono nel bagaglio della
letteratura di quegli anni, laddove il percorso di maturazione etico-politica si
fa narrazione. Così il filosofo pensa all'individualismo e al vitalismo liberale di
Antoine Saint-Exupéry, in volo nei cieli della Francia alla vigilia dell’armistizio:
egli «si getta nella sua missione perché essa è lui stesso, la conseguenza di
quel che ha pensato voluto e deciso, perché non sarebbe più niente se si
sottraesse. Nella misura in cui entra nel pericolo riconquista il suo essere». Si
è quello che si diventa, si diventa ciò che, in qualche modo, si è: il gesto
estremo del sacrificio di sé è il punto di fissione di un lungo processo, il
prolungamento naturale del senso che ogni vita abbozza. Uno sforzo che ha
appoggi solo nella propria esistenza, che porta l’eroe nelle cose, che gli fa
lasciare il mondo in pieno mondo. Proprio come dice de Saint-Exupéry in
Pilote de guerre: «dimori nel tuo stesso atto. Il tuo atto sei tu […] il tuo
27
significato si rivela abbagliante. È il tuo dovere, è il tuo odio, è il tuo amore, è
la tua fedeltà, è la tua invenzione».
Non ci può essere, con quest’eroe, filosofia della storia che tenga: altro modo
di dire che nella configurazione storico-sociale non è iscritta,
automaticamente, alcuna scelta. Ed è proprio il comunista Malraux a
sottolinearlo, facendo dire a Kyo, il protagonista de La condition humaine:
«nel marxismo c’è il senso di una fatalità e l’esaltazione di una volontà. Ogni
volta che la fatalità passa prima, io diffido»44. Non c'è lettura assoluta degli
avvenimenti, si può fare affidamento solo sulla propria volontà, combinazione
d’abitudine e d’invenzione. Invenzione, certo, perché l’eroe non si può
attenere ai fatti, non li può ritenere acquisiti fintanto che può cambiarli. Al
limite, deve portare avanti le sue scelte anche sapendo di essere
condannato. Così Robert Jordan, in From Whom the Bell Tools, al momento
di sacrificare la sua vita sa che non è una società futura a dare un senso alla
sua scelta, sa che non c'è bisogno di datare la propria legittimità. L’istante
stesso vale il sacrificio, e qualsiasi motivo figura solo a titolo di anticipazione,
tensione e garanzia probabile. Jordan è in guerra per gli ideali che sono da
sempre i suoi, per affermarli contro chi li nega, e se passa tra violenze e
menzogne è solo perché non si può fare altrimenti. Il conflitto è lì: evitarlo
sarebbe già uscirne perdenti. «Quel che permette all'eroe di sacrificarsi non
è, come in Nietzsche, il fascino della morte, né, come in Hegel, la certezza di
compiere quel che vuole la storia, ma la fedeltà al naturale impulso che ci
proietta verso le cose e verso gli altri»45.
È alla luce di quest'interconnessione che bisogna spiegare il famoso esergo
che Hemingway seglie per il suo testo: «Nessun uomo è un'isola, completo in
se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto [...] La
morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. E
dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona sempre per
te»46. In questa sineddoche umana, dove dicendo una parte s'intende il
tutto, una morte non defalca una cifra da un elenco di numeri, ma sottrae al
mondo qualcosa di unico, che in qualche modo obliquo ci appartiene. Legati
nella carne dell'Essere, non possiamo quindi pensare una geografia insulare:
l'umanità non è una somma, ma uno scambio, questa possibilità di potersi
spostare e migrare come sulla terraferma, perché i territori sono contigui,
perché siamo continuamente comunicanti. Fuori di questa connessione ogni
dichiarazione è superflua: l’eroe moderno si sacrifica perché non può fare
altrimenti se vuole essere coerente con se stesso, e perché potrebbe fare
altrimenti se volesse tradirsi.
Jordan e gli altri sono quindi eroi in senso molto sobrio: agiscono senza
speranza, osano combattere, strappano quello che si può, insistono. «Fuori
dai tempi della fede, in cui l’uomo crede di trovare nelle cose la trama di un
28
***
Forse sarebbe semplicistico dire che quest'imperativo esistenzialista deve
essere assunto, pur nella sua difficoltà, pur nella sua criticità, anche
nell'epoca del «surrealismo di massa» e della «morte dell'uomo». Ma con
una critica indiretta, vedendo come le sedimentazioni culturali siano traccia
del dramma storico, esaminando l'esistenzialismo in relazione alle dinamiche
economiche, sociali, politiche, abbiamo trovato l'insoddisfazione di una
classe, una grande mutazione di sensibilità, una generale attrazione verso un
altro modello di vita e di pensiero che stava diventando egemonico... Ora, in
SAGGI
destino già tracciato, chi può evitare questi interrogativi e chi può fornire
un’altra risposta?». Non siamo già da sempre vicini alla dinamica di
quest’eroismo, quando ci troviamo, noi, fuori dalla protezione di un libro,
dall'involucro delle sue pagine, a dover scegliere? Certo l’eroe – più di noi –
riesce ancora a riunire nello stesso movimento sé e gli altri, il suo presente
ed il suo passato, riesce a fare in modo che tutto abbia un senso, riesce
sempre ad apporre l’ultima parola al discorso confuso del mondo; ma egli
non può più credere che la sua battaglia sia già vinta nel cielo o nella storia,
perché – come noi – non ha più queste risorse. Per questo l’eroismo dei
contemporanei non vince, non è rivolto a un dio, né ispirato da un verbo, ma
è rimesso all’uomo. Se è la pro-fessione di una fede, il suo sacro non trova
chiesa. Niente più assurdo, allora: l'eroe è chiunque e dovunque si apra a
forza la via della conoscenza e dell'azione che lo definirà. Il suo stile è una
posizione gnoseologica, une manière absolue de voir les choses: se Rieux
sceglie di stare con le vittime della peste, se Yanek, Kyo e Hugo cercano una
loro giustificazione davanti alla sofferenza umana, se Jordan muore per
meritare la sua vita, è solo perché essi sono uomini in senso eminente: pronti
da subito all’ostinazione ed alla solidarietà. Disposti a conoscere, a tutto
comprendere: si rivelano come ogni uomo autenticamente tale. In questo
senso l’eroismo è qualcosa di simile alla sincerità disponibile ad ognuno, una
libertà che è esilio, come dice Oreste opponendosi a Giove: «Fiorii dalla
natura, contro la natura, senza scusa, senz’altro aiuto che in me. Ma non
tornerò sotto la tua legge: io sono condannato a non avere altra legge che la
mia. Non tornerò alla tua natura […] posso seguire soltanto la mia strada.
Perché sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventare la propria
strada»47. Forse, più di ogni ricostruzione critica, questa folgorazione
letteraria basta a chiarire l’ispirazione fondamentale di tutte le posizioni
filosofiche e politiche dell'esistenzialismo. Ancora una volta nella guerra del
senso, nella lusinga delle parole, alla prova di se stesso come dell'altro, «non
ci si difende che creando»48.
29
una strategia di aggiramento, potremmo rivolgere questo studio delle forme
eroiche, e dei loro depositi nel senso comune, al mondo in cui viviamo,
saggiandone le falle, tentando di misurarne la sconfinatezza.
D'altronde la nostra società serba la memoria di Oreste. Nella sua
produzione di miti, gioca di nuovo lo stereotipo dell'assurdo, ne riprende lo
stilema filosofico, l'abbassamento dell'eroe, svuotandolo però di ogni
prospettiva, sciogliendolo da ogni dimensione storica e da ogni contenuto
emancipativo. Nella spettacolarizzazione e nel disciplinamento, non dà alla
rivolta una vera vita da conquistare. Schiacciato in un presente in cui le cose
sembrano svanire, liquefarsi, l'eroismo diventa paccottiglia televisiva o
tragicità dei fondamentalismi. In ogni caso ciò che si smarrisce è l'uomo:
quando trionfa l'aleatorio è il trascendente a farsi materiale. Nella potenza
delle strutture anonime, nell'insindacabilità dei macroprocessi, non sembra
esserci spazio per questa cosa che, come diceva Sartre, è da inventare ogni
giorno.
Forse, attraverso gli eroi, stiamo solo formulando le miserie che si addicono
ai nostri fallimenti. Ma quest'errore non è fatale. Merleau-Ponty ci ha
insegnato a vedere un compito nella storia, contro la storia, fra la sconfitta e
un'insicura certezza. Ne La Vita di Galileo, Brecht mette in scena il trionfo
della reazione, il riflusso della ragione. Il grande scienziato è sconfitto, ha
rinnegato le sue teorie; il suo allievo, Andrea Sarti, dichiara ad alta voce:
«Sventurata la terra che non ha eroi!»49. Ma no, risponde Galileo, è la terra
che ha bisogno di eroi a essere sventurata. Li può usare come sinecura, ed
evitare di interrogare ognuno sulla propria vita. Ma la verità che da un uomo
è fatta vale più di ogni abiura che a quell'uomo è confinata. La verità continua
a vivere nelle generazioni, se trova qualcuno capace di ricominciarne lo
sforzo.
Anche nella critica non abbiamo bisogno di eroi. Andrea Sarti lascia l'Italia,
dove la grettezza della Chiesa ormai impera. Prima di varcare la frontiera, si
gira verso un bambino, l'unico che nel suo gruppo sembra non credere alle
superstizioni, ai diavoli e alle streghe. È quello che «non sa niente di niente,
perché a scuola non ci va perché non ha nemmeno un paio di calzoni sani».
Nell'ultima battuta del dramma, lo scienziato si rivolge a lui: è dalla gioventù
che dubita e che ha fame che si deve ripartire, perché ancora «ne sappiamo
troppo poco», perché «siamo appena al principio». È lecito sperare che quel
bimbo diventi uomo!
1
«Fu un'“offensiva esistenzialista” quella che noi scatenammo, senza averla
concertata, all'inizio di quell'autunno. Nelle settimane che seguirono la
pubblicazione del mio romanzo, comparvero i primi due volumi dei Chemins
30
SAGGI
de la liberté, e i primi numeri dei “Temps Modernes”. Sartre fece una
conferenza - L'esistenzialismo è un umanismo - e anch'io ne feci una al Club
Maintenant, sul romanzo e la metafisica. [...] Il tumulto che sollevammo ci
sorprese [...] La mia vita traboccò dalle sue vecchie frontiere. Fui proiettata
nella luce pubblica. [...] Non passava una settimana senza che si parlasse di
noi nei giornali [...] Dappertutto apparivano echi sui nostri libri, su di noi. Nelle
strade i fotografi ci mitragliavano, la gente ci abbordava» (S. DE BEAUVOIR, La
force des choses, Gallimard, Paris 1963, p. 50)
2
Una tale definizione non squalifica la sua pregnanza culturale, né
riduce l'esistenzialismo a un caso dell’alienazione o della produzione
ideologica. La parola popular non indica né il folklore e quel complesso di
tradizioni e di usanze tipiche che da noi si dice popolare, né una riproduzione
in serie di materiali culturali dati in pasto alla massa. Piuttosto,
quell'interazione fra autore e pubblico che l'opera può suscitare, quella
disponibilità a una lettura a più livelli, quel diventare patrimonio condiviso di
una generazione, che si rende accessibile a ogni onda che ne condivida le
inquietudini. Non si tratta quindi di negare alla filosofia esistenziale il suo
valore speculativo, ma di inquadrarla in un processo che la eccede, di
valutarla fenomenologicamente, secondo la sua capacità di penetrazione nel
pubblico e del suo poter rispondere delle esigenze della mass culture.
3
Cfr. anche Cicerone, che identifica l'absurdus innanzitutto con il
dissonante (cfr. Dell'oratore, Rizzoli, Milano 1994, III, 41).
4
Pubblicato il 15 aprile 1925 in La révolution surréaliste, cit. in Il
movimento surrealista, a cura di F. Fortini, Garzanti, Milano 1959, p. 95.
5
A. MALRAUX, La Tentation de l'Occident, Grasset, Paris 1984 (scritto
fra il 1921 e il 1925, e pubblicato nel '26).
6
Non stupisca il riferimento al libro di J. Conrad: scritto nel 1899, ma
tradotto in francese solo dopo il 1918, esso anticipò molte delle tematiche
che ritroveremo nei nuovi romanzieri francesi (in particolare Gide – che di
Conrad fu anche traduttore – e appunto Malraux): la critica del colonialismo,
la proiezione della propria barbarie sulle altre culture, la sublimazione delle
proprie perversioni sadiche e sessuali nel gioco del potere...
7
A. MALRAUX, I conquistatori, Mondadori, Milano 1947, p. 169.
8
Ivi, p. 177. E ancora: «Vivere in un modo assurdo o vivere in un
altro… Non c’è forza, non c’è neppure una vera vita senza la certezza, senza
l’assillo della vanità del mondo [...] Si può vivere accettando l’assurdo, non si
può vivere nell’assurdo» (ivi, p. 231).
9
A. MALRAUX, La condizione umana, Garzanti, Milano 1967, p. 244.
10
Ibidem.
11
A. MALRAUX, I conquistatori, cit. p. 217.
31
12
La figura di Nizan, importantissima nella cultura francese di fine anni
'30 (celebre fu la sua polemica del '35 con Julien Benda sul ruolo degli
intellettuali nella società contemporanea), è stata anche fondamentale per
Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty, che ne furono amici. Anche
quando nel dopoguerra il PCF, che non gli aveva perdonato l'abbandono del
partito, gli rivolse accuse infamanti per bocca di Aragon e Lefebvre, i due
filosofi intervennero per onorare la sua figura. E ancora nel 1960, per
riabilitare la sua opera. È celebre la prefazione di Sartre alla riedizione di
Aden Arabie, e l'affettuosa e profonda risposta di Merleau-Ponty di qualche
mese successiva (cfr. la prefazione di Segni, Il Saggiatore, Milano 2003).
13
«A che cosa rassomigliava il nostro mondo? [...] Noi credevamo di
scorgervi il principio della fine, di una vera fine [...] Tutto assomigliava a quel
disordine che conclude le malattie [...]. Pochissimi uomini si sentivano allora
abbastanza chiaroveggenti per individuare le forze già al lavoro dietro i
grandi rottami putrescenti; ma noi nulla sapevamo di quanto sarebbe stato
necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire
altro che le rughe superficiali [...]. L'errore è sempre meno semplice della
verità» (Aden Arabia, Fahrenheit, Roma 1994, pp. 65-66. Il numero di pagina
delle prossime citazioni nel testo, fra parentesi quadre).
14
P. NIZAN, Le cheval de Troie, Gallimard, Paris 1994, p. 31 e p.50.
Proprio Malraux aveva scritto: «Non ci si difende che creando» (I
conquistatori, cit., p. 231).
15
Ivi, p. 158.
16
Anche qui, «Ce n'est pas de mourir en se battant qui est difficile, c'est
de mourir seul, torturé, ou dans un lit. Mourir de morts exigeantes. Être en
face d'une maladie comme en face d'un ennemi, pour que mourir soit encore
un dernier honneur, une dernière conquête de la conscience [...]. Nous ne
possédons que nos corps. Le choix n'est pas large: mener une vie qui n'est
qu'une espèce d'angoisse ou risquer la mort pour conquérir la vie. Il faut
risquer ce prix pour ne plus rougir d'être un homme... [...] Ce sera le
commencement de l'histoire...» (ivi, (Ivi, pp. 201-211).
17
«Sapevo che si può arrivare alla disperazione. Ma non sapevo cosa
volesse dire. Pensavo, come tutti, che si trattasse di una malattia dell’anima.
Invece no, è il mio corpo che soffre. Ho male al cuore […] sono tutto scosso
da conati di vomito. Mi fanno male le gambe, le braccia. Mi fa male la pelle.
Ho la testa svuotata, ma la cosa più rivoltante è questo sapore che ho in
bocca. Non sa di sangue né di morte né di febbre, ma di tutto questo messo
insieme. Mi basta muovere la lingua perché tutto si faccia nero e l’umanità mi
ripugni» (A. CAMUS, Caligola, in Tutto il teatro, Bompiani, Milano 2003, p. 62).
18
Cfr. la Prefazione di Camus all'edizione americana de L'étranger,
scritta nel 1955: Mersault è condannato perché «il ne joue pas le jeu», «il
32
SAGGI
refuse de mentir», se mentire è dire più di quello che si sente davvero.
Mersault è dunque straniero perché rifiuta il modo, tutto convenzionale, di
semplificarsi la vita (in L'étranger, Bordas, Paris 1972).
19
A. CAMUS, Lo straniero, Bompiani, Milano 2004, p. 121.
20
È rivolta proprio contro i filosofi esistenzialisti una tale affermazione:
«Con un singolare ragionamento, costoro, partiti dall'assurdo sulle rovine
della ragione, in un universo chiuso e limitato all'umano, divinizzano ciò che li
schiaccia e trovano una ragione di sperare in ciò che li spoglia» (A. CAMUS, Il
Mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1996, p. 32. Il numero di pagina delle
prossime citazioni nel testo, fra parentesi quadre). Camus stesso nel 1945
precisa: «No, non sono un esistenzialista. Sartre ed io ci stupiamo sempre
nel vedere associati i nostri due nomi [...]. Sartre ed io abbiamo pubblicato
tutti i nostri libri prima di incontrarci [...]. Sartre è esistenzialista, e il solo libro
di pensiero che io abbia pubblicato, Il Mito di Sisifo, è diretto contro i filosofi
esistenzialisti» (cfr. S. ZOPPI, Invito alla lettura di Camus, Mursia, Milano
1980, pp. 28-29).
21
J.-P. SARTRE, Il muro, Einaudi, Torino 1994, p. 31.
22
«Gli uomini, bisogna vederli dall’alto. Spegnevo la luce e mi mettevo
alla finestra: essi neppure sospettavano che si potesse osservarli dal di
sopra. Curano la facciata, qualche volta la parte posteriore, ma tutti i loro
effetti sono calcolati per uomini di un metro e settanta. Gli uomini […] non
sanno combattere questo grande nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto.
Mi sporgevo e mi mettevo a ridere […]. Sul balcone d’un sesto piano: è qui
che avrei dovuto passare tutta la vita» (ivi, p. 67).
23
J.-P. SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 1990. p. 14. Il numero di
pagina delle prossime citazioni nel testo, fra parentesi quadre.
24
Sulle modalità di costruzione di un mito politico in tempo di guerra,
cfr. G. .L. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti,
Laterza, Bari 2002.
25
Umanismo e terrore, Sugarco, Milano 1978, pp. 70-71.
26
C. LEVI, Siamo stati insieme, su “Il Ponte”, aprile-maggio 1955,
fascicolo speciale dedicato alla Resistenza.
27
«Nella resistenza, l’unione era facile, perché i rapporti erano sempre
da uomo a uomo […] La generalità sociale era dominante, la resistenza
offriva il così raro fenomeno d’una azione storica che non cessava di essere
personale. Gli elementi psicologici e morali della politica sembravano qui
quasi soli, e proprio perciò hanno potuto aderire alla resistenza gli intellettuali
meno inclini alla politica. L’esperienza della resistenza è stata per loro
un’esperienza unica ed essi volevano salvaguardarne lo spirito nella nuova
politica francese» (M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, Il Saggiatore,
Milano 2004, p. 182).
33
28
Cfr. il saggio C'è stata la guerra, pubblicato sul primo numero di “Les
Temps Modernes”, e poi ripubblicato in Senso e non senso, cit., pp. 169 e
seguenti.
29
Cfr. il film-manifesto di J. Renoir del 1943. Non è un caso che qui la
riscossa della Francia parta proprio da un professore, da un umanista
considerato da tutti impacciato ed astratto. La scoperta di cosa voglia dire
nazista e occupante, la percezione di avere una «terra» che è più di un suolo
da difendere, porta questo professore ad un atto di ribellione individuale ed
eroico, che paga con la vita. Nonostante i limiti del film (derivanti soprattutto
dagli intenti dichiaratamente propagandistici), esso rimane esemplare per
chiarire la condizione morale di un intero gruppo di intellettuali che tramite la
Resistenza si avvicinavano alla politica.
30
Senso e non senso, cit., p. 181.
31
Ivi, p. 213 e seguenti.
32
Ci si ricordi di Nizan, del suo peregrinare: «Le finestre sono chiuse
davanti ai viaggiatori [...] Tutti sanno naturalmente che essi sono i nemici di
chi è capace di fermarsi a lungo in una medesima stanza; gli esseri sono
chiusi per loro, come dei globi stagnati. Continuano ad andare avanti
aspettando la felicità dalla benevolenza del caso, come se quella
mescolanza di cause imbrigliate fosse un dio che distribuisca compensi: ma
un uomo ostinato, in cui l'amore spontaneo per un luogo e per un tipo
particolare di azione e un metodo costante non distruggono le passioni, può
essere efficiente nei confronti di queste cause e sbrogliarle. Dunque per
FERMARSI, per dire “la mia dimora” senza arrossire, bisogna amare la
capacità vera. I veri viaggiatori, i veri “evasi” sono i testimoni risibili di
un'umana incapacità [...] Libertà? Non era questo vuoto quel che cercavo, ma
una capacità vera» (P. NIZAN, Aden Arabia, cit., p. 97-100).
33
«ORESTE: Che cosa è mio? IL PEDAGOGO: Che ne fate della
cultura, signore? [...] Eccovi giovane, ricco e bello, avveduto come un
vecchio, liberato da tutte le servitù e le credenze, senza famiglia, senza
patria, senza religione, senza mestiere, libero per tutti gli impegni e sapendo
che non bisogna mai impegnarsi, un uomo superiore insomma [...] ORESTE:
Tu mi hai lasciato la libertà di quei fili che il vento strappa alle ragnatele e che
ondeggiano a dieci piedi dal suolo; io non peso più di un filo e vivo in aria [...]
ci sono uomini che nascono impegnati: non hanno scelta, sono stati gettati su
una via, in fondo alla via c’è un atto che li aspetta, il loro atto; essi vanno, e i
loro piedi nudi premono fortemente la terra e si spellano sui ciottoli. Ti pare
volgare, a te, la gioia di andare da qualche parte? [...] Sono libero, grazie a
Dio. Ah! Come sono libero. E che superba assenza è la mia anima» (J.-P.
SARTRE, Le mosche, Bompiani, Milano 1991, pp. 19-20).
34
Ivi, p. 55.
34
35
Parcours, Verdier, Paris 1997, p. 61 e seguenti.
Senso e non senso, cit., p. 182.
37
F. FÈ, Nizan oggi, in “Il ponte”, n. 11-12, novembre-dicembre 1971, p.
1481.
38
Senso e non senso, cit., p. 182.
39
A. CAMUS, La peste, Bompiani, Milano 2004, p. 193-197.
40
A. CAMUS, I giusti, in Tutto il teatro, cit., pp. 125-137.
41
«Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le
mani. Ebbene, resta puro! A che cosa servirà e perché vieni tra noi? La
purezza è un’idea da fachiri, da monaci. Voialtri, intellettuali, anarchici
borghesi, vi trovate la scusa per non far nulla. Non far nulla, restare immobili,
stringere i gomiti al corpo, portare i guanti. Io, le mani, le ho sporche. Fino ai
gomiti. Le ho affondate nella merda e nel sangue. E del resto? Credi proprio
che si possa governare innocentemente?» (J.-P. SARTRE, Le mani sporche,
Mondadori, Milano 1966, pp. 198-199).
42
Anche Les Mandarins di de Beauvoir (1954), partecipa di questa
problematica. Gli intellettuali francesi vi vengono rappresentati intrappolati in
un dilemma analogo: appresa la notizia dei campi di concentramento
sovietici, che si deve fare? Dire la verità rivelandone l'esistenza, anche se si
fa così il gioco dei reazionari, o tacere e delegare al realismo più crudo la
propria sincerità? Qual è il ruolo dell'intellettuale, nel momento in cui egli non
può essere l'autocoscienza integrale della società? Il romanzo di de Beauvoir
non scioglie la contraddizione, visto che la riconciliazione dei due amici che
incarnano le due posizioni può avvenire solo a patto di riconoscere la propria
impotenza rispetto alla forza dell'evento politico.
43
Senso e non senso, cit., p. 215 e seguenti.
44
E ancora, scrive Malraux: «Il marxismo non è una dottrina, è una
volontà; [...] non dovete essere marxisti per aver ragione, ma per vincere
senza tradire voi stessi» (La condizione umana, cit., p. 54).
45
Senso e non senso, cit., p. 217.
46
J. DONNE, Meditazione XVII, in Poesie sacre e profane, Feltrinelli,
Milano 1995.
47
J.-P. SARTRE, Le mosche, cit., pp. 96-97.
48
A. MALRAUX, I conquistatori, cit., p. 231.
49
B. BRECHT, I capolavori, Einaudi, Torino 1998, p. 105, e pp. 199-121.
SAGGI
36
35
JEAN PAUL SARTRE E MAURICE MERLEAU-PONTY.
FRA “GÊNE” E “DOUCEUR”
di Santo Arcoleo
Il lungo saggio che Sartre dedica alle vicende e al pensiero di MerleauPonty, in occasione della sua scomparsa, si può prestare a letture ed
interpretazioni diverse. Certamente non vuole essere uno scritto di
circostanza con il quale il cordoglio per la scomparsa del collega, il rimpianto
1
2
per la perdita dell’amico , il ricordo di anni di collaborazione , sono chiamati a
fare da schermo ai mille problemi e alle dolorose inquietudini che segnarono
la vita di entrambi. Questo saggio, nella sua unitarietà di ricordi e di intenti, è
contraddistinto dal desiderio di considerare la Storia accanto alle prospettive
teoretiche di due amici, espresse limpidamente in un linguaggio ricco di
metafore e di allusioni, fin dalle prime battute.
“Quanti amici ho perduto che vivono ancora. Non è colpa di nessuno:
loro erano loro, io ero io; il caso ci aveva creati e messi l’uno a fianco all’altro,
esso stesso ci ha separati. E Merleau- Ponty, lo so, non diceva nulla di
diverso quando gli accadeva di pensare a persone che hanno frequentato e
abbandonato la sua vita. E tuttavia non mi ha mai perduto, ed è stata
necessaria la sua morte perché io lo perdessi. Eravamo due persone eguali,
due amici, non due che si rassomigliano: lo avevamo capito subito e,
all’inizio, le nostre differenze ci divertivano; e poi, intorno agli anni ‘50, il
barometro andò giù: buona brezza sull’Europa e sul mondo; la marea
spingeva noi due, cranio contro cranio, e, un istante dopo, gettava l’uno
contro l’altro. Ma non abbiamo mai spezzato i legami, tante volte molto tesi:
se me ne si chiede il motivo dirò che abbiamo avuto molta fortuna e, talvolta,
anche il merito. Ciascuno di noi ha cercato di restare fedele a sé ed all’altro,
e quasi quasi ci siamo riusciti. Merleau è ancora troppo vivo perché lo si
possa descrivere, si potrà conoscere meglio - a mia insaputa forse - se io
3
racconto questo disaccordo che non c’è stato: la nostra amicizia”.
Questo scritto, fin dalle prime battute, manifesta, accanto al desiderio di
far luce sull’origine dei molti nodi che la lunga amicizia, la consuetudine e gli
incontri con Merleau- Ponty non si sono potuti sciogliere, un “accordo
discorde”, una personale rivisitazione del lungo cammino, durante il quale
entrambi hanno condiviso esperienze umane ed intellettuali che li pongono
nel cuore del panorama della filosofia francese della prima metà del XX
secolo e mettono in luce, con i momenti “positivi” quelli che hanno generato
la loro frattura, illuminata dal ricordo degli episodi più significativi, descritti
con passionale lucidità.
36
SAGGI
1. Durante l’occupazione nazista si formarono in Francia diversi gruppi
di intellettuali, fra i quali Socialismo e Libertà, diretto da J.-P. Sartre, al quale
ben presto aderì anche Merleau, una adesione sicuramente non dovuta al
caso. “Provenienti entrambi dalla piccola borghesia repubblicana i gusti, la
tradizione e la coscienza professionale ci spingevano a difendere la nostra
libertà di scrittori: attraverso questa scoprimmo tutte le altre […]. Nata
dall’entusiasmo, la nostra piccola unità si ammalò e morì di inedia un anno
dopo. Gli altri gruppi della zona occupata ebbero lo stesso destino,
sicuramente per lo stesso motivo: non ne restava più nemmeno uno nel
1942. Più tardi il gollismo ed il Fronte Nazionale recuperarono questi
4
resistenti della prima ora” . “Socialismo e Libertà”, nonostante il fallimento
politico, incise profondamente nell’attività dei due filosofi, ne plasmò il
pensiero e l’azione in un momento nel quale - secondo Sartre - i Francesi
vivevano quella particolare stagione della “trasparenza dei cuori”, che non si
sarebbe mai più ripetuta, e che era nata dichiaratamente a superare ogni
forma di odio. All’interno di questa “amicizia nazionale”, cementata dal
sentimento opposto, dall’odio contro l’occupante nazista, si diffusero,
rinnovando la cultura, parole essenziali, quali: fenomenologia, esistenza,
territori per le ricerche future e oggetto di impegnative ricerche personali. “Da
solo ognuno si persuase facilmente d’avere compreso l’idea fenomenologica;
in due, ne incarnavamo l’uno per l’altro l’ambiguità: il fatto è che ciascuno
riteneva come una deviazione inattesa del proprio lavoro il lavoro per lui
estraneo, talvolta contrario, che veniva fatto dall’altro. Husserl diventava
contemporaneamente la nostra distanza e la nostra amicizia. Su questo
terreno non eravamo, come ha ben detto Merleau a proposito del linguaggio,
che ‘differenze senza termini o piuttosto termini generati dalle differenze che
5
apparivano fra essi’” . Le discussioni di questo periodo, così difficile ma così
ricco di incontri, di polemiche, di prospettive sono per Sartre elementi da
tenere in conto e proprio con questo saggio. Egli testimonia il desiderio
continuare un ulteriore dialogo con Merleau, attingendo ad una molteplicità di
motivi desunti quasi sempre dalla propria memoria, dal proprio vissuto, che
gli consentono di mettere a fuoco momenti di assoluto valore nei suoi rapporti
con Merleau, il quale, invece, di questi incontri ha solo qualche ricordo
attenuato e non preciso. Sartre, inoltre, avanza qualche perplessità sulla
possibilità di cogliere oggettivamente il pensiero dell’amico, che forse potrà
essere conosciuto più compiutamente non tanto attraverso le pur lusinghiere
realizzazioni della sua vita e delle sue opere, quanto mettendo in luce i
risultati che hanno contraddistinto i momenti della loro reciproca amicizia, la
quale, in occasione della scomparsa dell’amico, improvvisa ed inaspettata,
6
riapre antiche ferite forse a stento rimarginate . Sullo sfondo
dell’argomentare sartriano resta il distacco e la lontananza che interrompe la
37
consuetudine degli incontri, i momenti di scambio di idee, all’inizio segno di
un sentire comune, che in questa triste occasione emerge con prepotenza,
ricco di rimpianti e ricordi perché l’amicizia, quando è tale, si fonda su una
fedeltà reciproca che niente, neanche la rottura più drammatica, riesce a
scardinare.
Sul filo dei ricordi Sartre lascia scorrere le immagini della comune
7
avventura umana e culturale, a cominciare dalle aule della Scuola Normale ,
8
che Merleau frequentava da esterno e Sartre da interno , al periodo del
servizio militare, in cui Sartre è arruolato come soldato di seconda classe,
Merleau-Ponty come luogotenente, al loro ritrovarsi, qualche anno dopo,
come insegnanti nei licei di due località vicine: a Beauvais Merleau, a Le
Havre Sartre. Agli inizi degli anni ‘40 , nel momento in cui la vita diventava
carica di eventi e di speranze, “ciascuno di noi cercava di comprendere il
9
mondo come poteva, con i mezzi di cui si poteva disporre”, ricorda Sartre :
fra questi mezzi in primo piano i testi di Husserl, Cassirer, Heidegger, con i
10
quali la cultura francese cominciava a misurarsi.
Nell’‘uomo’ Merleau-Ponty non si deve tralasciare l’importanza di un
11
fattore psicologico: il potere e il ruolo della figura materna , assolutamente
prioritario in chi si mostra, notoriamente, obbediente al clima e alle
12
consuetudini familiari ; nel ripercorrere i momenti della formazione del
pensiero, ne traccia a grandi linee, gli elementi che hanno contribuito alla sua
riuscita. “Doveva vivere; gli restava da compiere fino in fondo quello per cui il
destino lo aveva fatto nascere. Identico e tuttavia diverso: alla ricerca dell’età
dell’oro; la sua arcaica semplicità, creando a partire da se stessa i suoi miti e
quello che egli ha chiamato successivamente ‘il suo stile di vita’, faceva
nascere preferenze, talvolta per le tradizioni, che richiamavano le cerimonie
dell’infanzia e, per la spontaneità che ricorda la libertà sorvegliata, scopriva il
significato di quello che accade, a cominciare da ciò che è accaduto e, alla
fine, faceva dell’inventario e della constatazione una profezia. Ecco ciò che
sentiva da giovane senza poterlo ancora esprimere; ecco da quali territori è
13
giunto alla filosofia”.
Il pensiero di Merleau-Ponty è radicato in un atteggiamento critico, che
indaga intorno ad un universo compiuto, ma sempre in movimento, e intorno
ad un significato generoso della esistenza, contrassegnata da cadute, mosso
da una ricerca ininterrotta sul significato del vivere.
Il
suo
atteggiamento
critico-riflessivo
chiede
il
conforto
nell’insegnamento dei Maestri del tempo i quali, superficiali o seri, ignoravano
la “Storia” sostenendo l’inutilità di queste richieste, considerandole in
generale mal poste, perché le risposte sono già contenute nelle domande:
uno di essi sosteneva che pensare è misurare, ma non si dedicava né all’una
né all’altra cosa.
38
SAGGI
L’indagine filosofica verteva fondamentalmente sull’uomo e la natura,
temi universali per questo uomo che, “tormentato dai segreti arcaici della sua
preistoria, si arrabbiava contro questa brava gente che si considerava
aviettes e praticava il pensiero di sorvolo, dimenticando le radici profonde
della nostra origine. Si dirà più tardi che essi si vantavano di guardare il
mondo in faccia. Ignoravano forse che esso ci contiene e ci genera? Anche
lo spirito più indipendente ne porta il marchio e non può esistere un solo
pensiero che non sia condizionato nelle sue radici profonde, fin dalle origini,
dall’essere che pretende di prendere in considerazione. Poiché siamo storie
ambigue - fortuna e sfortuna, ragione e irrazionalità - la cui origine non è mai
il sapere ma l’evento, non si può neppure immaginare che si possa tradurre
in termini di conoscenza la nostra vita, questa ‘maglia che fila’. E che valore
può avere un pensiero umano sull’uomo, dal momento che è l’uomo stesso
che se ne fa giudice e garante?”
Nel ricercare inquieto di Merlau-Ponty forse in uno degli interrogativi sul
14
significato della vita si potrebbe rintracciare l’influenza di Kierkegaard,
suggerisce Sartre, ma sarebbe una tesi azzardata perché “il Danese fuggiva
il sapere hegeliano e s’inventava delle opacità, terrorizzato dalla trasparenza
[…]. Tutto al contrario Merleau-Ponty: voleva comprendere, comprendersi;
tra l’idealismo universalista e quello che chiamerà la sua ‘storicità
primordiale’ non è stata certamente colpa sua la scoperta che nell’uso c’era
incompatibilità. Non ha mai preteso di cedere il passo alla irrazionalità di
fronte al razionalismo. Egli voleva opporre la Storia all’immobilismo del
15
soggetto kantiano”.
All’inizio della sua formazione filosofica Merleau non aveva ancora
acquisito l’idea del “cominciamento”, che include l’intenzionalità, la situazione
e tutti gli altri strumenti messi in luce dai recenti orientamenti della filosofia
tedesca, che Sartre invece ha conosciuto nell’anno di studio trascorso in
Germania e anche attraverso i seminari di Emmanuel Lévinas. A partire dal
1939, il ritmo di lavoro diventa molto intenso e lo scoppio della guerra e
l’invasione tedesca generano fermenti intellettuali e politici, che portano alla
16
formazione di numerosi gruppi che si spensero nel ‘42.
Sartre e Merleau-Ponty, alla luce della Fenomenologia, vestirono, l’uno
nei confronti dell’altro, i panni dell’ambiguità nei reciproci rapporti. “Husserl
diventava nello stesso tempo la nostra distanza e la nostra amicizia”, ricorda Sartre - una distanza destinata ad approdare a risultati diversi, ma
restava una amicizia che rinsaldava quei vincoli che, soprattutto nelle
discussioni, mettevano in luce pluralità di prospettive”.
Nei numerosi incontri che precedettero la nascita di “Les Temps
modernes”, Sartre volle mantenere un atteggiamento molto conciliante nei
confronti di Merleau, anzi fu un “conciliatore”, pronto a riconoscere il suo
39
debito con l’amico e pronto a dichiarare: “non dimentico quello che devo alle
discussioni: un pensiero ‘ventilato’. Questo è stato, secondo me, il momento
17
più puro della nostra amicizia”. Ma quando i rapporti diventarono difficili e le
differenze furono sostanziali, Sartre non poté che riaffermare i fondamenti del
suo pensiero: “Ho sempre trovato, e trovo ancora che la Verità è una […].
Merleau- Ponty al contrario trovava la propria sicurezza nella molteplicità
18
delle prospettive: vi vedeva gli aspetti dell’essere”.
Impegnato nella ricerca di una dinamica filosofica concernente i
problemi di un umanesimo, da più parti richiesto ed atteso, Merleau aveva
preferito, per fare chiarezza, indagare sui problemi della percezione,
considerata “uno dei cominciamenti del cominciamento”, mentre per Sartre la
percezione era una “prova ambigua” che “libera il nostro corpo dal mondo e il
19
mondo dal nostro corpo; la cerniera e l’ancoraggio” . In queste due figure la
cerniera e l’ancoraggio, si possono individuare molti aspetti della filosofia
merleau-pontyana, che individua in Phénoménologie de la perception quelle
tracce delle riflessioni che a Sartre appaiono ambigue e difficili, almeno in
quel momento. “Potrei dire che la fenomenologia rimaneva una ‘statica’, per
Merleau, all’interno di una tesi che egli stava trasformando progressivamente
in ‘dinamica’, approfondendone i caratteri la cui prima tappa è Humanisme et
Terreur?” Si tratta di un problema fondamentale, dal quale discende il
giudizio sartriano non molto lusinghiero sulla attività merleau-pontyana negli
anni di guerra: gli rimprovera un silenzio pesante sui grandi eventi, il suo
distacco dalla Storia, nonostante nel ’45 abbia scritto: “Abbiamo imparato la
Storia e pretendiamo che non si debba dimenticarla”. Per Sartre, Merleau
non ha ancora un valido concetto di Storia: “Egli vedeva la sua ombra portata
sulla Storia come su un muro, la figura che assumevano le sue azioni
all’esterno, questo spirito oggettivo che era Lui stesso. Merleau si sentiva
sufficientemente investito per avere continuamente la coscienza di restituire il
mondo al mondo, sufficientemente libero per oggettivarsi nella Storia
20
attraverso questa restituzione”. La focalizzazione di questo giudizio è
espressa con la metafora della cresta dell’onda che, all’interno della stessa
onda, si innalza sulle altre creste si distingue in quel mare di schiuma che
sembra inghiottirla. A quanti contestavano la sua visione della Storia,
Merleau rispondeva che sicuramente il significato che attribuiva all’esistenza
non lo opponeva affatto al marxismo, anzi la tesi secondo la quale “gli uomini
fanno la Storia sulla base di circostanze anteriori”, a lui sembrava la versione
marxista del proprio pensiero.
Il rapporto fra il pensiero merleau-pontyano e il marxismo è uno degli
aspetti sul quale Sartre indugia, sottolineando che Merleau-Ponty non era
marxista, che rifiutava l’idea che il marxismo fosse un dogma e che non
considerava il materialismo storico come l’unico “faro” della Storia; inoltre
40
SAGGI
accomunava marxismo e razionalismo classico considerandoli correnti nate
per guardare il mondo in faccia, ma che dimenticavano che è il mondo che ci
contiene. “Quale che fosse la dottrina, egli se ne allontanava, temendo di
21
scoprirvi una costruzione del ‘pensiero del sorvolo’” , commenta Sartre. Un
ulteriore motivo di dissenso era che la teoria materialistica della Storia non
lasciava spazio alla contingenza e perciò la si poteva considerare come un
immenso compromesso, un imputridirsi della Storia, tesi che a Sartre sembra
una contestazione radicale del Manifesto del partito comunista. Per MerleauPonty il materialismo storico è solo “una griglia, una idea regolatrice o, se si
preferisce, uno schema euristico”. Da qui la conclusione: si è marxisti in
mancanza di meglio. La reazione di Sartre, che è misurata e comprensiva
per le altre tesi merleau-pontyane, appare assai vivace: Merleau dimentica
che “il marxismo è fondamentalmente una pratica la cui origine è la lotta di
classe. Negate questa lotta, non resta nulla […]. I giovani intellettuali del
Partito vi credevano devotamente. Non avevano torto; dico che essi vi
credevano perché non potevano vederla sotto la maschera ingannatrice della
unità nazionale; Merleau-Ponty li irritò spesso perché vi credeva solo a metà.
Aveva riflettuto sulle conseguenze della vittoria [della guerra 1939-1945]:
molti gli alleati, due soli i giganti contrapposti. Questi ultimi, desiderosi di
22
evitare le frizioni, avevano rimodellato il mappamondo a Yalta” escludendo
la nascita di una Terza Forza. La Storia diventava unica per la terra intera; da
qui “questa contraddizione, allora incomprensibile, che la lotta delle classi si
trasformasse nei vari luoghi, in conflitti di nazioni - dunque in guerre differite.
Oggi il Terzo Mondo ci illumina; nel 1945 non potevamo né comprendere la
23
metamorfosi né ammetterla”. La riflessione di Merleau–Ponty, procedendo
per altre vie, giunse a conclusioni che in quel momento sembravano imporsi:
“Se la rivoluzione può essere frenata dall’esterno per la preoccupazione di
mantenere l’equilibrio internazionale, se le forze estranee possono
schiacciarla sul nascere, se i lavoratori non debbono più aspettare non da se
stessi ma da un conflitto planetario la loro emancipazione, allora la classe
rivoluzionaria si è dileguata. La borghesia continuava ad esistere, circondata
dalla massa immensa dei lavoratori che sfruttava e che atomizzava. Ma il
proletariato, questa forza invincibile che combatteva contro il capitalismo e
che aveva la missione di abbatterlo, questo proletariato stava per cedere.
Sarebbe ritornato, era certamente possibile; forse domani, forse fra mezzo
secolo; poteva anche darsi che non sarebbe mai più ritornato. Merleau-Ponty
constatava questa assenza, la deplorava in modo corretto e proponeva che
ci si organizzasse senza attendere, nel caso in cui dovesse durare. Andò
24
persino a tracciare le grandi linee di un programma”.
Il suo programma che Sartre, colpito e commosso, sintetizza in poche
battute, consisteva nello ipotizzare una attività di sostegno per la rinascita del
41
proletariato, riconoscendo la legittimità dell’organizzazione comunista; ma
non si spingeva oltre, analogamente ai molti che avevano attivamente
partecipato alla Resistenza. Sartre, invece, avrebbe desiderato un impegno
più intenso,totale, teso alla ricostruzione e al rinnovamento del P. C. F. In
questo senso la filosofia politica di Merleau diventa per Sartre una filosofia de
survol, una conclusione che Sartre fa sua a malincuore, spinto dal ricordo
che già nel 1939 Merleau era assai vicino al marxismo. I motivi
dell’allontanarsi progressivo di Merleau dal marxismo Sartre li attribuisce ai
processi staliniani - che indubbiamente l’avevano molto colpito, se ne parlò
diffusamente dieci anni dopo in Humanisme et Terreur - al patto germanosovietico, allo scambio di idee con gli amici, agli scritti di Rosa Luxembourg.
Ma si debbono tenere in conto anche gli echi della dottrina cristiana
abbandonata a venti anni, “la ricerca, dappertutto, dell’immanenza perduta, di
essere rigettato dall’immanenza anche verso un trascendente e di eclissarsi
immediatamente. E tuttavia non è rimasto a questo livello della
contraddizione originaria: dal 1950 al 1960 egli ha concepito a poco a poco
un nuovo legame dell’essere con l’intersoggettività; ma nel 1945 se sognava
25
forse un sorpasso, non l’aveva ancora trovato”. Il Merleau di questo periodo
avrebbe ipotizzato un marxismo attendista, severo e privo di illusioni; ma
erano tesi che non potevano essere condivise “dai suoi amici comunisti”.
La lunga ed importante meditazione sul significato ed il ruolo del
marxismo, che certamente ha inciso sulla personalità morale ed intellettuale
del pensatore, viene abbandonata nel 1955, quando Merleau, consapevole di
essere forviato dalla politica, decise di lasciarla e, colpevole di “avere osato
vivere, morì”, ritornando alla sua vita di piccolo-borghese. Per Merleau la crisi
della intelligentija francese di questo periodo si lascia ricondurre alla
insondabilità degli eventi: “il filo si è spezzato per colpa della Storia, che usa
gli uomini di cui si serve e li uccide a suo piacimento come i cavalli. Essa
sceglie gli attori, li cambia fino alle midolla con il ruolo che impone loro e poi,
al minimo cambiamento, li congeda per prenderne altri tutti nuovi, che getta
nella mischia senza averli istruiti. Merleau cominciò a lavorare nell’ambiente
che la Resistenza aveva fatto nascere: morto questo ambiente ritenne che
questa unione sarebbe sopravvissuta in non so quale umanesimo futuro che
le classi, per mezzo della loro stessa lotta, avrebbero potuto costruire
26
insieme”. Se il suo pensiero si scontrò con i pensatori marxisti mediocri, i
migliori sapevano che dovevano assimilarlo, anche perché rappresentava ed
incarnava il legame fra borghesi e proletari, e riproponeva l’idea della
“cattolicità” del pensiero, ossia della sua universalità, per la quale gli uomini
si battono da una parte e dall’altra della barricata: “Merleau–Ponty fu il solo a
non celebrare il trionfo della discordia, il solo a non sopportare - in nome
42
SAGGI
della nostra vocazione ‘cattolica’ - che l’amore diventasse dappertutto il
27
contrario dell’odio”.
È difficile scoprire cosa sia rimasto in Merleau delle discussioni a cui
molte volte Sartre si riferisce, quali riflessioni abbiano prodotto i loro
numerosissimi incontri e le messe a punto dei vari problemi sorti nell’intenso
periodo di direzione politica ed editoriale de “Les Temps modernes”. Si
potrebbero individuare nei molti cenni, talvolta assai significativi, da utilizzare
per chiarire le dottrine contrapposte, che segnano la distanza a cui
approdano i reciproci esiti finali.
Sartre, rivisitando il periodo 1945-1950, ha scoperto i primi elementi di
un atteggiamento di “chiusura” di Merleau nei confronti della politica e della
cultura del periodo, condensati nel dialogo di poche battute che riportiamo:
“Non ci rimane che tacere. - Chi noi? dicevo io fingendo di non
comprenderlo.- Si, proprio noi: “Les Temps modernes”. - Vuoi che mettiamo
la chiave sotto la porta? - No, ma che noi non diciamo più una parola sulla
28
politica”. Il momento drammatico esige una risposta non con interventi
verbali, ormai insufficienti perché la parola era lasciata alla violenza delle
armi. “Per Merleau-Ponty, come per molti altri, il 1950 fu l’anno cruciale:
pensò di vedere smascherata la dottrina staliniana, perché era un
bonapartismo. Se l’URSS non era la patria del socialismo, allora questo
ultimo non esisteva in nessun luogo oppure il socialismo era […] un mostro
29
abominevole, un regime poliziesco, una potenza predatrice”. La società
socialista era sul punto di dar vita ad un imperialismo di matrice diversa da
quello generato dal capitalismo: un lungo seguito di conquiste, di saccheggi,
di massacri richiedeva il silenzio. “Deluso, aveva successivamente deciso di
denunciare dappertutto lo sfruttamento. Dopo una nuova delusione, decise,
nella calma, di non denunciare più nulla fino a che una bomba, venuta
dall’oriente o dall’occidente, mise un termine alle nostre brevi storie. Positivo,
poi negativo, poi silenzioso, non si era mosso di un centimetro. Si
comprenderebbe male questa moderazione, se non vi si vedessero le
esteriorità composite di un suicidio: ho detto che le sue peggiori violenze
erano torpedini marine che non facevano male che a lui solo. C’è sempre
una speranza nella collera più folle: in questo calmo rifugio mortuario non ne
30
restava più”.
L’ampio spazio che Sartre dedica alla rievocazione degli avvenimenti
31
politico-militari del periodo 1947-1950 è funzionale all’impianto filosofico
che progressivamente egli illumina, muovendo non solo dalle prospettive
filosofiche, ma anche dai rapporti umani: “Io ce l’avevo un poco con Merleau
per avermi imposto, nel 1950, il suo silenzio. La rivista si trascinava da due
anni, ed io non lo sopportavo; ognuno è responsabile del proprio giudizio: io
non ho scuse, e non ne voglio. Quello che può interessare in questa
43
avventura - che abbiamo vissuto, l’uno e l’altro, con sofferenza - è che essa
mostra per quali vie la discordia può installarsi nel cuore dell’amicizia più
fedele e dell’accordo più stretto. Nuove circostanze, una istituzione caduca: il
32
nostro conflitto non ebbe altri motivi”. Gli avvenimenti che scardinarono
l’antica visione politica della società e le ideologie che ne proposero il
rinnovamento fecero di “Les Temps modernes” il banco di prova, che
intraprese una nuova via per interpretare la Storia, che alimentò le difficoltà
d’intesa e di lavoro per entrambi; perciò il silenzio dell’uno comprometteva
l’altro; cinicamente Sartre s’interrogava sulla testa da scegliere quando
succede che due teste siano coperte dal medesimo copricapo: l’allusione non
era gratuita e prospettava un’unica soluzione: la scelta avveniva in
obbedienza all’unico copricapo ed ognuno doveva assumersi la propria
responsabilità. Intanto, all’interno della rivista, si optò per la nascita di un
gruppo di compagni che, assumendo un comportamento critico, si proposero
di mettere in sordina le critiche più distruttive. Merleau continuava il suo
lavoro di redazione, senza collaborare, ma restava fedele alla rivista e di
tanto in tanto prendeva qualche iniziativa, dopo avere lasciato nel 1950
l’incarico di direttore politico mantenendo quello di capo redattore; ma proprio
in quell’anno scoppiò la crisi che mise fine al loro rapporto: “Sotto le nostre
divergenze intellettuali del 1941, così serenamente accettate quando Husserl
era l’unico chiamato in causa, noi scoprimmo, con sorpresa, tanti conflitti che
avevano origine nella nostra infanzia, persino nei ritmi elementari dei nostri
organismi, e tanti, tra la carne e il cuoio, realtà sornione, compiacenze, una
follia d’attivismo, nell’uno, che nascondeva i suoi fallimenti, i sentimenti
retrattili nell’altro, un quietismo feroce. Beninteso, niente di tutto questo era
33
vero o falso del tutto”.
Sartre cerca di rintracciare, nello scavo psicologico che collega
all’attualità politica, i motivi di una contrapposizione che diventa, giorno dopo
34
giorno, più acuta, in un crescendo di irritazione che si trasforma in litigio ;
sarà una telefonata di Merleau ad annunciare le dimissioni irremovibili, che
prevedono la cessazione di ogni attività all’interno della rivista. Questa storia
futile, - è il giudizio di Sartre - degna della Commedia dell’arte, è protagonista
nel ruolo che ciascuno dei due ha giocato seguendo le proprie esigenze. La
rivista era un segno dei tempi, come lo erano tutte le altre riviste: “essa
apparteneva alla Storia; per mezzo di essa noi due abbiamo provato la
nostra consistenza di oggetti della storia. È stata la nostra oggettivazione:
attraverso di essa il corso delle cose ci ha dato la nostra identità e il nostro
doppio incarico: più uniti dapprima di quanto non fossimo stati senza di essa,
in seguito più separati […]. In una parola i cominciamenti ci appartengono;
35
dopo, bisogna volerli i nostri destini”.
44
2. Solo nell’ultima parte dello scritto (pp. 264-287) Sartre esprime il suo
giudizio sul pensiero di Merleau, senza la pretesa di esaurirne il contenuto.
Egli ne individua tre momenti, cominciando dagli studi del periodo giovanile.
“Fin dal periodo precedente lo scoppio della guerra, questo giovane Edipo,
rivolto alle sue origini, vuole comprendere l’irrazionalità razionale che lo ha
generato; al momento in cui vi si avvicina e scrive Phénoménologie de la
perception, la Storia ci prende alla gola, egli si dibatte contro di essa senza
interrompere le sue ricerche. Diciamo che si tratta del primo periodo della
sua riflessione. Il secondo comincia negli ultimi anni dell’Occupazione e va
avanti fino al 1950. Terminata la sua tesi, sembra abbandonare la ricerca,
interrogare la Storia, la politica del nostro tempo. La sua preoccupazione è
cambiata solo apparentemente: a tutto si arriva perché la Storia è una forma
che ci avvolge, poiché noi siamo “ancorati” ad essa, in quanto bisogna
situarsi storicamente, non a priori e neanche per non so quale “pensiero di
sorvolo, ma per l’esperienza del movimento che ci trascina: a leggerlo
correttamente, i commentari di Merleau sulla politica non sono che una
esperienza politica che diviene per se stessa e in tutti i sensi del termine
soggetto di meditazione; se gli scritti sono atti, diciamo che egli agisce per
appropriarsi della sua azione e ritrovarvisi in profondità. Considerato nella
prospettiva generale della Storia, Merleau è un intellettuale uscito dalle classi
medie, che la Resistenza radicalizza, e deportato dalla esplosione della
Sinistra […]. Quantunque s’annunciasse da alcuni anni, il terzo periodo della
37
sua meditazione inizia a partire dal 1963”.
Sartre ripropone il senso della Storia, come categoria storiografica che
percorre questo scritto che è elogio, commemorazione, critica filosofica,
senza mai cadere nei luoghi comuni. Oggi non possiamo richiedere a Sartre
l’acribia, la critica e l’esperienza filologica di cui disponiamo, ma certamente
le sue riflessioni e le categorie nelle quali colloca il pensiero di Merleau sono
dettate da un grande rigore. Portando a compimento il suo progetto di
38
“raccontare l’avventura di una amicizia” , segue l’evolversi dei pensieri
dell’amico, nei quali si sente coinvolto, sperando di poterli esporre
“sinceramente”, almeno nei limiti di “quello che ha compreso”.
Comincia dalla “storicità primordiale”, origine di tutto ciò che accade,
momento a cui non si può sfuggire, la “contingenza”, secondo Merleau. “Non
SAGGI
Merleau, lasciata la redazione della rivista, si dedica prevalentemente
allo studio, è nominato professore al Collège de France. “Non bastandogli più
il silenzio, si fece eremita, lasciando il suo studio per il Collège de France.
36
Fino al 1956 non lo rividi, i suoi migliori amici lo videro ancora meno”.
Fin qui la lunga ed appassionata descrizione dell’uomo, dello studioso,
dell’attivo direttore politico e redattore capo della rivista fondata da Sartre.
45
39
è troppo dire che si nasce per morire: si nasce alla morte”. La nascita, che
è segno di vita, testimonia su chi ci ha dato la vita, impedendone la
sparizione e postulandone la sopravvivenza. “Negli ultimi anni gli capitò di
rifiutare che lo si collocasse fra gli atei, il che non accadde per un ritorno di
fiamma cristiana ma per lasciare una opportunità ai defunti […]. La vita, la
morte; l’esistenza, l’essere; per poter condurre la sua doppia impresa è in
questo incrocio che volle piazzarsi. In un senso non è cambiato nulla nelle
idee che sosteneva nella sua tesi; in un altro, tutto è irriconoscibile: si è
incamminato nella notte del non sapere alla ricerca di quello che oggi chiama
‘il fondamentale’. Così leggiamo in Signes: ‘Ciò che (nell’antropologia)
interessa il filosofo, è precisamente che essa consideri l’uomo come è, nella
sua situazione effettiva di vita e di conoscenza. Il filosofo che la interessa non
è quello che vuole spiegare o costruire il mondo, ma chi vuole approfondire la
40
nostra inserzione nell’essere”.
C’è una certa “delicatezza” nell’analisi di Sartre quando ne interpreta le
problematiche metafisiche,il rapporto fra l’esistenza e l’essere, o quando
riprende le analisi del linguaggio, con riferimenti a Freud e Lacan, o quando
esamina il problema dell’ontologia, rivisitando l’Essere, in sintonia con
Heidegger, alla luce della “idea dialettica dell’essere come la definiva il
Parmenide, al di là della molteplicità delle cose che sono e, per principio,
41
considerata attraverso esse poiché separata da esse” : l’essere delle cose
lontane non sarebbe che luce e notte.
Mentre per Sartre il mondo della percezione non esaurisce il compito
della conoscenza, perché il mondo è “Storia” e l’uomo fin dall’inizio è “essere
storico”, Merleau nella sua opera fondamentale - scritta con ampie pause e
42
con una meticolosa ricerca , - sostiene che il momento fondamentale per la
conoscenza dell’uomo è la percezione e, quando Sartre scrive che “la
Fenomenologia della percezione porta le tracce di queste meditazioni
43
ambigue, che non so riconoscere” , sembra restio ad accettare il vero
significato di “percezione” che proprio nel corso al Collège de France del
1952-1953 Merleau riproponeva ed ampliava, sostenendo che l’analisi della
percezione è legata alla attività del corpo, in parte alla motricità e, dunque, al
movimento. Il corpo è motricità spontanea, che è illustrata dalla tesi secondo
la quale “il corpo è il nostro mezzo generale di avere un mondo”, e,
riprendendo Husserl di Ideen, pone in questo modo la priorità del noetico sul
noematico.
La filosofia della percezione non si lascia ricondurre alla filosofia della
Storia non perché esclude la Storia, ma perché ha della Storia un punto di
vista differente da quello dei cultori della Storia. Sartre vorrebbe interrogare
l’uomo che fa la Storia, ma per Merleau l’uomo è il risultato di una
composizione del mondo; da qui l’inconciliabilità delle due teorie sull’uomo e
46
SAGGI
I
sulla reciproca visione del mondo. La critica ad oltranza contro Merleau
sembra ingenerosa quando Sartre colpisce la riservatezza della persona:
“Ricco dalla nascita e poi frustrato Egli era condotto dalla sua esperienza a
scoprire la forza delle cose, la potenza disumana che ci rubano i nostri atti ed
44
i nostri pensieri”. Particolare il ricordo che nelle ultime opere dell’amico si
trova un certo ottimismo, illuminato dall’idea di progresso, fondamentale per
la storia dell’uomo fin dalle sue origini: non è un caso che la testimonianza
più vivace sulla civilizzazione più che nei quadri di Apelle, Rembrandt, Klee si
trova già nelle grotte di Lascaux.
Un riavvicinamento fra i due però rimase precluso: l’ultimo episodio
delle reciproche “incomprensioni” risale al 1955. Un incontro a Venezia, nel
1956, e successivamente le vicende politiche della guerra d’Algeria, la
partecipazione di Merleau ad una conferenza di Sartre alla Scuola Normale,
sono segni di un ravvicinamento: un desiderio che si spegne, qualche giorno
dopo, con la notizia della morte di Merleau, con la quale cala il sipario su una
amicizia che non riesce ad evitare un ultimo malinteso. “Rivedo il suo ultimo
viso notturno - ci lasciammo in via Claude Bernard - […] rimane in me una
ferita dolorosa, infetta dal rimpianto, il rimorso, un po’ di rancore; cambiata
nel suo stesso essere, la nostra amicizia vi si riassume per sempre. Io non
privilegio certamente l’ultimo istante né ritengo che esso si debba caricare di
dire la verità su una vita. Ma in esso si, tutto s’è raggruppato: tutti i silenzi che
mi ha opposto, a partire dal 1950, sono là, scolpiti in questo volto silenzioso
e, reciprocamente, mi accade ancora oggi di sentire l’eternità della sua
assenza come un mutismo deliberato; la nostra incomprensione finale - che
non sarebbe stato nulla se lo avessi potuto ritrovare vivente - vedo bene che
è fatta del medesimo tessuto di tutte le altre: non ha compromesso nulla,
lascia trasparire il nostro affetto reciproco, il nostro comune desiderio di non
nascondere nulla fra noi, ma anche la sfasatura delle nostre vite […]. La
morte è una incarnazione come le nascite: la sua è non-senso pieno di un
senso oscuro, realizza, per ciò che ci riguarda, la contingenza e la necessità
di una amicizia senza felicità […]. Ognuno può dividere i torti come vuole ed
in ogni modo noi non eravamo molto colpevoli; al punto che mi capita talvolta
di non vedere più nella nostra avventura che la sua necessità. Ecco come
vivono gli uomini al tempo d’oggi; ecco come si amano: male. È vero; ma è
anche vero che noi, noi due, ci siamo amati male. Resta solo da concludere
che questa lunga amicizia né fatta né disfatta, abolita quando era sul punto di
rinascere o di spezzarsi, resta in me come una ferita indefinitamente
45
irritata”.
1
J.-P. SARTRE, Merleau- Ponty, «Les Temps Modernes», numéro spécial,
octobre 1961, ripreso in Situations IV, Gallimard, Paris 1964, pp. 198- 287. 7
47
2
“Merleau –Ponty ‘comprese la Storia’ più in fretta di noi perché aveva del
tempo che scorre un piacere doloroso e plenario. È quello che fece di lui il
nostro commentatore politico, senza che egli lo abbia richiesto, senza che
nessuno se ne fosse accorto. Allora, ne Les Temps Modernes, c’era un
comitato di redazione non omogeneo: Jean Paulhan, Raymond Aron, Albert
Ollivier, certamente erano nostri amici. Ma all’insaputa di tutti ed in primo
luogo di noi stessi, non condividevamo nessun loro pensiero. In effetti la
nostra inerte coesistenza era stata, alla vigilia, un cameratismo vivente: gli
uni venivano da Londra, gli altri dalla clandestinità. La Resistenza si
disperse[…]. I comunisti stessi, dopo aver collaborato al primo numero, […]
presero congedo. Colpo duro per quelli che restavano: mancavamo di
esperienza. Merleau salvò la rivista accettando di farsene carico: fu redattore
capo e direttore politico”.
3
Ivi, p. 189.
4
Ivi, p. 193.
5
Ivi, p. 194.
6
Sartre non riferisce né accenna al “fatto” della morte di Merleau. Maurice de
Gandillac, invece, nel suo “prezioso” libro di memorie, Le Siècle Traversé.
Souvenirs de neuf décennie, (Albin Michel, Paris 1998) ce ne da una
testimonia essenziale, inserendola nel rimpianto che la perdita procurava nel
rinnovamento filosofico che si andava preparando negli anni ’60: “Maurice
Merleau- Ponty ci ha lasciato proprio nel periodo in cui si aprivano nuovi
campi alla riflessione filosofica. Conoscendo molto bene il suo appartamento
di boulevard Saint Michel immagino la scena della sua morte come mi è stata
raccontata: il mio compagno si era ritirato nel suo studio per terminare un
lavoro urgente ed i suoi amici si divertivano senza problemi fintanto che l’uno
o l’altro lo trova disteso per terra e privo di conoscenza” (p. 372). A livello di
amicizia de Gandillac è stato molto legato al compagno normaliano MerleauPonty. Al momento della morte, il 3 maggio del 1961, fra le carte del suo
tavolo di lavoro furono trovati una certa quantità di foglietti dedicati ai saggi di
J. Laporte ed ai suoi studi su Descartes.
7
“Alla Scuola ci conoscevamo, senza frequentarci”, in Merleau Ponty vivant,
cit., p. 190.
8
J. F. Sirinelli ha studiato a fondo la vita ed i problemi dei giovani intellettuali
francesi, in khâgne e allievi della Scuola Normale, a partire dall’ Affaire
Dreyfus ai giorni nostri e, in particolare, fra le due guerre. Cfr. J. F. SIRINELLI
& P. ORY, Les Intellectuells en France. De l’Affaire Dreyfus à nos jours, A.
Colin, Paris 1986; ed. riveduta, Paris 2002. Cfr anche J. F. SIRINELLI,
Génération intellectuelle. Khâgneux et normaliens dans l’entre deux guerres,
Fayard, Paris 1988.
9
J. P. Sartre, op.cit.,p. 190
48
1
J.-P. SARTRE, Merleau- Ponty, «Les Temps Modernes», numéro spécial,
octobre 1961, ripreso in Situations IV, Gallimard, Paris 1964, pp. 198- 287.
SAGGI
sulla reciproca visione del mondo. La critica ad oltranza contro Merleau
sembra ingenerosa quando Sartre colpisce la riservatezza della persona:
“Ricco dalla nascita e poi frustrato Egli era condotto dalla sua esperienza a
scoprire la forza delle cose, la potenza disumana che ci rubano i nostri atti ed
44
i nostri pensieri”. Particolare il ricordo che nelle ultime opere dell’amico si
trova un certo ottimismo, illuminato dall’idea di progresso, fondamentale per
la storia dell’uomo fin dalle sue origini: non è un caso che la testimonianza
più vivace sulla civilizzazione più che nei quadri di Apelle, Rembrandt, Klee si
trova già nelle grotte di Lascaux.
Un riavvicinamento fra i due però rimase precluso: l’ultimo episodio
delle reciproche “incomprensioni” risale al 1955. Un incontro a Venezia, nel
1956, e successivamente le vicende politiche della guerra d’Algeria, la
partecipazione di Merleau ad una conferenza di Sartre alla Scuola Normale,
sono segni di un ravvicinamento: un desiderio che si spegne, qualche giorno
dopo, con la notizia della morte di Merleau, con la quale cala il sipario su una
amicizia che non riesce ad evitare un ultimo malinteso. “Rivedo il suo ultimo
viso notturno - ci lasciammo in via Claude Bernard - […] rimane in me una
ferita dolorosa, infetta dal rimpianto, il rimorso, un po’ di rancore; cambiata
nel suo stesso essere, la nostra amicizia vi si riassume per sempre. Io non
privilegio certamente l’ultimo istante né ritengo che esso si debba caricare di
dire la verità su una vita. Ma in esso si, tutto s’è raggruppato: tutti i silenzi che
mi ha opposto, a partire dal 1950, sono là, scolpiti in questo volto silenzioso
e, reciprocamente, mi accade ancora oggi di sentire l’eternità della sua
assenza come un mutismo deliberato; la nostra incomprensione finale - che
non sarebbe stato nulla se lo avessi potuto ritrovare vivente - vedo bene che
è fatta del medesimo tessuto di tutte le altre: non ha compromesso nulla,
lascia trasparire il nostro affetto reciproco, il nostro comune desiderio di non
nascondere nulla fra noi, ma anche la sfasatura delle nostre vite […]. La
morte è una incarnazione come le nascite: la sua è non-senso pieno di un
senso oscuro, realizza, per ciò che ci riguarda, la contingenza e la necessità
di una amicizia senza felicità […]. Ognuno può dividere i torti come vuole ed
in ogni modo noi non eravamo molto colpevoli; al punto che mi capita talvolta
di non vedere più nella nostra avventura che la sua necessità. Ecco come
vivono gli uomini al tempo d’oggi; ecco come si amano: male. È vero; ma è
anche vero che noi, noi due, ci siamo amati male. Resta solo da concludere
che questa lunga amicizia né fatta né disfatta, abolita quando era sul punto di
rinascere o di spezzarsi, resta in me come una ferita indefinitamente
45
irritata”.
49
insistendo sulla tesi: “non posso che nascere grazie al caso, che è la mia
avventura!”
15
Merleau-Ponty vivant, cit., p. 192.
16
Con i movimenti e le pubblicazioni, che si opponevano ai nazisti ed al
governo di Vichy, si collegarono anche numerose riviste, letterarie o
filosofiche, storiche o sociologiche. Cfr. S. A. ARCOLEO, Le “cas” Esprit. La
culture catholique en France pendant la période 1941-1944: “entre espoir et
détresse”, in Philosopher en France sous l’Occupation, sous la direction de
O. Bloch, Publications de la Sorbonne, Paris 2009, pp.165- 174.
17
Merleau-Ponty vivant, cit. p. 194.
18
Ibidem.
19
Ivi, p. 195.
20
Ivi, p. 198.
21
Ivi, p. 199.
22
Ivi, p. 201.
23
Ibidem.
24
Ivi, p. 202.
25
Ivi, p. 205.
26
Ivi, p. 242.
27
Ivi, p. 244.
28
Ivi, p. 236.
29
Ivi, p. 237.
30
Ivi, pp. 237-238.
31
Ivi., pp. 220- 250.
32
Ivi, pp. 251- 252.
33
Ivi, p. 258.
34
I momenti e i documenti di questo litigio sono stati messi in evidenza nello
scritto: Sartre, Merleau-Ponty: Les letteres d’une rupture, presentato da Fr.
Eward in Le Magazine Littéraire, 320, 1994; ripubblicato in : M. MERLEAUPONTY, Percours deux, a c. di J. Prunair, Verdier, Paris 2000, pp. 129-170.
35
Merleau-Ponty vivant, cit., p. 260.
36
Ivi, p. 263.
37
Ivi, pp. 264-265.
38
Ivi, p. 264.
39
Ivi, p. 266.
40
Ibidem.
4
1 Ivi, p. 269.
42
La redazione della Phénoménologie de la perception fu compiuta
nell’ottobre del 1944 e la discussione, assieme alla tesi complementare La
structure du comportement, avvenne il 2 luglio 1945.
43
Merleau-Ponty vivant, cit., p. 195.
50
45
Ivi, p. 197.
Ivi, pp. 286- 287.
SAGGI
44
51
IL DUPLICE ASPETTO DELLA COSCIENZA
di Aurelio Rizzacasa
Considerazioni preliminari
La filosofia contemporanea si propone di realizzare un dialogo
interdisciplinare tra la cultura scientifica, nei suoi diversi aspetti, e la
dimensione spirituale dell’universo, nonché dell’uomo emergente dalle
istanze religiose che si pongono a confronto nel mondo globalizzato. Tale
situazione di frontiera propone alla cultura nuovi itinerari di riflessione, nei
quali si realizza una contaminazione di natura del tutto particolare tra i
paradigmi e le categorie utilizzate nei settori specializzati, tanto della ricerca
scientifica, quanto dell’indagine filosofica. A tal proposito, il riduzionismo
epistemologico, dominante nelle teorie della modernità, viene messo in
questione attraverso le visioni olistiche e sistemiche del paradigma della
complessità. Si produce così una interpretazione alternativa dell’immagine
dell’universo che genera le due prospettive odierne delle nuove cosmologie e
della teoria antropica. Nel primo caso, la fisica si combina con la filosofia per
riprodurre, al livello ipotetico, le immagini del mondo delle tradizionali
ontologie cosmologiche in un orizzonte nuovo dopo che la filosofia critica le
ha poste in dubbio, evidenziando i limiti della conoscenza umana. Nel
secondo caso, l’indagine si concentra sul ruolo centrale dell’uomo che, nella
nuova dimensione copernicana, elaborata su base antropica, pone in rilievo
l’impossibilità di elaborare teorie oggettive della conoscenza, senza tener
conto del ruolo imprescindibile primario assunto dal soggetto conoscente ed
interprete dell’elaborazione di contenuti della conoscenza medesima.
In questo quadro di riferimento, vasto e totalizzante, che coinvolge sia le
immagini del mondo, sia l’uomo come autore della conoscenza, due teorie,
fra loro reciprocamente incommensurabili, pongono spesso questioni di
difficile soluzione. Tali teorie sono, da un lato, quella evolutiva, dall’altro,
quella della coscienza. Infatti, l’una e l’altra costituiscono dei riferimenti
irrinunciabili per l’epistemologia contemporanea, proiettata alla costruzione di
visioni complessive del reale. Il problema insolubile nasce allorché i principi
delle due teorie vengono posti a confronto poiché, nel duplice piano dei
contenuti concettuali e delle codificazioni linguistiche, questi due assunti
teorici finiscono per sdoppiare la realtà in due ambiti il cui collegamento trova
difficilmente delle spiegazioni plausibili. In questa direzione, ad esempio, si
pongono le istanze dualistiche del body mind problem, insieme
all’inconciliabilità tra il carattere pubblico delle osservazioni oggettive ed
esteriori del reale e il carattere privato delle riflessioni individuali della
52
Il processo evolutivo nei suoi livelli di sviluppo
Se prendiamo ad esempio in esame il principio di evoluzione, troviamo
che, a partire dalla biologia per giungere ad una interpretazione complessiva
dell’universo, tale principio dà luogo a varie forme di evoluzionismo che, dalla
concezione di Darwin attraverso il neodarwinismo, giunge fino all’ipotesi
filosofico-teologica di Teilhard de Chardin. In queste ipotesi teoriche sulla
genesi e lo sviluppo dell’universo, il principio di evoluzione ritiene, come
elemento costante della dinamica di sviluppo di ogni fenomeno, il fatto che,
attraverso il processo del divenire, si producono dei mutamenti destinati a
consolidare dei risultati costanti attraverso i quali, tanto gli individui quanto le
specie, si trasformano fino al punto di cambiare completamente la loro
natura, per dar luogo a specie nuove che, attraverso la conservazione del
principio di biodiversità, arricchiscono il pluralismo degli esseri viventi, nel
duplice orizzonte degli individui e delle specie. In questo quadro, le differenze
tra le varie forme di evoluzionismo dipendono dalle caratteristiche interne agli
esseri che si evolvono, o esterne, dipendenti dall’ambiente in cui tali esseri
svolgono la loro esistenza, ma il carattere dinamico della processualità dello
sviluppo rimane fondamentalmente costante nelle diverse interpretazioni.
La questione che non va dimenticata consiste nel fatto che il principio di
evoluzione, nato nell’orizzonte interpretativo della biologia nel quale si è
contrapposto al fissismo delle specie degli esseri viventi, ha finito per
estendersi ad un’area più vasta comprendente i livelli degli esseri, inclusi nel
reale, per cui il principio stesso si è reso capace di dar luogo ad una
ontologia totalizzante del reale stesso che, di solito, viene indicata come
visione evoluzionistica dell’universo.
In questa nuova situazione, rientra l’esempio significativo di Teilhard de
Chardin secondo il quale il principio di evoluzione dà luogo ad un universo a
più livelli costituiti dalla litosfera, dalla biosfera e dalla noosfera. Questi tre
livelli danno luogo ad una visione ontologica e processuale nella quale il
reale, nel suo insieme, possiede una struttura gerarchica garantita da un
divenire cronologico di natura evolutiva. E’ evidente che, anche in questo
SAGGI
coscienza interiore, proprie di ogni individualità personale. In questo difficile
snodo problematico, si pone la questione della coscienza nella sua genesi,
nel suo sviluppo e nella interpretazione della sua fenomenologia interiore.
In queste pagine, ci proponiamo di illustrare la questione in esame
fornendo, ove possibile, delle ipotesi di spiegazione di questo fenomeno che,
in termini di prima approssimazione, appare enigmatico e, alla luce di ulteriori
approfondimenti, rivela il suo carattere ineludibilmente misterioso. Ciò, infatti,
rimane vero nonostante i tentativi filosofico-linguistici di vanificare il problema
riconducendolo o ad un crampo linguistico o ad un errore categoriale.
53
caso, il principio di evoluzione, precisato nella sua natura e nelle sue
possibilità attraverso le indagini scientifiche di natura paleontologica dei
fossili, delle piante e degli animali, finisce per dar luogo a una forma di vero e
proprio evoluzionismo di natura filosofico-teologica.
Tale visione del reale è sicuramente orientata ad una filosofia olistica che,
superando la forma chiusa del totalitarismo ontologico proposto da Hegel,
realizza una forma di olismo aperto ad un futuro imprevedibile e creativo, le
cui premesse filosofiche possono risalire ad autori quali Schelling e Bergson,
per rimanere alle filosofie più note.
La situazione illustrata non è lontana dai risultati epistemologici della
cultura odierna, prodotti ad esempio dalle nuove cosmologie che valorizzano
il principio del caos creativo.
La vita e la legge di complessità-coscienza
Il cardine propulsivo delle teorie scientifico-filosofiche, che abbiamo
ricordato nelle pagine precedenti, è costituito dal problema, aperto e non
risolto, tanto dalla scienza, quanto dalla filosofia della semantica profonda
della vita, nelle sue varie forme vegetali, animali ed umane. Infatti, se è vero
che il rinnovamento epistemologico, nello sviluppo della modernità, dipende
in gran parte dalla nascita della giustificazione dei paradigmi cognitivi assunti
dalla biologia, è anche altrettanto vero che il fenomeno della vita,
dall’antichità ad oggi, nella sua spiegazione profonda, non è riuscito a
compiere definitivamente il passaggio dal mondo delle teorie filosofiche a
quello delle ipotesi matematizzate e sperimentali della scienza. Infatti, mentre
siamo in grado di determinare i messianismi biochimici della genesi e dello
sviluppo della vita nelle sue varie forme, non siamo ancora capaci di
comprendere il significato profondo della vita stessa, per cui, nel passaggio
dall’inorganico all’organico, ci troviamo di fronte al parallelismo di teorie
biochimiche ed elettrochimiche senza riuscire a spiegare univocamente i
fenomeni sottoposti ad indagine; si pensi ad esempio a quanto accade nelle
neuroscienze allorché ci si propone di chiarire le modalità che governano la
dinamica delle sinapsi nei sistemi nervosi degli animali e dell’uomo.
Il problema della vita rende ancora attuali dei principi e degli enigmi insiti
nella filosofia aristotelica, attraverso la teoria dell’organismo vivente o l’ipotesi
delle tre anime: vegetativa, sensitiva e intellettiva che operano nei tre stadi:
vegetale, animale e umano della vita nel suo complesso, cui andrebbe
aggiunta, sempre nel quadro aristotelico, l’ipotesi fantasiosa della genesi
spontanea della vita negli esseri viventi più semplici. Ciò infatti rappresentava
il tentativo di spiegare, mantenendo nel mistero, la questione di fronte alla
quale sono ancora dubbiose le ricerche di laboratorio del passaggio dal
mondo fisico-chimico, attraverso le proteine, al mondo degli esseri viventi.
54
Dall’organismo vivente all’individualità spirituale
La situazione indicata nei paragrafi precedenti, vede oscillare l’attenzione
dello studioso tra l’ambito evolutivo del sistema delle specie viventi e il ruolo
dell’individuo che, nel proprio microcosmo, gioca la dinamica della sua
esistenza unica ed irripetibile. Ciò muove dal presupposto di mettere tra
SAGGI
L’esempio riferito è quello che, a livello divulgativo, viene espresso mediante
l’affascinante interrogativo di come possa essere possibile produrre la vita
dalla non-vita nel laboratorio.
In ogni caso, l’arcano della vita non risiede soltanto nel momento genetico
della vita medesima, ma accompagna tutta la dinamica del suo sviluppo; si
pensi a quanto nel paragrafo precedente abbiamo ricordato a proposito della
metamorfosi del principio di evoluzione nel criterio evoluzionistico di
strutturazione dell’immagine dell’universo. In particolare, le odierne indagini
scientifico-tecnologiche che si concentrano sul confronto delle affinità tra
l’infraumano e l’umano per produrre, attraverso il contributo delle cognizioni
fisico-elettroniche ed informatiche, il post umano, ridanno importanza al
tradizionale problema dell’eventuale salto esistente tra l’animale e l’uomo.
Questo salto infatti dovrebbe scomparire attraverso una stretta applicazione
del principio di evoluzione; il che, del resto, è stato il presupposto della teoria
di Darwin, allorché, nel determinare l’origine della specie umana, ha
presupposto la derivazione dell’uomo dalla scimmia. Tale questione, risolta
dalla teoria dell’evoluzione in un modo che, nella cultura dell’epoca, appariva
paradossale ed assurda, trova la sua effettiva sostanza semantica più
profonda nell’argomento dell’origine della coscienza, poiché il nucleo di
incontro, delle scienze naturali con le scienze umane nel fenomeno umano,
viene evidenziato proprio nel confine che determinerebbe il passaggio in una
nuova forma di vita e che verrebbe appunto ad essere localizzabile nella
coscienza stessa. I nuovi fautori dell’evoluzione, su questo piano, elaborano
il cosiddetto principio di complessità-coscienza, presupponendo appunto
l’idea che la coscienza, in luogo di essere una sostanza spirituale di natura
ontologica, costituirebbe la funzione specifica di una psiche che si sarebbe
prodotta attraverso la complessità organizzativa di un numero molto elevato
di neuroni, capaci di entrare fra loro in una numerosa, elevata quantità di
relazioni sinapsiche. Perciò, ancora una volta, la coscienza apparterrebbe a
quei fenomeni nei quali l’elevarsi della quantità al di sopra di una certa
misura, sarebbe capace di determinare un salto qualitativo nel reale, facendo
apparire una forma nuova di reazione agli stimoli che, a sua volta,
produrrebbe lo sviluppo di attività psichiche anteriormente impossibili. Perciò,
la coscienza apparirebbe soltanto ad un certo livello dello sviluppo evolutivo
nella forma delle relazioni intercellulari.
55
parentesi l’ipotesi materialistica e meccanicistica che, nella filosofia
cartesiana, dava luogo all’ipotesi dell’animale-macchina il quale, in una certa
misura, attraverso la distinzione e relazione della res extensa e res cogitans
nell’uomo, rafforzava il principio tradizionale del corpo-macchina, strumento
dell’anima nell’essere umano. Questo superamento rafforza l’immagine
aristotelica dell’organismo vivente che, in sede evolutiva, trova la sua
complessificazione nel passaggio dall’animale all’uomo con l’emergenza
della coscienza, anche se oggi siamo convinti che delle forme semplificate
della coscienza stessa appaiono già nell’ambito animale dell’infraumano. Il
problema che rimane aperto, tutto di natura filosofica e non scientifica, è
quello della natura e della genesi della sostanza individuale di natura
spirituale. A tal riguardo, nel superamento della metafisica tradizionale, dopo
i primi kantiani evidenziati nella psicologia razionale, si fa strada, in una
nuova relazione tra ragione e fede, la convinzione che i problemi dello spirito
appartengono ad una filosofia strettamente legata alla teologia, capace di
valorizzare il mistero della salvezza. Ciò è vero anche se, come abbiamo
visto, vengono formulate delle ipotesi filosofico-teologiche fondate su base
biologica come quella di Teilhard de Chardin, nelle quali il mondo spirituale si
tradurrebbe in uno stadio iper-evoluto del mondo naturale, fino a giungere
persino al punto omega dell’evento cristico, ma qui, ovviamente, ci troviamo
nell’ orizzonte meta-scientifico del mistero religioso. Il nostro problema
comunque è quello di rimanere nell’ambito di un dialogo tra scienza, filosofia
e religioni, in cui possa essere possibile l’individuazione di un terreno
comune di natura transdisciplinare che, da un punto di vista epistemologico,
possa dare la possibilità di lavorare insieme, evitando e, nel contempo,
rispettando, le differenze specifiche delle prospettive particolari di ciascuna
disciplina o di ciascun pensatore. Su questo piano, ci troviamo in una
situazione che, per dirla con Marcel, tende a privilegiare il problema rispetto
al mistero. Nel nostro caso, la questione si riduce alla comprensione dell’area
semantica di ciò che si riferisce all’organismo vivente, nella continuità e nel
passaggio dalla pianta, all’animale, all’uomo. A tal riguardo, il confine e il
ponte fra il vivente e lo spirituale è rappresentato appunto dalla coscienza nei
suoi vari aspetti e nei suoi vari significati; si tratta perciò di capire la genesi e
lo sviluppo della coscienza, ma anche il suo ruolo e il suo funzionamento; ciò
è possibile in uno stretto legame tra la specie, nonché l’individuo. La
coscienza, infatti, appartiene al patrimonio evolutivo della totalità dei viventi
nel raggiungimento di un determinato livello di sviluppo, ma costituisce la
specificità irrinunciabile della consapevolezza esistenziale dell’individuo nella
propria personale autobiografia.
56
La fenomenologia della coscienza personale
Nel paragrafo precedente, abbiamo sintetizzato i caratteri della coscienza
e gli aspetti dinamici della medesima. Si tratta ora di determinarne la
dinamica fenomenologica interna che ne caratterizza il funzionamento e il
SAGGI
La coscienza individuale nella sua dimensione interiore
Per comprendere la dimensione interiore di quella coscienza individuale
che, nell’uomo, qualifichiamo come coscienza personale, occorre fare
riferimento alle caratteristiche della coscienza nel suo specifico
funzionamento. Innanzitutto, va tenuto presente il fatto che la coscienza
istituisce un legame fondamentale tra tutte le funzioni psichiche dell’individuo
e presiede, in particolare, alla rappresentazione del sé individuale, nonché a
quella del mondo. In questo senso, indica il raccordo tra la memoria e l’attesa
e struttura le immagini in una sequenza dinamica di fotogrammi in cui, di
volta in volta, ciascuna immagine occupa la coscienza medesima nella sua
interezza. Si tratta quindi di una specie di finestra capace di dirigersi
all’interno o all’esterno, di memorizzare il passato e di illustrare le proiezioni
dei bisogni e dei desideri verso il futuro.
Dal punto di vista della dinamica psichica, possiamo distinguere due
polarità della dimensione coscienziale: l’una rivolta a noi stessi, che
possiamo indicare attraverso il termine di autocoscienza; l’altra polarizzata
sugli oggetti che, a loro volta, possono essere interiori o esteriori, indicando
stati d’animo o situazioni oggettuali del mondo, che può essere indicata
attraverso il termine di coscienza di qualcosa. In quest’ultima direzione, la
coscienza si struttura come coscienza relazionale o, fenomenologicamente,
come coscienza intenzionale, vale a dire, rivolta ad altro. È così evidente che
la coscienza unifica e rappresenta la totalità del microcosmo vissuto dal
soggetto individuale, in una potenza psichica che viene dai filosofi indicata
come potenza spirituale; si pensi, ad esempio, alla visione di Leibnitz, in cui
la monade dotata di coscienza, pur essendo senza porte e senza finestre, è
costituita dalla duplice forma della vis appetitiva dei bisogni e dei desideri e
dalla vis percettiva dei vissuti rappresentativi. È evidente che la coscienza,
considerata su questo piano, solo in parte coincide con la funzione kantiana
di natura tascendentale dell’ io penso che, come noto, nel criticismo
filosofico, indica la categoria delle categorie, capace di unificare l’intera vita
soggettiva. La coscienza invece, dal nostro punto di vista, non ha solo una
natura cognitiva, ma presuppone tutta la vita esistenziale dell’uomo, inteso
come soggetto personale, per cui le rappresentazioni del soggetto sono dei
veri e propri vissuti rappresentativi che superano l’orizzonte del conoscere
secondo il significato fenomenologico.
57
ruolo che, filosoficamente, potremmo definire ‘spirituale’. Come sappiamo,
nella prospettiva fenomenologica, la coscienza completa il suo carattere
trascendentale attraverso il momento della sua intenzionalità. Quest’ultima
caratteristica indica, nel contempo, la costante del suo funzionamento; infatti,
l’intenzionalità presuppone, per dirla con Husserl, una estraneità interiore, o
meglio, una presenza dell’altro insita aprioristicamente in noi, il che si
manifesta attraverso ogni vissuto, conoscitivo e non, proprio e relazionale,
che struttura le rappresentazioni attraverso la relazione dinamica soggettooggetto. Quindi, ogni rappresentazione è destinata ad essere una
rappresentazione di qualcosa o di qualcuno, tanto che si riferisca al sé,
quanto al mondo, vale a dire che il soggetto consapevole, nel produrre le
proprie rappresentazioni, è costretto a tradurle in oggetto, fittizio o reale,
altrimenti viene meno la stessa possibilità rappresentativa. Quindi,
interpretando Heidegger, possiamo dire che la coscienza personale è
ineludibilmente legata con il nostro essere al mondo. La coscienza, anche sul
piano fenomenologico, rivela non solo il confine tra la naturalità e la
spiritualità, ma anche l’istanza di integrazione del soggetto personale con la
realtà nella quale esso abita e vive. Si tratta di un’integrazione tra l’uomo e il
mondo che supera la forma più ristretta dell’integrazione sociale che l’uomo
instaura con le proprie relazioni interpersonali. In questa direzione, la
coscienza esistenziale, configurata secondo la prospettiva del mondo privato
del soggetto, è destinata al superamento della privatezza rappresentativa, a
favore di una integrazione ulteriore, che presuppone sia l’apertura al mondo
delle cose, sia la relazione intersoggettiva che è la base della comunicazione
sociale tra gli uomini. Il problema dunque è quello di valorizzare
fenomenologicamente il mondo della finitezza del soggetto, integrando il
carattere trascendentale delle funzioni psichiche del soggetto stesso con gli
aspetti esistenziali di queste funzioni. In questo senso, la coscienza non va
considerata soltanto come una funzione trascendentale della soggettività
intesa in senso universale, bensì va compresa anche nella storia biografica
del soggetto in cui emerge la dinamica psicoanalitica della personalità, dove
la coscienza medesima raggiunge un livello gerarchicamente più elevato
nella comprensione di noi stessi e del mondo, rispetto ai livelli più arcaici e
nascosti dell’inconscio e del preconscio. Dal medesimo punto di vista, la
coscienza stessa assume una funzione di guida e di vigilanza rispetto alle
conflittualità topiche che si determinano, sempre nell’orizzonte psicoanalitico,
tra l’es, l’ego e il super ego. Su questo piano, non va dimenticato che, nella
cultura contemporanea, il dialogo tra scienza e filosofia coinvolge non solo le
scienze umane ma anche le diverse tendenze interpretative che, nelle
medesime, prendono forma e configurano differenti modalità di
comprensione del mondo poliedrico della soggettività umana.
58
SAGGI
L’emergenza della socialità nella coscienza
L’analisi fenomenologica della coscienza pone in rilievo la presenza di
presupposti che ne giustificano la socialità. Abbiamo visto infatti che la
coscienza, nella sua intenzionalità, si struttura già potenzialmente come una
coscienza relazionale; ciò, a sua volta, come tutti i fenomeni e le
caratteristiche del mondo e dell’uomo, è destinato ad essere la base per uno
sviluppo governato, come sempre, dal principio di evoluzione. Quindi, la
coscienza intenzionale e relazionale, attraverso la comunicazione, fonda e
caratterizza la socialità, nei suoi aspetti genetici e dinamici.
Il discorso non si ferma qui, in quanto la solitudine dell’uomo non è mai
esistenzialmente e cognitivamente solipsistica; ciò era già apparso ad
Aristotele e a Tommaso d’Aquino, nella tradizione del pensiero occidentale,
allorché l’uomo veniva definito come animale politico e sociale. Questa
intuizione generica, specificata poi nelle diverse filosofie politiche e nel
mondo delle scienze umane dalla storia, dal diritto e dalla sociologia, si
configura
in
sede
fenomenologica,
nonché
nell’epistemologia
contemporanea, come la base di una socialità diffusa, il cui ulteriore
presupposto è costituito dal passaggio dell’umanità dalla natura alla cultura.
Così, ad esempio, nell’odierna filosofia fallibilista, troviamo che Popper
determina il mondo tre della cultura attraverso le codificazioni scritte della
conoscenza umana come il patrimonio oggettivato di una società, destinata a
trasmettere la civiltà da una generazione all’altra dell’umanità, nel corso della
storia.
Quindi, la coscienza, nelle sue radici individuali e sociali, si incontra con
quella legge collettiva dello sviluppo della vita, determinata sul piano
esteriore dello sviluppo evolutivo, con l’espressione della legge di
complessità-coscienza. E’ facile dunque vedere che il parallelismo tra lo
sviluppo evolutivo che approda alla complessità-coscienza e la coscienza
individuale che fa da presupposto alla coscienza sociale, nella sua dinamica
e nella sua struttura, indicano una intersezione di fenomeni che
caratterizzano una connessione ed un’integrazione dove il parallelismo si
fonde nella duplice prospetticità di un fenomeno unico nella sua genesi e nel
suo sviluppo.
È chiaro perciò che è possibile trovare una connessione tra
l’incommensurabilità dei fenomeni paralleli insiti nella coscienza, vale a dire,
tra il mondo pubblico della socialità esteriore e il mondo privato della
individualità interiore. Quanto detto, ci obbliga a spostare la nostra attenzione
sulla struttura finita dell’essere umano che, nella direzionalità della propria
consapevolezza cognitiva, soggetta all’imitazione, è caratterizzata dalla
59
prospetticità alla luce della quale appare se stesso, il mondo e gli altri
soggetti personali. Quindi, il parallelismo tra fenomeni incommensurabili, cui
dà luogo anche il fenomeno della coscienza, non presuppone il dualismo e la
frammentazione della coscienza stessa, indicando semplicemente il
pluralismo delle prospettive, alla luce delle quali appare, da un lato, la
coscienza collettiva dei viventi come un prodotto della legge di complessitàcoscienza e, dall’altro, l’unicità esistenziale ed interiore della coscienza
spirituale strutturata e rappresentata secondo i criteri della filosofia
fenomenologica.
Corollari conclusivi
Il problema della coscienza comprende un’area semantica che, come
abbiamo visto, coinvolge una serie di significati di natura diversa, capaci di
indicare, da un lato, un livello evolutivo molto elevato dello sviluppo degli
esseri viventi e, dall’altro, una funzione trascendentale della soggettività, sia
da un punto di vista cognitivo, sia da un punto di vista morale. A ciò, va
aggiunta l’interpretazione della coscienza come elemento specifico di natura
etico-esistenziale dell’individualità personale di ciascun uomo. Quanto detto è
particolarmente evidente nelle prospettive contemporanee della filosofia e
delle scienze cognitive, mentre la tradizione fa coincidere la coscienza stessa
con l’individualità sostanziale e spirituale del soggetto umano.
La persistenza di questa concezione, in certo senso primaria ed
ontologica, della coscienza conduce la riflessione odierna ad individuare
nella coscienza medesima degli aspetti paralleli ed incommensurabili che
creano difficoltà per la comprensione del fenomeno evolutivo concernente la
condizione umana.
In effetti, la questione così enigmatica della coscienza che impedisce alle
ricerche sull’ intelligenza artificiale di compiere il passaggio dalla simulazione
alla riproduzione dei comportamenti intelligenti dell’essere umano, è
superabile precisando le componenti che intervengono nella struttura
dinamica della fenomenologia interna a tutti quegli accadimenti che noi
interpretiamo con la denominazione complessiva di ‘coscienza’. Infatti, se
teniamo presenti le implicazioni antropologiche della finitezza che
caratterizza l’essenza della soggettività umana, ci rendiamo conto che ogni
tentativo di determinare, da un punto di vista cognitivo, le caratteristiche
individuali e sociali della soggettività stessa è insufficiente. Infatti, in tal caso,
dobbiamo riferirci, in particolare, al carattere prospettico di ogni forma di
conoscenza, per cui il quadro cognitivo della realtà complessa, cui appartiene
anche la coscienza, non è dato dal prodotto di un contenuto elaborato
intenzionalmente da una prospettiva particolare, bensì dal coordinamento di
una pluralità di elementi prospettici che rendono complementari i diversi punti
60
SAGGI
di vista aperti sul fenomeno studiato. Perciò, allorché ci riferiamo alla legge
evolutiva della complessità-coscienza, siamo di fronte all’emergenza di una
realtà complessiva propria del fenomeno evolutivo della vita considerato nel
suo insieme, mentre, quando ci riferiamo alla fenomenologia della coscienza
intenzionale, sia nelle sue caratteristiche funzionali di natura trascendentale,
sia nei suoi aspetti esistenziali di natura individuale, ci collochiamo all’interno
del punto di vista spirituale e privato della coscienza interiore che caratterizza
l’introspezione soggettiva che ciascuno di noi assume di fronte al fenomeno
umano. Questi due orizzonti ora ricordati non si contrappongono
escludendosi e non pretendono, ciascuno per proprio conto, di giustificare
l’intero ambito bio-psichico e fenomenologico della coscienza di cui l’umanità,
in generale, e ciascun uomo, in particolare, sono portatori. Pertanto, se
vogliamo comprendere il fenomeno umano con le caratteristiche biologiche e
spirituali di cui è dotato, la conclusione non può essere che quella di
integrare i punti di vista delle visioni prospettiche differenziate, alla luce delle
quali il fenomeno stesso dell’umanità appare a colui che, a partire dalle
diverse competenze scientifiche, lo sottopone ad analisi.
Questa conclusione ci impone di sottolineare che spesso, in filosofia, gli
enigmi dipendono da una mancata chiarificazione semantica ed
epistemologica delle conoscenze che li concernono. In questo caso,
l’esigenza di una corretta analisi linguistica è fondamentale, anche al di là
delle conclusioni filosofiche di natura anti-metafisica con le quali il
neopositivismo accompagna queste esigenze irrinunciabili. Di fatto, non
dobbiamo dimenticare che ogni forma di conoscenza deve integrare, nei suoi
procedimenti, le istanze analitiche di natura riduzionistica con quelle olistiche
e sistemiche della complessità di ciascun fenomeno studiato.
La conclusione dell’intero discorso riguardante la coscienza in tutte le sue
caratteristiche, è quella per cui, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad
un problema il cui studio esige la chiara consapevolezza che si tratta di un
problema le cui soluzioni sono perseguibili soltanto attraverso delle indagini
epistemologiche, di natura ineludibilmente transdisciplinare, in cui la filosofia
è costretta a tener conto di tutti gli apporti dell’indagine scientifica
proveniente tanto dall’ambito delle scienze della natura, quanto da quello
delle scienze dell’uomo. Non si tratta quindi di una semplice esigenza etica di
dialogo all’interno delle prospettive cognitive, bensì di una vera e propria
esigenza di attuare una strategia di integrazione tra le varie prospettive di
conoscenza. Ciò in quanto l’uomo, alla luce della cultura odierna, si rivela
sempre più chiaramente suscettibile di possedere le caratteristiche di una
realtà complessa che, del resto, già era anticipata dai filosofi dell’Umanesimo
e del Rinascimento, attraverso il concetto di microcosmo; concezione troppo
spesso dimenticata nel corso della modernità allorché le analisi
61
riduzionistiche si sono accompagnate con la rivoluzione scientifica del
pensiero occidentale.
Se ci riferiamo, infine, alla relazione che queste forme di conoscenza,
scientifiche e filosofiche, vengono ad avere con le interpretazioni che le
religioni danno del fenomeno umano, allora ci troviamo in una situazione
autenticamente dialogica, in quanto le forme di relazione interreligiosa dei
discorsi cognitivi sono, al di là di ogni dogmatismo fondamentalista,
autenticamente dialogiche, nel senso che, tanto l’indagine scientifica, quanto
quella filosofica, nell’attuale epistemologia e nell’odierna concezione post
metafisica, assumono uno spazio privilegiato da dedicare alla provvisorietà
delle visioni fallibiliste. Ciò, ovviamente, costituisce il presupposto per
un’apertura al mistero che appartiene alla competenza dei discorsi religiosi; il
che si traduce in una nuova istanza consistente nel trasformare il confronto e
la relazione tra ragione e fede, rispetto alle forme consolidate nella tradizione
del pensiero occidentale.
62
Nella caoticità dell’universo dei mezzi di comunicazione di massa,
caratterizzato da un acceso contrasto tra istanze e interessi confliggenti, da
un’esasperata tendenza alla creazione di falsi modelli, da un costante ricorso
al sensazionalismo (facendo appello ad una reale o presunta perdita di
libertà), si è resa più urgente, negli ultimi tempi, la necessità di definire,
chiarire e rendere esplicite le regole alle quali dovrebbe essere improntata
l’azione dei media. Le innumerevoli “questioni morali”, di volta in volta
evocate e rievocate in assenza di un atteggiamento politico, civile e culturale
sanzionatorio nei confronti di comportamenti inaccettabili in una società
moderna e democratica, non appartengono al solo territorio della politica. E’
emerso con sempre maggiore forza il bisogno di recuperare una bussola che
possa orientare le scelte di chi detiene il primo, il secondo, il terzo o il quarto
potere. Questa bussola non può che essere l’etica. Da premesse di questa
natura riparte Paolo Pellegrino, nel suo ultimo volume, intitolato Etica &
Media. Le regole dell’etica nella comunicazione (Congedo Editore, Galatina
2009, pp. 296). Il lavoro, inizialmente pensato come una approfondita ricerca
sull’etica della comunicazione, è finito col divenire una sistematica
trattazione, per un verso, dei temi propri dell’etica tout court, dalle sue origini
ai giorni nostri, per altro verso, delle dinamiche teoriche interne ai complessi
ambiti dell’informazione, della comunicazione, dei media e del loro rapporto
con la sfera etica.
I problemi che contrassegnano la contemporaneità, sostiene l’autore,
pongono formidabili sfide all’etica: «Si tratta soprattutto degli inquietanti
dilemmi che la tecnologia genetica pone alla nostra coscienza, ma non solo.
L’inseminazione artificiale, l’eutanasia, la sperimentazione sugli animali,
l’inquinamento ambientale, la privacy, la schedatura e il controllo degli
individui, la netiquette (il galateo del cyber-spazio) sono altrettante fonti di
dubbio e incertezze che richiedono scelte di carattere etico, oltre che
1
tecnico» . Queste sfide, però, si innestano in un terreno contraddittorio e
problematico, nel quale l’etica si riscopre, al contempo, impossibile e
necessaria. Essa, in effetti, rivela la propria impossibilità nel momento in cui
prende coscienza del venir meno dei propri fondamenti, della solida base su
cui impiantare le proprie norme e i propri valori. Sfiancata dagli attacchi
sferrati dal nichilismo, per un verso, dall’imporsi di una visione avalutativa
della scienza, per altro verso, dal pluralismo (che si fa relativismo) dei valori,
per altro verso ancora, l’etica non cessa, però, di manifestare la propria
SAGGI
VALGONO ANCORA LE REGOLE ETICHE NELLA
COMUNICAZIONE?
di Giacomo Fronzi
63
necessarietà. «È il senso comune ad esigerlo: è una sfera di discorso, di
motivazione e di condotta, che come altre accompagna la nostra esistenza
2
quotidiana» .
Rispetto a questo quadro generale, l’autore ripercorre la storia delle teorie
etiche dall’antichità classica alla contemporaneità, tessendo una trama critica
che tiene insieme temi, questioni, concetti e ipotesi di lavoro, offrendo una
chiara e acuta analisi dei problemi che assillano la condizione umana nella
postmodernità e dei risvolti etici che li caratterizzano, non delineando
improbabili ricette, ma tentativi di chiarificazione e spunti di riflessione.
Non è facile ricostruire il percorso tracciato da Pellegrino, per via della
sua peculiare articolazione interna che, nella chiara scansione delle aree
tematiche trattate, rivela la particolare difficoltà di dar conto e di presentare la
materia contenuta nel volume. Esso consta di cinque poderosi capitoli
(arricchiti da specifiche schede di approfondimento), ognuno dei quali si
incarica di scandagliare e far emergere le questioni più rilevanti, proprie di
quel preciso ambito. La parabola segnata dall’autore inizia con un Breve
3
profilo dell’etica , nel quale sono affrontati, con la perizia di chi ci si è
lungamente confrontato, i principali filosofi occidentali, da Aristotele a Kant,
da Platone ad Hegel, da Epicuro a Peirce, dalla filosofia cristiana medievale
e quella moderna, fino a soffermarsi sulle tappe che hanno scandito la
riflessione etica contemporanea (Nietzsche, Weber, Adorno, Rawls, Dworkin,
Harsanyi, MacIntyre, Jonas). Una ricostruzione storica di questo tipo, per
quanto appaia intuitivamente necessaria e preliminare in un lavoro che si
inserisce nell’ambito della ricerca etica, non sempre ha avuto il giusto spazio
in analoghe trattazioni. Se vogliamo, i quattro capitoli che precedono l’ultimo,
intitolato specificatamente Etica della comunicazione, vanno considerati
propedeutici e preliminari alla focalizzazione puntuale dei temi tipici dell’etica
della comunicazione, e in assenza dei quali non è possibile raggiungere una
chiara e quanto più ampia possibile comprensione della stessa.
A questo scopo, Pellegrino fa seguire coerentemente, al ripercorrimento
4
delle principali teorie etiche, un capitolo dedicato alle Etiche applicate , le
quali concernono «lo studio delle conseguenze delle teorie etiche in
5
circostanze specifiche» . La scelta di trattare le principali etiche applicate
(bioetica, etica delle relazioni di genere, etica degli animali, etica della natura,
etica degli affari ed etica delle professioni) risponde all’esigenza di dimostrare
come il dibattito etico possa fornire ipotesi pratiche a singoli e specifici campi,
ma anche alla necessità di rendere esplicita la peculiarità dell’etica della
comunicazione che, in ogni caso, non può che essere considerata una delle
possibile etiche speciali.
Tra gli ambiti di applicazione delle teorie etiche vi è sicuramente il
complesso e variegato campo dell’informazione e della comunicazione, al
64
SAGGI
6
quale è dedicato il terzo capitolo . Ma prima di addentrarsi nell’analisi del
profilo specifico che assumono sia l’etica dell’informazione sia l’etica della
comunicazione, l’autore si incarica di «esaminare anzitutto e preliminarmente
qual è l’intelaiatura strutturale (tecnica per il primo dei due ambiti e semioticosociologica per l’altro) che sorregge ambedue le sfere d’indagine, facendo
così emergere dall’articolazione concreta del loro modo di funzionamento i
7
problemi che assumono specifica rilevanza etica» . Ripercorrendo
rapidamente la storia dell’informatica (i cui fondamenti si trovano nel pensiero
di Leibniz, Hobbes, Boole e Frege), nel volume si dà conto della prima analisi
filosofica di alcune questioni chiave dell’etica informatica, elaborata da
8
Norbert Wiener nel 1950 . Successivamente, come ci spiega l’autore, non si
hanno che sporadici tentativi di autoregolamentazione deontologica interni al
territorio dell’informatica, fino a che, all’inizio degli anni Ottanta, «si fa strada
l’idea che i problemi sollevati dalle ICT [Information and Communication
Technologies] debbano essere affrontati e risolti in termini di etica
9
applicata» . Si sviluppano così nuovi approcci e nuove teorie, tra cui quella
detta information ethics, i cui elementi essenziali sono l’approccio
ambientalista e l’infosfera, il metodo di astrazione, l’impostazione
costruzionista e minimalista.
Dal campo dell’informatica, particolarmente rilevante nello sviluppo della
società contemporanea, se è vero che il digital divide costituisce una sorta di
«moderno spartiacque che crea discriminazione e differenziazione tra i
10
cittadini» , l’autore passa poi all’analisi della comunicazione,
scandagliandone le teorie più importanti. C’è preliminarmente da rilevare che,
«nonostante la capacità degli studiosi dei media di utilizzare strumenti propri
di discipline diverse, resta innegabile il fatto che tuttora non si dispone di un
paradigma forte e che, talvolta, non vi è integrazione fra teoria, modelli e
11
ricerca empirica» . All’interno di questa ricerca del paradigma perduto, anzi,
mai strutturato, si sviluppa una serie di teorie, in concomitanza, per un verso,
con i primi sviluppi dell’informatica e, per altro verso, con l’espansione dei
mezzi di comunicazione di massa. Tra queste, emerge la cosiddetta teoria
matematica della comunicazione, elaborata dai matematici e ingegneri
12
statunitensi C.E. Shannon e W. Weaver , dalla quale nacque «un’idea di
comunicazione come trasferimento di informazione che ha influenzato
13
profondamente molti studi successivi» , anche nell’ambito della ricerca
umanistica, come nel caso di Roman Jakobson, al quale sono dedicate
14
alcune pagine del volume .
Ma l’ambito che più ha lavorato sull’idea che la comunicazione sia un
insieme articolato e complesso di azioni è la filosofia del linguaggio ordinario,
sviluppatasi in Inghilterra nel secondo dopoguerra e profondamente
influenzata dal pensiero del secondo Wittgenstein. A quest’ultimo vanno
65
pertanto ricondotte le analisi che poi elaboreranno J.L. Austin e John Roger
Searle, le quali, a loro volta, influenzeranno la teoria dell’agire comunicativo
15
di Jürgen Habermas . Questo terzo capitolo si chiude poi con la
chiarificazione delle differenze tra la comunicazione intenzionale, la
comunicazione non intenzionale e la comunicazione come cooperazione.
L’articolata analisi dei concetti, dei temi e dei problemi legati alla
comunicazione, ma che coinvolgono e impegnano la teoria, porta l’autore ad
inserire, tra il capitolo dedicato all’etica dell’informazione e della
comunicazione e l’ultimo, dedicato specificatamente all’etica della
16
comunicazione, un capitolo sulle Teorie delle comunicazioni di massa .
Anche in questo caso, la scelta di Pellegrino si spiega con l’intenzione di
offrire un quadro ampio e soprattutto coerente dell’etica della comunicazione,
alla quale non si può pervenire senza aver preventivamente affrontato i temi
dell’etica in generale, quelli delle etiche applicate, gli sviluppi delle teorie
sull’informazione e sulla comunicazione e, da ultime, le teorie delle
comunicazioni di massa. Si tratta di un ambito relativamente recente, che si è
andato strutturando negli ultimi cinquant’anni. La teoria delle comunicazioni
di massa «tende ad articolare entro una cornice sociologica contributi
provenienti dalle diverse scienze umane, dalla semiotica alla psicologia
cognitiva, dalla pedagogia alla teoria dell’informazione, cioè sulla base della
progressiva convergenza dei differenti filoni di ricerca della media research
sul tema dei rapporti tra comunicazioni di massa e società, con una
17
particolare focalizzazione sui problemi dell’informazione» . Riprendendo la
ricostruzione per cicli effettuata da Elisabeth Noelle-Neumann alla fine degli
18
anni Settanta , l’autore pone l’attenzione su quello che tradizionalmente è
stato considerato il tema centrale delle teorie delle comunicazioni di massa,
vale a dire lo studio dei loro effetti sull’audience. Relativamente a questo
oggetto d’indagine, si sono andate sviluppando diverse teorie, all’interno di
una scansione secondo la quale «a una prima periodizzazione di effetti “forti”
e immediati dei media seguì il cosiddetto “paradigma degli effetti limitati”, il
quale fu a sua volta seguito da una fase, tuttora perdurante, di rinnovato
allarme per gli effetti delle comunicazioni di massa, questa volta nelle loro
19
conseguenze a lungo termine» . Alla ricostruzione delle principali ricerche in
questo settore, tra le quali spiccano per rilevanza e influenza la teoria
20
ipotermica, il modello di H.D. Lasswell , il modello di E. Katz e P.F.
21
Lazarsfeld , la teoria struttural-funzionalista fino allo sviluppo dei cultural
studies, segue un ampio riferimento al problematico rapporto tra
comunicazioni di massa e industria culturale, con particolare attenzione alle
tesi elaborate nell’ambito della Scuola di Francoforte, tesi che generalmente
sono state considerate in opposizione alla cosiddetta «ricerca
amministrativa». Rispetto a questa contrapposizione, riconducibile al
66
SAGGI
rapporto tra Theodor W. Adorno e Paul Lazarsfeld, l’autore prende posizione
22
e, citando Horkheimer e Adorno , rileva come i concetti di critical research e
quello di administrative social research non stanno uno di fronte all’altro
senza mediazione e conclude, che, «al di là […] di una certa vulgata sulla
insuperabilità del dissidio tra teoria critica e ricerca amministrativa, vi è la
consapevolezza, da parte degli studiosi collocati in ognuno dei due
schieramenti, della utilità e complementarietà di ambedue gli approcci e i
23
punti di vista» . Da ultimo, viene affrontato, ancora in rapporto con la teoria
critica, quel filone sviluppatosi soprattutto in ambito francese che passa sotto
il nome di «teoria culturologica». Anche in questo caso, al di là delle
differenze di approccio e di contributi offerti, quel che all’autore preme
rilevare è il fatto che esse, come le teorie a cui prima abbiamo fatto
riferimento, si caratterizzano per aver messo al centro dell’attenzione degli
studiosi dei media la necessità di fornire solidi impianti teorici ai quali
ricondurre dati di ricerca e riflessione.
24
Giungiamo così all’ultimo capitolo, intitolato L’etica della comunicazione .
Dopo aver delineato l’esaustivo, istruttivo e articolato quadro che abbiamo
ripercorso, nel volume viene tracciato il panorama delle etiche della e nella
comunicazione, secondo una distinzione proposta da Adriano Fabris e fatta
propria dall’autore. Dei principali modelli epistemologici ai quali fa riferimento,
anche attraverso la discussione critica dei quattro grandi punti di vista
25
sull’etica della comunicazione individuati da Fabris , Pellegrino, in
particolare nel paragrafo intitolato «Aporie dell’etica della comunicazione», ne
fa emergere i pregi e i difetti, le giuste intuizioni e le insanabili contraddizioni.
Centrali, in quest’ultimo capitolo, sono le due principali teorie che
programmaticamente si pronunciano a favore di un’etica fondata sulla
26
comunicazione, vale a dire l’etica della comunicazione di Karl-Otto Apel e
27
l’etica del discorso di Jürgen Habermas , analizzate dettagliatamente e
analiticamente tanto nella genesi quanto negli sviluppi quanto, ancora, nei
punti di forza e nei limiti epistemologici. Questo percorso, in particolare
quando giunge a trattare la «macroetica planetaria della comunicazione» di
Apel, porta l’autore ad affrontare il dibattito sul rapporto tra media,
globalizzazione e identità locale, dibattito all’interno del quale si inserisce la
prospettiva etica sostenuta dai «neoaristotelici» o «neocomunitari», il cui
28
principale esponente è Alasdair MacIntyre. Nel suo Dopo la virtù , MacIntyre
sostiene che oggi viviamo una situazione paragonabile a quella che
condusse l’impero romano verso la rovina, caratterizzata da una profonda
crisi di valori, oltre che politica. Questa condizione rappresenta l’esito
estremo del progetto della modernità che, da David Hume a Immanuel Kant,
ha inteso liberare l’uomo da ogni autorità religiosa e politica e fondare la
morale nella coscienza individuale. Rispetto a questa impostazione, Friedrich
67
Nietzsche costituisce un importante oppositore, essendosi posto il problema
di costruire una nuova morale, in alternativa e in opposizione a quella degli
illuministi e dei loro successori. Ma, rileva MacIntyre, Nietzsche è stato un
grande demolitore, ma non è stato altrettanto grande nel proporre soluzioni
efficaci. Ecco allora che viene recuperato Aristotele, «“punto focale
fondamentale” di un’intera tradizione dell’agire, del pensiero e del discorso:
una tradizione che viene definita classica e che presenta la “visione classica
29
dell’uomo”» . MacIntyre ipotizza un ritorno alla virtù o, meglio, ad un’etica
fondata sulle virtù, su valori condivisi, in base alla quale i membri di una
comunità sanno cosa è giusto fare e che, quindi, si esprimono attraverso
regole di condotta che assegnano agli uomini il loro posto nella società e con
esso a ciascuno la propria identità. «In definitiva, l’antichità ci insegna che è
impossibile una morale slegata da una comunità e che è falsa la libertà di chi
30
non è sorretto da una trama di valori e di credenze condivise socialmente» .
Dal punto di vista dell’etica della comunicazione, la posizione di MacIntyre
è condivisa dai neocom, impegnati a difendere e rilanciare i valori della
tradizione e dell’identità locale, ma è anche sostenuta «con notevole ipocrisia
da chi per motivi strumentali e strategici opera nel contesto della stampa e
delle emittenti locali, in radicale controtendenza con la logica che ispira
31
Internet e la rete» . Tutto ciò ricolloca al centro il rapporto tra media e
utente, questa volta visto non tanto in relazione agli effetti che su di esso
produce quanto sul modo in cui i media riproducono la realtà nella sua
dimensione effettuale. Difatti, «per aumentare l’audience, i media tendono
normalmente a deformare la realtà, indulgendo verso il sensazionalismo e la
spettacolarizzazione, anche imbastendo confronti e “dialoghi” sulla
interpretazione dei fatti che in realtà contribuiscono alla enfatizzazione di tesi
32
estreme ed artefatte» . Evidentemente, siamo nel cuore problematico
dell’odierno rapporto tra media e opinione pubblica, tra libertà di stampa e
diritto alla privacy. In particolare, la comunicazione massmediale, come
sottolinea l’autore, ha una grande responsabilità nello stravolgimento della
nozione di normalità, per la continua presentazione di opinione assurde e di
devianze come oggetto di dibattito e di discussione. Da ciò consegue la
necessità di affrontare teoricamente, con energia, i problemi che si affollano
attorno al tema dell’etica del giornalista. L’attuale situazione, diretta
conseguenza dell’affermarsi di una visione “neutralistica” dei valori, fa
emergere «l’esigenza di una mediazione generale, in quanto risultato di una
riflessione critica sulla situazione delle scienze umane, che individui la
possibilità di un superamento della tensione tra essere e dovere, tra fatti e
33
norme, e dell’idea corrispondente che oppone oggettività e soggettività» .
Dall’inquadramento di tale questione, discende un’interessante conseguenza
per l’etica dell’informazione e della comunicazione: parlare di obiettività,
68
SAGGI
intesa come «regola pratica» – sostiene l’autore – non significa letteralmente
che il giornalista debba scrivere mantenendosi neutrale rispetto a qualsiasi
asse di valori (come lascerebbe pensare una formulazione letterale di alcuni
codici deontologici, peraltro riportati nel volume). Il giornalista dovrebbe
pensarsi innanzitutto come mediatore, come colui che seleziona e mette in
primo piano le dimensioni rilevanti dei fatti, articolandole secondo un punto di
vista che possa offrirsi al lettore come utile strumento di comprensione della
realtà. In definitiva, «il fatto che ogni articolo di giornale (così come ogni
servizio di un telegiornale) sia intriso di giudizi valoriali non ci deve né
preoccupare né tanto meno scandalizzare: dovrebbe solo portare sia i
professionisti dell’informazione, sia il pubblico, a domandarsi sempre quali
34
siano i valori in gioco e se sia giusto promuoverli e difenderli oppure no» .
Un discorso etico centrato sui media che ambisca a non vedersi rifiutato
come mero discorrere in abstracto dovrebbe insistere, dunque, sul fatto che i
diversi e opposti utilizzi che si possono fare dei mezzi di comunicazione di
massa evocano con forza la responsabilità «di rinforzare i capisaldi
assiologici della cultura, senza giocare né con le stravaganze né con le
devianze, affrontando ogni questione nella sede adatta e non rinunciando a
35
mettere in gioco la propria capacità di valutazione etica» .
Ultimo passaggio di questo denso e molto articolato lavoro è il riferimento
ad un termine che, a parere dell’autore, sembra rimosso e dimenticato negli
studi sulla teoria della comunicazione: «interesse». Riprendendo la
36
distinzione compiuta da J. Habermas tra conoscenza e interesse ,
Pellegrino rileva come si percepisca la mancanza del proposito sistematico di
un’analisi di tale connessione, in relazione alla impresa comunicativa (sia
essa della carta stampata o della televisione). Il volume Etica & Media si
conclude con delle riflessioni affatto centrali tanto nell’economia del lavoro
quanto nel più ampio orizzonte delle ricerche etiche sulla comunicazione.
L’autore propone di risalire gradi abbandonati della riflessione, ripercorrendo
le modalità e il punto di saldatura tra conoscenza e interesse. Fare ciò, in
ambito comunicativo, significa fare luce sull’analisi di questo intreccio
inestricabile, che «deve poter reggere la tesi che il valore di verità della
comunicazione non è solo affare o compito della strategia epistemologica,
37
ma si scontra e interagisce con solidi interessi economici» .
38
Se il libro, come si legge nell’Introduzione , intendeva ripercorrere i problemi
dell’etica soprattutto lungo il corso del Novecento, esaminando alcuni dei
modi in cui si è cercato di chiarirne le ragioni e le conseguenze nel settore
dell’informazione e della comunicazione, fornendo un colpo d’occhio
preliminare sul pensiero del secolo, esso non si chiude semplicemente con
39
«qualche occasionale suggerimento per analisi più approfondite» . Quel che
emerge, a lettura ultimata, è l’intenzione di fornire uno strumento,
69
probabilmente unico, per ampiezza e articolazione interna, nella letteratura
sull’argomento, utile per comprendere la nascita e gli sviluppi della riflessione
etica, in generale, e di quella centrata sull’universo della comunicazione, in
un senso più specifico. Ma non solo. Esso richiama l’attenzione sulla
necessità di inserire le teorie e le pratiche della comunicazione all’interno di
un orizzonte che mantenga come propri riferimenti ineliminabili la
responsabilità del pensiero e dell’azione, per un verso, e il valore della verità,
per altro verso. «Un’aspirazione comune del pensiero del nostro tempo è
quella di cercare di fondare sulla ragione l’imperativo morale, di raggiungere
l’universalità e cioè la validità per tutti, promuovendo la libera discussione, il
discorso argomentato e razionale, il consenso. È dunque l’idea di un dibattito
senza ostacoli che fornisce alla teoria etica contemporanea uno dei suoi
40
elementi più ricchi e più fecondi» .
1
P. PELLEGRINO, Etica & Media. Le regole dell’etica nella comunicazione,
Congedo Editore, Galatina 2009, pp. 15-16.
2
Ivi, pp. 19-20.
3
Ivi, pp. 29-83.
4
Ivi, pp. 85-147.
5
Ivi, p. 87.
6
Ivi, pp. 149-183.
7
Ivi, p. 151.
8
Cfr. N. W IENER, The Human Use of Human Beings. Cybernetics and
Society, H. Mifflin, Boston 1950; trad. it. di D. Persiani, Introduzione alla
cibernetica, introd. di F. Ciafaloni, Boringhieri, Torino 1966.
9
Ivi, p. 153.
10
Ivi, p. 156.
11
Ivi, p. 164.
12
Cfr. C.E. SHANNON - W. W EAVER, The Mathematical Theory of
Communication, University of Illinois Press, Urbana 1949; trad. it. di P.
2
Cappelli, La teoria matematica delle comunicazioni, ETAS libri, Milano 1983 .
13
Ivi, pp. 165-66.
14
Cfr. R. JAKOBSON, Essais de linguistique générale, Éditions de Minuit,
Paris 1963; trad. it. dall’ed. inglese di L. Heilmann e L. Grassi, Saggi di
4
linguistica generale, a cura e introd. di L. Heilmann, Feltrinelli, Milano 1992 ,
pp. 185 sgg.
15
Cfr. J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt a.M. 1981; trad. it di P. Rinaudo, Teoria dell’agire
comunicativo, introd. di G.E. Rusconi, 2 voll., il Mulino, Bologna 1986.
16
Ivi, pp. 185-217.
70
17
Ivi, p. 187.
Cfr. E. NOELLE-NEUMANN, Return to the Concept of Powerful Mass
Media, in «Studies of Broadcasting», n. 9, 1973, pp. 67-112.
19
Ivi, p. 190.
20
Cfr. H.D. LASSWELL, The Structure and Function of Communication
Society, in L. BRYSON (a cura di), The Communication of Ideas, Harper, New
York 1948, pp. 84-99.
21
Cfr. Cfr. E. KATZ - P.F. LAZARSFELD, Personal Influence, The Free Press,
New York 1955; trad. it. di G. Statera, L’influenza personale nelle
comunicazioni di massa, pref. di F. Ferrarotti e saggio introduttivo di G.
Statera, ERI, Torino 1968.
22
Sul rapporto tra Th.W. Adorno e P. Lazarsfeld, cfr., TH.W. ADORNO,
Wissenschaftliche Erfahrungen in America, in ID., Stichtworte. Kritische
Modelle, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1969; trad. it. di M. Agrati,
Esperienze scientifiche in America, in ID., Parole chiave. Modelli critici,
saggio introduttivo di T. Perlini, SugarCo, Milano 1974, pp. 161-207.
23
Ivi, p. 213.
24
Ivi, pp. 219-286.
25
Di A. Fabris, cfr. A. FABRIS (a cura di), Guida alle etiche della
comunicazione. Ricerche, documenti, codici, Edizioni ETS, Pisa 2004 ed Etica
della comunicazione, Carocci, Roma 2006.
26
Di K.-O. APEL, cfr. Transformation der Philosophie, 2 voll., Suhrkamp
Verlag, Frankfurt a.M. 1973 (trad. it. parziale di G. Carchia, Comunità e
comunicazione, introd. di G. Vattimo, Rosenberg & Sellier, Torino 1977);
Diskurs und Verantwortung. Das Problem des Übergangs zur
postkonventionellen Moral, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1988; Etica
della comunicazione, trad. it. di V. Marzocchi, Jaca Book, Milano 1992;
Discorso, verità, responsabilità, trad. it. e cura di V. Marzocchi, Guerini e
Associati, Milano 1997 (con ampia bibliografia degli scritti di e su Apel). Sul
concetto di «comunità illimitata della comunicazione» e sui suoi risvolti
morali, cfr. K.-O. APEL, Transformation der Philosophie, 2 voll., Suhrkamp
Verlag, Frankfurt a.M. 1973; trad. it. parziale di G. Carchia, «L’Apriori della
comunità della comunicazione e i fondamenti dell’etica. Il problema d’una
fondazione razionale dell’etica nell’età della scienza», in ID., Comunità e
comunicazione, introd. di G. Vattimo, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, pp.
249 sgg.; si veda altresì ID., Limiti dell’etica del discorso?, in AA.VV., Etiche in
dialogo, a cura di T. Bartolomei Vasconcelos e M. Calloni, Marietti, Genova
1990, pp. 28-58, specialmente pp. 32 sgg.
27
J. HABERMAS, Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1983; trad. it. a cura di E. Agazzi, Etica del
discorso, Laterza, Roma-Bari 2000
SAGGI
18
71
28
Cfr. A. MACINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (1981), trad. it.
di P. Capriolo, Feltrinelli, Milano 1988, poi Armando, Roma 2007.
29
P. PELLEGRINO, Etica & Media. Le regole dell’etica nella comunicazione,
cit., p. 263.
30
Ivi, p. 264.
31
Ivi, pp. 264-65.
32
Ivi, p. 265.
33
Ivi, p. 270.
34
Ivi, p. 273.
35
Ivi, p. 275.
36
Cfr. J. HABERMAS, Conoscenza e interesse, in «Mercur», n. 213, 1965,
poi in ID., Teoria e prassi nella società tecnologica, pref. e trad. it. di C.A.
Donolo, Laterza, Bari 1971.
37
P. PELLEGRINO, Etica & Media. Le regole dell’etica nella comunicazione,
cit., p. 285.
38
Ivi, pp. 9-27.
39
Ivi, p. 22.
40
Ivi, p. 286.
72
È mio intento prendere in considerazione la necessità di misurare con il
metro della koiné filosofica i risultati dell’elaborazione filosofica compiuta
dalle donne in tanti anni di riflessione e discussione nei gruppi, nelle riviste,
negli incontri. Condivido, infatti, come ormai molte filosofe, l’opinione delle
autrici del volume The Cambridge Companion to Feminist Philosophy1 che
hanno inaugurato il nuovo secolo del pensiero femminista con la proposta di
superare l’opzione antagonista nei confronti della filosofia maschile, e di
accettare il confronto che impegna la koiné filosofica a passare al vaglio ogni
tesi.
Naturalmente, sarà prima necessario rivedere quelle affermazioni che
per noi donne filosofe sono divenute dei luoghi comuni ma che potrebbero
costituire delle pregiudiziali scoraggianti per la possibilità di aprire quel
confronto.
Non è certo mia intenzione diminuire l’importanza della linea di
separatezza che il femminismo ha adottato trent'anni or sono, quando decise
di sottrarsi alla dipendenza dalla filosofia maschile. Anzi, alla fase detta
“radicale” del pensiero femminile riconosco non solo il merito di aver portato
alla luce i pregiudizi di origine patriarcale e maschilista ancora presenti in
molte espressioni della cultura, ma anche quello di avere affrontato ed
esaminato a fondo il problema di una propria ed autonoma rappresentazione
e definizione dell’universo femminile.
Inoltre non ignoro quanto possa sembrare controproducente
evidenziare le debolezze e le contraddizioni inevitabili in un percorso che,
peraltro, è ancora agli inizi. Oltre tutto, le critiche che richiamano al rigore
teoretico possono equivalere ad un mettersi dalla parte del nemico, che in
questo caso sarebbe il Logos della conoscenza pura, lineare e coerente. Mi
si può obiettare, del resto, che critiche di questo tipo non hanno senso contro
le filosofe che per principio hanno rifiutato le logiche dominanti, e hanno
rinnegato il Soggetto razionale in modo non meno radicale di quello praticato
dai filosofi della metà del secolo scorso.
Lasciando da parte le accuse di connivenza, la mia replica a tale
obiezione consisterà nel mostrare il controproducente esito di quei due rifiuti,
della logica e del Soggetto, e per farlo mi soffermerò su alcune affermazioni
che ne derivano, e precisamente quelle che mi sembrano più insidiare la
filosofia delle donne.
1. Il separatismo cognitivo
SAGGI
ELABORARE UN’ESPERIENZA UNIVERSALE
di Graziella Morselli
73
Anzitutto va rivista la posizione di quelle filosofe secondo cui il pensiero
filosofico è in stretta relazione con l’appartenenza di genere, da loro
particolarmente accentuata con tutto ciò che può derivarne circa i modi di
vivere, di avere coscienza di sé, di rapportarsi agli altri, e di agire in campo
pratico. In nome dell’autonomia di un pensiero "incarnato" in corpi di donna,
esse ritengono di doversi porre in posizione antagonista nei confronti di
quella logica di omologazione (Cavarero)2 che lo vorrebbe uguale al
pensiero maschile.
Ma a sentir parlare di un pensiero “differente” dotato di una qualche sua
propria logica o di un modo specifico che il pensiero sessuato avrebbe di
conoscere ciò che esperisce viene da pensare che la scissione cartesiana tra
anima e corpo non abbia fatto il suo tempo in filosofia, come ci si potrebbe
aspettare dopo Nietzsche e di fronte agli sviluppi del pensiero
contemporaneo.
In
realtà,
seppure
aggiornato
nei
suoi
termini
(come
pensiero/esperienza, spirito/materia, e così via) il binomio che contrappone
mente e corpo continua a produrre enti inesistenti. Nel caso della differenza
sessuale, se questa viene vista come un’essenza che contraddistingue i due
sessi e dalla quale non si può prescindere, anzi come una risorsa che
plasma dall’interno non solo l’aspetto fisico ma anche la psiche con i suoi
momenti emotivi e intellettivi, intuitivi e cognitivi, allora è aperta la via
ontologica dell’essenzialismo, ovvero a quella metafisica che a parole le
filosofe rigettano. Le conseguenze sul piano pratico, come fa notare Nicla
Vassallo, non sono di poco conto: “...le entità/essenze in questione ci
vincolano ad assumere determinati tratti psicofisici, ruoli, atteggiamenti, ad
evitarne altri, e ci segregano, con risultati non difficili da immaginare, in due
sessi e/o in due generi che fanno tradizionalmente capo a ordini simboli
antitetici, l’uno caratterizzato da razionalità, attività, culturalità, oggettività,
l’altro da irrazionalità, passività, naturalità, soggettività”.3
2. La cultura del sessuale.
La rappresentazione della differenza femminile, tuttavia, sembra ormai
esaurita e consunta sotto il peso della "cultura del sessuale", inaugurata da
Luce Irigaray quando volle appellarsi ai “valori” di appartenenza ad un
genere. Per l’insistenza con cui è stato declamato, e per effetto
dell’esposizione mediatica subita (o cercata), oggi il tema della differenza
sessuale si direbbe imploso: ha finito col ricadere nella trappola del già noto,
o meglio dell’insignificante.
Per di più il discorso sul valore della cosiddetta “identità di genere”
facilmente sconfina in campo etico,4 come quando si afferma che l’essenza
femminile sarebbe depositaria di istinti, tendenze, sentimenti volti alla
74
3. Il pensiereo della differenza
Poiché le femministe dichiarano che il pensiero delle donne è immerso,
molto più di quello maschile, nell'incessante dinamismo dell'esperienza e
aperto al mutare delle cose, non dovrebbero, quando si applicano alla ricerca
di dati oggettivi e di definizioni teoriche, trincerarsi nella tendenza a
generalizzare né irrigidirsi su termini astratti. Al contrario, spesso esse fanno
della differenza sessuale una leva ideologica per delineare un futuro
utopistico, neol quale il pensiero della differenza dovrebbe produrre un
sapere che non affermerà di essere neutrale né di possedere verità assolute,
ed elaborerà etiche e politiche "relazionali", cioè basate sull'attenzione
all'altro e perciò veramente "concrete" e contestuali".
Per questo futuro c’è da sperare soltanto che le ricerche in cui sono
impegnate molte serie studiose diano presto consistenza e chiarezza al tipo
di pensiero “differente” di cui si tratta. Se, per esempio, si pensa ad una
“intelligenza delle emozioni”, quale è stata delineata da Marta Nussbaum5,
occorrerà almeno chiarire su quali procedure valutative e costruttive, diverse
dalle logiche dominanti, questa intelligenza si basi.
Ma il logos rifiutato non cessa tuttavia di agire, se non altro attraverso la
ripetizione delle dicotomie. Infatti il meccanismo delle dicotomie, derivato del
principio di identità, non ha prodotto soltanto il tessuto logico cristallizzato
nella cultura del patriarcato: esso è presente in ogni giudizio di valore,
quando formula una scelta fra i suoi oggetti (o li dispone in gerarchia). Così
genera una serie senza fine di dualismi tra il femminile e il maschile, riguardo
ai rispettivi progetti di vita, ai vissuti d’esperienza, alle qualità individuali, alle
facoltà cognitive: tutte queste sono realtà complesse, eppure si vuole ridurle
ai poli contrapposti del Positivo e del Negativo.
4. La concretezza del sapere delle donne
La struttura culturale del dominio maschile è accusata dalla filosofia
femminista di essere affetta non solo dalle malattie del logocentrismo e del
formalismo, ma anche dal principio dell’autorità attribuita ad un Soggetto, e
SAGGI
relazionalità, all’accoglienza dell’altro, all’accudire e soccorrere, in una parola
alle pratiche della cura. In tal modo si sono riaccesi i riflettori sul mito della
maternità vista come concentrato di virtù naturali: mito che riporta in primo
piano un’immagine tanto fascinosa quanto superficiale o addirittura falsa in
rapporto alla realtà, immagine che tuttavia il conformismo sociale chiede
ancora alle donne di rappresentare. Così, nel combattere i pregiudizi che
discriminano le donne confrontandole a pretese virtù o capacità in cui gli
uomini sembrano eccellere, si è ottenuta la caduta in un’altra specie di
metafisica, quella dell’ente inesistente rappresentato dal mito.
75
soprattutto dal vizio congenito della lontananza dalla vita reale. Tuttavia non
sembra sostenibile l’immunità della filosofia femminista da tali malattie:
piuttosto non sono pochi i sospetti che si possono avere al riguardo. Ho già
mostrato come le affermazioni di contrarietà, estraneità, separazione,
implicite o esplicite nei giudizi di valore femministi sulle differenze dei due
generi, appartengano allo stesso meccanismo logico dualistico che ha fornito
(e ancora fornisce) giustificazione razionale alle molte forme patriarcali del
dominio. Se consideriamo la relazione che lega questa logica ai principi
d’ordine funzionali a certe tecniche del dominio (inclusione, esclusione,
semplificazione) appare evidente che alle stesse filosofe è sufficiente usare
(anche velatamente) categorie logiche come deduzioni e induzioni, ovvero
tassonomie e graduatorie di preferenza, perché sembrino voler fare
operazioni gerarchiche con propositi simmetrici al potere maschilista, allo
scopo di fondare l’ordine del Soggetto contrario.
Quanto alla lontananza dalla vita reale, ci troviamo di fronte ad un’altra
dicotomia d’uso corrente: la contrapposizione tra la realtà “concreta” e
l’astrazione in genere. Questa non è una dicotomia facile da risolvere, dato
che nelle dinamiche della conoscenza empirica accade sempre che
s’inseriscano idee, progetti, affermazioni non rientranti nei limiti dell’empirico.
Tuttavia, è noto nella filosofia contemporanea che l’esperienza non
rispecchia la realtà, o la vita reale, ma si costituisce nel “senso comune”: per
questo corre sempre il rischio di essere smentita né più né meno di tante
astrazioni che pure sorgono dalla realtà di fatto nel tentativo di interpretarla.
In questo caso, sono improprie sia la tendenza del senso comune di
semplificare la visione delle cose col ridurla ad alcuni aspetti che si credono
più reali o concreti di altri e dei quali si generalizza la portata, sia le pretese di
un generico atteggiamento che si presume “scientifico” che riduce a quantità
le qualità e in particolare le relazioni qualitative complesse, che
richiederebbero piuttosto giudizi dove si integrino di continuo elementi
concreti ed elementi astratti.
Il concetto più distante dalla vita reale, nella opinione di molte femministe,
sembra essere quello di universale nella versione appartenente al formalismo
giuridico, che lo denota come connesso alla neutralità delle norme pubbliche
e all’’astratta eguaglianza di tutti i componenti della società. Al contrario, si
sostiene6, la società è fatta di individui sessuati, ovvero di soggetti differenti
nel sesso e differenti tra di loro. Per questo motivo si vuol vedere profilarsi un
“potere femminile” destinato a sostituire quell’universalismo in nome del
quale si sono affermate le norme, ma che ormai si sarebbe rivelato come la
maschera “liberale” per nascondere quello che in realtà è il dominio
monocratico del Soggetto maschio, bianco e occidentale: una tiranni fatta di
potere economico e finanziario, tecnologia, ideologia e sessismo. Tuttavia
76
Conclusionii
Una volta rese chiare, come spero, le insidie che si annidano nella forza
critica del pensiero delle donne, i suoi frutti migliori possono essere
presentati e fatti valere come contributi alla ricerca comune. Del resto il
riconoscimento del fatto che le donne sanno occuparsi di filosofia è da tempo
in corso in molte realtà universitarie non solo straniere, anche se qui da noi
manca un vero e proprio dibattito: infatti gli studiosi e gli accademici, non solo
italiani, hanno in genere convenuto di lasciare che le donne parlino di sé, di
fatto creando un altro spazio alla “Differenza” (o piuttosto un ghetto?), mentre
ancora molto scarsa è la motivazione a discutere su di un piano di parità, e
sugli argomenti che riguardino aspetti, momenti e problemi della vita a tutti
comune.
A questi studiosi sfugge, a mio parere, che sarebbe più produttivo, anziché
lasciare semplicemente dello spazio al pensiero della differenza sessuale,
prenderlo in considerazione e accogliere qualcuna delle idee che ha
prodotto. Tra queste, ad esempio, prenderei quello che è un altro topos del
movimento femminista, di chiara portata etica e politica: l’affermazione che
ciò che è pubblico non possa essere separato dal privato, in quanto i gesti e
gli atteggiamenti del singolo non sono mai senza legami o senza
conseguenze rispetto agli altri con cui si trova a vivere. E’ stato già notato7
come in quest’attenzione alla dimensione contestuale sia presente una
concezione più ampia della giustizia intesa come prerogativa della
democrazia, che consente di eliminare la ricaduta negativa su tutti
dell’ingiustizia che ha colpito qualcuno, o del privilegio concesso a pochi.
Per mio conto, a questa sottolineatura aggiungerei che è qui, in questo
spazio concettuale, che ritorna a vivere la categoria dell’universale: non nel
senso parziale di un universale “femminile” ma in quel senso che comprende
tutti, uomini e donne (con tutte le loro differenze sessuali, psichiche,
generazionali, etniche, linguistiche, culturali), i quali si trovano concretamente
a vivere insieme in una data epoca e in un dato spazio privato e pubblico,
locale e globale, definito e indefinito. In due parole, come abbiamo già visto,
nel complesso intreccio di differenze di ogni sorta e mai nell’astrazione.
Perciò occorre che evitiamo, come gruppo impegnato nella costruzione di
idee-guida, quel separatismo che si fonda su di un’autosufficienza femminile
di carattere idealistico e genera perciò in molte donne false immagini di sé.
Immagini che rispecchiano, per lo più, stili di vita adatti a poche donne più
cerebrali che intellettuali, ma sono contraddittorie di fronte ai problemi della
maggioranza delle donne che si trovano a difendere, una per una, la propria
SAGGI
questo quadro rimane astratto, non circostanziato e suffragato dalla realtà dei
fatti, e si rivela alquanto utopistico.
77
autonomia pur mantenendola intessuta nelle loro relazioni esistenziali, sia
intersoggettive, quindi private, sia allargate alla vita collettiva, quindi
pubbliche. Continuare a sostenere le parole d’ordine della “differenza” non
farebbe che ribadire e perpetuare l’emarginazione delle donne (appunto
perché sono differenti) nel corso futuro delle mutazioni storiche.
In conclusione, io penso che l’esperienza umana può essere il campo
tematico sul quale svolgere un dialogo con le diverse filosofie attuali, e che
per far ciò si può ricorrere ad una dotazione di analisi e di ricerche oggi
ampiamente disponibile, a cui stanno lavorando sia filosofe che filosofi, le
une e gli altri formati nei campi di studio della filosofia analitica e della
fenomenologia.
1
Cfr. The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy, a cura di M.
Fricker and J. Hornsby, Cambridge 2000.
2
Cfr.. A. CAVARERO, Il pensiero femminista .Un approccio teoretico, in A.
CAVARERO, F. RESTAINO, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano
2002.
3
N. VASSALLO, Epilogo, p. 138, in Donna m’apparve, a cura di N. Vassallo,
Codice ed., Torino 2009; v. anche J. BUTLER, Gender Trouble: Feminism and
the Subversion of Identity, Routledge, New York 1990; M. W ITTIG, The
Straight Mind, Beacon Press, Boston 1992.
4
Cfr.. V. HELD, Feminist Morality, Transforming Culture, Society and Politics,
Chicago 1993, tr. it. Etica femminista, Milano 1997; S. RUDDICK, Maternal
Thinking: toward a Politisc of Peace, Boston 1989; N. NODDINGS, Caring. A
Feminine Approach to Ethics and Moral education, Berkeley 1984.
5
Cfr. M. NUSSBAUM, Upheavels of Thought: the Intelligence of Emotions,
Cambridge 2001, tr. it. Bologna 2004.
6
Cfr.. I. M. Young, Justice and the Politics of difference, Princeton 1990, trad.
it. Le politiche della differenza, Milano 1996; S. BENHABIB, Situating the Self,
Cambridge 1992.
7
I. M. YOUNG, op. cit., pp. 150-153.
78
1. L'esperienza-Nietzsche: dall'homo oeconomicus all'homo gloriosus
«L'aspirazione estrema, incondizionata, dell'uomo è stata espressa per
la prima volta da Nietzsche a prescindere da un fine morale e dal servizio di
1
un Dio» . Queste parole, vergate da Georges Bataille e contenute nel suo
testo esplicitamente dedicato a Friedrich Nietzsche, non suonano al lettore
come un mero tributo, uno sterile e sperticato elogio, bensì, si pongono quali
gangli di una radicale tangenza tra mondo della vita, esistenza e pensiero
filosofico nietzscheano.
In altre parole, Nietzsche, concepito come un corpo filosofante, non
avrebbe ricoperto tanto il ruolo di maestro, sotto l'egida del quale si sarebbero
accalcate accolite di discepoli, riverenti e bramose di sapere, ma, avrebbe
incarnato, piuttosto, l'incondizionato stesso, agevolando il dispiegamento
totale, la liberazione completa del possibile umano, patendo sulla sua stessa
pelle il disagio, l'angoscia, l'impressione di soccombere, derivate proprio dalla
tentata esperienza del limite, affrontata, esponendo il proprio corpo agli strali
del caso, un corpo spoglio di qualsiasi difesa, un corpo vivo che ha rigettato
la schiavitù della fede ed ha denunciato i crimini della morale. Un corpo,
insomma, che ha riassorbito in sé tutte le prerogative dilapidate nel corso dei
secoli da un uomo pavido, servile ed incapace di sostenere autonomamente
tutto il peso dell'esistenza, nonostante sia presente nell'uomo «una tensione
violenta verso l'autonomia, la libertà dell'essere. Libertà certo interpretabile in
diversi modi: ma chi oggi si stupirebbe che si muoia per essa? Le difficoltà
che incontrò Nietzsche- abbandonando Dio e il bene eppure continuando a
bruciare del fuoco di coloro che per Dio e per il bene si fecero uccidere- le
incontrai anch'io a mia volta. La solitudine scuorante ch'egli ha descritto ora
mi toglie le forze. Ma la rottura con le entità morali dà all'aria che respiro una
verità così grande che preferirei vivere da paralizzato o morto piuttosto che
2
ricadere nella schiavitù» .
Bataille si approccia a Nietzsche, non con la boria ed il distacco emotivo
proprio dei critici più ortodossi, ma ripercorrendo le Stimmungen (tonalità
affettive) del pensiero nietzscheano, riattivando il ricordo delle proprie,
assemblando in una felice con-fusione spunti filosofici ed esperienze vissute,
per lo più tragiche. Così, la filosofia di Nietzsche non può, a buon diritto,
essere fatta oggetto di una speculazione asettica che tenti di ricomprenderne
i tratti capitali per giustificare una pretesa unità di fondo del suo pensiero.
SAGGI
DALLA VOLONTÀ DI POTENZA ALLA VOLONTÀ DI CHANCE:
LA MESSA IN QUESTIONE DELLA SOVRANITÀ DEL SOGGETTO E
DELLA BELLA FORMA DA NIETZSCHE A BATAILLE
di Giuseppe Bornino
79
«Nietzsche scrisse col suo sangue: chi ne fa la critica o piuttosto lo prova può
3
farlo soltanto sanguinando a sua volta» .
L'esperienza-Nietzsche, dall'arrogante predominio dello Stellung, di una
posizionalità di ordine puramente tetico, ci conduce nell'alveo del libero gioco
del dono, del sacrificio, laddove ogni creazione è, paradossalmente,
distruzione, annientamento, nullificazione dello status servile di un uomo,
specchio della prassi utilitaristica e razionalistica, un homo oeconomicus che
«compromette la propria peculiare identità e si affida a un destino tecnico,
definizione del gran salto nell'ignoto. La padronanza totale si trasforma in tal
modo nel suo contrario. Il grande manipolatore finisce per non essere altro
4
che un robot manipolato» .
Bataille denuncia con forza i limiti dell'utile economico, rivendicando una
tragica condizione di inappartenenza, viatico per sperimentare l'abbandono di
ogni identità in una dépense, in una perdita assoluta, improduttiva,
riconsegnando l'esistenza alla sua originaria discontinuità, laddove i giudizi di
ordine morale non trovano posto, perché bene e male sono stati ridotti
all'indiscernibilità, così come accade nella filosofia nietzscheana.
Nietzsche incarna, per Bataille, quell'estrema possibilità, quel culmine,
attraverso il quale poter riattingere il sentimento della gloria, concepito alla
stregua di un inutile surplus, e, per questa ragione, relegato ai margini
dell'esistenza. Non sembrerà, quindi, inappropriato, annoverare l'esperienzaNietzsche, così come vissuta da Bataille, tra le altre esperienze, cifre di un
pensiero del dispendio, vale a dire il riso, l'angoscia, il sacrificio e l'eccitazione
erotica.
2. Al di là dell'essere, verso il culmine: il moto del male tra gioco e
chance
«Soltanto la mia vita, con le sue risorse risibili, poteva tendere a
continuare in me la ricerca di quel Graal che è la chance. E questo sembra
5
corrispondere più esattamente della potenza alle intenzioni di Nietzsche» .
Bataille si accosta, qui, senza mezzi termini, alla spinosa questione
nietzscheana della volontà di potenza, e lo fa con l'audacia di chi ha
trasformato la sua stessa esistenza in un banco di prova, in un «racconto di
6
colpi di dadi gettati» . Il termine chance, all'interno dell'opera batailleana,
viene usato in un'accezione propria, che rinvia ad un'esperienza liminale di
ordine esistenziale, più che indicare la fortuna, la possibilità di riuscita, la
buona sorte. Se chance corrisponde più di Macht alle intenzioni
maggiormente riposte del pensiero nietzscheano, allora, tentando di chiarire
le modalità in cui si presenta la chance, giungeremo ad una nuova
interpretazione della volontà di potenza.
80
SAGGI
Una pletora di critici, nel corso degli anni, ha indagato la volontà di
potenza concependola alla stregua di un oggetto, di un'unità di nozioni, di
un'espressione linguistica omogenea, commettendo, così, il più marchiano
degli errori ermeneutici, apponendo sul pensiero nietzscheano una misera
etichetta, che ha favorito il fiorire delle più imbarazzanti ed aberranti
interpretazioni, in ispecie quella nazista. Non si tratterà, qui, di operare sul
pensiero nietzscheano una denazificazione, in quanto è inevitabile sentirsi
autorizzati «a ridere di chiunque confonda la posizione di Nietzsche con
7
quella di Hitler, sia per attaccarla sia per farla propria» , ma, di superare
l'interpretazione metafisica (nel senso classico del termine) della volontà di
potenza, deviando il fulcro dell'attenzione dalla dimensione dell'immonda
trascendenza a quella del mondo della vita, immergendoci nell'esperienza
filosofica di Bataille.
«Abbandono il bene e abbandono la ragione (il senso), mi spalanco
sotto i piedi l'abisso da cui mi separavano l'attività e i giudizi che essa
connette [...] Se abbandono le prospettive dell'azione, mi si rivela la mia
perfetta nudità. Sono al mondo senza aiuto, senza appoggio, sprofondo. Non
c'è altra soluzione che un'incoerenza senza fine, dove mi potrà condurre
8
soltanto la mia chance» .
Aprirsi alla propria chance, abbandonare le prospettive dell'azione, non
vuol dire condannarsi all'inanità, non vuol dire prostrarsi dinnanzi all'infinita
potenza del caso, ma significa mettere in discussione l'intenzionalità della
coscienza moderna, tutta tesa verso l'oggetto, pronta a fagocitarlo, per
giungere nell'illusorio dominio della chiarezza e della distinzione. Bataille non
vuole annullare tout court la coscienza, collocandola, invece, in
quell'interstizio tra giorno e notte, dove la luce filtra, ma, solo, per annunciare
l'opacità della notte. La coscienza non è il discorso, ma il segno di
interpunzione tra una parola e l'altra, è una dissolvenza in nero, per cui la
presenza, l'immagine si oscura gradualmente fino al punto (che è un culmine)
di essere sostituita dal buio, dall'assenza, dall'incoscienza, dall'incoerenza
senza posa.
Allora, solo una coscienza intenzionale, fiera del suo inattaccato fulgore,
potrebbe interpretare la volontà di potenza alla stregua di un oggetto, di una
norma, di una nuova tavola di valori. «Se mi si capisce, la volontà di potenza,
considerata come un termine, sarebbe ritornare indietro. Seguendola,
ritornerei alla frammentazione servile. Mi prefiggerei di nuovo un dovere e il
bene che è la potenza voluta mi dominerebbe. L'esuberanza divina, la
leggerezza che esprimevano il riso e la danza di Zarathustra si
9
riassorbirebbero» .
81
La volontà di potenza non è una volontà-di, non è una protensione verso
il bene, non è un principio di ordine morale, non è la manifestazione
esasperata di una forte soggettività.
10
Sin dalla prima comparsa del nome volontà di potenza, Nietzsche
storna cattive possibili interpretazioni, denunciando la mostruosità di
un'ipotetica morale dei principi, dicendo: «una tavola dei valori è affissa su
ogni popolo. Vedi: è la tavola dei suoi superamenti, vedi: è la voce della sua
volontà di potenza [...] I popoli affissero un tempo su di sé una tavola del
bene. L'amore che vuol dominare e l'amore che vuol obbedire crearono
insieme, per sé, queste tavole [...] Molti paesi ha visto Zarathustra e molti
popoli: al mondo, Zarathustra non ha trovato una potenza maggiore delle
opere degli amanti: bene e male è il loro nome. In verità, questa potenza della
lode e del biasimo è un mostro. Dite, fratelli, chi sa domarlo? Dite, chi
11
aggiogherà in catene i mille dorsi di questa bestia?» .
Tante morali quanti popoli hanno generato, nell'umanità, quella
perversione nota come ressentiment: «una malasorte mi dà il sentimento del
12
peccato: non ho dunque il diritto di mancare la chance, la buonasorte» .
Finché l'uomo fonderà la sua morale sulla logica binaria di bene e male, la
chance rimarrà relegata al fondo dell'esistenza, come una possibilità abortita.
La volontà di potenza giungerà alla sua massima espressione solo nel
momento in cui la realtà verrà riconsegnata alla sua nudità, allorquando si
potrà urlare a piena voce e senza timore: «ecco: il tempo è infuocato, l'aria è
in fiamme- adesso vanno tutti nudi, buoni e malvagi! È una festa per l'uomo
13
della conoscenza, questo mondo senza vestiti» .
Riguadagnare la nudità della realtà, del mondo, non equivale al forzoso
tentativo di ripresentificare una dimensione arcadica, ormai perduta, ma
significa spezzare le catene che hanno legato l'uomo, il corpo dell'uomo alle
più disparate causae sui di ascendenza spirituale, portatrici assolute del
senso, viatici per la violenta instaurazione di un ferreo determinismo.
«Ovunque è stata dominante la dottrina della pura spiritualità, essa ha
distrutto con le sue aberrazioni l'energia nervosa: insegnò a tenere in
dispregio il corpo, a trascurarlo o a tormentarlo, e a tormentare e spregiare
14
l'uomo stesso, a cagione di tutti gli istinti di quello» .
Gli istinti, gli affetti, l'energia nervosa subiscono un radicale processo di
trasformazione coatto operato dai giudizi morali, basati, quest'ultimi, sulle
connotazioni, sulle sensazioni concomitanti di piacere o dispiacere, che il
costume ha connesso a ciascun istinto, battezzato, quindi, a priori, come
buono o cattivo. Ritornare alla nudità della realtà, riattivare la chance
esistenziale, vuol dire, soprattutto, riconsiderare quella grande ragione, che è
la ragione del corpo, ridare voce agli istinti, inopinatamente tacitati da quella
che Bataille definisce morale volgare, cui il filosofo francese contrappone una
82
SAGGI
morale del sacrificio, dell'eccesso energetico: «Ho intenzione di opporre non
più il bene al male ma il culmine morale, che è altra cosa dal bene, al declino,
che non ha nulla a che vedere col male e la cui necessità determina invece le
modalità del bene. Il culmine corrisponde all'eccesso, all'esuberanza delle
forze. Porta al massimo d'intensità tragica. È connesso al dispendio d'energia
senza misura, alla violazione dell'integrità degli esseri. È dunque più vicino al
male che al bene. Il declino, che corrisponde ai momenti di sfinimento, di
fatica, dà il massimo valore alla preoccupazione di conservare e di arricchire
15
l'essere. Da esso dipendono le regole morali» .
Il culmine morale si dà sempre sotto la forma del delitto, della violazione
dell'integrità degli esseri, come avviene nel caso, definito da Bataille
emblematico, del supplizio di Cristo. La colpa dell'uomo, che ha ridotto il
Cristo ad un bagno di sangue, incarna la ferita che mette in comunicazione il
Creatore con le sue ree creature. La lacerazione procurata nel costato di
Gesù dall'acuminata lancia del soldato romano, da gesto di estrema crudeltà,
si tramuta in atto propedeutico alla comunicazione, alla comunione tra gli
esseri. È lecito avanzare l'ipotesi, a questo punto, che il costato sanguinante
del Cristo, come culmine del male, fondi una nuova morale, rigenerata
dall'esercizio esasperato del negativo, in grado di cassare la separazione tra
Dio (inteso come principio primo) e gli uomini, finalmente affrancati dalla
schiavitù (morale).
L'operazione di Bataille ha la pretesa di sconcertare: la Passione di
Cristo, considerata dalla cristianità un male, in realtà, si configura come
l'espressione più alta dell'amore, seppur sporco, tra uomini e Dio, ridotti ad
una condizione paritetica, proprio grazie all'esercizio del male, del peccato,
della colpa. Giungiamo, su questa via, all'assoluta indiscernibilità di bene e
male, alla trasvalutazione di tutti i valori, un atto che, in Nietzsche, «è
16
diventato carne e genio» , un destino: «volete una formula per questo
destino, che si fa uomo? - Si trova nel mio Zarathustra: - e colui che deve
essere creatore di bene e male: in verità, costui dev'essere in primo luogo un
distruttore, e deve infrangere valori. Quindi il massimo male inerisce alla
17
bontà suprema: questa però è la bontà creatrice» .
La bontà creatrice altro non è che la volontà di potenza, una bontà che
si affaccia al di là del bene (inteso come principio morale), in vista del
recupero di una radicale immanenza, che si regge sulla comunicazione interindividuale, consentita dal lavorio del negativo.
È possibile instaurare un legame tra volontà di potenza e volontà di
chance sulla base di un'attenta interpretazione del ruolo che il male, il
negativo assume nei pensieri filosofici e di Nietzsche e di Bataille?
«L'aspirazione al culmine- il moto del male- è in noi alla luce di ogni etica.
Una morale in sé non ha valore che tenendo conto del superamento
83
dell'essere- ributtando la preoccupazione del futuro. Una morale vale in tanto
18
in quanto ci propone il metterci in gioco» .
Emerge, qui, chiaramente, uno stretto parallelismo tra la tematica del
male e quella del gioco. Se il movimento del male è il (s-) fondamento di ogni
etica (non volgare), e se una morale assume il suo valore (d'uso e non di
principio) solo sulla scorta di una volontà ludica, allora, l'aprirsi alla chance è,
19
parafrasando un'opera di Salvador Dalì, un gioco lugubre , un'affermazione
convinta del divenire, percorsa capillarmente da un sentimento d'angoscia,
derivato dalla consapevolezza della perdita, frutto del moto del male, del
negativo. Ciò che è decisivo, in un mondo posto sotto il segno del gioco, è
l'abbandono di qualsiasi forma di teoria della conoscenza, di sapere
epistemico, è l'innocenza, l'innocenza del fanciullo, che rappresenta «un
nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro
dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì:
ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il
20
suo mondo» .
Il problema che si pone, a questo stadio del nostro discorso, è di
capitale importanza: chi è il fanciullo? esiste un giocatore del gioco? c'è
qualcuno che mette in moto la chance? In altre parole, l'interrogazione verte
sul ruolo della soggettività dinnanzi alla radicale esperienza del negativo, che
si presenta sotto le spoglie del male, dell'assenza, in Bataille, e che si palesa,
in Nietzsche, soprattutto, allorquando si vive un estremo dolore: «nel dolore
c'è tanta saggezza quanta nel piacere: al pari di quest'ultimo, esso appartiene
alle energie di prim'ordine che conservano la specie [...] Dobbiamo saper
vivere anche con diminuita energia: non appena il dolore dà il suo segnale
d'allarme, è giunto il tempo di diminuirla [...] È vero che ci sono uomini i quali
[...] quando la procella si sta levando v'affissano gli occhi con maggior
fierezza, combattività e gioia; anzi è il dolore stesso a dar loro i momenti più
21
grandi. Sono gli uomini eroici, i grandi portatori di dolore dell'umanità» .
Il fanciullo, in modo particolare di fronte al dolore, avverte pressante il
dovere di affermare l'esistenza, nonostante la sua tragicità, di offrire il petto
incurante agli strali del caso, con un carico di ingenuità ben lontano dalle
pretese del soggettivismo moderno. La volontà di potenza è il punto-zero del
mondo, un'indicazione indeterminata ed indeterminante, una piattaforma
cangiante che ospita, di volta in volta, l'istinto uscito vittorioso
(temporaneamente) da una lotta tra affetti. In questo senso, non si dà
soggetto volente, ma fanciullo cosmico, che è oblio, in quanto vive in un
eterno presente, privo di sensi di colpa e di aspettative o speranze per il
futuro. Ciò che conta non è il fine, ma l'atto stesso del giocare, che non
risparmia nessun aspetto dell'esistenza: «il gioco che immagino è il più
84
SAGGI
completo: non c'è nulla in esso che non sia posto in causa, la vita di tutti gli
22
esseri e il futuro del mondo intelligibile» .
C'è un valore cosmico, insito nel gioco (o chance), che lo rende
l'emblema dello spossessamento, l'antitesi radicale del soggetto-che-vuole,
della coscienza intenzionale, e, parimenti, c'è un valore etico, per cui il gioco
è di tutti, di chi prima lo gioca, di chi, pur nell'angoscia, non evita l'azzardo, il
rischio. «Nello strazio e nella nausea, nei mancamenti in cui le gambe si
piegano e fino al momento della morte, starò in gioco. La chance che mi è
toccata e che si rinnovò senza stanchezza, che mi precedette ogni giorno [...]
questa chance mi lega a chi amo, nel meglio e nel peggio, vuole essere
tenuta in gioco fino all'ultimo. E se capita che al mio fianco qualcuno la veda,
la metta in gioco! Non è la mia, è la sua chance. Non potrà afferrarla più di
quanto possa fare io. Non saprà nulla di essa; la porrà in gioco. Ma chi
potrebbe vederla senza porla in gioco? Chiunque tu sia, lettore: metti in gioco
la tua chance. Come faccio io, senza fretta, così come nel momento in cui
scrivo ti metto in gioco. Questa chance non è né tua né mia. È la chance di
23
tutti gli uomini e la loro luce» .
Volontà di potenza e volontà di chance condividono questa spiccata
propensione per il processo (di ordine metamorfico, plastico), piuttosto che
24
per lo scopo, il fine ultimo . Bataille preferisce il termine chance a potenza,
poiché, quest'ultimo, sarebbe vittima di una serie di interpretazioni equivoche,
che ci condurrebbero fuori dall'alveo del puro mettersi in gioco per ricondurci
in quello della schiavitù morale. Gioco e chance, come risultati processuali
del moto del male, del negativo, del dolore, aprono il soggetto all'estrema
possibilità, coartandolo a vivere sempre sull'orlo dell'abisso, laddove è
possibile misurarsi con il fondo ripugnante delle cose.
Così, il soggetto, l'io, diviene il protagonista di un'esperienza unica,
irripetibile, proprio perché altamente improbabile, in quanto frutto di un
movimento casuale, di una chance. «Quanto a me, io esisto, - sospeso in un
vuoto realizzato- sospeso alla mia angoscia- differente da ogni altro essere, e
tale che i diversi eventi che possono accadere a chiunque altro e non a me
respingono crudelmente questo io fuori da un'esistenza assoluta [...] Poiché
se fosse sopravvenuta la più piccola differenza nel corso dei successivi eventi
dei quali io sono il risultato, al posto di questo io, desideroso nella sua
25
interezza di essere me, ci sarebbe stato un altro» .
Quando Bataille afferma “Moi, j'existe”, quel moi non rimanda all'io
astratto, ma all'individuo in carne ed ossa, che si staglia, sospeso, sul vuoto
della contingenza, della possibilità, un individuo assolutamente unico, perché
frutto insostituibile di un processo stocastico.
26
L'esistenza si apre ad un nuovo infinito , all'infinito dei possibili, ad un
prospettivismo affettivo, con un incedere casuale, inframmezzato dalla
85
selezione dell'io, una selezione innocente ed oscura, perché rimanda
all'imponderabilità dei movimenti impercettibili, sottesi all'agire umano, perché
rimanda ai motivi che il corpo insinua costantemente nell'ambito della prassi.
Tali motivi altro non sono che un Kräftespiel (gioco di forze), nei riguardi del
quale gli esseri si trovano (non, si pongono) in uno stato di totale innocenza,
che non gli consente di calcolare in precedenza il rapporto tra le forze in lotta.
La chance sembrerebbe coincidere con questo quantum indefinito di energia
che, in modo squilibrato, si divide in forze, le quali ingaggiano un serrato
confronto, che porterà una a soggiogare l'altra, secondo una dinamica di
azione-reazione. Tuttavia, Bataille, sul finire del suo testo dedicato a
Nietzsche, scrive: «la volontà di potenza è il leone, ma il bambino non è forse
27
la volontà di chance?» .
La volontà di potenza meno della volontà di chance, sarebbe in grado di
descrivere quell'inutile dispendio, quello straripare improduttivo di forza,
quella part maudite che è destinata, secondo la prospettiva batailleana, ad
essere, sempre di nuovo, persa. Ecco, allora, che la potenza fa problema a
Bataille, in quanto si opporrebbe a quella politica del dono, tanto a cara al
filosofo francese, dove non c'è nulla da guadagnare, ma tutto da sacrificare,
28
come nel caso dell'antico potlàc : «in quanto gioco, il potlàc è il contrario di
un principio di conservazione: esso mette fine alla stabilità delle fortune quali
esistevano all'interno dell'economia totemica, in cui il possesso era ereditario.
All'eredità una eccessiva attività di scambio ha sostituito una specie di poker
29
rituale, di forma delirante, come fonte del possesso» .
La volontà di potenza non conterrebbe, allora, alcuna forma di dépense,
sarebbe un approntare la libertà in vista di una nuova creazione (coincidendo,
30
di fatto, con il ruolo del leone nello Zarathustra) . In effetti, ad un primo livello
di comprensione, leggendo queste parole: «la volontà di potenza può
manifestarsi solo contro delle resistenze; cerca quel che le si contrapponequesta la tendenza originaria del protoplasma, quando mette fuori
pseudopodi e si tasta intorno. L'appropriazione e l'assimilazione è anzitutto
un volere sopraffare, un formare, un modellare e rimodellare, finché il vinto
31
sia passato interamente sotto il potere dell'aggressore accrescendolo» ,
saremmo tentati di pensare alla volontà di potenza, solamente, come ad una
Wille zur Gleich-machen (volontà di assimilazione), quando essa, invece,
prevede la perdita, il dispendio: «considerata meccanicamente, l'energia del
divenire totale rimane costante; considerata economicamente, sale fino a un
vertice e ridiscende da esso in un eterno circolo; questa volontà di potenza si
esprime nell'interpretazione , nel modo di usare l'energia- la meta appare
32
pertanto la trasformazione dell'energia in vita, vita in massima potenza» .
L'energia cosmica, considerata dal punto di vista dell'economia
generale, pare suggerirci Nietzsche, raggiunge il suo stato culminante (che è
86
SAGGI
quello della vita, non biologicamente intesa), nel momento in cui naviga
nell'assenza di equilibrio. Dei movimenti di tale energia nulla potremmo capire
senza una preliminare ricognizione nel campo delle leggi economiche
generali, sottolinea più volte Bataille, senza un preliminare tentativo di
ratificare un rapporto già esistente, quello tra l'attività economica umana ed il
moto delle forze nell'universo. In definitiva, sia Nietzsche che Bataille,
ritengono che l'energia del globo proceda per progressivi picchi e successive
perdite, per stati di salute e stati di malattia. Ciò che forza il movimento
circolare dell'energia, in Bataille, però, è il riconoscimento di una perdita, che
non può più essere riassorbita, di un'eccedenza che va sprecata, nelle
«spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni
di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l'attività sessuale
33
perversa (cioè deviata dalla finalità genitale)» . La crescita di un organismo,
di un sistema, in Bataille, ha un limite (il possibile si arresta nell'impossibile),
superato il quale si installa la dépense; in Nietzsche, invece, un organismo
non smette mai di crescere, in quanto la vita ha possibilità infinite di
prospettiva (la crescita è l'interpretazione, lungo il crinale delle sue infiniti
modificazioni).
Laddove, per Bataille, l'ideale è quello della massima spesa, per
Nietzsche: «lo stesso quantum di energia significa, nei diversi gradi dello
sviluppo, cose diverse. Ciò che fa l'incremento della vita è l'economia sempre
più parsimoniosa e che calcola sempre più lontano [...] Come ideale, il
34
principio della minima spesa...» .
Nonostante questa sottile differenza, la volontà di potenza e quella di
chance condividono la più netta avversione nei confronti di qualsiasi forma di
trascendenza, rivendicando la posizione assolutamente centrale
dell'immanenza, un'immanenza che si riceve, che «non è il risultato di una
35
ricerca» . Sia l'idea di potenza, che quella di chance rappresentano l'evento
che supera il dato, un pensiero che ha varcato le soglie dell'essere e del
nulla.
Tanto il gioco tra forze, di cui parla Nietzsche, che la politica del dono,
del sacrificio, propugnata da Bataille, mettono l'agente, il soggetto, l'io al
servizio dell'azione, dell'opportunità, e non viceversa. Il soggetto del gioco è
un soggetto angosciato, improbabile, un soggetto che si è fatto carne, che ha
rinunciato al suo oggetto, superandolo in quanto dato incontrovertibile. L'io,
questa piccola parola carica d'illusione, riduce la sua estensione,
tramutandosi da colosso speculativo, intellettuale a parte infinitesima di un più
generale movimento energetico universale. Un uomo nuovo, trasfigurato,
senza nome, si sostituisce al vecchio soggetto speculativo, un uomo
bisognoso di una nuova salute, «una salute che non soltanto si possiede, ma
che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si
87
36
sacrifica e si deve sacrificare...» . Il sacrificio, quindi, come cifra peculiare di
un'immanenza che ha condotto la vita fuori dall'era dei padroni,
un'immanenza al di là del bene e del male.
3. Favorire l'assurdità delle cose: oltre l'Assoluto, verso l'im-possibile
«Poiché dell'eterno ritorno aveva la visione che conosciamo, per
l'intensità dei sentimenti Nietzsche rideva e tremava insieme. Pianse troppo:
erano lacrime di esultanza. Percorrendo la foresta lungo il lago di Silvaplana,
si era fermato vicino a una enorme roccia che si elevava a forma di piramide,
non lontano da Surlej. Immagino di arrivare io stesso alla sponda del lago, e,
immaginandolo, piango. Non che io abbia trovato nell'idea dell'eterno ritorno
qualcosa che possa commuovermi a mia volta. La cosa più evidente di una
scoperta che doveva farci mancare il terreno sotto i piedi- secondo Nietzsche,
solo una sorta di uomo trasfigurato saprebbe superarne l'orrore- è che essa
lascia indifferente la migliore volontà. Solo che l'oggetto della sua visione, ciò
che lo fece ridere e tremare, non era il ritorno (e neppure il tempo), ma quel
37
che mise a nudo il ritorno, il fondo impossibile delle cose» . Bataille,
mostrando un profondo coinvolgimento, ricorda la genesi di quella che
Nietzsche definì «la suprema formula dell'affermazione che possa mai essere
38
raggiunta» , il pensiero dell'eterno ritorno dell'uguale, sottolineando, tuttavia,
che non l'idea stessa di ritorno né quella di tempo, ma la scoperta del fondo
impossibile delle cose, caratterizza peculiarmente la straordinaria intuizione
nietzscheana. Questo rilievo è in pieno accordo con l'interessante tesi
batailleana, per cui il tempo non esisterebbe al di fuori dell'umano desiderio,
al di fuori di quella ripartizione dei possibili, cui ogni individuo è invitato a
partecipare, mettendosi in gioco. Tuttavia, il dominio del desiderio, in quanto
votato, al massimo della sua potenza, al raggiungimento della totalità
mediante la soppressione di altri, mira a distruggere l'orizzonte temporale,
l'orizzonte della chance. Allora, non desiderare il tutto, significa volere il
39
tempo, la chance, e «volere la chance è l'amor fati» . Si insinua una
dialettica perversa in seno al tempo: da un lato, esso è impossibile senza il
desiderio individuale, dall'altro, esso può essere voluto, solo a patto di
sopprimere il desiderio. È come se il desiderio, dopo aver attivato il tempo,
avesse l'obbligo di smarrirsi nella ruota dell'essere, assecondando, così, il
flusso circolare della ripetizione. Il desiderio, di fronte all'alea, al tempo, si
scopre nudo e giunge al fondo impossibile delle cose, laddove incontra il suo
scacco. Uno scacco, tuttavia, non definitivo, perché, sempre di nuovo, i
bisogni umani metteranno in discussione l'innocenza della chance.
Amor fati, volontà di chance non sono un risposta alla domanda di
piacere che il desiderio individuale pone, ma portano a trasfigurazione il
piacere stesso: «il piacere che cessa di essere una risposta al desiderio
88
SAGGI
dell'essere, che supera, con l'eccedere, questo desiderio, supera nello stesso
tempo l'essere e lo sostituisce con un glissare- un modo di esistere sospeso,
radioso, eccessivo, legato al senso del trovarsi nudi e di penetrare l'aperta
40
nudità altrui» .
L'eterno ritorno dell'uguale sarebbe un glissare, un sorvolare il problema
del tempo, concepito secondo lo schema triadico delle estasi di passato,
presente e futuro. Così come per il discorso morale, il regno della chance (o
dell'amor fati) supera il dato, in vista dell'evento, oltrepassa l'essere, per
recuperare una condizione di nudità, che sta alla base, anche, di una
rinnovata prospettiva etica, che si regge sul continuo porsi in questione,
sostituendo ai valori immutabili dell'era dei padroni, quello eternamente
mobile del gioco.
L'idea dell'eterno ritorno, in Nietzsche, differendo di continuo il centro,
proiettando le forze verso l'esterno, secondo un movimento centrifugo, ben si
presta ad interpretare un nuovo modello plastico di moralità non volgare,
dove gli esseri si usano reciproco rispetto, poiché sono necessitati a farlo. Il
compito dell'uomo risiede nell'amare una necessità eternamente ritornante,
pena la sospensione del flusso circolare dell'energia, pena la catastrofe
definitiva. «La misura della forza del cosmo è determinata, non è infinita:
guardiamoci da questi eccessi del concetto! Conseguentemente, il numero
delle posizioni, dei mutamenti, delle combinazioni e degli sviluppi di questa
forza è certamente immane e in sostanza non misurabile; ma in ogni caso è
anche determinato e non infinito. È vero che il tempo nel quale il cosmo
esercita la sua forza è infinito, cioè la forza è eternamente uguale ed
eternamente attiva: fino a questo attimo, è già trascorsa un’infinità, cioè tutti i
possibili sviluppi debbono già essere esistiti. Conseguentemente, lo sviluppo
momentaneo deve essere una ripetizione, e così quello che lo ha generato e
quello che da esso nasce, e così via: in avanti e all’indietro! Tutto è esistito
innumerevoli volte, in quanto la condizione complessiva di tutte le forze
41
ritorna sempre» .
La forza che anima il cosmo muta di continuo, rendendo il carattere
degli esseri composito, e, di conseguenza, incerto, non fissabile ipsealmente,
come fosse un fatto atomico, semplice. Non si dà, nel mondo della vita
organica, un movimento di sviluppo che procede dal semplice al composto,
pena la ricaduta in una sorta di fondazionalismo, allergico all'infinita potenza
della possibilità. Per Bataille, paradossalmente, il fatto atomico è che l'essere
nel mondo è composito, e la sua fluidità non può essere arrestata in una
forma, in un ipse qualunque. «Un uomo non è che una particella inserita in
insiemi instabili e aggrovigliati. Questi insiemi si compongono nella vita
personale sotto forma di molteplici possibilità[...] Solo l'estrema instabilità
89
delle connessioni permette di introdurre come un'illusione puerile ma comoda
42
una rappresentazione dell'esistenza isolata che si ripiega su se stessa» .
La conoscenza, allora, diviene una sorta di connessione chimicobiologica, una connessione precaria, tanto quanto lo è il legame tra le cellule
di un tessuto organico. La situazione composita degli esseri si riflette sulla
struttura della conoscenza, che si presenta, così, come un vortice, all'interno
43
del quale si agitano gli esseri, annaspando in un'esistenza labirintica , più
che circolare, un'esistenza disperatamente alla ricerca di un centro, di una
concentrazione di energia. La chimera filosofica di un'esistenza totale rende
gli essere smaniosi di costruire sistemi via via sempre più complessi, fino ad
afferrare (anche concettualmente) l'universalità, ma «il dio universale
distrugge piuttosto che reggere gli aggregati umani che ne sollevano lo
44
spettro» .
Volontà di chance ed amor fati, lungi dall'essere angosciose opposizioni
al libero instaurarsi della possibilità, rigettano, con il loro movimento
labirintico-circolare, una visione preordinata ed univoca della conoscenza,
così come del soggetto conoscente. «Il modo di conoscere e di riconoscere è
già tra le condizioni di esistenza: perciò la conclusione che non si possano
dare altri tipi di intelletto, se non quello che ci conserva, è affrettata [...] Il
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nostro apparato conoscitivo non è organizzato per la conoscenza» .
La conoscenza, cui Nietzsche fa riferimento, è quella totalitaria, che mira
a tesaurizzare il sapere, al fine di riutilizzarlo, impartendolo in pillole, all'uomo,
obbligato ad ingerirle, se non vuole ritrovarsi nudo di fronte all'esistenza.
4. La paura degli esseri umani è paura di essere nudi.
Quando si evoca la nudità, non lo si fa per riattingere una condizione
adamitica, ma per esemplificare il modello raccomandabile di una vita
acefala, priva di organizzazione, manchevole di precetti (sovrani o divini che
siano). «La vita umana non ne può più di servire da testa e da ragione
all'universo. Nella misura in cui diventa questa testa e questa ragione, nella
misura in cui diventa necessaria all'universo, essa accetta un asservimento
[...] La Terra, fino a quando ha generato soltanto cataclismi, alberi o uccelli,
era un universo libero: la fascinazione della libertà si è offuscata quando la
Terra ha prodotto un essere che impone la necessità come una legge al di
sopra dell'universo [...] Ciò nonostante, l'uomo è rimasto libero di non
rispondere più ad alcuna necessità [...] Egli può fugare il pensiero di essere
46
lui o Dio a impedire alle cose di essere assurde»
Favorire l'assurdità delle cose è il compito che si prefigge un individuo (o
47
società) acefalo (o policefalo), laddove per assurdità , si deve intendere,
propriamente, ciò che suona male, ciò che si allontana da un discorso savio,
90
SAGGI
razionale. L'assurdo, così, si allontana da una prospettiva logocentrica, dov'è
un soggetto imperante che pretende di dispensare il senso a ciascuna cosa.
«Soltanto se non è subordinata a un soggetto preciso che la supera, la vita
48
rimane integrale» . Si pone, a questo punto, il problema della totalità,
dell'integralità della vita. «Posso esistere totalmente soltanto superando in
qualche maniera lo stadio dell'azione. Altrimenti sarò soldato, rivoluzionario di
49
professione, scienziato, non l'uomo totale» .
L'uomo che agisce in vista di un obiettivo, è conscio degli sforzi che ha
da effettuare al fine di soddisfare il suo desiderio, ma risulta essere un uomo
parziale, frammentario, perché concentra tutte le sue energie in vista di uno
specifico guadagno. L'azione, in quanto decisione, è sempre un boia che
provoca la morte di tutte le altre possibilità realizzabili. Ed è proprio a partire
da questo precipitato dell'azione, che Bataille conduce la sua critica all'utilità
insita in ogni istante di chi vive nel tempo, con la prospettiva di un guadagno.
La soluzione, per emanciparsi dalla frammentarietà dovuta all'azione, non
risiede nel sospendere quest'ultima, ma, nel negarle la primazia temporale,
nel relegarla ad aspetto secondario, e non basilare, dell'esistenza.
L'uomo frammentario, di cui parla Bataille, somiglia molto all'ultimo
uomo nietzscheano, che ricerca una fortuna mediocre senza troppo dispendio
di forze, praticando tutto con la massima furbizia, rimpicciolendo sempre di
più le cose: «ecco! Io vi mostro l'ultimo uomo [...] La sua genia è indistruttibile,
come la pulce di terra; l'ultimo uomo campa più a lungo di tutti. Noi abbiamo
inventato la felicità- dicono gli ultimi uomini e strizzano l'occhio [...] Si continua
a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento
non sia troppo impegnativo [...] Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza
50
per la notte: salva restando la salute» .
L'uomo totale, invece, non aspira alla mediocrità, non ricerca la felicità,
ma supera la misera condizione umana, radicalizzando l'esperienza della
negatività, ed albergando presso di essa, non con l'obiettivo di recuperare
una fittizia unità, ma nel tentativo di salvare l'ineludibilità dell'eccessivo
conflitto che oppone la morte alla vita. Bataille opera un rovesciamento della
concezione filosofica hegeliana, ribaltandone la fenomenologia: conservare
l'opera della morte, del negativo, attraverso il riso, anziché mirare ad
51
un'irenica conciliazione universale, suggellata dalla serietà padronale .
Il riferimento polemico ad Hegel, ci torna utile nel momento in cui
poniamo allo specchio l'uomo totale di Bataille e l'oltreuomo nietzscheano.
Nietzsche non ha mai inteso, in accordo, su questo, con Bataille, che il
superamento dell'uomo parziale passasse per una sintesi di tipo dialettico.
L'oltreuomo non è la realizzazione di un ideale, non è la figura pacificatrice
che l'essenza guerresca del mondo, forse, esigerebbe, non è il compimento
di uno sfrenato evoluzionismo biologico, ma l'affermazione più convinta del
91
52
senso della terra , della frammentarietà dell'esperienza, che l'ibrido uomo
europeo deve amare fino in fondo, senza cedere alle lusinghe o alle
umiliazioni delle morali, preparata com'è la nostra epoca (non diversa da
quella nietzscheana, perché ancora dominata dal nichilismo): «al carnevale in
grande stile, all'altezza trascendentale della suprema idiozia e
dell'aristofanesca derisione del mondo. Forse proprio a questo punto
scopriamo altresì il regno della nostra invenzione, quel regno in cui anche noi
possiamo essere ancora originali, per esempio come parodisti della storia
mondiale o pagliacci d'Iddio- forse, anche se nessuna cosa avrà mai un
53
avvenire, sarà proprio il nostro riso ad averlo!» .
In questo senso, all'hegeliano Venerdì Santo dello Spirito Assoluto,
Nietzsche contrappone il Martedì Grasso dello spirito dissoluto, collocandosi
nel solco di quanto detto su Bataille circa il ribaltamento della fenomenologia
hegeliana.
L'oltreuomo e l'uomo totale mal si accordano con una soggettività di tipo
assoluto, prediligendo una collocazione immanente e trasparente, piuttosto
che trascendente ed opaca: «in fondo l'uomo integrale è solo un essere in cui
si annulla la trascendenza, da cui niente è più separato: un po' burattino, un
54
po' Dio, un po' pazzo...è la trasparenza» .
Tuttavia, ciò che primariamente traspare dell'uomo totale è la sua
angoscia, il suo non-sapere, che, poi, si tramuteranno in estasi e volontà di
non-sapere, attraverso un'esperienza interiore, un rapimento, che non annulla
l'io psicologico per condurlo alla unio mystica, ma lo annulla per riconsegnarlo
ai supplizi terreni. «Finché l'ipse persevera nella sua volontà di sapere e di
essere ipse dura l'angoscia, ma se l'ipse si abbandona e con se stesso il
sapere, se si dà al non-sapere in tale abbandono, ha inizio il rapimento [...]
Soppressione del soggetto e dell'oggetto, solo modo per non sfociare nel
possesso dell'oggetto da parte del soggetto, vale a dire per evitare l'assurda
55
corsa affannosa dell'ipse che vuole diventare il tutto» .
Tuttavia, sarebbe errato pensare che il rapimento conduca ad uno stato
in cui l'angoscia viene meno definitivamente. Il disagio, la dissoluzione, il non
sono gli elementi costitutivi di quell'unico habitat in cui la conoscenza può
prosperare, o, meglio, sperperare, disperare. La passione di non-sapere che
anima Bataille trova il suo punto d'esordio, però, paradossalmente, proprio a
partire da un sapere che si pretende assoluto. Da lì, è possibile per l'uomo
(totale) compiere il percorso dell'esperienza interiore, un tipo di esperienza
che ricorda (formalmente) più l'hegeliana Erfahrung che la diltheyana
56
Erlebnis , in quanto rimanda all'incessante lavoro del negativo, punto
cruciale anche della speculazione hegeliana. Laddove la Fenomenologia
dello Spirito ci narra del già dispiegato, però, la batailleana esperienza
interiore, quasi con un movimento a ritroso, ripiega il sapere, inabissandolo in
92
SAGGI
un luogo di silenzio, dove è necessario che il soggetto venga condotto. Qui,
nel non-sapere, l'io scopre il fondo impossibile delle cose, esponendosi,
sempre, di nuovo, all'angoscia, al supplizio che lo dilacera: quello tra
assolutezza ed implacabile brama interrogativa. Sapere assoluto e nonsapere, in questo senso, coincidono, perché protagonisti di un unico
movimento, di un'unica trama discorsiva, che enuncia l'inestinguibile dolore
dell'uomo, esattamente come avviene in Nietzsche, laddove l'esperienza
della malattia fa tutt'uno con quella della salute, del piacere.
«Ogni piacere vuole l'eternità di tutte le cose, vuole miele, vuole feccia,
vuole mezzanotte ebbra, vuole avelli, vuole il conforto delle lacrime dei
sepolcri, vuole il rosso orifiammante della sera [...] Così ricco è il piacere, che
ha sete di sofferenza, d'inferno, di odio, di vergogna, di storpiato, di
57
mondo» . Nel sapere convivono due aspetti, solo apparentemente antitetici,
ma, in realtà, complementari: la tensione all'Assoluto, da una parte, e,
l'ineffabile, l'ignoto, dall'altra. Se l'uomo opzionasse esclusivamente uno dei
due aspetti, ci troveremmo di fronte a due creature mostruose: l'ipse, l'identità
esasperata, il cannibalismo del Tutto, oppure, la passività, l'arbitrarietà, la
vaghezza dell'indefinito. Unendo proficuamente i due aspetti, invece,
giungiamo ad un'armonia, tuttavia temporanea, che consente la coabitazione
sulla stessa Terra di uomo e sapere, una coabitazione conflittuale, sì, ma
degna di essere vissuta fino in fondo, portata alle sue estreme conseguenze,
spinta sino all'impossibile.
Un sapere che ha attraversato l'assolutezza e considerato l'ignoto, è un
sapere trasfigurato, rinnovato, un sapere stocastico, dove elementi casuali e
processi selettivi, dove imponderabilità e creazione si fondono per generare
un uomo non più frammentario ed invischiato nelle spira dell'utilità, ma un
uomo finalmente liberato, che ha riportato sin nelle viscere del sapere,
l'istanza religiosa dell'ignoto e quella artistica dell'invenzione.
Un sapere siffatto, apre le porte ad un rinnovamento filosofico eclatante:
l'oggetto della conoscenza non corrisponde più ai dettami di una soggettività
imperante, ma giunge alla presenza autonomamente, fuoriuscendo da quel
calderone che è l'ignoto, il non-ancora.
Ciò vale, in modo emblematico, per gli artisti: «un costante creatore, un
uomo madre, nel senso grande della parola, un uomo che non sa e non sente
altro se non le gravidanze e le generazioni del suo spirito, che non ha tempo
di meditare su se stesso, che non ha più voglia di esercitare il suo gusto, e
semplicemente lo dimentica [...]- forse un tale uomo produrrà infine delle
opere all'altezza delle quali, già da un pezzo, non ha più saputo portare lo
sviluppo della sua facoltà di giudizio [...] Nessuno conosce un bambino
58
peggio dei suoi genitori» .
93
E il sapere, è proprio questo bambino, che un'educazione ferrea non
riporterà sulla retta via, mentre soggetto ed oggetto, tradizionalmente intesi, si
dissolvono in un'emesi: «astrazione informe/striata di fratture/cumulo/d'inanità
di oblii/da una parte il soggetto IO/e dall'altra l'oggetto/universo poltiglia di
nozioni morte/ove IO getta piangendo i rifiuti/le impotenze/i singulti/i
discordanti gridi di gallo delle idee/oh nulla fabbricato nell'officina della vanità
infinita/come una cassa di denti finti/IO chino sulla cassa/IO ho/la mia voglia
59
di vomitare voglia» .
5. Dal materialismo idealista all'informe: per un non-sapere effusivo
«La maggior parte dei materialisti, benché abbiano voluto eliminare ogni
entità spirituale, sono arrivati a descrivere un ordine di cose che rapporti
gerarchici caratterizzano come specificamente idealista. Hanno situato la
materia morta al vertice di una gerarchia convenzionale dei fatti di ordine
diverso, senza accorgersi di cedere così all'ossessione di una forma ideale
della materia, di una forma che si avvicinerebbe più di qualunque altra a ciò
60
che la materia dovrebbe essere» . Il rifiuto di una posizione tetica del sapere
viene espresso, dal Bataille giovane, anche in relazione alla delicata
questione della forma, dell'arte. Un materialismo, che potremmo definire di
matrice positivista, innalza la materia al rango ideale di modello, ricadendo,
così, nella deriva idealista, mentre, un materialismo basso si misura
direttamente con i fatti grezzi, senza l'ausilio di mediazione alcuna. In più,
laddove un materialismo idealista mira alla restaurazione dei tratti della figura
61
umana, un materialismo basso si misura con la mostruosità individuale,
senza la pretesa di ricondurla ad unità, ad armonica forma. Il mostruoso, da
cosa straordinaria, diviene evento ordinario, già da sempre esposto, che, per
il solo fatto di mostrarsi, indica qualcosa, mette in moto il pensiero. Bataille,
su questa scia, opera un radicale ribaltamento proprio nella sfera del
pensare: la forma non è, platonicamente parlando, un punto di arrivo, un
compimento, bensì, un punto di partenza, un'imperfetta irriducibilità. Tale
rovesciamento interviene, altresì, modificandolo, sullo statuto del soggetto (e
quindi dell'oggetto).
Nella versione idealista del materialismo, il soggetto è un soggetto
astratto e reazionario, mentre, nel materialismo basso, il soggetto precipita
nel vuoto fino ad urtare con la terra, mischiandosi con essa, divenendone
l'intimo senso. Il soggetto, fattosi materiale, diventa acefalo, in quanto mina il
castello di carte dell'autorità (sia essa rappresentata da Dio che dall'Idea,
monadiche cristallizzazioni del divenire materiale).
Che il mostruoso non sia un prodigio contro natura, ma, il semplice
divenire dialettico delle forme, Bataille lo mostra, ad esempio, quando parla
delle illustrazioni che accompagnano il manoscritto conosciuto sotto il nome
94
SAGGI
62
di Apocalisse di San Severo . Nel foglio 85 del manoscritto, incontriamo
un'illustrazione relativa al tema biblico del Diluvio. Ivi, i corpi straziati,
annegati di uomini ed animali sono rappresentati con una scompostezza
indegna di un libro sacro, contraria, cioè, alla tradizionale misura religiosa
ideale. In più, il sentimento di orrore suscitato dai corpi, gettati in pasto alla
brutalità del caso, nulla concede al sadismo: «l'orrore non comporta nessuna
compiacenza patologica e fa unicamente la parte del letame nella crescita
63
vegetale, letame dall'odore soffocante certo, ma salubre per la pianta» .
C'è un grandioso patetismo in quest'illustrazione, spia della totale
assenza di un disegno architetturale, compositivo, e, quindi, dal punto di vista
teologico, provvidenziale, a vantaggio, invece, di un'esaltazione incoerente
dell'eterogenea irriducibilità delle forme.
«Questa incoerenza è qui il segno dell'estremo disordine delle reazioni
umane libere. Non si tratta, in effetti, di un contrasto calcolato, ma di
un'espressione immediata delle metamorfosi inintelligibili- tanto più
64
significative- che sono il risultato di certe inclinazioni fatali» . Il passo citato
riveste una grande importanza per la formulazione di un'anti-teoria filosoficoartistica, che si emancipi dalle costrizioni compositive per approdare nella
dimensione dell'informe: «la filosofia intera non ha altro scopo, si tratta di dare
una redingote a ciò che è, una redingote matematica. Per contro, affermare
che l'universo non rassomiglia a niente e non è che informe equivale a dire
65
che l'universo è qualcosa come un ragno o uno sputo» .
Quando Bataille parla di informe, non si sta riferendo alla totale assenza
della forma, ma, al decentramento-declassamento delle forme che, secondo
un orizzonte estetico tradizionale, sono state innalzate a sovrana purezza, a
paradigma, a modello di bellezza. C'è, invece, nel termine informe, una certa
operazionalità, performatività, che gli conferisce la forza di un verbo, la
potenza metamorfica di un processo, quello dell'informare. In definitiva,
quindi, l'informe esige che ogni cosa al mondo abbia la sua forma, è
generazione, donazione di forme, irriverente nei confronti di qualsiasi pregiudizio estetico o morale.
In Nietzsche, è riscontrabile il medesimo processo, il medesimo
contromovimento, per cui, dalla preminenza della purezza ideale della forma
66
si passa a quella dell'indispensabile presupposto fisiologico dell'ebbrezza .
Nello stato d'ebbrezza, tutto viene arricchito, viene informato, attraverso
il carico di forza proprio dell'uomo che vuole trasformare le cose, previo rifiuto
di qualsiasi paradigma estetico, nel tentativo di riabilitare le forme scartate
dalla storia dell'arte tradizionale. «L'uomo in questo stato trasforma le cose,
sino a che esse rispecchino la sua potenza, sino a che diventino i riflessi della
sua perfezione [...] Sarebbe lecito figurarsi uno stato contrapposto, una
specifica anti-artisticità dell'istinto, un modo di essere che impoverisse,
95
assottigliasse, intisichisse tutte le cose. E in realtà la storia è ricca di tali antiartisti, di tali denutriti della vita, i quali per necessità si appropriano delle cose,
67
le spolpano, le devono rendere più scarne» .
Le cose devono diventare i riflessi della perfezione umana: a dispetto di
quanto un'interpretazione volgare potrebbe rendere, in tali parole non v'è
insito alcun causalismo né, tantomeno, alcuna prospettiva teleologica. Così
come la intende Nietzsche, perfezione vuol dire donare la forma, mediante un
processo libero, un movimento anti-decadente, che non guarda alle cose con
l'intento di rinvenire in esse delle forme già compiute, ma le violenta, per
ridare presenza alle forme ritenute ingiustamente inferiori, brutte, da scartare.
68
Il soggetto che dona la forma, mediante un processo di idealizzazione ,
è il soggetto del materialismo basso, che si plasma a seconda del prevalere o
meno di un istinto sull'altro, che modifica la sua forma in base al grado di
eccitabilità raggiunto dal suo sentimento di ebbrezza, dove si combinano,
l'impulso all'apollineo e quello al dionisiaco, in una continua osmosi, che
raggiunge il suo culmine, il suo più alto grado di informazione, allorquando
l'intero sistema degli affetti è massimamente eccitato, ovvero nello stato
dionisiaco. «L'essenziale sta nella facilità della metamorfosi, nell'incapacità di
non reagire (analogamente a quel che avviene in certi isterici cui basta un
semplice cenno per entrare in ogni ruolo). È impossibile per l'uomo dionisiaco
non comprendere una qualsiasi suggestione, egli non lascia inosservato
alcun segno emotivo, possiede nel massimo grado l'istinto del comprendere e
dell'indovinare, come pure, nel più alto grado, l'arte della comunicazione.
69
Entra in ogni pelle, in ogni moto dell'anima: si trasforma costantemente» .
L'uomo dionisiaco è il soggetto del materialismo basso, in quanto
condivide con esso la tendenza a declassare la forma compiuta, mediante un
processo metamorfico, un processo che attraversa tutte le forme, per
conferire loro quel senso, che l'estetica tradizionale gli aveva precluso,
fondando il suo rifiuto su oscuri pregiudizi.
C'è, nel soggetto ipotizzato da Bataille e Nietzsche, un isterismo di
fondo, che lo rende vulnerabile, feribile da qualsiasi suggestione emotiva, da
qualsiasi gioco di forze istintuale, deterritorializzandolo e riterritorializzandolo
di continuo, con un ritmo quasi ossessivo. «Si può definire l'ossessione della
metamorfosi come un bisogno violento, che si confonde d'altronde con
ciascuno dei nostri bisogni animali, e spinge un uomo a disfarsi tutto a un
tratto dei gesti e delle attitudini che la natura umana esige: per esempio, si
70
getta bocconi e mangia il pastone del cane» .
Bataille e Nietzsche, con le loro esperienze filosofiche estreme, non
hanno inteso, nichilisticamente, abolire tout court dall'orizzonte teoretico le
nozioni di soggetto e forma, bensì, le hanno ripensate, sulla scorta di un
rovesciamento prospettico della tradizione.
96
1
G. BATAILLE, Su Nietzsche, tr. it. a cura di A. Zanzotto, SE, Milano 2006, p.
16.
2
Ivi, p. 18.
3
Ivi, p. 20.
4
S. LATOUCHE, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione
mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 11.
5
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 22.
6
Ibidem.
7
Ivi, p. 18.
8
Ivi, p. 27.
9
Ivi, p. 28.
10
Siamo nel gennaio del 1883, Nietzsche si trova a Rapallo, in Italia, e scrive
quella che in seguito sarà la prima parte del Così parlò Zarathustra. Il nome
volontà di potenza compare, per la prima volta, nel capitolo intitolato Dei mille
e uno scopo.
11
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere, ed. italiana diretta da G.
Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, tomo I, pp. 67-69.
12
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 37.
13
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1882-1884, in Opere, op. cit., vol. VII,
tomo I, parte II, fr. 10 [31], p. 30.
14
F. NIETZSCHE, Aurora, in Opere, cit., vol. V, tomo I, § 39, p. 34.
15
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 48.
16
F. NIETZSCHE, Ecce homo, in Opere, cit., vol. VI, tomo II, Perchè io sono un
destino, § 1.
17
Ivi, § 2.
18
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 56.
19
Il riferimento all'opera di Dalì, Il gioco lugubre (1929), ci appare gravido di
spunti. Dinnanzi ad una statua collocata su un piedistallo, che si copre gli
occhi per non vedere, una testa femminile implode sparando all’esterno altre
due teste. La figura umana del passante che guarda, come anche il corpo
femminile da cui proviene la testa che implode, hanno un dettaglio
SAGGI
L'uomo dionisiaco con la sua volontà di potenza e l'uomo totale con la
sua volontà di chance incarnano il culmine di un processo metamorfico,
mirato alla costituzione di un sapere effusivo e stocastico, dove tra soggetto
ed oggetto non vige più una scissione padronale, ma uno scambio, una
comunicazione reciproca, dove l'io è influenzato, anzi, di più, può conoscersi
solo sulla base delle modificazioni oggettuali, solo in relazione
all'imprevedibile gioco degli istinti, cui non può sottrarsi, pena la sua
fuoriuscita dall'immanenza.
97
scatologico, ulteriore elemento di implosione. La volontà di chance, come
moto del male, rinvia all'idea dell'implosione corporea e cosmologica, all'idea
della metamorfosi continua, e, non da ultimo, a quella di forza improduttiva.
20
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere, cit., vol. VI, tomo I, p. 25.
21
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, in Opere, op. cit., vol. V, tomo II, § 318.
22
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 128.
23
Ivi, pp. 115-116.
24
Cfr., a proposito della questione del telos, G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p.
178, dove si legge: «talvolta l'amore del gioco induce al più grande rischio, a
misconoscere lo scopo che si persegue. Lo scopo, in quest'ultimo caso, può
non essere stabile, la sua natura è di porsi un possibile illimitato», e, F.
Nietzsche, Aurora, op. cit., § 130, dove leggiamo: «fini? volontà? ci siamo
abituati a credere a due regni, al regno dei fini e della volontà, e al regno dei
casi; in quest'ultimo ci sono accadimenti assurdi [...] Abbiamo timore di
questo possente reame della grande stupidità cosmica, poiché il più delle
volte facciamo la sua conoscenza mentre piomba nell'altro mondo, quello dei
fini e dei propositi, come una tegola dal tetto, accoppandoci una qualche bella
finalità».
25
G. BATAILLE, Sacrifici, ed. it. a cura di M. Rovelli, Stampa Alternativa,
Viterbo 2007, p. 11. Ci rifacciamo al testo della presente edizione e non a
quello inserito nel volume L'esperienza interiore, con il titolo La morte è in
certo senso un'impostura, in quanto, quest'ultimo, è largamente rimaneggiato
e chiosato. Preferiamo, pertanto, fare riferimento al testo integrale, così come
uscì nel 1936 in una plaquette, ad accompagnare cinque acqueforti di André
Masson.
26
Cfr. F. NIETZSCHE, La gaia scienza, in Opere, cit., § 374, e, segnatamente, il
seguente passaggio: «il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta
infinito: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in
sé interpretazioni infinite».
27
G. BATAILLE, Su Nietzsche, op. cit., p. 180.
28
Potlàc o potlàch vuol dire scambio, baratto, ma anche spreco. È un termine
delle tribù nordamericane del nord-ovest. Si riferisce alle grandi feste
d'inverno, che duravano più giorni e solennizzavano ricorrenze speciali, con
canti, danze mascherate e banchetti, e un numero infinito di invitati; e
terminavano con larga distribuzione di doni agli invitati in cui si esaurivano
talvolta tutti i beni del donatore. Al potlàc si rispondeva con un potlàc a tempo
debito. Cfr. in proposito, M. MAUSS, Saggio sul dono. Forma e motivo dello
scambio nelle società arcaiche, trad. it. a cura di F. Zannino, Einaudi, Torino
2002, e, lo stesso G. BATAILLE, Il limite dell'utile, trad. it. a cura di F. C.
Papparo, Adelphi, Milano 2000.
98
G. BATAILLE, La nozione di dépense, in La parte maledetta, trad. it. a cura di
F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50.
30
Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., § Delle tre metamorfosi, pp.
23-25.
31
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., vol. VIII, tomo
II, fr. 9 [151], p. 77. Il frammento in questione figura tra quelli inseriti da
Nietzsche stesso, all'inizio del 1888 (come emerge dai suoi quaderni), in un
piano, seppur materiale, e non architettonico, preparatorio all'opera
progettata, e mai realizzata, La volontà di potenza, e, per questa ragione,
ricopre una particolare importanza, in quanto risalente ad un'epoca in cui la
sua speculazione aveva raggiunto un culmine. Nella numerazione di pugno
nietzscheano, il frammento compare al n. 250, e sarebbe dovuto confluire
nell'ipotetico IV libro della Volontà di potenza.
31
Ivi, fr. 10 [138], p. 178.
32
G. BATAILLE, La nozione di dépense, in La parte maledetta, cit., p. 44.
33
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, cit., fr. 10 [138], p.
178.
34
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 177.
35
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, in Opere, cit., § 382.
36
G. BATAILLE, L'esperienza interiore, trad. it. a cura di C. Morena, Edizioni
Dedalo, Bari 2002, p. 222.
37
F. NIETZSCHE, Ecce homo, in Opere, cit., § Così parlò Zarathustra. Un libro
per tutti e per nessuno, 1.
38
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 146.
39
Ivi, pp. 146-147.
40
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1881-1882, in Opere, cit., fr. 11 [316].
41
G. BATAILLE, Il labirinto, trad. it. a cura di S. Finzi, SE, Milano 2003, pp. 1819. Il testo originale fu pubblicato sotto il titolo Le labyrinthe, in Recherches
philosophiques, vol. V, 1935-36, pp. 364-372. Una versione notevolmente
rimaneggiata dello stesso è reperibile in G. Bataille, L'esperienza interiore,
op. cit., sotto il titolo Il Labirinto (o la composizione degli esseri), pp. 129-144.
42
Anche Nietzsche segnala la disperazione che accompagna un'esistenza
labirintica. Cfr. in proposito F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in
Opere, cit., vol. VI, tomo II, Lo spirito libero, § 29: «è cosa di ben pochi essere
indipendenti: è una prerogativa dei forti. E chi tenta di esserlo [...] si infila in
un labirinto, moltiplica in mille modi i pericoli che la vita, già di per se stessa,
comporta».
43
Ivi, p. 21.
44
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884, in Opere, cit., fr. 26 [127], p. 167.
45
G. BATAILLE, La congiura sacra, trad. it. a cura di F. Di Stefano e R.
Garbetta, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 6.
SAGGI
29
99
46
Il termine latino absurdus è composto dalla particella ab, che indica
allontanamento, e da una forma dell'antico verbo sardare, che sta per parlare
saviamente, a sua volta rimandante alla radice sanscrita svar=suar, che
indica il suonare.
47
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 24 (corsivo mio).
48
Ivi, p. 23.
49
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere, cit., pp. 11-12.
50
Cfr. in proposito M. PERNIOLA, Georges Bataille e il negativo, Feltrinelli,
Milano 1977, in ispecie il capitolo 4, Il negativo tra serietà e riso, pp. 91-131.
51
Cfr. in proposito F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere, cit., p. 6:
«ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la
vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!».
52
F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, in Opere, cit., § 223.
53
G. BATAILLE, Su Nietzsche, cit., p. 26.
54
G. Bataille, Il supplizio in L'esperienza interiore, cit., pp. 92-94.
55
Cfr. in proposito F. C. PAPPARO, Incanto e misura, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1997, in ispecie il capitolo 2, Dall'apparizione dileguante del
soggetto una nuova specie di cose vere. Note intorno alla passione di nonsapere, pp. 81-144.
56
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere, cit. p. 392.
57
F. NIETZSCHE, La gaia scienza, in Opere, cit., § 369.
58
G. BATAILLE, L'impossibile, trad. it. a cura di R. Baldassini, SE, Milano 1999,
p. 142.
59
G. BATAILLE, Documents, trad. it. a cura di S. Finzi, Edizioni Dedalo, Bari
1974, p. 170.
60
Il termine latino mònstrum indica ciò che è prodigioso, contro natura, e, si
presta, anche, a due suggestioni etimologiche: la prima riguarda il verbo
monère (avvertire), quasi che mònstrum incarnasse una sorta di segnale
della divina volontà (seguendo un'idea superstiziosa degli antichi), e, la
seconda, riguarda il verbo mònstrare (porre sotto gli occhi altrui), che, oltre al
significato comune, rinvia al far pensare [vedi la radice mon- (=manpensare)].
61
Cfr in proposito G. BATAILLE, Documents, cit., pp. 31-32, ove leggiamo:« il
testo principale di questo manoscritto (fogli 14-216) volgarmente conosciuto
sotto il nome di Apocalisse di San Severo è in realtà il Commento
sull'Apocalisse del prete Beatus di Liebana (Asturie). [...] Nel manoscritto di
San Severo, quest'opera è preceduta da un quadro genealogico dei
personaggi e della storia santa, seguito da un Commentario di San Gerolamo
su Daniele, da due altri trattati religiosi e da alcune carte del secolo XI
riguardanti l'abbazia di San Severo».
62
Ivi, p. 37.
100
63
Ivi, p. 41.
Ivi, p. 165.
65
Cfr. F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, in Opere, cit., vol. VI, tomo II,
Scorribande di un inattuale, § 8.
66
Ivi, § 9 (corsivo mio).
67
Idealizzare (idealisieren) nulla ha a che vedere, qui, con la dialettica
ascendente platonica, rinviando, invece, al sentimento dell'ebbrezza. Cfr. in
proposito, F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, in Opere, cit., Scorribande di
un inattuale, § 8, dove si legge: «liberiamoci qui di un pregiudizio: l'idealizzare
non consiste, come si crede comunemente, in una sottrazione o eliminazione
di ciò che è piccolo, accessorio. Il punto decisivo sta piuttosto in un
portentoso proiettar fuori i tratti principali».
68
Ivi, § 10.
69
G. BATAILLE, Documents, cit., p. 177.
SAGGI
64
101
L’ARISTOTELISMO GALILEIANO DEGLI SCRITTI GIOVANILI
di Giuseppe Nolé
Gli indirizzi filosofici che caratterizzarono l’umanesimo e il rinascimento1 non
riuscirono affatto a soppiantare dalle università dell’epoca le più importanti
correnti filosofiche tradizionali; riuscirono tuttavia a esercitare su di esse una
certa influenza, sia pure esterna, dovuta soprattutto al nuovo materiale
scoperto e messo a disposizione dai filologi. Ciò accadde in particolare per
l’aristotelismo.
Due erano state le versioni principali dell’aristotelismo latino, determinatesi
durante i vivi dibattiti del XIII secolo: la cosiddetta versione ortodossa (Alberto
Magno e Tommaso d’Aquino), e la versione averroista. In un primo tempo, sia
l’una che l’altra erano state colpite da severe condanne da parte delle autorità
ecclesiastiche. Ma all’inizio del XIV secolo i difensori dell’aristotelismo tomista
(cioè i domenicani) ottennero la revoca di esse e perfino la canonizzazione
dell’aquinate. Nei secoli successivi l’aristotelismo tomista consolidò e
perfezionò la propria struttura sistematica riuscendo a caratterizzarsi come
uno dei baluardi più sicuri dell’ortodossia; questa posizione riceverà una
specie di sanzione ufficiale ad opera della Controriforma. Più vario e
complesso fu invece lo sviluppo della versione eterodossa.
La tradizione aristotelica rinascimentale
L’università di Padova, tra il Quattrocento e Cinquecento, si affermò sempre
più come il grande centro dell’averroismo, in antitesi a Firenze (centro del
platonismo). Infatti a Padova comparve nel 1472-74 la prima edizione latina
delle opere di Aristotele, che includeva anche un commento di Averroè; a
Padova insegnarono molti sostenitori dell’aristotelismo averroista tra i quali è
giusto citare Paolo Veneto, autore di due note opere di logica e un commento
al De anima di Aristotele, chiaramente ispirate a queste teorie, e Agostino
Nifo che si farà portatore dell’averroismo nelle varie città italiane dove si
recherà a insegnare (Pisa, Bologna, Salerno, Roma).
Un secondo grande centro dell’aristotelismo eterodosso essenzialmente
rivolto, come quello di Padova, ai problemi di scienza e filosofia della natura
ma, come vedremo in seguito, con una impostazione filosofica alquanto
diversa, fu l’università di Bologna. Non dobbiamo però dimenticare che anche
a Firenze si ebbe nel frattempo una rinascita di studi aristotelici a opera di
dotti bizantini (Gemisto Pletonio e Basilio Bessarione). Furono proprio tali
dotti a proclamare la necessità di una migliore conoscenza dei testi
aristotelici, per cogliere l’autentico pensiero dello stagirita, al di là delle
102
SAGGI
interpretazione che se ne erano date nel medioevo. Se la maggior parte dei
dotti bizantini venuti in Italia propendeva per il platonismo (o meglio il
neoplatonismo), vi era però stato qualcuno di essi che, nel grande confronto
tra Platone ed Aristotele, aveva difeso la superiorità di quest’ultimo. E’ il caso
di Giorgio di Trebisonda.
Il richiamo ad una miglior conoscenza dei testi aristotelici ebbe notevole
risonanza anche entro l’ambiente padovano, in cui si vollero studiare più a
fondo anche gli antichi commenti della filosofia aristotelica. Il fatto nuovo che
suscitò una autentica svolta entro l’aristotelismo rinascimentale, fu tuttavia un
altro, ovvero la meditata riflessione sui commenti aristotelici e sulle opere
originali di Alessandro di Afrodisia2. E’ proprio dall’approfondita conoscenza
dell’interpretazione di Aristotele data da Alessandro, che prese origine quella
notevolissima variante dell’aristotelismo nota come “aristotelismo greco o
alessandrista”. La figura più eminente dell’aristotelismo eterodosso fu quella
di Piero Pomponazzi, seguace del commento alessandrista.
Va ricordato che sia l’alessandrismo che l’averroismo, come varianti
all’aristotelismo tomista, essendo entrambe filosofie aristoteliche, non
possono fare a meno di avere in comune i caratteri tipici dell’aristotelismo: per
esempio l’impianto metafisico della fisica (cioè la tendenza a far intervenire la
causa finale nella spiegazione di qualunque fenomeno), l’importanza attribuita
alla logica più che alla matematica, l’impostazione rigorosamente razionalista
di tutta l’indagine filosofica. Il maggior divario tra i due indirizzi riguarda però il
problema dell’anima. Per gli averroisti essa è immortale, separata
dall’individuo concreto; gli alessandrini sostengono invece la mortalità
dell’anima individuale. Malgrado le polemiche interne, essi si trovarono
spesso coinvolti nelle medesime battaglie filosofiche e così accadde che il
nome “averroista” finì con il perdere il suo significato originario e venne usato
per indicare indistintamente tutti gli aristotelici eterodossi. Come sappiamo,
mentre i platonici dominarono in modo assoluto l’accademia fiorentina, gli
aristotelici eterodossi dominarono altre università, fra le quali Bologna e
Padova.
Il recupero della Scolastica medioevale, che ebbe luogo nel Cinquecento, è
conosciuto anche con il nome di Seconda Scolastica o Scolastica spagnola.
Essa si svolse parallelamente alle correnti filosofiche evidenziate nelle pagine
precedenti. I pregi più cospicui di questa ripresa non sono stati di natura
gnoseologica e metafisica, ma piuttosto etica e giuridica. Nel campo
metafisico furono rilevati notevoli indebolimenti che sfaldarono il pensiero
occidentale e aprirono le porte ad un nuovo metodo per raggiungere la verità,
punto di partenza di una nuova filosofia che vedrà in Galileo e Cartesio i
principali pionieri. La seconda scolastica è fondamentalmente dominata dal
pensiero di Tommaso d’Aquino, il quale, dopo l’oblio e il tramonto del
103
Trecento e del Quattrocento, andò lentamente acquistando un posto di
primato. Antonino di Firenze e il Savonarola, in Italia, entrambi domenicani,
avevano richiamato l’attenzione sull’opera dell’Aquinate. Tommaso de Vio
detto il Gaetano, Francesco de Silvestri detto il Ferrarese e Francesco de
Vitoria, sono tre dei maggiori commentatori delle Somme di Tommaso; il più
insigne rappresentante è però Francisco Suárez.
Merita particolare menzione Roberto Bellarmino, il quale svolse i suoi studi al
Collegio Romano e nelle Università di Padova e Lovanio. Molto coinvolto nel
dibattito culturale intorno a Galileo, la sua opera si distingue anche per la
formulazione, poi divenuta paradigmatica, delle relazioni Stato e Chiesa. Egli
parte dalla naturalità della società civile e dell’autorità politica e ammette
l’autosufficienza dello Stato. Nelle nazioni cristiane la Chiesa ha però autorità
suprema su deliberazioni in materia morale e religiosa, avendo perciò il
diritto-dovere di intervenire nel governo della nazione.
L’aristotelismo di ispirazione tomista ottenne un chiaro riconoscimento con il
Concilio di Trento e la Controriforma. Se da un lato riforma protestante e
teorie umaniste avevano sostenuto la necessità di un ritorno allo studio dei
testi nella loro autentica purezza, la Controriforma, pur sostenendo la stessa
necessità, tentò di salvaguardare i presupposti teologici e filosofici alla base
della fede cristiana.
Artefici di tale opera di salvaguardia furono i religiosi della Compagnia di
Gesù, la quale divenne un vero e proprio strumento di guerra in difesa della
cattolicità e della sua espansione in ogni paese. Seguendo le direttive
generali della Controriforma i gesuiti accettano in linea di massima il tomismo,
quale strumento di recupero dell’egemonia culturale della chiesa.
Di notevole importanza, in questo periodo storico, per quel che riguarda
l’itinerario formativo dei giovani, è la promulgazione della ratio studiorum, che
andò a fondare la pedagogia e il metodo di studi attuati nelle istituzioni
scolastiche dei gesuiti. La prima ratio studiorum fu preparata dal preposito
generale Acquaviva. Nel 1599 venne promulgata con valore di legge. Il corso
di studi prevede un ciclo di cultura generale della durata di otto anni, cinque a
indirizzo umanistico e tre a indirizzo filosofico. Nella prima parte, di cui tre
anni sono dedicati allo studio della grammatica, uno all’ “umanità” e uno alla
retorica, assume valore centrale lo studio del latino, cui viene subordinato
quello della storia, della geografia e del greco. Nella seconda parte lo studio
della filosofia è integrato con cognizioni più propriamente scientifiche,
riguardanti la matematica, l’astronomia, la fisica. La ratio studiorum ha
esercitato un forte influsso sull’organizzazione degli studi medi e superiori
anche e soprattutto al di fuori dell’apparato formativo proprio della Compagnia
di Gesù, entrando di forza ad influenzare e condizionare l’organizzazione di
molte università italiane ed europee.
104
SAGGI
Panorama universitario italiano tra XVI e XVII secolo3
Nonostante il corso di studi dei gesuiti privilegiasse un taglio umanistico, fin
dal 1550 lo stesso Ignazio di Loyola aveva preso in considerazione la
possibilità che, nelle scuole gesuitiche, venissero insegnate le matematiche
dopo che già nella pratica didattica i precoci collegi di Messina e Roma vi
dedicavano da qualche anno un corso specifico. La necessità 4di incrementare
gli studi fu poi auspicata con energia da Cristoforo Clavio , il prestigioso
scienziato del Collegio Romano da molti soprannominato il “secondo Euclide”
per l’autorevolezza del suo magistero. Infatti nel 1586 Clavio scrisse
l’opuscolo Modo quo disciplinae mathematicae in scholis Societas possent
promoveri e la Ratio studiorum ne sancì l’insegnamento. Non per nulla la
grande promozione della disciplina era avvenuta qualche anno prima, nel
1582, allorché la matematica, alleatasi con l’astronomia, aveva dato vita alla
riforma del calendario, voluta da papa Gregorio XIII e compiuta per l’appunto
da Clavio.
In seguito la battaglia tra nuova scienza galileiana e la Chiesa obbligò la
Compagnia di Gesù a preparare quadri intellettuali sempre più agguerriti nella
ricerca filosofica e scientifica, capaci di dialogare con Galileo: Clavio era
l’esponente di punta di questa classe docente.
A Bologna, dove pure i primi insediamenti di gesuiti si erano avuti fin dal
1546, premessa dell’apertura cinque anni dopo dalla prima scuole di
grammatica, umanità e retorica per allievi esterni, fu possibile istituire corsi
completi di filosofia e teologia soltanto nel 1635, grazie al trasferimento in
città dello studentato di Parma. A differenza di Bologna, dove la più antica
università cercò sempre di tutelare il proprio monopolio didattico da ogni
possibile ingerenza del corpo docente che insegnava nel collegio gesuitico di
Santa Lucia, a Parma l’atto di fondazione dell’università, nel 1601, era
avvenuto di fatto con l’assorbimento del locale collegio di san Rocco.5
Docente di Parma per un ventennio era stato il bolognese Giuseppe Bianconi,
coetaneo e interlocutore diretto di Galileo, con cui era entrato in familiarità
durante un comune soggiorno padovano, tra il 1596 e il 1599. Tali
competenze scientifiche, dopo un apprendistato nelle scuole gesuitiche nelle
province venete, prima di approdare a Parma in qualità di docente, le acquisì
alla scuola di Clavio, da cui ereditò il principio della centralità epistemologica
della matematica. A contatto però con la tradizione tecnologica e
sperimentale di Parma, Bianconi seppe convertire la competenze
matematiche in una dimensione più fattuale, predisponendo l’alleanza di una
physico-mathesis che, di fatto, lo poneva distante dalla tradizione del corpo
accademico parmense e bolognese. Nella sua Sphaera mundi non relega la
105
cosmologia aristotelica nel repertorio delle teorie obsolete, ma ne mina molte
tesi di fisica, assumendo una difesa convinta della matematica.
Per quanto sia una personalità d’eccezione, Bianconi non può ovviamente
competere con il carisma di Galileo; nel collegio di Bologna il ruolo di leader
fu svolto, a partire dal 1636, da Giambattista Riccioli, le cui ricerche
astronomiche lo fecero diventare una delle autorità più ascoltate tra gli
scienziati fedeli alle direttive controriformistiche e, al tempo stesso, uno degli
uomini più temuti e riveriti da parte dei “novatori”. Naturalmente Riccioli,
considerato dai discepoli di Galileo «soggetto hoggi de buoni di questi nostri
paesi»,6 accumulò argomentazioni su argomentazioni per confutare
Copernico.
A Bologna, presidio del sapere scolastico canonizzato negli statuti ufficiali
dell’università, Galileo troverà parecchi avversari, taluni felpati e circospetti
come Magini, altri, rozzi e sguaiati, come Horky; ma al tempo stesso, per la
politica accademica di Galileo, che mirò sempre ad insediare suoi allievi nelle
roccaforti peripatetiche, il suo insegnamento aveva attecchito in questo
ateneo, tanto che all’indomani della pubblicazione dei Massimi Sistemi un suo
amico, Cesare Marsili, si era assunto
l’incarico di ricevere le copie che
«dovranno vendersi a Bologna ».7
Uno dei più illustri docenti padovani invece fu Giacomo Zabarella, autore del
commento al De anima di Aristotele, nonché di varie opere di logica che
godettero di grande notorietà per circa un secolo. Al pensiero di Zabarella è
collegato quello di Cesare Cremonini, che fu collega di Galileo proprio a
Padova, oltre che amico sincero, pur avversando caparbiamente le dottrine
galileiane; è famoso per essersi rifiutato di guardare nel cannocchiale e per
l’essersi preso gioco di tale scoperta.8 Tale avversione alla ricerca scientifica
nasce in lui dalla profonda separazione che egli compie tra Dio e il mondo,
sostenendo che questo non può essere frutto della creazione divina: Dio
infatti è verità immobile.
L'influenza dell'aristotelismo
L’influenza, nelle accademie universitarie, dell’indirizzo aristotelico esaminato
nei paragrafi precedenti fu assai vasta e profonda per tutto il XVI e XVII
secolo. Va innanzitutto segnalata l’importanza della distinzione, tenacemente
propugnata da tutti gli aristotelici, fra ordine delle verità filosofico-scientifiche
e ordine delle verità di fede: essa conduce, a poco a poco, non soltanto a
riconoscere la piena autonomia delle prime, ma a considerare le altre come
proposizioni inferiori, fornite non tanto di autentica verità, quanto piuttosto di
semplice validità.
Dal punto di vista prettamente filosofico, l’aristotelismo sorto nel Cinquecento
rappresentò una difesa intransigente della conoscibilità del reale, contro
106
Gli studi giovanili di Galilelo
Il quadro culturale descritto fino ad ora fa da contorno alla prima formazione
di Galileo e, l’aver ricordato alcune caratteristiche fondamentali di tale quadro,
ci servirà a capire alcuni dei risvolti che avrà il pensiero del filosofo pisano sin
dai suoi primi anni.9
Nei primi anni di studio di Galileo, l'intenzione del padre Vincenzio era quella
di avviare il figlio agli studi di medicina, per fargli seguire così le orme di un
loro parente vissuto nel XV secolo, chiamato anch'egli Galileo, che aveva
goduto di grande fama come medico e come uomo di vita pubblica. D'accordo
con questo piano, fece in modo che suo figlio si iscrivesse all'università come
studente di medicina nell'autunno del 1581.
È possibile sapere quali studi ha affrondato Galileo nel suo soggiorno pisano
esaminando con attenzione alcune parti dell’Edizione Nazionale delle Opere.
Il curatore ci segnala infatti, che Galileo studiò la filosofia straordinaria con il
Verini e il Buonamici, filosofia e medicina con Clemente Quarantotto, la logica
con Rodrigo Fonseca, lesse la fisica di Aristotele con il fiorentino Giulio
SAGGI
misticismo e nominalismo. Tale difesa però spingeva ad asserire che la
conoscenza del reale deve essere ottenuta mediante determinate categorie di
tipo tradizionale, con la condanna di ogni tentativo di rinnovamento. Il merito
più grande dell’aristotelismo, come è stato già accennato, fu l’interesse
suscitato per i problemi della natura, che fece passare in secondo piano
quello per l’oltremondo e per Dio. Anche qui tuttavia non seppe conseguire
risultati veramente decisivi, perché rimase impacciato dalla rigidità delle
proprie formule. Tre furono i pregiudizi che limitarono tale sviluppo: a)
l’esclusione, dall’indagine naturalistica, dei procedimenti matematici, accusati
di fermarsi alla descrizione dei fenomeni senza risalire alle cause. Si finì per
imbrigliare la natura in schemi dialettici, definizioni, principi generali, ecc., che
finirono col dare alla ricerca un carattere di astrattezza e generalità; toccherà
soprattutto ai platonici contrapporre l’uso della matematica a quello della
logica nella conoscenza dei fenomeni; b) l’accettazione della fisica aristotelica
come costruzione scientifica perfetta, e la pretesa di spiegare con i suoi
schemi, in particolare con la causa finale, tutti i dati scoperti e scopribili
dall’osservazione; questo pregiudizio graverà in modo speciale sulle
concezioni meccaniche e astronomiche, e costringerà la nuova scienza (di cui
Galileo fu uno dei massimi interpreti) a entrare in un drammatico urto con
l’aristotelismo; c) l ricorso alle anime per rendere conto dell’azione reciproca
di un corpo sull’altro, e in tal modo l’attribuzione di un valore scientifico
all’astrologia come studio dell’azione del mondo celeste su quello terrestre.
Per le gravi deficienze interne che ora abbiamo accennato, l’aristotelismo
diverrà nel Seicento uno dei bersagli preferiti della nuova scienza.
107
Libri.10 Studiò però anche matematica (che comprendeva anche
astronomia), con Filippo Fantoni, monaco camaldolese. Egli tornava
probabilmente a Firenze durante il periodo estivo e ciò spiegherebbe il modo
in cui Galileo integrò la formazione matematica ricevuta da padre Fantoni.
Come abbiamo visto, era consuetudine della corte di Toscana trasferirsi ogni
anno da Firenze a Pisa nel periodo che andava da Natale a Pasqua.
Matematico di corte era Ostilio Ricci, un competente geometra che era stato
probabilmente discepolo di Niccolò Tartaglia. Durante l'anno accademico
1582-83, Galileo incontrò Ricci, mentre quest'ultimo si trovava a Pisa, ed
assistette alle lezioni che Ricci dava su Euclide presso la corte. L'estate
seguente, quando Galileo ritornò a Firenze, all'epoca del suo studio di
Galeno, invitò Ricci a casa sua, perché conoscesse suo padre. Ricci informò
Vincenzio che suo figlio era poco interessato alla medicina e che voleva
diventare invece un matematico e chiese pertanto il permesso di poterlo
istruire in questa disciplina. Nonostante il disagio di Vincenzio di fronte ad una
simile richiesta, avvalendosi dell'aiuto di Ricci, a partire da quel momento
Galileo poté dedicarsi sempre più intensamente allo studio di Euclide e di
Archimede, grazie probabilmente alle traduzioni in lingua italiana delle loro
opere preparate dal Tartaglia11 .
Nel 1585 Galileo interruppe gli studi universitari a Pisa e cominciò ad
insegnare privatamente matematica a Firenze e a Siena, ove ebbe un posto
pubblico nel 1585-1586, e quindi a Vallombrosa, nell'estate del 1588. Nel
1589 Fantoni lasciò la sua cattedra di matematica a Pisa e Galileo fu scelto
per sostituirlo, sia per la buona impressione data alla corte di Toscana
durante le sue lezioni su Dante, sia per le raccomandazioni impetrate da
Clavio e da altri matematici che avevano ormai conosciuto il suo lavoro.
Galileo cominciò ad insegnare a Pisa nel novembre del 1589 insieme a
Jacopo Mazzoni (1548-1598), un filosofo che insegnava Platone ed
Aristotele, ma era anche esperto di Dante. I due diventarono subito amici.
Mazzoni conosceva le opere di un altro matematico, Giovanni Battista
Benedetti (1530-1590), e Galileo ne fa un'esplicita menzione in una lettera,
scritta da Pisa e indirizzata a suo padre a Firenze, datata 15 novembre
1590.12
Durante il suo soggiorno pisano, Galileo scrisse tre quaderni in lingua latina,
uno sulla logica, spiegando il concetto di dimostrazione e di prova in
Aristotele (Dialettica , manoscritto [=MS] n. 27), un altro spiegando
l'insegnamento di Aristotele sui cieli e sugli elementi (De caelo e il De
elementis , MS n. 46), ed un terzo quaderno contenente il suo primo trattato
sul moto (De motu , MS n. 71). Quest’ultimo parla della gravità e della
leggerezza, del galleggiamento, dei corpi in moto, sia in caduta libera che
lungo piani inclinati. I manoscritti 27 e 46 sono sostanzialmente delle
108
La Dialettica, il De Coelo e il Tractatus de elementis
I manoscritti pisani sono indispensabili per la comprensione del periodo
iniziale dell'attività di Galileo. La cronologia a cui facciamo riferimento è
basata su ricerche recenti14 e non è contenuta nella Edizione Nazionale delle
Opere di Galileo, in cui sono raccolti «coll’appellativo Iuvenilia».15 Favaro di
certo conosceva il MS n. 27, ma ritenne si trattasse di un esercizio che
Galileo copiò da un monaco di Vallombrosa, datato attorno al 1579 e non lo
incluse pertanto nella edizione delle Opere. Trascrisse e pubblicò i MSS nn.
46 e 71 ma, da quanto sostenuto da Wallace, non datò bene il primo e non
ricostruì correttamente le parti in cui era composto il secondo. I manoscritti
sono attualmente conservati nella Collezione Galileiana della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze.16
Il MS n. 27 fu trascritto e pubblicato quattrocento anni dopo essere stato
scritto in due opere di W. A. Wallace17. I trattati che esso contiene
corrispondono al corso annuale di logica dato dal gesuita Paolo Vallius (15611622) al Collegio Romano, concluso nell'agosto del 1588 e furono composti
da Galileo probabilmente all'inizio del 1589. Essi contengono un'esauriente
analisi della dottrina di Aristotele circa la conoscenza previa necessaria ad
ogni dimostrazione e sulla dimostrazione in se stessa e si concludono con
una spiegazione sul processo dimostrativo. Il contenuto18 sostanziale e
innovativo del MS n. 27 riguarda il processo (regressus) dimostrativo, un tipo
di ragionamento che impiega due dimostrazioni, una “del fatto in sé”, l'altra
“del fatto ragionato”. Dagli studi effettuati Wallace deduce che nella sua
esposizione, Galileo si riferisce a queste due dimostrazioni come
“progressioni” e nota che esse sono separate da una fase intermedia. La
prima progressione argomenta dall'effetto alla causa, mentre la seconda si
muove nella direzione opposta, dalla causa all'effetto. Perché il processo
funzioni, occorre che la “dimostrazione del fatto” venga per prima e che
l'effetto sia dunque inizialmente conosciuto più della sua causa, sebbene alla
fine essi debbano essere visti in modo convertibile. La fase intermedia
SAGGI
esposizioni teoriche, mentre il manoscritto 71 menziona gli «esperimenti»
(pericula) che egli realizzò nel tentativo di formulare le leggi del moto.13
Galileo insegnò a Pisa fino al 1592. La morte di suo padre, avvenuta nel 1591
gli causò, in quanto figlio primogenito, alcuni problemi finanziari; egli dovette
allora procurarsi un salario migliore dei 60 fiorini che percepiva fino a quel
momento. Si mise alla ricerca e finalmente ottenne un posto da 180 fiorini
all'Università di Padova, ove svolse la sua lezione inaugurale il 7 dicembre
1592. Galileo trascorse ancora diciotto anni della sua vita nel territorio della
Repubblica Veneta, più tardi ricordati da lui come gli anni più felici della sua
vita.
109
realizza la transizione alla seconda dimostrazione. Il termine latino examen è
importante perché corrisponde al greco peîra , un vocabolo che è nella radice
del latino periculum , cioè prova, l’equivalente di esperimento
(experimentum). Compito principale della fase intermedia è la prova, il
ricercare ed eliminare altre possibilità, in modo da ritrovare la causa che fa sì
che quell'effetto sia presente. La maggiore innovazione di Galileo nella logica
del regressus fu dunque l’impiego del periculum nella fase intermedia, allo
scopo di determinare la vera causa del fenomeno che si stava studiando.
Il MS n. 46 è composto dai due trattati già segnalati (De caelo e il De
elementis).19 Sono manoscritti su carta con filigrana pisana che presumono
la conoscenza della logica del MS n. 27, e come quest'ultimo si basano su
corsi impartiti dai gesuiti al Collegio Romano. La sua migliore datazione,
secondo quanto sostenuto da Wallace, è a Pisa, attorno al 1590. Il tema
intorno a cui ruota la prima parte del MS n. 46 è appunto la trattazione intorno
alla struttura del cielo ripercorrendo i passi compiuti da 20Aristotele. Nelle varie
quaestio Galileo si interroga se «unicum esse caelum» , sull’ordine in cui è
strutturato il cielo, sulla sua composizione, sulla sua suddivisione in forma e
materia, sulla incorruttibilità. Il lavoro di Galileo risulta essere una esposizione
chiara e dettagliata del pensiero dello stagirita.
Nella seconda parte del manoscritto, riguardante la trattazione sugli elementi
che compongono l’universo, possiamo distinguere due parti: una prima
riguardante la forma e la sostanza degli elementi in cui Galileo esamina le
quattro cause aristoteliche e la separazione tra forma e sostanza; una
seconda in cui esamina le qualità primarie della natura. In questo trattato
sono numerosi i riferimenti a molteplici opere di Aristotele (De coelo, De
generatione et corruptione, Meteorologia, Fisica, Metafisica).
Appare opportuno sottolineare il giudizio del Favaro a proposito dei trattati in
questione; essi «non differiscono di molto dai consueti commentari coi quali a
que’tempi si esponevano dalla cattedra le dottrine d’Aristotele»21; la
conoscenza degli scritti aristotelici che il Galileo aveva acquisito nei suoi primi
anni di studio aveva raggiunto un ottimo livello e soprattutto il suo acume gli
permetteva di padroneggiare le teorie aristoteliche, a tal punto da
perfezionarle e adattarle in base alla sua visione del metodo di ricerca.
Altri elementi che ci permettono di riportare questi manoscritti nella categorie
delle esercitazioni di uno studente riguardano la struttura stessa dei lavori.
Ricalcando la tradizione tomista i lavori sono strutturati in pars e quaestio,
opinio e conclusio e riprendono il metodo espositivo caratteristico di questo
tipo di impostazione filosofica22. Anche se in alcuni riferimenti sui contenuti
Galileo comincia a discostarsi dalla tradizione aristotelica, nella forma sembra
voler ripercorrere queste orme.
110
Quaeri potest, an gravia vere ad centrum moveantur; do quo Ptolemaeus,
c.7. p. lib. A1.
Utrum virtus impressa, tempore vel gravitate mobilis consumetur.
Motus naturalis a quo flat.
Motus violentus a quo flat.
Utrum medium sit necessarium ad motum.
An detur simpliciter grave et simpliciter leve.
An elementa, in proprio loco sint gravia aut levia.
De proportione motuum eiusdem mobilis in diversis mediis.
De proportione motuum diversorum, mobilium in eodem. medio.
De causa tarditatis et velocitatis motus.
An in puncto reflexionis detur quies.
An motus naturalis semper intendatur et cur intendatur.
Utrum tardits et celeritas motus naturalis sit a raritate vel de.... me....
In motu 3 considerantur: mobile, medium et movens.
Quid prosit ant obsit figura mobilium motui.
De proportione gravitatum eiusdem gravis in diversis mediis, ex qua pendet
quaestio de proportione motuum.
Data medii gravitate et velocitate mobilis, datur etiam gravitas mobilis.
Data gravitate mobilis et medii, datur velocitas motus.
Data volocitate et gravitate mobilis, datur gravitas medii.
De motu circulari.
Considerandum est de proportione motuum super planose inclinatos, et an
forte leviora citius in principio descendant; sicut in lance, quo minora fuerint
pondera, eo facilius fit motus.27
SAGGI
Il dialogo “De motu”.
La storia del MS n. 71, nota ai più con il titolo De Motu, è più complessa.23
Le sue cinque parti, tutte originali di Galileo, furono scritte in formato folio con
una varietà di filigrane. Il suo latino va migliorando al progredire della
composizione. Iniziato nel 1588 e completato attorno al 1592, le sue differenti
parti furono scritte a Firenze e Pisa in epoche diverse.
Il De motu si compone in due parti. La maggiore è un trattato con capitoli non
numerati, di cui i primi24 sono stati scritti di primo getto, e gli altri25 sono una
successiva redazione. La seconda parte26 è un dialogo rimasto incompiuto
tra due personaggi, Alessandro, il maestro rappresentante e “portavoce” di
Galileo, e Domenico, il discepolo. Riportiamo ora un elenco che, a giudizio di
Giacomelli, ci fornisce un indice abbastanza completo dei temi che Galileo
vuole trattare nel suo scritto:
111
È importante evidenziare la sottolineatura che Giacomelli compie facendo
notare come, nell’impostazione del suo lavoro, Galileo segua lo stesso
schema del IV libro della Fisica di Aristotele. Al centro di questa trattazione vi
sono sempre tre quesiti fondamentali: 1) relazione tra velocità di caduta dei
gravi e il loro peso; 2) relazione tra velocità di caduta dei gravi e densità del
mezzo attraversato; 3) causa del movimento dei corpi lanciati, cioè del moto
non determinato dal peso.
Le risposte della tradizione aristotelica, per i primi due quesiti, erano che la
velocità di caduta fosse direttamente proporzionale al peso del corpo in
caduta, e inversamente proporzionale alla densità del mezzo stesso
(significava affermare che la velocità è proporzionale al rapporto peso del
grave/densità); per il terzo invece il movimento dei gravi lanciati era dovuto
all’azione del mezzo ambiente, cioè dell’ aria.28
Nel proseguimento della nostra analisi potremo notare come le risposte di
Galileo a questi quesiti siano differenti: la velocità di caduta in un dato mezzo
è proporzionale alla differenza tra il peso specifico del grave e il peso
specifico del mezzo. Il maggior utilizzo di Archimede da parte di Galileo fu in
questo caso la causa della rimozione del concetto aristotelico di peso
assoluto in favore di quello di peso specifico, cioè del peso del corpo
influenzato dal mezzo in cui esso è immerso, la cui azione deve essere
sottratta. Si tratta di un suggerimento originariamente avanzato da Benedetti
e non da Galileo.
Critica del concetto di grave
Secondo Giacomelli, Galileo, nel suo trattato, compie una critica approfondita
del concetto di grave.29 A tale trattazione egli dedica sei capitoli.30 Occorre
innanzitutto ricordare che tale argomentazione prende corpo esaminando un
dogma della fisica aristotelica secondo cui nel mondo i corpi andavano distinti
in gravi e leggeri: i primi tendevano al centro del mondo, i secondi alla
periferia (all’alto). Tale teoria aveva la conseguenza di distinguere la materia
in base alle tendenze meccaniche opposte.
La verità per Galileo era differente:31 tutti i corpi sono pesanti, ma in maniera
proporzionale alla loro densità; tutti sono in movimento verso il centro, ma in
maniera diversa in ragione della loro densità. Il solo moto verso il basso è il
moto naturale, spontaneo, mentre ogni moto verso l’alto è un moto violento.
“Aristotele set caeteri philosophi pro levi accipere id quod nos minus grave
appellamus contenti essent, hanc levis appellationem nos quoque admittere
non gravati essemus: verum qia voluerunt (non contenti se pro levi id quod
minus grave est intelligere) dari etiam leve quoddam corpus, quod tale
sempliciter esset et omni careret gravitate, id cane peius et angue
112
La caduta dei gravi e il moto
Nei paragrafi successivi del suo studio Giacomelli fa notare come Galileo, nel
trattare della caduta dei gravi, operi una prima distinzione considerando se
essi siano in movimento in un mezzo pieno, nel vuoto o lungo piani
inclinati.37
Per il primo caso (caduta dei gravi in un mezzo pieno), premesso che gli
antichi consideravano il peso e ogni altra forza come fattore che producesse
velocità e non accelerazione, la teoria aristotelica secondo cui la velocità di
caduta di un grave in un mezzo pieno era data dal rapporto peso del
grave/densità del mezzo, era stata già messa in discussione nel VI sec. d.C..
Dallo studio del testo emerge che la trattazione di Galileo considera quattro
differenti casi: corpi della stessa specie cadenti nello stesso mezzo; corpi di
diversa specie cadenti nello stesso mezzo; corpi della stessa specie cadenti
in diversi mezzi; corpi di diversa specie cadenti in diversi mezzi. Tale
trattazione viene affrontata in un capitolo dove si dimostra che i mobili mossi
nello stesso mezzo presentano una diversa proporzione rispetto a quella
assegnata loro da Aristotele.38 In questo capitolo Galileo affronta solo il
secondo dei quattro casi elencati in precedenza, ritenendo infatti che gli altri
possano essere riconducibili tutti a questo.
Al termine delle considerazioni che Galileo riferisce per i diversi casi, egli
giunge a stabilire una legge di proporzionalità diretta tra la velocità di caduta
e l’eccesso del peso specifico del grave sul mezzo, affermando in
conclusione: “Hae, igitur, universales sunt regulae proportionum motuum
mobilium, sive eiusdem sive non eiusdem speciei, in eodem vel in diversis
mediis, sursum aut deorsum motorum”.39
SAGGI
abhorrentes, omnimode et fenditus usque ipsum leve evertere conati
sumus”.32
Nelle ultime pagine della trattazione Galileo conclude affermando: “
Concludamus itaque, gravitatis nullum corpus expers esse, sed gravia esse
omnia, haec quidam magis, haec autem minus, prout eorum materia magis
costipata et compressa, vel difusa et extensa, fuerit”.33
La critica del concetto aristotelico di grave era stata già trattata nel capitolo
dal titolo per cui non deve ammettersi «sempliciter leve et sempliciter
grave».34 La requisitoria citata, invece, appartiene al primo di quattro
capitoli35 in cui tale tema viene ampliato.36 Per questa laboriosa disamina
Galileo prendeva le mosse da Archimede, secondo il quale la leggerezza di
un corpo è una diminuzione della sua gravità, prodotta dalla gravità del
mezzo. Ma tratteremo in maniera approfondita gli apporti archimedei alle
teoria galileiana nel capitolo seguente.
113
Al capitolo ora esaminato, in cui è studiata la caduta dei gravi in un mezzo
pieno, Galileo fa seguire due in cui tratta la caduta del grave nel vacuo. Nel
primo di questi due capitoli,40 dove si riprendono in considerazione le
dimostrazioni fatte in precedenza, Galileo rileva come non sia possibile
parlare di vera gravità dei pesi finché questi vengono studiati nel pieno;
bisognerebbe che «in vacuo ponderari possent».41
Nel secondo capitolo,42 dove si dimostra, contro Aristotele, che esiste il
vuoto, Galileo comincia con l’osservare che Aristotele nella Fisica aveva
formulato argomentazioni fondate sul movimento per negare l’esistenza del
vuoto; tali argomentazioni prendevano piede dal suo errato postulato in cui
poneva una proporzionalità inversa tra velocità del corpo e densità del
mezzo. Si stabiliva una proporzione assurda nel caso particolare del vuoto.
Naturalmente Galileo applica al caso specifico del vuoto la sua proporzione
diretta tra velocità e differenza dei pesi specifici, sottolineando come la sua
sia una proporzione aritmetica (uguaglianza fra differenze) e non geometrica
(uguaglianza fra rapporti) come quella di Aristotele.
Dato un corpo a di peso specifico 20 e due mezzi bc e de di uguale altezza,
di peso specifico rispettivamente 12 e 6, si avrà che il corpo a cade nel primo
mezzo con velocità 20 - 12 = 8 e nel secondo con velocità 20 - 6 = 14: donde
la proporzione aritmetica 14 - 8 = 12 - 6. La quale dice che la differenza fra le
velocità di caduta: in due mezzi di diversa densità è uguale alla differenza fra
le densità dei mezzi attraversati. Nel caso che uno dei mezzi, ad esempio il
secondo, sia il vuoto, essendo la velocità nel primo mezzo 20 - 12 = 8 e nel
secondo 20 - 0 = 20, si avrà 20 - 8 = 12 - 0.43
Galileo conclude il capitolo con un perentorio «…et de hoc satis»44 ad
indicare che per lui i mobili nel vuoto, siano essi della stessa o di diversa
materia, si muovono con la stessa velocità, e tale argomentazione per lui non
ha bisogno di ulteriori sottolineature.
Di originale in Galileo in questa parte del trattato, secondo quanto sostenuto
in diversi studi anche da Wallace, vi fu l'utilizzo del piano inclinato per
ritardare la caduta, sotto l'influenza della gravità, dei corpi in esame45.
L'intuizione basilare che soggiace a questo esperimento può essere esposta
come segue: se il peso effettivo di un corpo può essere diminuito
collocandolo su di un piano inclinato, allora anche la sua velocità di
scivolamento diminuirà proporzionalmente. La dimostrazione offerta da
Galileo è di tipo geometrico e consiste nel mostrare che le forze
corrispondenti ai pesi sui piani inclinati obbediscono di fatto alla legge della
bilancia. Ciò richiede però varie supposizioni e, a questo proposito, può
essere vista come una dimostrazione ex suppositione. Se quelle supposizioni
sono garantite, la conclusione segue direttamente: il rapporto delle velocità
lungo il piano inclinato corrisponderà a quello fra la lunghezza del piano e la
114
ll concetto di forza tra Aristotele e Galileo
Nel capitolo del trattato intitolato «a quo moveatur proiecta»51 Galileo
affronta il tema della forza e dei corpi lanciati da un movente. Nella teoria
aristotelica, in cui alla base di ogni movimento vi è il contatto di un primo
motore, seguito da un una successione ordinata di movimenti, tale moto era
una eccezione discordante. Aristotele eliminò il problema affermando che tale
moto avviene perché il mezzo si fa portatore del contatto tra mobile e motore
(dottrina del mezzo). Dopo avere esposto l’infondatezza della teoria
aristotelica il Linceo espone la propria: “quod siti sta virus motiva, quae a
proicente in proiecto imprimitur. Dicimus ergo, illam esse privatione gravitatis,
cum mobile sursum impellitur; cum vero deorsum, esse esse privationem
levitatis. […] Proiecta nullo modo moveri a medio, sed a virtute motiva
impressa a proibente”.52
SAGGI
sua altezza verticale, perché il peso dei corpi varia precisamente secondo
quella proporzione.46
Nel prosieguo della sua trattazione Galileo passa a spiegare il moto dei corpi
situati su un piano equidistante dell’orizzonte, in assenza di resistenza. La
dimostrazione prende le mosse, come la precedente, dall’esemplificazione di
una bilancia e arriva alla conclusione che «ergo restat, quod in ipso horizonte
ercto nec natuliter nec violenter moveatur. Quod si non violenter movetur,
ergo a vi omnium minima moveri poteri».47
Per Giacomelli, dopo tale dimostrazione, poteva sorgere il problema di che
cosa potesse avvenire di un movimento comunicato ad una sfera in tale
piano:48 essa cesserà il suo movimento dopo un intervallo di tempo oppure
continuerà all’infinito? Per Galileo, in studi successivi, tale moto verrà
considerato come moto circolare intorno alla terra stessa; tuttavia nel De
motu si pone il problema della rotazione eterna di una sfera su se stessa. Per
alcuni contemporanei di Galileo, che si rifacevano alla tradizione antica, una
palla sferica, su un piano, toccata in una sola sua parte, non avrebbe mai
potuto fermarsi.49 E ciò in relazione alle qualità metafisiche della sfera.
Galileo sposta il discorso sul piano fisico, facendo conciliare o meno tale
rotazione con una legge dell’universo, che Newton codificherà in seguito
come legge di gravitazione. Prima di parlare di eternità del moto bisogna
allora vedere se esso è diretto verso il centro oppure se esso è fuori
dall’influenza di tale attrazione. Se si prende la rotazione della sfera
omogenea e non, in cui il suo centro di gravità coincide con il centro di gravità
del mondo, avviene che il suo moto non è né naturale né violento. Se tale
sfera è mossa «ab esterno motore», non si potrà formulare nessuna ipotesi
senza aver prima definito che tipo di forza sia causa del movimento.50
115
In questa affermazione, per Koyrè, appare evidente il riferimento di Galileo
all’opera di Giambattista Benedetti e alla fisica dell’impetus da lui sostenuta:
“Omne corpus grave, aut sui natura, aut vi motum, in se recipit impressionem
et impetum motus, ita ut separatum a virtute movente per aliquod temporis
spatium ex seipso moveatur; nam si secundum naturam motu cieatur, suam
velocitatem semper augebit, cum in eo impetus et impressio semper
augeantur, quia coniunctam habet perpetuo virtutem moventem. Unde manu
movendo rotam ab eaque; eam removendo, rota statim non quiescet, sed per
aliquod temporis spatium circunvertetur”.53
Ma che cosa è quest’impetus, questa forza motrice causa del movimento
immanente al mobile? Nella sua opera su Galileo il Koyrè afferma che non è
semplice dare una definizione chiara e comprensiva. E’ una qualità che si
imprime al mobile, o meglio, che lo permea. E’ una specie di habitus che il
mobile acquista per tutto il tempo in cui è sottoposto all’azione del motore.54
Nel capitolo successivo, intitolato «in quo virtutem motivam successive in
mobili debilitari ostenditur»,55 Galileo passa a dimostrare che tale virtù tende
a diminuire in modo continuo e non è mai uguale nel suo svolgimento.
Galileo tratterà di molte applicazioni di tale concetto di forza in natura,
pensando addirittura di aver scoperto la causa dell’accelerazione del moto di
caduta.56 Ci pare importante sottolineare il capitolo in cui considera la causa
per la quale alcuni oggetti meno pesanti, all’inizio del loro moto, si muovano
più velocemente dei oggetti più pesanti. Egli dice che, se è vero che un corpo
all’inizio della sua caduta dalla quiete ha in se tanta forza quanto il suo peso,
ne consegue che i corpi più gravi, dovendo perdere una quantità di forza,
diretta in senso contrario alla gravità, dovranno discendere al principio più
lentamente, avendo infatti una maggiore resistenza. Ne consegue ancora che
tali corpi, una volta perduta tale resistenza contraria, scenderanno più
velocemente. Da questa argomentazione riconosciamo alcune delle
esperienze che egli ha fatto dalla torre: esperienze dirette ad escludere,
secondo quanto sostenuto da Averroè, che il legno cadesse a terra più
rapidamente del piombo, dato che il legno scendeva più velocemente nel
tratto iniziale.57
Considerazioni conclusive
Abbiamo esaminato nelle pagine precedenti il contenuto di alcuni scritti del
giovane Galileo. Ci è sembrato importante questa argomentazione per
mettere in evidenza il grande lavoro di acquisizione intellettuale compiuto da
Galileo nei suoi primi anni di studio accademico.
Negli ultimi anni Wallace ha riaperto la querelle sulla continuità tra pensiero
mediovale, rinascimentale e moderno, specie aristotelico, prendendo come
punto di partenza proprio gli Juvenilia galileiani. Per Wallace, dall’analisi dei
116
SAGGI
manoscritti galileiani, risulta un influsso diretto del Collegio Romano sul
giovane Galileo con il collegamento delle sue idee ai matematici medioevali.
Egli avanza una nuova interpretazione che considera la metodologia
galileiana legata alla prassi delle matematiche in uso nei collegi gesuiti e
basata totalmente sul procedimento aristotelico ex suppositione. Gli elementi
archimedei restano condizionati dalla fisica matematica di Clavio.58
Di certo ci si chiede che senso abbiamo tali manoscritti all’interno del
percorso filosofico compiuto da Galileo nella sua vita. Vogliamo però
evidenziare alcune affermazioni che il Favaro pone all’inizio dell’Edizione
nazionale in cui scrive: “Grandi rivoluzioni scientifiche non operano mai coloro
che , ricevuto un buon avviamento, in essi perseverano; quelli invece che,
iniziati in una disciplina e riconosciutine gli errori, adoperarono nella ricerca
del vero gli stessi criteri che li avevano guidati alla scoperta del falso, aprirono
alla scienza nuovi orizzonti”.59
È facile evidenziare una netta differenza fra i MSS. 27 e 46 e il MS. 71. I
primi due, come abbiamo potuto vedere, rappresentano le esercitazioni di un
giovane studente alle prese con i maestri della cultura antica. Il MS. 71
comincia a delineare una presa di posizione più netta e marcata rispetto alla
tradizione.
In questa affermazione del Favaro troviamo giustificata e spiegata la
motivazione che sta alla base della stesura di queste “esercitazioni
scolastiche”: esse rappresentano il punto di partenza necessario per
l’evoluzione, in senso anti-aristotelico, del pensiero galileiano nelle sue
battaglie contro la fisica aristotelica. Per giungere alla demolizione della fisica
aristotelica, allora, Galileo avrebbe dovuto necessariamente approfondire tale
dottrina. E ciò è avvenuto in maniera mirabile, perché nei manoscritti Galileo
ha compiuto un ingente lavoro di analisi dell’opera di Aristotele e di
approfondimento di molte tematiche, sia filosofiche che scientifiche, dibattute
in quel periodo. Alla quasi completa ortodossia dei primi due manoscritti fa
riscontro, però, una prima chiara e limpida critica nel MS. 71 sul moto in cui
prende le distanze dalla visione del mondo data da Aristotele: senza bisogno
di entrare in merito ad ogni disputa, basta leggere i titoli dei vari capitoli per
notare subito i tantissimi contra Aristotelem presenti in essi.60
A proposito della disputa filosofica sulla chiave di lettura da attribuire ai
manoscritti giovanili di Galileo, vogliamo segnalare il parere di Dollo secondo
cui, mentre la ricostruzione del pensiero galileiano proposta da Favaro
presentava una evoluzione lineare, assegnando ai soli MS. 21 e 46 la
modesta funzione di ricognizione scolastica del circolante accademico, la
posizione di Wallace dovrebbe spingere ad una serie di interrogativi. Egli più
volte ha sostenuto la tesi che vi sia una linea di accentuata continuità tra i tre
manoscritti indicati.61
117
Si può infatti notare, secondo la chiave di lettura data da Dollo che sembra
sposare l’interpretazione del Favaro,62 secondo cui fra le idee che stanno
alla base del MS. 46 vi è l’accettazione dell’ilemorfismo, la differenza
qualitativa delle sostanze celesti, la corrispondenza tra movimento e natura
dei corpi, rifiuta Aristotele solo quando contrasta le verità di fede e non cita
una sola volta Archimede. Se invece rivolgiamo la nostra attenzione al De
Motu, assistiamo ad un cambiamento assai accentuato della prospettiva: è
quasi assente l’ilemorfismo e vengono rigettati sia la differenza qualitativa tra
le materie, sia la corrispondenza tra movimenti e sostanza; Aristotele è al
centro delle contestazioni, mente Archimede diventa il presupposto di ogni
discorso.
1
Per le indicazioni riguardanti il dibattito filosofico tra XVI e XVII si fa
riferimento alla Grande antologia filosofica, diretta da U. A. PADOVANI e M. F.
SCIACCA; coordinata da A. M. MOSCHETTI, M. SCHIAMONE, M. A. RASCHINI e P.
P. OTTONELLO, Marzorati, Milano, voll VI e XII.
2
Alcuni scritti di Alessandro erano già noti fin dal medioevo, come il
commento al De sensu; ma nell’epoca di cui ci stiamo occupando è l’intera
sua opera che suscita il più vivo interesse degli studiosi. Ci limitiamo a
ricordare la traduzione del De anima e diverse opere fra cui merita particolare
attenzione la traduzione del commento di Alessandro alla Metafisica di
Aristotele.
3
Per un quadro più ampio e completo del mondo accademico si può far
riferimento a G. P. BRIZZI e R. GRECI (a cura di), Gesuiti e università in Europa,
(secoli XVI-XVII), Atti del Convegno (Parma 13-15 dicembre 2001), Bologna
2002; A. BATTISTINI. Galileo e i Gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza,
Milano 2000 e U. BALDINI, Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza
dei gesuiti in Italia. 1450-1632, Roma 1992.
4
Sulla figura di Clavio si veda la prima parte di Cristoph Clavius e l’attività
scientifica dei gesuiti nell’età di Galileo, Atti del Convegno internazionale
(Chieti, 28-30 aprile 1993) a cura di U. BALDINI, Roma 1995.
5
Cfr. U. BALDINI, Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza dei
gesuiti in Italia. 1450-1632, op. cit.
6
Lettera a V. Viviani del 10 Agosto 1655, in Carteggio 1649-1656, vol. II delle
Opere dei discepoli di Galileo, a cura di G.. ABETTI e di P. PAGNINI, Firenze
1942, p. 243.
118
Lettera di Cesare Marsili a Galileo, 18 dicembre 1631, in G. GALILEI, Opere
di Galileo Galilei, Ediz. Naz. a cura di FAVARO A., Firenze 1890-1909, (d’ora in
poi Opere), XIV, p. 319.
8
Cfr. Lettera di Paolo Gualdo a Galileo, 6 maggio 1611, Opere, XI, p. 100.
9
Cfr. M. CAMEROTA, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell'età della
Controriforma, Roma 2004; L. GEYMONAT, Galileo Galilei, op.cit.; P. ROSSI,
Galileo Galilei, Roma 1995.
10
Opere, I, p. 12.
11
Cfr S. DRAKE, Galileo at Work: His Scientific Biography , Chicago-London
1978, trad it. Galileo. Una biografia scientifica, Bologna 1988.
12
cfr. Opere, X, pp. 44-45.
13
W. A. W ALLACE , Galileo's Pisan Studies in Science and Philosophy , in «The
Cambridge Companion to Galileo», a cura di P. MACHAMER, Cambridge 1998,
pp. 27-52.
14
Ibidem.
15
Opere, I, p. 9.
16
BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE “FIRENZE”, Collezione Galileiana della
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato, Roma.
17
W.F. EDWARDS e W.A. W ALLACE (a cura di), Tractatio de praecognitionibus
and Tractatio de demonstratione, Padova 1988, e W.A. W ALLACE (a cura di),
Galileo's Logical Questions, A Translation, con note e commento, DordrechtBoston-London 1992.
18
Cfr. Ibidem.
19
Rispettivamente in Opere, I, pp. 38-122 e Ibid, pp. 122-177. Per una
versione critica più recente di entrambi i manoscritti si veda anche W.A.
WALLACE (a cura di), Galileo's Early Notebooks, traduzione dal latino e
commento paleografico, Indiana 1977.
20
Opere, I, p. 38.
21
Opere, I, p. 11.
22
Molti sono anche i riferimenti contenutistici, oltre che strutturali, alla Summa
Theologiae di San Tommaso.
23
Per uno studio completo e approfondito si veda: R. GIACOMELLI , Galileo
Galilei giovane e il suo “De motu”, Pisa 1949.
24
Opere, I, p. 243-340.
25
Ivi, pp. 341-366.
26
Ivi, pp. 367-408.
27
Opere, I, p. 418.
« Può farsi questione se veramente i gravi si muovano al centro del mondo; di
che Tolomeo, c. 7, p. lib. A.1.
Se la virtù impressa sia consumata dal tempo ovvero dalla gravità del mobile.
SAGGI
7
119
Da che sia causato il moto naturale.
Da che sia causato il moto violento.
Se il mezzo sia necessario al moto.
Se si dia un grave e un leggero in senso assoluto.
Se gli elementi nel proprio luogo siano gravi o leggeri.
Della proporzione dei movimenti di uno stesso mobile in diversi mezzi.
Della proporzione dei movimenti di diversi mobili nello stesso mezzo.
Della causa della tardità e della velocità del movimento.
Se nel punto di riflessione si dia quiete.
Se il moto naturale si acceleri sempre più e perché si acceleri.
Nel movimento si considerano tre cose : il mobile, il mezzo, e il movente.
In che modo la figura del mobile sia favorevole o sfavorevole al movimento.
Della proporzione delle gravità di uno stesso grave in diversi mezzi, dalla
quale dipende la questione della proporzione dei movimenti.
Data la gravità del mezzo e la velocità del mobile, è anche data la gravità del
mobile.
Data la gravità del mobile, e del mezzo, è data la velocità del moto.
Data la velocità e gravità del mobile, è data la gravità del mezzo.
Del moto circolare.
Occorre considerare la proporzione dei movimenti su piani inclinati, e se forse
i più leggeri non discendano al principio più rapidamente, allo stesso modo
che nella bilancia nella quale, quanto più i pesi siano minori tanto più facile è
il movimento».
Per la traduzione italiana di questi e dei successivi passi del De Motu si fa
riferimento a R. GIACOMELLI , op. cit, pp. 29-30.
28
Cfr. ivi, pp. 30-31. Nei paragrafi successivi la suddivisione per trattazione
che Giacomelli adotta nel suo studio, ci servirà come guida per una analisi più
approfondita del testo di Galileo.
29
Cfr. Ivi, p. 33.
30
Cfr. Opere, I, p. 254-260, 289-293.
31
Cfr. R. GIACOMELLI , op. cit, pp. 33-34.
32
Opere, I, p. 355. «Se pertanto Aristotele e gli altri filosofi si contentassero di
prendere per leggero quello che noi chiamiamo meno grave, non ci sarebbe
grave di accettare anche noi questa espressione di leggero: ma poiché (non
contenti di intendere per leggero ciò che è meno grave) vollero che vi fosse
un qualche corpo leggero, il quale sia assolutamente tale e che manchi di
ogni gravità noi che aborriamo ciò assai più d’un cane o d’un serpe, ci siamo
sforzato di demolire questo leggero, in ogni modo e completamente».
Traduzione italiana tratta da R. GIACOMELLI , op. cit, p. 34.
33
Ivi, p. 360. «Concludiamo pertanto che non vi è nessun corpo privo di
gravità, ma che tutti sono gravi, se non che alcuni più e altri meno, secondo
120
SAGGI
che la loro materia sia più costipata e compressa, o diffusa o dilatata».
Traduzione italiana tratta da R. GIACOMELLI , op. cit, p. 34.
34
Cfr. Opere, I, p. 289.
35
Cfr. Ivi, p. 355-366.
36
I titoli dei capitoli nella traduzione italiana risultano: Contro l’opinione di
Aristotele nessun corpo è privo di gravità; Nessun moto all’insù è naturale; Si
prova che il moto all’insù non può essere naturale da parte del mobile; Quelle
cose che fin qui sono state dette muovendosi naturalmente all’insù, non sono
mosse da causa interna, ma esterna e precisamente, per estrusione, dal
mezzo stesso.
37
Cfr. R. GIACOMELLI , op. cit, pp. 35 ss. Egli infatti titola tre differenti paragrafi
per i tre casi presi in esame.
38
Il titolo del capitolo risulta: «diversa mobilia in eodem medio mota aliam
servare proportionem a bea, quae illis ab Aristotele est tributa», in Opere, I,
pp. 262-273.
39
Ivi, p. 273. «Queste sono regole universali delle proporzioni dei movimenti
dei mobili, sia della stessa sia non della stessa specie, nello stesso mezzo o
in diversi mezzi, all’insù o all’ingiù». Traduzione italiana tratta da R.
GIACOMELLI , op. cit, p. 42.
40
Il titolo del capitolo risulta: «in quo ea omnia, quae supra demonstrata sunt,
naturali discursu considerantur, et ad lancis pondera naturalia mobilia
reducuntur», in Opere, I, pp. 274-276.
41
Ivi, p. 276.
42
Il titolo del capitolo è: «ubi, contra Aristotelem, demonstratur, si vacuum
esset, motum in instanti non contigere, sed in tempore», ivi, pp. 276-284.
43
Abbiamo riportato la dimostrazione di Galileo (cfr. Opere, I, 279) così come
in R. GIACOMELLI , op. cit, p. 45.
44
Opere, I, p. 284. «E di ciò basta».
45
Ivi, pp. 296-302.
46
Cfr. W. A. W ALLACE (a cura di), Galileo's Logical Questions, A Translation,
cit.
47
Ivi, p. 299: «rimane dunque che sullo stesso orizzonte non si muova né
naturalmente né violentemente. Ma se si muove violentemente potrà essere
mosso da una forza la più piccola di tutte». Traduzione italiana tratta da R.
GIACOMELLI, op. cit, p. 59.
48
Cfr. R. GIACOMELLI, op. cit, p. 60-61.
49
Cfr. R. GIACOMELLI, op. cit, p. 62-63, il quale riferisce il pensiero in merito di
Nicola Cusano, espresso nell’opera De ludo globi.
50
Cfr ivi, pp. 65-68.
51
«Da che cosa sono mossi i proiettili», in Opere, I, pp. 307-314.
121
52
Opere, I, pp. 309-311; «che cosa sia questa virtù motrice che dal movente
viene impressa al proietto. Diciamo invero che essa consiste in una
privazione di gravità quando spinge in sul proietto; ed in una privazione di
leggerezza quando lo spinge in giù […] Concludiamo che i proietti non sono
mossi dal mezzo, ma da una virtù motrice impressa dal movente».
Traduzione italiana tratta da R. GIACOMELLI , op. cit, pp. 59 e 62.
53
J. B. BENEDICTI, Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum
liber, Taurini 1585, p. 286. «Ogni corpo grave, che si muoye naturalmente o
con violenza, riceve in se un impetus, un’impressione del moto, tale che,
separato dalla virtù motrice, continua a muoversi da se durante un certo,
lasso di tempo. Dal momento che il corpo si muove con un moto naturale, la
sua velocità aumenterà senza posa; infatti, l’impetus e l’impressio che sono
nel corpo crescono incessantemente, perchè il corpo è costantemente unito
alla virtù motrice. Da ciò deriva il fatto che se, dopo aver messo in movimento
la ruota con la mano, si toglie la mano, la ruota non si arresta
immediatamente, ma continua a girare per un certo tempo». Trad. it. tratta da
A. KOYRÈ, Studi galileiani, trad. it. di M. Torrini, Torino 1979, p 42.
54
Cfr. A. KOYRÈ, Studi galileiani, op. cit., p 42.
55
Opere, p. 315.
56
Ivi, pp. 315-323.
57
Cfr. Ivi, pp. 333-337. Il capitolo dal titolo «in quo causa assignatur, cur
minus gravia in principio sui motus naturalis velocis moveantur quam
graviora».
58
Cfr. DOLLO C., Galilei e la fisica del Collegio Romano, in DOLLO C., Galileo
Galilei e la cultura della tradizione, Soveria Mannelli 2003, pp. 87-105. Per un
quadro più ampio si veda anche W. A. W ALLACE, Galileo and the Doctores
parisienses, in «New perspectives on Galileo», Dordrecht-Reidel 1978, pp.
87-138.
59
Opere, I, pp. 12-13.
60
In queste considerazioni facciamo nostra l’idea che Corrado Dollo ha
esperesso nello studio L’egemonia dell’archimedismo in Galileo, in
Archimede. Mito, tradizione, scienza: Siracusa-Catania, 9-12 ottobre 1989, a
cura di DOLLO C., Firenze 1992, pp. 202-203 e in Galilei e la fisica del Collegio
Romano, cit.
61
Cfr. ivi, pp. 91
62
Ivi, pp. 90-91.
122
Da un breve carteggio on-line con la professoressa Beate Beckmann ho
ricevuto segnalazioni su alcune opere di Edith Stein, che mi sembrano
interessanti e che riassumo qui in breve. Si tratta di considerazioni contenute
nel saggio di Claudia Mariéle Wulf: "Rekonstruktion und Neudatierung einiger
früher Werke Edith Steins", in : B. Beckmann – H. B. Gerl-Falkovitz (Hg.),
Edith Stein. Themen, Bezüge, Dokumente. Reihe: Orbis phaenomenologicus
Perspektiven 1, Verlag: Königshausen und Neumann, Würzburg 2003, (S.
249-267).
L’autrice affronta questioni riguardanti alcuni manoscritti della Stein,
custoditi nell’Archivio-Edith-Stein del Carmelo di Colonia ed in particolare il
manoscritto di Einführung in die Philosophie (Eph), che testimonia
un’elaborazione non continua e cioè che parti più antiche sono state unite a
parti più recenti. Infatti, attraverso un dettagliato esame, che la Wulf
schematizza anche in tabelle prospettiche, si dice che il manoscritto su
menzionato integra le originarie elaborazioni su Die ontische Struktur der
Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik (SPEP). Sotto questo
titolo noi leggiamo il saggio pubblicato nel vol. VI delle ESW, la cui originaria
titolazione in realtà era: “Natur, Freiheit und Gnade” (NFG).
La Wulf si adopera dapprima alla ricostruzione dell’effettivo saggio Die
ontische Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik,
che la Stein avrebbe redatto nel periodo in cui era assistente di Husserl a
Friburgo, quindi tra il 1916 e il 1918. Wulf menziona, oltre a criteri interni al
testo come grafia, tipi di carattere, numerazioni di fogli interrotte e riprese,
anche alcune lettere a Ingarden, che possono far pensare che la Stein stesse
elaborando proprio questo testo, dato che, tra l’altro, è contenutisticamente
aderente alla problematica del secondo volume delle Idee, su cui la giovane
stava lavorando (lettera 28 del 19.2.1918; lettera 22 del 26.8.1917; lettera 3
del 28.1.1917; lettera 14, del 9.4.1917; si veda a questo proposito il
paragrafo 2.2.2, S. 255-256.) Originariamente il saggio (UrSPEP) aveva tre
punti tematici: 1. teoria della conoscenza, UrSPEP I, pp. 1-68; 2. la struttura
ontica della persona, UrSPEP II, pp. 69-158; 3. individuo e comunità,
UrSPEP III, pp. 159-236 circa. Le pagine 9-68 della prima parte
probabilmente sono state tolte e di nuovo redatte (UrSPEP Ia), inoltre questa
parte fu poi divisa in due parti: generale teoria della conoscenza e
conoscenza della persona e quest’ultima posposta alla parte II sulla struttura
ontica della persona.
123
NOTE
NOTE INFORMATIVE IN MERITO A
RICOSTRUZIONE E NUOVA DATAZIONE
DI ALCUNE OPERE GIOVANILI DI EDITH STEIN
di Marina Pia Pellegrino
123
Alcune parti di UrSPEP sono confluite appunto in Einführung in die
Philosophie (si veda la ricostruzione particolareggiata al paragrafo 2.1.2.1, S.
251-253), mentre UrSPEP III è stato ripreso nel saggio dello Jahrbuch
“Individuum und Gemeinschaft” (si veda paragrafo 2.1.2.2, S. 253-254), in cui
le parti furono di nuovo coordinate e completate dalla Stein. L’intero
manoscritto SPEP è, dunque, di circa 236 pagine ed è ipotizzabile che la
Stein lo abbia messo per iscritto prima di “Psychische Kausalität” e che abbia
terminato i due saggi prima del 1918 (paragrafo 2.2.2).
Anche la datazione di Einführung in die Philosophie viene pertanto
ridiscussa rispetto alla data del 1931, attribuita dalla Gelber; un confronto
attento della grafia del manoscritto con la scrittura degli anni ’30, fa supporre
che Stein abbia completato l’opera dopo i suoi saggi sullo Jahrbuch e prima
della conversione, al più tardi nel 1921. Tra l’altro, vogliamo ricordare quanto
la stessa Gelber nella nota introduttiva all’edizione del testo afferma:
“Scrittura e numerazione dei fogli consentono la seguente conclusione: nel
manoscritto AI 1 Edith Stein ha ripreso testi di manoscritti precedenti risalenti
al periodo di Friburgo che successivamente sono stati perfezionati e
completati in caratteri latini. Queste pagine inserite sono in scrittura corrente
e mostrano due diverse numerazioni di fogli. Ciò indica che l’Autrice è ricorsa
a due manoscritti elaborati precedentemente, che chiaramente non sono
rimasti. Inoltre la sequenza dei fogli fa supporre un incisivo cambiamento
nella concezione della trattazione, ovvero un ampliamento degli argomenti
trattati.”. (Cfr. E. Stein, Introduzione alla filosofia, tr. it. di A. M. Pezzella, Città
Nuova, Roma 1998, p.27). Partendo, infatti, dalla constatazione che lo strato
fondamentale è scritto in Sütterlin (scrittura usata dalla Stein soprattutto
quando lavorava per Husserl), Wulf ricostruisce quattro stadi di revisione del
manoscritto di Einführung in die Philosophie (paragrafo 3.2.1, S. 257-258) e
corrispondentemente registra delle variazioni testuali (paragrafo 3.2.2), che
testimoniano il percorso autonomo che il pensiero della Stein stava facendo,
sia nei confronti del pensiero di Husserl, con la rielaborazione del soggetto
conoscente come persona, con qualità psichiche, sia nei confronti della
psicologia contemporanea, con la distinzione tra psiche e anima e il
progressivo avvicinamento di quest’ultima al concetto religioso di anima.
L’autrice rammenta che nella nuova edizione completa delle opere della
Stein (ESGA), questo testo è ristampato con un apparato critico testuale che
ne documenta le variazioni.
Per quanto riguarda l’attribuzione erronea del titolo al saggio in realtà
titolato “Natur, Freiheit und Gnade” (NFG) e la datazione di quest’ultimo, la
Wulf argomenta ancora in modo dettagliato. Il malinteso è sorto per il fatto
che c’era una copertina con la scritta “Die ontische Struktur der Person und
ihre erkenntnistheoretische Problematik” e un saggio senza copertina (NFG).
124
124
125
NOTE
Sr. Teresia Margareta Drügemöller, prima archivista di Colonia, ha
erroneamente attribuito al testo di “Natur, Freiheit und Gnade”, titolo che
Stein stessa aveva annotato a lapis (si veda paragrafo 2.1.1, S. 250), la
copertina con il titolo “Die ontische Struktur der Person und ihre
erkenntnistheoretische Problematik”, cosa che non fa giustizia al contenuto,
come può avvertire chi studia questo saggio. Anche la datazione viene quindi
rivista. Stein aveva lasciato il saggio, prima della sua partenza da Münster, al
dr. Hans Bodengräber. Si suppose che si trattasse di una prima stesura del
corso per il semestre invernale 1932-33, ma per questo vi è un altro
manoscritto e cioè Der Aufbau der menschlichen Person. (Cfr. E. Stein, La
struttura della persona umana, tr. it. di M. D’Ambra, Città Nuova, Roma
2000). Oltre a ciò Wulf riscontra anche indicazioni interne al testo che
depongono a favore di una datazione di NFG prima degli anni ’30 (l’autrice
ricorda che di questo avviso era già Avé-Lallemant nel 1991): il testo appare
caratterizzato da una dizione puramente filosofica, anche se tratta di filosofia
della religione e dogmi di fede. L’impostazione appare precedente quella
derivante dall’influsso di S. Tommaso: la problematica della libertà viene
trattata con autonomia propria e S. Tommaso è citato solo una volta nel
testo. Depone a favore di una datazione giovanile anche la differenza fra
anima e psiche, che riprende la correzione compiuta in “Die ontische Struktur
der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik”. Altre indicazioni
interne al testo vengono prese in considerazione dalla Wulf (si veda il par.
4.2.1, S. 262-263), ma vengono riscontrati anche motivi redazionali e storici:
la grafia è la prima scrittura latina della Stein, grande e poco caratterizzata,
diversa da quella più piccola e armonica intorno al 1932; inoltre sui fogli retro
si trovano parti di testo del saggio “Individuum und Gemeinschaft”. Si può
pertanto prendere in considerazione il fatto che questo manoscritto sia stato
iniziato quasi subito dopo il completamento di “Individuum und
Gemeinschaft”, cioè immediatamente prima e dopo la conversione (1920-21)
(S. 263). Inoltre tra le indicazioni esterne al testo (si veda paragrafo 4.2.2, S.
264) si menziona quella che la Stein si occupava di dogmatica anche prima
della sua conversione (come ella stessa dice a Ingarden nella lettera 115
dell’8.11.1927) e parimenti di filosofia cristiana (citate altre lettere); inoltre si
ricorda la famosa lettera a Ingarden (lettera 76 del 30.8.1921) in cui la Stein
afferma di aver iniziato una trattazione di filosofia della religione, ma a quel
tempo non v’è altra opera che corrisponda a ciò se non “Natur, Freiheit und
Gnade”.
La conclusione della Wulf è che la cornice temporale più probabile per
la datazione di questo saggio è da porsi tra il 1920 e il 1922.
Nell’ultimo paragrafo l’autrice riassume i risultati conseguiti: «La
ricerca-Edith-Stein è nella condizione fortunata, in base al manoscritto di
125
Einführung in die Philosophie, di poter seguire l’inserimento di “Die ontische
Struktur der Person und ihre erkenntnistheoretische Problematik”. Così si
presenta la possibilità di accertare spostamenti di concetti e di mostrare i
primi passi di sviluppo così importanti nell’antropologia fenomenologica di
Stein: la delimitazione dell’io puro e l’introduzione di un soggetto personale,
la discussione con il concetto di anima della psicologia contemporanea e la
coniatura di un proprio concetto di anima, che è più vicino al concetto
religioso di anima e abbraccia tutta la persona. … La ricostruzione
dell’effettivo saggio “Die ontische Struktur der Person und ihre
erkenntnistheoretische Problematik” risolve la questione su un’opera
antropologica giovanile della Stein, finora non rinvenuta e sulla particolare
attribuzione del titolo improprio all’opera “Natur, Freiheit und Gnade”. Il fatto
che sui fogli retro appaia il saggio “Natur, Freiheit und Gnade”, permette
inoltre di concludere sulla prossimità temporale delle due opere. Con ciò la
datazione giovanile di questo saggio è sicura e anche la ricerca riguardo il
“lavoro di filosofia della religione” della Stein, finora non rintracciabile, è
conclusa. …L’impronta biografica di questo scritto rende possibile seguire ciò
che può aver occupato la Stein, intellettualmente e nell’esperienza vissuta,
durante la sua conversione. La qual cosa, tuttavia, non può essere fatta qui.
La ricerca dei manoscritti invita ad un incontro con l’essere umano che sta
dietro gli scritti.» (si veda par. 5, S. 265-266, traduzione nostra).
Ho preferito riportare in modo schematico le articolate considerazioni
della Wulf, lasciando allo studioso/a interessato/a di andare a verificare
personalmente, perché ci si può fare un’idea adeguata delle questioni
sollevate solo leggendo pazientemente tutto il lavoro, con i vari resoconti
degli esami della grafia, dei caratteri, delle numerazioni di pagina, delle
revisioni contenutistiche dei diversi manoscritti della Stein. Concludo
aggiungendo che la Beckmann, nel primo messaggio inviatomi, afferma che il
saggio della Stein, “Natur, Freiheit und Gnade”, apparirà in ESGA 9, come
primo saggio, proprio già del 1921.
126
126
Il nucleo profondo della filosofia di Feuerbach è materiato dell’anelito ad una
riappropriazione della dimensione naturale, perseguita con strategie
concettuali sintomatiche dell’evoluzione delle fasi del suo stesso pensiero.
Pertanto, è possibile distinguere una strategia riappropriativa fondata sul
concetto di analogia, che permea L’Essenza del cristianesimo, L’Essenza
della religione, e i Pensieri sulla morte e sull’immortalità; una strategia
riappropriativa della naturalità centrata sulla sensibilità e sulla corporeità, che
invece caratterizza le ultime opere feuerbachiane, in particolare Spiritualismo
e Materialismo. In prima battuta, s’impone la necessità di una ricognizione
testuale al fine di far risaltare la strategia analogica, per poi enfatizzare la
funzionalità di questo procedimento in termini argomentativi. In seconda
battuta, si tratta di porre l’accento sulla progressiva curvatura materialistica e
apertamente incline alla corporeità fisica delle ultime opere. In terza battuta si
può avanzare una ricognizione delle suggestioni feuerbachiane che, in
chiave di riconquista naturale, sono rinvenibili nel panorma filosofico del
secolo scorso. Nell’ Essenza del cristianesimo è ipotizzabile che la centralità
del procedimento analogico è tale perché attraversa tutta l’opera, in quanto
solo il riconoscimento della differenza quantitativa segna lo scarto fra l’umano
e il divino e non quella qualitativa, che risulta nulla, perché in realtà fra
umano e divino esiste una sorta di consustanzialità:
“La coscienza dell’essenza infinita non è nient’altro che la coscienza che
l’uomo
ha
dell’infinità
della
sua
essenza,oppure:nell’essenza
infinita,nell’oggetto della religione,all’uomo è oggetto solo la propria essenza
infinita[…].L’essenza infinita o divina è l’essenza spirituale dell’uomo,la quale
viene,però superata dall’uomo e rappresenta in quanto essenza
1
autonoma…”
La presenza e lo sviluppo specifico del tema dell’analogia ne L’Essenza del
cristianesimo è giustificato dalla constatazione che partendo dall’assunto
teorico che, solamente i predicati personali in cui l’essenza divina è oggetto
della religione, fondano l’essenza della religione,ovvero il riconoscimento che
Dio è persona, legislatore morale,il santo,il giusto ecc. , Feuerbach compie
rilevanti riflessioni sugli attributi della sostanza di Spinoza, di cui in realtà si
127
NOTE
ANALOGIA,PROIEZIONE,CORPOREITÀ:
LA RIAPPROPRIAZIONE FEURBACHIANA DEL NATURALE
di Francesco Clemente
127
possono nominare solo il pensiero e l’estensione, ovvero gli unici che
l’intelletto è capace di cogliere. Ne L’Essenza della religione, in riferimento
alla trattazione della differenza fra la divinizzazione pagana e quella cristiana
dell’uomo Feuerbach rimarca il fatto che il pensiero analogico è funzionale
all’adorazione e alla venerazione di Dio. Se non sussistesse un un’analogia
fra Dio e l’uomo lo stesso atto del venerare sarebbe compromesso, perché si
riesce a venerare solo qualcosa che si riconosce analogo a sé. L’analogia
nell’Essenza della religione è funzionale al chiarimento dei rapporti creaturali
tenendo presente la particolare connotazione dei rapporti fra causa ed
effetto:
“Dio è l’essere incommensurabile, grande, infinito, che non può essere
determinato secondo misure umane, ma è tale perché il mondo,sua opera,è
grande,smisurato,infinito o almeno così appare nell’uomo. L’opera loda il
proprio artefice: la magnificenza del creatore ha il suo fondamento solo nella
magnificenza della creatura[…].Tutte le religioni che abbiano un certo slancio
situano i loro dei nella regione delle nubi,nell’etere o nel sole,nella luna e
nelle stelle,tutti gli dei si perdono da ultimo negli azzurri vapori del cielo.
Persino il dio spiritualistico dei cristiani ha la sua sede,la sua base su in cielo.
Dio è l’essere misterioso,inconcepibile,ma solo perché la natura è per l’uomo,
2
e soprattutto per l’uomo religioso, un essere misterioso e inconcepibile.”
128
Come nel caso de L’Essenza del Cristianesimo anche L’Essenza della
religione è centrata sulla strategia del procedimento analogico come
occasione per la rivalutazione della natura e della naturalità, concepite come
chiavi disvelative dei rapporti fra umano e divino:
“Dio come autore della natura è rappresentato,bensì,come un essere distinto
dalla natura,ma ciò che questo essere contiene ed esprime, il suo contenuto
reale è solo la natura[…].Ciò che è proprio della natura è dunque proprio
anche di Dio,in quanto o pensiamo soltanto come autore o causa della
natura-e cioè non come un essere morale o spirituale, ma solo come un
3
essere naturale e fisico”.
128
“Il corpo più elevato[…] non è niente di più che l’effettivo corpo al di qua,nella
misura in cui non lo conosci. L’effettivo corpo organico,quale è nella sua
verità ed effettualità, sta oltre e al di fuori delle rappresentazioni che tu ne
hai, e che tu-quantunque in certi punti e luoghi tu vada a cozzare nelle loro
non verità-ritieni esatte in quanto al loro fondamento e principio.
Conseguentemente,il tuo corpo aldilà non è che il corpo effettivo per come
esso è nella sua effettualità a te ignota,e quindi, di fatto non è che il corpo
presente,però misconosciuto ed incompreso; nel corpo aldilà presagisci il
corpo effettivo, ma solo in sogno,in immagini fantastiche, ed attraverso
l’immaginazione
completi
la
tua
mancanza
di
conoscenza.
4
L’immaginazione[…]rende corporeo.”
Ma,elemento più rilevante da un punto di vista teoretico,l’analogia fra corpo
fisico e corpo metafisico rivelerebbe l’impossibilità di uscire dalla sfera della
rappresentazione sensibile, in una conclusione filosofica che si sostanzia
della consapevolezza dell’inscindibilità fra linguisticità e fisicità:
“Infatti, come il folle dota di un corpo e fissa le sue rappresentazioni,ed esse
hanno per lui una effettiva e sensibile realtà, così la tua presunta liberazione
dell’anima dal corpo non è che l’incarnazione della medesima,così tu
trasformi la sua liberazione e libertà dal corpo[…] in una situazione
particolare,in una passione,in un evento che ha luogo in spazio e
tempo,poiché solo dopo la morte o con essa l’anima sarà libera dal
corpo,uscirà da essa effettivamente,cioè in una maniera spaziale,sensibile.
Perciò la tua fede nell’immortalità,nella misura i cui la fondi sulla natura
dell’anima,riposa su rappresentazioni sommamente materiali dell’anima
stessa,anche se,a dire il vero il tuo materialismo è di altra specie e di altro
5
tipo rispetto a quello che abitualmente per materialismo viene denominato.”
L’approdo definitivo della polemica di Feurbach nei confronti di Hegel
dimostra di possedere una valenza ancipite, poiché se,per un verso, il
129
NOTE
Nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità,opera del 1830, in cui Feuerbach
riflette sulla morte quale situazione originaria dell’uomo,sull’esperienza del
tempo in vista della morte,sul rapporto con l’eternità del tempo e della
morte,sul rapporto con l’eternità,con Dio,con l’amore,quali occasioni per una
meditazione sul significato ultimo dell’esistenza individuale, la presenza
dell’analogia è funzionale al concepimento dell’aldilà:
129
momento del distacco della filosofia di Feuerbach da quella hegeliana è
coincidente con lo sforzo e l’intento dichiarato del filosofo di elaborare, di
promuovere e di esprimere un pensiero filosofico nuovo, svecchiato rispetto a
quello della tradizione filosofica tedesca, che, nei suoi intenti di restituire linfa
nuova alla filosofia, quindi di rinvigorirla, fosse soprattutto alternativa, sul
piano della proposta concreta, al modello dell’autoreferenziale teoreticismo
speculativo, realizzandosi come un auspicio di una vera,autentica
rifondazione della filosofia, all’insegna di un profetismo carico di verve
polemica verso le cristallizzazioni concettuali che il pensiero occidentale
aveva fino ad allora espresso; per un altro verso, contemporaneamente,
questa stessa fase è coincidente con l’acuirsi dell’idiosincrasia filosofica di
Feuerbach all’indirizzo della metafisica e della religione, intesi come sistemi,
rispettivamente, di concettualizzazione sterile e di credenza illusoria, gabbie,
prigioni costruite dall’uomo della tradizione e che proprio nella tradizione
trovano la loro più naturale collocazione. Si pone, così, l’esigenza di
prefiggersi l’obiettivo di mettere a fuoco le modalità di riconquista della
dimensione naturale proposti dal Nostro, di metterne in chiaro i meccanismi
che vi entrano in gioco, seguendo un andamento che, in prima battuta,
contempla il meccanismo proiettivo; in seconda battuta il ruolo svolto dalla
corporeità in tal senso, tema che tiene banco soprattutto nell’ultima fase del
suo pensiero e che ha catturato l’interesse degli studiosi della filosofia
feuerbachiana nell’ ultimo quindicennio. É, dunque, opportuno scandagliare
le osservazioni contenute nelle premesse a L’ Essenza del Cristianesimo, al
fine di cogliere questa istanza dichiarata di emancipazione dall’antico
maestro Hegel, dal suo impianto concettual-filosofico. Nella prima delle due
premesse alla prima edizione dell’opera è manifesta l’intenzione di procedere
per via analitica e non speculativa, esprimendo una prospettiva volta ad
indagare le degenerazioni della teologia, considerata alla stregua di una
6
<<patologia psichica>>. L’intenzione dichiarata è quella di fondare e
promuovere una filosofia emendativa, carica di intenti terapeutici verso le
degenerazioni
patologiche
del
cristianesimo,
invocando
affinità
7
metodologiche tipiche della <<chimica analitica>>. Tutto ciò contribuisce a
8
dar vita ad una sorta di <<idroterapia pneumatica>> , con il conforto della
constatazione del vantaggio di usare ciò che è definito<<l’acqua fredda della
9
ragione naturale>>. La metafora prescelta è quella dell’acqua, l’elemento
che ridesta e rianima la ragione, capace di purificare l’uomo, spogliandolo
130
130
“Nell’acqua l’uomo si spoglia senza timore da ogni involucro mistico;all’acqua
egli si affida nel suo vero, nudo aspetto; nell’acqua svaniscono tutte le
illusioni soprannaturalistiche. Così,una volta, nell’acqua della ionica filosofia
11
della natura si spense anche la fiaccola dell’astroteologia pagana.”
Ne L’Essenza del cristianesimo Feurbach affida alla delucidazione del
meccanismo di proiezione la sua ipotesi di spiegazione teogonica. Ci si trova
di fronte ad un’autentica chiave di volta di un edificio antico di secoli,la
religione, trattandosi infatti di una strategia disvelativa del segreto del divino,
facendo perno sul chiarimento di un aspetto funzionale, molto particolare, in
cui il protagonista principale è l’uomo. É l’uomo che proietta, cioè si rende
artefice di quell’operazione che svela la modalità generativa della divinità. Il
punto di partenza è la premurosa distinzione preliminare compiuta da
Feurbach fra la modalità di percezione di una qualunque,ordinaria cosa
esterna,ovvero la coscienza di una cosa, e la coscienza che l’uomo ha di se
stesso, cioè l’autocoscienza. Da questa precisazione emerge che la
peculiarità della dimensione rappresentativa di Dio consiste nel fatto che la
semplice consapevolezza dell’oggetto-Dio e l’autocoscienza dell’uomo
giungono a compenetrarsi fino a realizzare una piena identificazione,
rivelando in via definitiva che, in realtà, Dio alberga nell’interiorità dell’uomo.
Non è un caso l’esplicito, ma retoricamente riveduto,corretto e ribaltato,
quindi affascinante sul piano della stessa lettura, in termini di significazione
filosofica, riferimento alla considerazione agostiniana che Dio è il più vicino
all’uomo:
“Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto è
distinguibile dalla coscienza che l’uomo ha di se stesso; ma trattandosi
dell’oggetto religioso, la coscienza e l’autocoscienza vengono senz’altro ad
identificarsi. L’oggetto sensibile è esterno all’uomo, quello religioso è in lui, a
lui interiore, perciò è un oggetto che non si può scindere dall’uomo,così come
non si può da lui scindere la consapevolezza di sé, la coscienza;è un oggetto
intimo, anzi il più intimo di tutti, il più vicino[…]. L’oggetto sensibile è in sé un
oggetto indifferente indipendente dai convincimenti, dal giudizio; l’oggetto
131
NOTE
<<di ogni involucro mistico>>, per cui <<all’acqua egli si affida nel suo vero,
10
nudo, aspetto>> . L’espressione metaforica indica, in via definitiva, la
dissoluzione e il dileguamento delle illusioni soprannatutalistiche:
131
della religione è,invece, un oggetto prescelto: è l’essere più pregiato, il primo,
il più eccelso; per sua natura presuppone un giudizio critico, la distinzione fra
il divino e il non divino, tra il degno di adorazione e il non degno di
adorazione. E qui,perciò, vale senza riserve la proposizione:ciò che l’uomo
12
pone come oggetto null’altro è che il suo stesso essere oggettivato.”
Al vaglio dell’analisi filosofica emerge che Dio non è un oggetto assimilabile
agli altri oggetti, anche perché esprime, da un lato,il massimo della
perfezione, dall’altro una scelta,un criterio di distinzione fra umano e divino,
in cui l’uomo esprime la sua essenza. Le proprietà che si attribuiscono a Dio
non sono che l’oggettivazione di quelle propriamente umane. Nella
convinzione che la divina trinità dell’uomo, al di sopra di esso quale
individuo,è unità di ragione,amore,volontà, esprimente la natura più autentica
dell’umanità, si riconosce che l’alienazione religiosa,ovvero la proiezione che
l’uomo fa di se stesso, delle proprie qualità e aspirazioni, nello schermo
divino, è anche la prima forma di autocoscienza umana. Guardando in Dio si
ritrova se stessi, ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, secondo una
proporzionalità diretta per la quale ≪quanto l’uomo vale, tale è il suo dio;
quanto l’uomo vale,tanto,e non di più, vale il suo Dio. La coscienza che
l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Tu conosci l’uomo dal
13
suo Dio, e reciprocamente Dio dall’uomo, l’uomo e l’altro si identificano.≫
Religione e filosofia si dispongono reciprocamente secondo una relazione
scandita dalla priorità della prima sulla seconda, diventando così autentiche
epoche dell’umanità, che scandiscono un universale piano storico-destinale,
rinvenibile anche all’interno delle sorti individuali, poiché tale successione
ordinata ricalca l’alternanza fra l’età dell’infanzia e quella della maturità. Ma
anche all’interno della storia delle religioni, ossia dei sistemi di credenza quali
effetti della proiezione, è attiva una processualità, un progresso, perché
ciascuna religione vede in quelle che l’hanno preceduta, non un aspetto
soprannaturale bensì umano. Così ogni religione denuncia la propria matrice
originaria, cioè il fatto di avere un’origine umana, di essere rappresentazione
della natura umana:
“Ma da quanto abbiamo detto non si deve dedurre che l’uomo religioso sia
direttamente consapevole che la coscienza che ha di Dio sia la stessa
autocoscienza del suo proprio essere, poiché, appunto, il non essere
consapevole di ciò è il fondamento della vera e propria essenza della
132
132
L’impresa filosofica di Feuerbach appare convergere energicamente nella
dimostrazione della natura umana della religione, con la diretta conseguenza
che la distinzione fra l’uomo e Dio non è una separazione giocata nella
polarità immanenza-trascendenza, bensì una cesura tutta interna allo spazio
dell’immanenza umana, precisamente fra il <<genere umano>>, inteso come
essenza generale di tutti gli uomini, e il singolo appartenente a questo
genere:
“Perciò, la religione precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità
come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori di sé,
prima di trovarlo in sé. In un primo tempo egli è consapevole del proprio
essere come di un altro essere. La religione è l’infanzia dell’umanità, il
bambino verde il proprio essere,l’uomo,fuori da sé, ossia oggettiva il proprio
essere in un altro uomo. Perciò, il progresso storico della religione consiste,
appunto, nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò
che le prime religioni consideravano come oggettivo e adoravano come
15
dio.”
Alla luce di queste riflessioni ci sembra doveroso mettere a fuoco la valenza
e la portata del meccanismo di proiezione, al fine di sgombrare il campo da
equivoci fuorvianti. Ciò legittima l’operazione di passare al setaccio
dell’analisi le critiche mosse a questo concetto, identificabili con le accuse di
idealismo, antropologismo e psicologismo. L’ipotesi interpretativa che
considera Dio quale pura finzione, frutto della proiezione umana, si deve
rifiutare perché <<non esamina a fondo il contenuto oggettivo
16
dell’oggettivazione religiosa>> , allo stesso modo l’accusa di idealismo, nel
senso di razionalismo, deve essere rifiutata, grazie all’apporto chiarificatore
di Hartmann, perché farebbe del meccanismo di proiezione un automatismo
azionatesi volontariamente e coscientemente all’interno dell’uomo credente,
17
ignorandone così il <<carattere inconsapevole>> . Così anche l’accusa di
antropologismo deve essere respinta perché non tiene conto della differenza,
già notata da Thilo Holzmüller, fra il concetto di come è connotato in Barth,
quale descrizione di tipo fenomenologico <<del modo umano di
trascendere>> riferita alla struttura della vita religiosa, e come si presenta in
133
NOTE
religione. Per evitare questo equivoco, diremo meglio:la religione è la prima,
14
ma indiretta autocoscienza dell’uomo.”
133
Feuerbach, dove si può parlare di un concetto volto alla <<ricomprensione
18
della consapevolezza del genere umano>> . Infine non si può nemmeno
parlare di psicologismo, perché, anche se la formulazione freudiana della
proiezione è accostabile a quella feurbachiana perché ne condivide il
carattere di inconsapevolezza, non liquidandola come fantasia umana, ma
valutando il meccanismo proiettivo come una <<forma superabile e inferiore
19
di possesso del mondo>> , Freud rimarrebbe <<prigioniero del primato della
Psicologia>>, ossia di una prospettiva d’indagine che rimane centrata sui
singoli individui, mentre in Feuerbach si evince una prospettiva teoretica
20
centrata sul <<genere>>. Lo svelamento e la conseguente dissoluzione del
segreto della religione tradizionale si consuma nell’espletamento della
funzione e nella stessa processualità del meccanismo proiettivo, poiché la
religione sussiste in un rapporto assai stretto con i bisogni dell’uomo. Quindi,
quando <<la realtà del genere dell’uomo è incapace di soddisfare i suoi
bisogni, Feurbach fa subentrare ciò di cui si sente realmente la mancanza
21
nella forma del creatore>>. Proiettare non è equivalente a fantasticare in
Feurbach, poiché non si tratta di dar vita a ciò che non è reale, ma si tratta di
un’aberrazione funzionale che è fuorviante nella sua stessa funzione, non nel
contenuto che manipola. Si proietta, infatti, l’insieme delle strutture
fondamentali che identifica il <<genere>>, che è fortemente,concretamente
reale, corrispondente all’immanenza umana. L’aspetto illusorio è pertanto da
riferirsi non al contenuto della proiezione (il genere e tutte le sue
caratteristiche) ma al proiettare stesso, all’attività stessa di attribuzione di ciò
che non deve essere attribuito ad una trascendenza ma che appartiene
strutturalmente all’immanenza umana. Né tanto meno si può parlare di una
forma di idealismo, perché il meccanismo scatta inconsapevolemente e lo
stesso Feurbach non riesce a chiarirne fino in fondo il funzionamento.
Pertanto, in via conclusiva, possiamo affermare che la delucidazione di
questo meccanismo, il chiarimento della sua funzionalità, è la chiave della
riconquista dell’umanità dell’uomo, della sua dimensione più propria. Alla luce
di ciò si coglie la natura polemica della trattazione di Dio in quanto essenza
22
dell’intelletto. Affermare che <<Dio è l’essenza oggettivata dell’intelletto>> è
una tesi centrata sulla constatazione che l’intelletto,fattore incorruttibile e
neutrale,permette all’uomo di elevarsi a relazioni e a concetti universali. Il
carattere divino dell’intelletto è determinato dalla capacità di cogliere questa
134
134
“Dio, dicevano gli Scolastici,i Padri della chiesa e già molto prima di loro i
filosofi pagani, Dio è essenza immateriale intelligenza,spirito, puro
intelletto[…]. Non hanno già gli antichi mistici, Scolastici e Padri della Chiesa
spiegato,confrontato la impenetrabilità e irrappresentabilità dell’essenza
divina con l’impenetrabilità e irrappresentabilità dello spirito umano?[…]. Le
nostre positive,essenziali qualità,le nostre realtà sono dunque le realtà di
Dio,ma in noi sono limitate, in Dio senza limiti[…]. La misura del tuo Dio è la
misura del tuo intelletto. Se pensi Dio limitato, allora il tuo intelletto è limitato;
23
se pensi Dio illimitato,allora neppure il tuo intelletto è limitato […]”.
Ne L’Essenza del Cristianesimo campeggia polemicamente il tema della
personalità di Dio: il Dio personale è l’essenza personale dell’uomo posta al
di fuori di ogni vincolo mondano, liberato da ogni dipendenza naturale. Nella
visione della personalità di Dio si celebra da parte dell’uomo la
soprannaturalità, l’immortalità, l’indipendenza, la non limitatezza della propria
personalità. La radice del bisogno di un Dio personale è l’esigenza del
singolo di ritrovare se stessi, in quanto esiste una proporzionalità diretta fra
persona umana e persona divina: tanto è forte per il singolo il bisogno di un
Dio personale, tanto più è personale il singolo:
“Nella
personalità
di
Dio
l’uomo
celebra
la
soprannaturalità,l’immortalità,l’indipendenza e la non limitatezza della sua
personalità propria. Il bisogno di un Dio personale ha generalmente il suo
fondamento nel fatto che l’uomo personale esclusivamente nella personalità
coglie se stesso,esclusivamente in essa trova sé[…]. Perciò quanto più
personale è un uomo, tanto più forte è per lui il bisogno di un Dio
24
personale.”
135
NOTE
universalità, questa immobilità concettuale. Dio non è altro che la stessa
capacità del pensiero non sensibile. Nel constatare che già gli scolastici e i
padri della chiesa avevano posto l’identità Dio-intelletto, Feuerbach conclude
che le determinazioni metafisiche riferite a Dio sono di natura intellettuale,
cioè proprie dell’intelletto, per cui Dio è il frutto dell’oggettivazione
dell’intelletto umano. Le realtà ascritte e ascrivibili a Dio sono quelle
dell’uomo, con la differenza che le prime sono infinite, le seconde, al
contrario, finite:
135
L’analisi investigativa riservata al Dio-persona insieme ai suoi esiti conclusivi
danno forma alla chiave risolutiva dell’enigma della provvidenza, della
creazione, del mistero della preghiera,del miracolo e dell’immortalità.
Feuerbach pone l’identità fra creazione dal nulla, miracolo e provvidenza, per
cui quest’ultima <<superando le leggi della natura spezzando il corso della
necessità>> è la stessa volontà che illimitata e onnipotente ha creato il
mondo:
“La creazione dal Nulla,in quanto è una cosa sola con il miracolo, è anche
una cosa sola con la provvidenza;infatti l’idea della provvidenza èoriginariamente, nel suo vero significato religioso, ove esso non sia stato
ancora incalzato e limitato dall’intelletto privo di fede-una cosa sola con l’idea
di miracolo. La prova della provvidenza è il miracolo. La fede nella
provvidenza è la fede in una potenza a disposizione della quale stanno tutte
le cose,per qualsivolglia uso,di fronte alla cui forza ogni potenza della
effettualità è Nulla. La provvidenza supera le leggi della natura;spezza il
corso della necessità,la catena di ferro che ineluttabilmente lega la
conseguenza alla causa;in breve,essa è la medesima volontà
25
illimitata,onnipotente che da Nulla ha chiamato il mondo nell’Essere.”
La provvidenza, il porvi fiducia, ha una radice ultima squisitamente umana,
nasconde l’amore per l’uomo, poiché è indicativa del valore dell’uomo nella
differenza dagli altri enti e dalle altre cose naturali, sollevandolo dalla
connessione con l’intero universo. La fede nella provvidenza s’identifica con
quella nell’immortalità fisica della persona. Essa è essenzialmente fede
nell’uomo in se stesso:
“La provvidenza è un privilegio dell’uomo; essa esprime il valore dell’uomo
nella differenza dagli altri enti e cose naturali; lo toglie dalla connessione con
l’intero universo. La provvidenza è la persuasione dell’uomo sul valore infinito
della propria esistenza-una persuasione per la quale egli rinuncia a credere
nella verità delle cose esteriori-; è l’idealismo della religione. La fede nella
provvidenza è perciò una cosa sola con la fede nell’immortalità
personale,soltanto con la differenza,però,che in questa il valore infinito si
determina in rapporto al tempo quale durata infinita dell’Esserci[…]. La fede
nella provvidenza è la fede nel proprio valore[…+la fede nella provvidenza è
la fede dell’uomo in se stesso. Dio si prende cura di me;egli si propone la mia
felicità, la mia salvezza;vuole che io sia beato; ma anche io voglio la stessa
cosa;il mio interesse è dunque l’interesse di Dio, la mia propria volontà la
136
136
La preghiera possiede la sua fondamentalità nello svelamento dell’essenza
più profonda della religione,almeno per quanto concerne l’incarnazione. Essa
è il luogo dove albergano i desideri umani e. affidandosi ad essa l’uomo tenta
un’operazione poderosa:l’imitazione del corso della natura. Come il bambino
non si sente dipendente dal ≪padre in quanto padre≫,ma pone in esso il
sentimento della sua forza e la coscienza del suo ≪valore≫, così la
preghiera sorge in una fiducia incondizionata nel ≪proprio cuore≫, nella
fiducia che i sentimenti e i desideri più cari e sacri siano per l’uomo
27
≪l’essenza,suprema,divina≫. Feuerbach dunque stabilisce l’identità fra
fede nella potenza della preghiera,fede nella potenza del miracolo ed
essenza della fede. Se la fede conduce alla preghiera ed è un tutt’uno con
l’essenza della fede, allora essa è la fiduciosa certezza della realtà del
soggettivo in contrasto con i limiti vincolanti della realtà naturale. Mentre il
miracolo è l’aspetto esteriore della fede,la fede è invece l’anima interiore del
miracolo. Feuerbach ribadisce con decisione che la fede sfida i limiti della
natura e della ragione,oggettivando la potenza dei desideri umani,≪poiché
accorda ciò che natura e ragione rifiutano;perciò rende l’uomo beato,poiché
28
soddisfa i suoi desideri soggettivi.≫ Il miracolo è, in primo luogo,la
realizzazione di un desiderio soprannaturale ed è orientato al
soddisfacimento di desideri soprannaturali, per prestare aiuto materiale
all’uomo. La sua caratteristica fondamentale è l’istantaneità nella sua
realizzazione:
“Il miracolo nutre affamati,risana ciechi di natura,sordi, paralitici,salva dal
pericolo di morte,dà vita persino ai morti grazie alle preghiere dei loro
familiari. Soddisfa,dunque, desideri umani che però,in pari tempo,sono
desideri eccessivi,soprannaturali[…].La forza del miracolo realizza
istantaneamente, di colpo,senza alcun impedimento,i desideri umani. Che
ammalati vengano sanati, non è un miracolo, ma che vengano sanati
29
immediatamente grazie a un semplice comando, è il segreto del miracolo.”
Il miracolo è tale perché si produce in un determinato,fatidico istante, in un
momento preciso che ne costituisce la caratteristica fondamentale. In ultima
137
NOTE
volontà di Dio,il mio proprio fine ultimo il fine di Dio-l’amore di Dio per me non
26
è che il mio amore di me stesso divinizzato.”
137
analisi, Feuerbach nota la valenza teleologica custodita nel miracolo,che è
indirizzato ad un fine,quindi riconducibile alla fantasia e al desiderio umano:
“La potenza del miracolo non è perciò nient’altro che la potenza della forza
immaginativa. La attività del miracolo è un’attività orientata verso un fine. La
nostalgia per Lazzaro morto,il desiderio dei suoi familiari di riaverlo,fu il
movente del miracoloso risveglio-l’azione stessa,l’esaudimento di questo
30
desiderio,fu il fine.”
L’analisi dedicata alla vita celeste, all’immortalità personale conclude che
queste sono la dottrina fondamentale del cristianesimo. La fede
nell’immortalità dell’uomo è la fede nella divinità dell’uomo e viceversa. La
fede in Dio è la personalità scevra di ogni limite naturale. In realtà, il corpo
soprannaturale è il corpo della fantasia, la fede in Dio è la fede nella verità e
nell’infinità dell’uomo umano:
“La fede nell’immortalità dell’uomo è la fede nella divinità dell’uomo, e
viceversa, la fede in Dio è la fede nella personalità pura,redenta da tutti i
limiti, e conseguentemente, appunto per questo, immortale[…]. Il corpo
soprannaturale è un corpo della fantasia, ma appunto per questo corrisponde
all’animo dell’uomo,poiché non è un corpo che lo importuna-un corpo
puramente soggettivo. La fede nell’al di là non è nient’altro che la fede nella
verità della fantasia, come la fede in Dio non è nient’altro che la fede nella
31
verità e infinità dell’animo umano.”
Tuttavia, anche ne L’Essenza del cristianesimo, dove la centralità
concettuale della dinamica proiettiva induce a ritenere che Feuerbach dia
una soluzione sostanzialmente funzionale del fenomeno religioso, senza
sposare forme di materialismo forte, poggianti su visioni sostanzialistiche,
che invece segnano l’ultima fase del suo pensiero, si ravvisano quelle
accentuazioni sensistico-materialistiche, in cui l’intento demistificatorio
dell’analisi della religione si fonde con il ricorso all’indagine della dimensione
naturale secondo finalità oggettive e scientifiche. Il ricorso alla dimensione
naturale indagata con finalità oggettive e scientifiche lo si deve inquadrare
nella cornice della valutazione feuerbachiana delle scienze, quale elemento
non secondario d’incidenza sugli intendimenti della sua visione filosofica.
L’opposizione all’astrattismo della speculazione, a vantaggio di un’analisi
critica di tipo natural-empirico-scientifica, la si comprende a fondo nelle
138
138
NOTE
riflessioni svolte nel terzo capitolo dell’opera Pierre Boyle, dedicato alla
delucidazione dei rapporti fra teologia e scienza. Nel confrontare questi due
universi categoriali Feuerbach evince il carattere fondamentalmente
intollerante della teologia ortodossa, considerato il suo orientamento ad
eliminare ciò che contrasta con il contenuto della sua fede. In essa non c’è
spazio per l’esercizio della libertà teoretica,in quanto essa è orientata a
volgere strumentalmente in termini religiosi ciò che è teorico. Nel suo
granitico dogmatismo essa stigmatizza quello spazio della riflessione tipico
del dubbio, ovvero l’elemento fondamentale per l’indagine autenticamente
scientifica, bollandola come atto d’empietà. L’elemento di spicco è il profondo
carattere antiscientifico della teologia. Mentre lo spirito scientifico indirizza
alla verità e all’imparzialità, la teologia è fuorviante, è un’ottica che
falsa,snatura gli oggetti d’indagine:
“La teologia è però essenzialmente teologia cristiana[…]la sua essenza è il
particolarismo[…]. Chi legge i filosofi con spirito teologico non li capisce,
come dimostrano abbondantemente i fraintendimenti dei teologi,dai tempi dei
32
Padri della chiesa fino ad oggi.”
Alla strutturale tendenza alla chiusura autoreferenziale della teologia
Feuerbach oppone il carattere liberatorio e affrancatore della scienza e della
filosofia, spiegando così la storica opposizione fra teologia e scienza:
“La scienza libera lo spirito,allarga la mente e il cuore,mentre la teologia li
restringe e li limita. E la teologia ha sempre perseguitato la filosofia con odio
fanatico
proprio
perché
innalza
gli
uomini
alla
prospettiva
dell’universo,riconosce anche in esso il vero, e non fa dipendere,né
33
subordina la verità al cristianesimo,ma il cristianesimo alla verità[…].”
Il carattere antinaturalistico della teologia è dimostrato anche dal fatto che
essa, non solo non favorisce l’approfondimento dello studio della natura, ma
addirittura lo ostacola. Per Feuerbach ciò si spiega con il fatto che la scienza
contende alla teologia il terreno della spiegazione delle cause profonde dei
processi naturali. Lo sforzo di chiarimento ulteriore del contrasto fra teologia
e scienza spinge Feuerbach a stabilire un’altra analogia, quella fra il delitto di
lesa maestà e l’ateismo. Avanzare soluzioni credibili e alternative alla
teologia, comporta, in definitiva,offenderne l’autorità. Feuerbach riconduce il
139
139
contrasto ai fondamenti di ciascun termine: alla base della teologia risiede il
miracolo,l’intervento soprannaturale, alla base della seconda la ragione:
“Ma perché mai lo spirito della teologia è il diretto opposto della filosofia,della
scienza- perché la filosofia rappresenta,come si è detto,l’idea della
scienza?Qual è il principio superiore di questa opposizione? E’ questo: il
fondamento della teologia è il miracolo,il fondamento della filosofia è la
ragione, madre della regolarità e della necessità,principio della scienza,il
fondamento della teologia è il volere, che è il rifugio dell’ignoranza,o,in poche
34
parole,il principio dell’arbitrio,che è opposto a quello della scienza.”
Dal confronto teologia-scienza, emergono le motivazioni che hanno indotto
Feuerbach ad aderire allo <<spirito>> della scienza: l’iniziativa investigativa
della realtà centrata su risultati rigorosi e concreti. Nel suo obbiettivo di
affrancare l’uomo dall’ignoranza, la scienza si connota come strumento
intellettuale libero,autonomo, volto ad un’emancipazione antropologica, nella
strenua convinzione che la natura abbia la cause in sé stessa. L’ Essenza
della religione (1845) esprime questa progressiva accentuazione di temi
squisitamente naturalistici, centrali nell’ultima fase della filosofia
feurbachiana, attraverso l’inasprimento di quelle critiche alle illusioni
fantastiche additate ne L’ Essenza del cristianesimo. L’enfasi posta sugli
aspetti natural-materialsistici, non solo è funzionale al netto rifiuto di
impossibili,improbabili evasioni dai vincoli di condizionamento della realtà,
ma è fondamentale anche per inquadrare in modo adeguato l’interrogativo di
partenza circa il fondamento stesso della religione,riconosciuto nel senso di
dipendenza avvertito dall’uomo :
“Il senso di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione,ma l’oggetto
di questo sentimento,ciò da cui l’uomo dipende e si sente dipendere, non è
altro,in origine che la natura. La natura è lì oggetto primo,originario della
religione,come dimostra ad usura la storia di tutte le religioni e di tutti i
35
popoli.”
Al centro della questione vi è la creaturalità:l’uomo dipende da qualcosa di
originario, primigenio,quel ‘quid’che è la natura, il grembo da cui tutto prende
forma e sostanza, l’elemento generatore della vita. E’ la natura che pertanto
si mostra capace di un’attività donatrice di forza vitale, quindi è’ la natura che,
nella sua attività creatrice, s’impone all’uomo come un essere divino, per cui
140
140
“Nell’intento di ritornare quindi alle radici della moderna rivalutazione della
corporeità, abbiamo scelto tre pensatori che, in contrapposizione
all’idealismo, hanno messo in rilievo il ruolo della dimensione corporea
37
nell’uomo,sia pur in modo diverso: Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche.”
Nell’ultima fase del pensiero di Feuerbach è la sinnlichkeit, nella sua funzione
di ricomposizione della scissione dell’anima dal corpo,della sfera sensibile da
quella intellettuale, unitamente al corpo, che testimonia la costitutiva
<<vocazione al mondo>> dell’uomo, ma anche il suo <<destino
intersoggettivo>>,che costituisce ≪il punto di vista onnicomprensivo≫, il
fulcro della riconquista della naturalità dell’uomo, non solo in termini di
riconfigurazione teoretica ma anche pratica, con una spiccata intonazione
38
eudaimonistica di un’etica fondata sulla ≪corporeità≫. Da ciò scaturisce il
rifiuto netto di ogni possibilità di deduzione fantastica dell’intera naturalità del
mondo da Dio,ovvero di guadagnare la natura enucleandola dallo spirito, la
fisica dalla metafisica, il reale e il concreto dall’immaginario, in base a quelli
39
che si rivelano ≪come semplici giochetti logici.≫ L’argomentazione di
Feuerbach culmina nell’evidenziare il circuito contraddittorio, quel circolo
viziosamente paradossale che agisce nella religione, ovvero la constatazione
che mentre il fondamento, quindi il punto di origine della dimensione
religiosa, è il senso di dipendenza naturale, la creaturalità appunto, il punto di
arrivo invece, quindi la finalità principale di questa dimensione è la
soppressione di tale dipendenza:
“Nel sacrificio si concretizza e si concentra tutta l’essenza della religione. Il
fondamento del sacrificio è il senso di dipendenza-la paura,il
dubbio,l’incertezza del successo,del futuro,il rimosso per una colpa
commessa-,ma il risultato,il fine del sacrificio è il sentimento di sé-il
141
NOTE
il mondo non è offerto all’uomo in via astratta e metafisica, ma per via
36
immediatamente intuitiva,≪attraverso la vita, l’intuizione,i sensi.≫ Se si
tiene costantemente presente, la rivalutazione particolarmente accentuata di
aspetti schiettamente materialistici che attraversa Spiritualismo e
materialismo, si evince il valore che è riconosciuto alla dimensione corporea,
al fine di riconquistare la dimensione naturale, in una tematizzazione così
rilevante che rende Feuerbach filosofo meritevole di essere annoverato fra i
più significativi della cosiddetta <<reazione ad Hegel>>:
141
coraggio,il godimento,la certezza del successo,la libertà, la felicità. Come
schiavo della natura procedo al sacrificio; ma lascio il sacrificio come signore
della natura. Per cui il senso di dipendenza della natura è bensì il
fondamento della religione; ma il suo scopo è la soppressione di questa
40
dipendenza, la libertà dalla natura.”
La consapevolezza umana dell’impossibilità di stravolgere il reale induce a
maturare la convinzione che la religione abbia alla base l’antitesi fra volere e
potere, fra improbabile slancio immaginativo e inequivocabilità della realtà.
La volontà nelle vesti del desidero si realizza un vero e proprio sovvertimento
della realtà: in essa l’uomo è capace di vivere e sperimentare
l’illimitatezza,l’affrancamento dai vincoli,l’onnipotente,mentre nella realtà vera
l’uomo è scoperto finito,limitato. Nello slancio dell’attività immaginativa l’uomo
diventa Dio,nella realtà esso è propriamente uomo:
“Presupposto della religione è l’antitesi o la contraddizione fra volere e
potere,desiderio e conseguimento,intenzione ed esito,immaginazione e
realtà,pensare ed essere. Nella volontà,nel desiderio,nell’immaginazione
l’uomo
è
illimitato,libero,onnipotente-Dio;
ma
nella
capacità,nel
conseguimento,nella realtà è condizionato,dipendente,limitato-uomo-uomo
41
nel senso di un essere finito,opposto a Dio.”
142
La trattazione dell’aspetto vincolante della realtà naturale trova una
declinazione concettuale interessante nella riflessione sul tempo. Il tempo
degli dei,realizzazioni corporee dei desideri umani, non è il presente, che si
associa sempre alla determinatezza frontale delle cose, bensì il passato o il
futuro, in questo caso dimensioni temporali equivalenti, considerato che il
loro comun denominatore è la non esperibilità, poiché il “non più” e il “non
ancora” si collocano su un piano che non è quello della presenza-esistenza:
“Gli
dei
sono
esseri
della
rappresentazione,
dell’immaginazione,esseri,quindi,che devono la loro esistenza, a rigore, non
al presente, ma solo al futuro e al passato[…]. Il presente è sommamente
prosaico,definito,determinato,immutabile,completo,esclusivo; nel presente la
rappresentazione coincide con la realtà; in esso quindi gli dei non hanno
posto, non hanno possibilità di gioco; il presente è privo di dei. Ma il futuro è il
regno della poesia,il regno dell’infinita possibilità e contingenza-il futuro può
essere in questo o in quell’altro modo,può essere come lo desidero, ma
142
La prospettiva della sinnlichkeit segna il definitivo rovesciamento della
speculazione astratta, soprattutto hegeliana, di quel pensiero che
elucubrando si stacca,astrae dalla vita, di cui, almeno nell’Essenza del
cristianesimo, veniva rielaborata e tesaurizzata almeno limitatamente
all’elaborazione
personale
della
categoria
di
<<genere>>,
a
vantaggio,invece, dell’enfatizzazioni del valore degli aspetti più
marcatamente sensistico-materialistici. In questa nuova chiave di lettura di
tutta la realtà, anche e soprattutto di quella presuntamene spirituale e
speculativamente astratta, Feuerbach, tuttavia dimostra di non approdare a
nessun esito trionfalistico, a nessun ottimismo, come indurrebbe a credere il
ritorno alla vividezza donata dai sensi. La sinnlichkeit è infatti ambivalente,
rivela una natura ancipite, sospesa drammaticamente fra ≪ la celebrazione
in positivo del sensibile≫, come istanza di recupero del mondo occultato, se
non addirittura nullificato dall’ideal-spiritualismo; e ≪la passività che è anche
43
principio del soffrire-subire≫ , ovvero la consapevolezza dei propri limiti
costitutivi. In questa dialettica di positività-difettività della dimensione della
sinnlichkeit, che ondeggia fra vitalità e patimento, fra attività e passività, la
corporeità è la cifra caratteristica del ≪superamento≫ che Feurbach ha
compiuto nei confronti della tradizione ≪della vecchia speculazione
44
speculativa≫. L’ambivalenza pregnante della sinnlichkeit così centrale
nell’ultimo Feuerbach può, dunque, indurre a riconoscerla come rivelativa di
una prospettiva filosofica in cui, il filtro di un’ottica fieramente sensistica rivela
e svela la precarietà dell’esistenza nel suo intimo rapporto con il mondo,
secondo una formula che si potrebbe definire di <<esistenzialismo
45
sensistico>>. Ci si trova di fronte ad una teorizzazione per cui l’ex-sistere,
l’azione dello sporgere al mondo, si realizza nel e in virtù della sinnlichkeit. Il
proiettarsi attivamente nel mondo è reso possibile dall’avvertirlo
sensisticamente. Nella sua intrinseca problematicità, che suggerisce come
essa non possa essere confinata negli angusti parametri valutativi che la
relegano a mero antropologismo di marca sensitico-materialista, quella di
143
NOTE
anche come lo temo; non è ancora caduto in balia della dura sorte
irrevocabile; oscilla ancora tra l’essere e il non essere, al di sopra della
<<volgare>> realtà e tangibilità materiale; appartiene ancora ad un altro
mondo, un mondo <<invisibile>>, un mondo che non è azionato dalle leggi
42
della gravità, ma solo dalle leggi dell’attività cerebrale.”
143
Feurbach si connota come antro-filosofia, ovvero quale discorso sull’uomo,
che, al di là delle inclinazioni al materialismo, non cade in forme
deterministiche nello studio della sua stessa natura, piuttosto pone l’esigenza
di riconquistare la dimensione naturale e quindi più vicina ad esso. In questo
senso si deve interpretare anche il frequente richiamo a fonti scientifiche di
cui spesso Feuerbach sembra abbondare nelle sue opere. Si assiste al
profilarsi di una linea di progressione, che parte da L’Essenza del
Cristianesimo, ove la riconquista della dimensione naturale si sostanzia di
un’analisi funzionale del meccanismo proiettivo, ovvero attraverso la
riconduzione delle qualità divine alla loro autentica origine, e che perviene
gradualmente ad approdi in cui sono il corpo e la sensibilità ad essere le
chiavi di questa riappropriazione. La critica feuerbachiana al Dio
trascendente è il rifiuto del suo essere trascendente, poiché il segreto
dell’essenza divina è contenuto interamente nell’uomo. Si delinea così una
stretta relazione fra il sorgere,il costituirsi della trascendenza divina e tutti
quei processi astrattivi, di allontanamento della realtà umana, individuati da
Feuerbach: la trascendenza divina è tanto più trascendente l’uomo e il
mondo, quanto più l’uomo perpetra contro se stesso il delitto
dell’autoillusione del divino, ma lo svelamento del segreto di questa
trascendenza non conosce un’univocità di soluzioni, ma più strategie di
chiarificazione. E’ come se Feuerbach stesso passasse da una fase in cui è
fondamentale restituire alla categoria di <<genere>> ciò che è stato
erroneamente attribuito a Dio, ad una fase in cui è centrale all’attenzione alla
singolarità del corpo, nella sua attività e nella sua relazione al mondo, in
termini di un Dasein sensisticamente impostato. In questo quadro d’insieme,
riteniamo meritevole di meditazione verificare quanto Feuerbach sia rimasto
fedele al suo intento di recuperare la dimensione naturale dell’uomo, della
sua realtà. Si tratta in definitiva di considerare gli aspetti aporetici della sua
stessa filosofia. Il punto nodale è proprio l’amore per la materia così evidente
nell’ultima fase del suo pensiero, rivelativi di un’intrinseca contraddizione
perché ≪la <<materia>> a cui vengono riconosciute qualità e attributi
spirituali,valori infiniti che si disgelano nelle emozioni,nei sentimenti,nella
poesia e nell’arte, è pur sempre una realtà finita,corruttibile:una metafisicità e
una religiosità sul piano del valore costruita sul piano dell’essere.≫ Ciò
comporta il paradosso della filosofia feuerbachiana che ≪sta nel riconoscere
l’esigenza dell’infinito, dell’universalità e dell’immortalità,ma nell’attribuire alla
materia, alla finitudine e alla corporeità la capacità di soddisfare tale
46
esigenza.≫
Ma tutto l’insieme di notazioni a favore della realtà
concretamente materiale, in Feuerbach subirebbero uno stemperamento
144
144
“Tornare a pensare invece l’ambiguità del corpo in una prospettiva
autenticamente religiosa,aperta alla Trascendenza è a nostro avviso il
compito di chi voglia accogliere alcune istanze di fondo del pensiero
feuerbachiano collocandole nel cuore della problematica filosofica e teologica
51
contemporanea.”
A queste considerazioni se ne devono aggiungere altre riguardanti il rapporto
uomo-Dio così com’è è stato concepito da Feuerbach stesso. L’elemento da
mettere sotto la lente d’ingrandimento è la constatazione che <<il suo
perpetuo riproporsi il problema della creazione di Dio da parte dell’uomo
pone in luce come nessuna delle soluzioni da lui individuate fosse realmente
soddisfacente e come egli tentasse di spiegare sempre meglio un problema
145
NOTE
significativo, che si realizza quando si affrontano temi come il limite, la
precarietà, la morte. Tutti temi <<che vivono in un’atmosfera sostanzialmente
ottimistica, che non riesce a pesare fino in fondo l’ambiguità dell’essere
dell’uomo nella sua corporeità,finendo per celebrare quest’ultima come la
chiave per comprendere in modo totalizzante ad esaustivo la realtà
47
umana>>. Lo stesso materialismo feurbachiano rivelerebbe un’interna
contraddittorietà, anelante ad un’impossibile esito di sintesi fra ≪l’aspirazione
umana all’Assoluto e la chiusura immanentistica nella rigogliosa vitalità del
mondo naturale e sensibile e nella potenzialità istintuale della corporeità,
come se queste potessero in se stesse racchiudere un’intrinseca infinità e
48
assolutezza.≫ Partire da questa contraddizione può indicare una via di
risoluzione imperniata sulla distinzione netta <<tra l’aspirazione umana
all’assoluto, all’infinità, alla felicità,all’assolutezza dei valori e la piena
49
ammissione della finitudine della natura, della materia, della corporeità>>.
Una distinzione che è possibile far risaltare riflettendo approfonditamente
proprio sulla natura ancipite di quella sinnlichkeit che opera all’interno del
corpo, <<in cui positività e negatività,valore e disvalore,felicità e
sofferenza,virtualità immense e limiti dolorosi si compongono e si intrecciano
50
nell’esistenza umana>> . Eppure, proprio la meditazione sull’ambiguità del
corpo,la medaglia dalle due facce,in cui coesistono attività e passività, può
costituire il punto di partenza per un proficuo recupero e riproponimento della
problematicità insita nella filosofia di Feuerbach nello spazio del dibattito
filosofico e teologico del novecento:
145
che la sua impostazione di fondo avrebbe dovuto fargli riconoscere già risolto
52
a priori>>. L’ostacolo fondamentale è rappresentato dalla spiegazione di
come l’uomo cada in un inganno di cui è egli stesso l’artefice:
“Era chiaro infatti che se vi è originaria complementarietà fra uomo e Dio, Dio
non può essere che negato e la sua immagine spiegata come illusione
dell’uomo. Eppure il fatto che questa illusione costituisca problema per
Feuerbach, che egli si attacchi continuamente a tentarne una
spiegazione,documenta come egli vi cogliesse il punto debole della sua
53
filosofia.”
La debolezza su questo aspetto non dev’essere ascritta al tentativo di
delucidazione del meccanismo teogonico vero e proprio, quanto al fatto che
l’incapacità di spiegare il verificarsi di questo autoinganno pregiudica la
possibilità di cogliere pienamente quella concretezza umana, tanto
pervicacemente difesa, ma che di fatto rischia di essere perduta:
“Punto debole non tanto perché riusciva a spiegare l’esistenza del concetto di
Dio,quanto piuttosto perché gli faceva sfuggire l’uomo nella sua concretezza.
Se non si capisce come mai l’uomo produce Dio si lascia al di fuori dell’uomo
un arcano mistero di cui egli è schiavo. L’uomo singolo,l’uomo
concreto,l’uomo di carne e sangue ridiventa un mistero incomprensibile,la
morte un enigma senza risposta. E allora la negazione dell’alterità uomo-Dio
conduce alla negazione di ogni altra alterità, la negazione della trascendenza
di Dio rispetto all’uomo conduce all’appiattimento dei rapporti tra gli uomini e
all’impossibilità della comunicazione, la negazione di Dio porta con sé il
sacrificio dell’uomo singolo di fronte all’uomo, all’umano, e lo smarrimento
della concretezza esistenziale. Ma Feuerbach non vuole questo. E proprio
questo disperato ricercare un fondamento per la finitezza e la concretezza
dell’uomo, rinasce l’esigenza di riammettere la trascendenza almeno sotto
forma di alterità tra uomo e uomo. Quando,dunque, Feuerbach cerca la
soluzione del problema di Dio parte dall’uomo, cerca di salvare l’uomo. Ma il
54
fallimento di questo tentativo è il fallimento della sua impostazione.”
La fecondità della filosofia di Feuerbach non consiste nella realizzazione di
un discorso saldamente coerente, né tanto meno in una presunta
sistematicità che elude mancanze o deficienze. Essa non è da scorgersi in
146
146
147
NOTE
una ferrea logicità che non conosce punti deboli, piuttosto essa deve essere
colta nel suo affascinante e intrigante barcamenarsi fra motivi illuministici,
che negano la religione in quanto superstizione, e motivi romantici, che
rendono il ≪suo materialismo, non più sicuro e soddisfatto di sé come quello
settecentesco≫ e ≪neppure così maturo come quello marxiano≫ con l’esito
finale che ≪stessa critica religiosa rimane a mezza strada tra la negazione
senza remissioni e un rinnovato profetismo≫, imbastendo un messaggio che
55
≪ è più ricco dei problemi che pone che delle soluzioni che individua.≫ In
questa intrinseca problematicità trova adeguata collocazione anche la
valutazione e la portata che si deve attribuire ai risultati e alle fonti
scientifiche cui fa ricorso Feuerbach,da considerasi più che un’adesione a
forme positivistiche, come un espediente argomentativo e dialettico per
trovare un alleato credibile contro le fumosità della vecchia filosofia. La
filosofia di Feuerbach mette in guardia dall’impoverimento che l’uomo fa di se
stesso quando oggettiva fuori di sé la propria essenza, ossificandosi,
impoverendosi inesorabilmente. Ma se lo stesso Feuerbach non riesce a
spiegare e a spiegarsi com’ è possibile quest’autoinganno che l’uomo
perpetra verso se stesso, probabilmente rimane da chiarire la questione che
è a monte di questa autoillusione:può l’uomo fare a meno di proiettare fuori di
sè se stesso ,il suo universo interiore? Se ci si trova di fronte ad
un’ineliminabile meccanismo traspositivo, ad un errore,sì rilevabile con
l’esercizio della riflessione razionale, ciononostante non rimuovibile, allora la
questione è se ci si deve confrontare con un bisogno insopprimibile
dell’uomo. Se, come fra l’altro lo stesso Feurbach ammette, i limiti devono
essere ascritti al singolo uomo e non al genere di appartenenza, al
<<gattung>> universale, perché allora il singolo non è immediatamente
cosciente dell’infinitudine del <<genere>> cui appartiene? Il problema
dunque è interrogarsi se il <<gattung>> sia reale nelle caratteristiche che gli
sono proprie, ovvero l’infinitudine, oppure se anch’esso sia il frutto di
un’indebita assolutizzazione dell’umano, inteso come universalità,ovvero
umanità magari frutto anch’essa di un’aberrazione proiettiva. Il problema è
quello di un’alterità assoluta, che in Feurbach non è ammissibile, perché
assoluto è solo il <<genere umano>> che è tutto immanente all’essere uomo.
Ma l’assunzione teorica di ciò comporta la presupposizione di un avvenuto
attraversamento dell’intero territorio dell’umano,di un’esplorazione completa
e completata nella sua processualità dell’<<universo-uomo>>, ovvero
dell’umanità, una conoscenza si potrebbe dire, definitivamente e
conclusivamente essenzialistica del <<gattung>>.
147
Se il singolo uomo è soggetto a proiettare, cadendo così vittima di un
meccanismo che crea e genera illusioni pericolose per la conservazione
dell’umanità stessa, per giunta come singolo Dasein risulta limitato, finito,
mentre il <<genere>> soltanto è infinito, allora si potrebbe essere indotti a
ritenere che nell’ottica di Feuerbach ci si trovi di fronte ad un’ipostasi, non
operata sul piano del trascendente ma dell’immanente, con l’esito finale di
una deificazione dell’umanità. In ultima analisi, nell’intero corpus delle opere
di Feuerbach sembrano albergare due strategie concettuali diverse per la
riconquista della dimensione naturale: il procedimento analogico,che rivela
un’intima connessione con il meccanismo proiettivo,disvelativo dell’origine
del divino,rivelativo della teogonia,del mistero insondabile del divino.
In questo caso si potrebbe parlare di una strategia di tipo destruens, perché
orientata alla demistificazione, alla decostruzione dell’oggetto sovrumano,una
spiegazione razionale che dissolve il mistero; nel caso della strategia
riappropriativa centrata sulla sensibilità.sulla corporetità, Feurbach appare
proporre una pars costruens del suo pensiero, la positiva pro positività della
prospettiva corporea e sensibile, spesso permeata di vero e proprio
materialismo,ma tuttavia proposta concreta, prospettiva filosofica che si
definisce non in termini negativi, cioè come qualcosa che non è ma al
contrario come qualcosa che è, che è additabile,indicabile:il corpo e la
materia. In questa circolarità filosofica scandita dalla decostruzione proiettiva
e dalla positività della prospettica corporeo-sensibile si sviluppa il tentativo di
riappropriazione della dimensione naturale,tanto agognata da Feuerbach.
Suggestioni, echi e sviluppi novecenteschi della filosofia di Feuerbach
L’opportunità di meditare sulla fecondità della filosofia di Feuerbach risponde
all’istanza di un progetto ermeneutico che a momenti salienti del dibattito
culturale ad ampio spettro svoltosi nel corso del XX secolo. Pertanto, non è
redditizio prestare il fianco a cadute nelle fuorvianti tentazioni di imbastire
parallelismi deboli, basati su suggestioni fondate più sulla parvenza di
un’<<assonanza concettuale>>, piuttosto che su terreni di confronto
concreto. Proporre un ripensamento in chiave novecentesca di questa
antropo-filosofia, ovvero di un discorso filosofico sull’uomo, significa essere
convinti che, in un panorama di avvenuta industrializzazione secolare e
secolarizzante, in cui continuano a trovare spazio questioni quali i rapporti fra
Stato e Chiesa, ma anche forme di ateismo, di scetticismo, insieme a nuove
ed emergenti aspirazioni alla ri-cristianizzazione della società, la<<critica alla
148
148
56
“Nella sua critica alla religione Feuerbach ha indagato la religione non come
fenomeno storico ma anche psicologico. L’aspetto psicologico è anche,nella
critica all’idealismo, quello decisivo. L’assoluto della filosofia idealistica è
un’”alienazione” dell’astrazione, ovvero ‘il pensiero dell’uomo posto al di fuori
dell’uomo’. La logica hegeliana è un ‘pensiero trascendente’ e così come la
teologia è l’essere dell’uomo trascendente,esteriorizzato[…]l’assoluto
hegeliano è il Dio della teologia, che nella filosofia appare come uno
57
spettro.”
Proprio l’antihegelismo feuerbachiano ha suggerito, in una chiave di una
rilettura contemporanea, un’ipotesi ermeneutica di accostamento alla filosofia
di Derrida, allorquando il maestro della decostruzione, ripudiando qualsiasi
filosofia dell’origine, proponeva la portata filosofica della metafora
dell’<<Ellisse>>. Cosa che, non solo nella sua suggestione retoricamente
metaforica, ma anche nella radicalità della prospettiva filosofica avanzata, si
può riscontrare nei Principi della filosofia dell’avvenire, in cui Feuerbach
58
indica con la metafora del cerchio il <<simbolo della metafisica>> , a cui egli
oppone l’ellissi quale simbolo della filosofia dell’avvenire, fondata sul potente
recupero della dimensione sensibile. Un esperimento di enfatizzare la
fecondità del pensiero di Feuerbach può passare attraverso l’enucleazione
delle suggestioni che esso avrebbe prodotto nei disparati ambiti della
riflessione intellettuale dell’Europa del novecento. Già una volta Tomasoni ha
avuto modo di far risaltare come la prospettiva antropologica di Feuerbach
possa di fatto costituire un eloquente suggerimento per uno dei più rilevanti
indirizzi teorici della psicologia cognitiva novecentesca, per cui il rapporto
<<fra l’umanesimo feuerbachiano da un lato e le scienze umane dall’altro è
stato oggetto di varie relazioni: Peter Keiler[…] ha visto nell’antropologia
149
NOTE
religione di Feuerbach non è ancora esaurita>>. In tal senso, un aspetto,
certamente sottolineato ai limiti dell’ovvietà storiografica, ma probabilmente
non ancora del tutto esplorato nelle sue potenziali implicazioni, ci appare il
fatto che la critica alla religione di Feuerbach, che, con una formula
suggestiva di Josef Weniger, è stato ribattezzato un <<Lutero della
filosofia>>, maturi in stretta relazione con la critica all’idealismo, in particolare
all’idealismo hegeliano:
149
feuerbachiana la fondazione di una psicologia materialistica e sociale, quale
59
si trova sviluppata in L. Vygotsky>>.
Un confronto con la psicoanalisi
L’osservazione critica dell’esistenza di una relazione fra l’eudaimonismo etico
feurbachiano e la psicoanalisi freudiana è incoraggiata dall’eventuale
individuazione di temi comuni, che vanno <<dal meccanismo della proiezione
alla genesi del super-io come genesi della coscienza attraverso
60
l’interiorizzazione del divieto esterno, alla valorizzazione dell’istinto>>. Nella
sua funzione traspositiva delle qualità propriamente umane alla dimensione
religiosa e ultraterrena, la proiezione assurge ad un ruolo centrale,
costituendo, dunque, il punto di partenza per un confronto naturale con la
teorizzazione che ne ha fatto Freud nel corso delle sue indagini
psicoanalitiche. Come in Feuerbach, dove è all’alienazione che deve essere
ascritta la causa dell’impoverimento dell’uomo a vantaggio di Dio,
assumendo così connotati di un’aberrazione da correggere e contenere, così
in Freud non si manca di notare l’incidenza fondamentale che il cattivo
funzionamento della proiezione svolge nelle dinamiche paranoiche:
“Lo scopo della paranoia è quindi di respingere una rappresentazione
incompatibile con l’io mediante una proiezione del suo contenuto esterno[…]
come si verifica una trasposizione di tal genere?[…]. La trasposizione si
verifica molto semplicemente. Si tratta del cattivo uso di un meccanismo
psichico molto comunemente impiegato nella vita normale: il meccanismo
della trasposizione o della proiezione. Ogni volta che si verifica un
cambiamento interno, ci è data la scelta di attribuirlo o a una causa interna o
a una causa esterna. Se qualcosa ci trattiene dall’accettare l’origine interna
siamo abituati a vedere che i nostri stati interni vengono rilevati dagli altri(
dall’espressione mimica dei sentimenti). Ciò dà origine al normale delirio di
attenzione e alla normale proiezione. Tutte cose normali finché conserviamo
coscienza del nostro mutamento interno. Se però lo dimentichiamo e ci
rimane solo la parte del sillogismo che porta all’esterno, allora abbiamo la
paranoia, con la sopravvalutazione di ciò che sa la gente di noi e di ciò che la
gente ci ha fatto. Che cosa sa la gente di noi, che noi stessi ignoriamo di
ammettere? Ecco il cattivo uso del meccanismo della proiezione a scopi di
61
difesa.”
150
150
“1) Gelosia competitiva o normale,2) Gelosia proiettata,3)Gelosia
delirante[…]. La gelosia del secondo livello, o gelosia proiettata,deriva,sia
nell’uomo sia nella donna, dall’infedeltà che essi stessi hanno attuato nella
vita reale oppure da spinte verso l’infedeltà che sono state rimosse.
Sperimentiamo quotidianamente che la fedeltà, in specie quella che è
richiesta nel matrimonio, può essere mantenuta solo a patto di superare
continue tentazioni. Colui che disconosce l’esistenza di queste ultime in sé
medesimo,ne avvertirà comunque l’assillo con intensità tale da servirsi
volentieri di un meccanismo inconscio per alleviare il proprio disagio. Egli
otterrà questo lenimento-e dunque un verdetto di assoluzione da parte della
propria morale-se proietterà le proprie tendenze all’infedeltà sul partner a cui
62
deve essere fedele.”
NOTE
La tematizzazione del meccanismo proiettivo nella riflessione freudiana non
rimane confinata nell’astrattezza della teorizzazione, bensì è funzionale alla
delucidazione della gelosia. Nel saggio intitolato del 1921 intitolato Alcuni
meccanismi nevrotici della gelosia,paranoia e omosessualità, Freud osserva
come la gelosia in una delle sue tre tipiche forme in cui si manifesta sia
segnata dal funzionamento del meccanismo proiettivo:
151
Ai fini di un confronto con Feuerbach appare rilevante evidenziare il nucleo di
riflessioni che Freud dedica al Super-io, inteso come ideale dell’io, in
particolare nell’orbita dell’analisi della dimensione del divieto e
dell’ammonizione, per cui <<il suo rapporto con l’io non si esaurisce
nell’ammonizione:’Così(come il padre) devi essere’, ma contiene anche il
divieto:’Così(come il padre) non ti è permesso essere, ciò significa che non
puoi fare tutto ciò che egli fa: alcune cose rimangono una sua
63
prerogativa’>>. Il confronto fra il meccanismo proiettivo feuerbachiano e la
psicoanalisi di matrice freudiana può ulteriormente essere allargato e
probabilmente ancora maggiormente delucidato nel momento in cui si
prendono in considerazione i tre concetti di proiezione,identificazione e
identificazione proiettiva. A proposito non si deve trascurare che, alla luce di
una certa indagine psicodinamica,si è accertato che il meccanismo proiettivo
è da considerarsi necessariamente in relazione al meccanismo di
151
introiezione. Questi due processi sono intimamente correlati all’interno
dell’economia psichica:
“La proiezione e l’introiezione sono dunque processi reciprocamente collegati
che regolano l’interazione dell’individuo con gli oggetti esterni;cominciano a
operare in fasi molto precoci dell’esperienza e rimangono operanti e
rimangono operanti,in misura varia,per il resto della vita[…].Ciò che viene
interiorizzato attraverso l’introiezione è funzione di un’interazione tra le
qualità dell’oggetto e le qualità ad esse attribuite,che derivano dal mondo
interno del soggetto. Questa attribuzione è la proiezione. La qualità degli
introietti,quindi,dipende in parte dalle qualità proiettate dal mondo interno dei
64
derivati pulsionali.”
A ciò si deve anche aggiungere che la valenza in termini di funzionalità
dell’intreccio fra attività proiettiva e introiettiva,ovvero il loro contributo alla
costruzione dell’immagine individuale:
“L’interazione dei meccanismi introiettivi e proiettivi intesse un disegno di
connessione con il mondo degli oggetti e fornisce la stoffa con cui l’individuo
modella la propria immagine di sé. Da questa interazione egli sviluppa poi la
capacità di stabilire un rapporto e un’identificarsi con gli oggetti del suo
ambiente. Essa determina inoltre la qualità delle sue relazioni oggettuali: la
proiezione e l’introiezione devono essere viste in una prospettiva di sviluppo
e di differenziazione, che non le riduca a semplici meccanismi
difensivi;soprattutto nelle prime fasi di sviluppo,esse svolgono importanti
funzioni evolutive:sono intimamente coinvolte nel graduale manifestarsi della
differenziazione fra il sé e l’oggetto e nel determinare la qualità dell’immagine
65
di sé e della percezione di sé,così come nelle relazioni oggettuali.”
In Feuerbach la spiegazione per via analogico-proiettiva della teogonia,della
costruzione umana di Dio, sembra suggerire non soltanto un meccanismo
semplicemente proiettivo, svolto dall’elemento realmente creatore(l’uomo)
verso un’esteriorità che ne cattura l’essenza umana(Dio), ma anche un
meccanismo identificativo fra l’uomo e Dio,legame identificativo che
suggerirebbe in modo evidente anche il senso di dipendenza umana dal
divino. Pertanto,quando Feuerbach riconosce che Dio non è un oggetto
come gli altri sta ad indicare che esso è coesistente con l’interiorità
coscienziale, e quindi,pur non usando esplicitamente tale terminologia,
152
152
“Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto è
distinguibile dalla coscienza che l’uomo ha di se stesso; ma trattandosi
dell’oggetto religioso, la coscienza e l’autocoscienza vengono senz’altro ad
identificarsi. L’oggetto sensibile è esterno all’uomo, quello religioso è in lui, a
lui interiore, perciò è un oggetto che non si può scindere dall’uomo,così come
non si può da lui scindere la consapevolezza di sé, la coscienza;è un oggetto
intimo, anzi il più intimo di tutti, il più vicino[…]. L’oggetto sensibile è in sé un
oggetto indifferente indipendente dai convincimenti, dal giudizio; l’oggetto
della religione è,invece, un oggetto prescelto: è l’essere più pregiato, il primo,
il più eccelso; per sua natura presuppone un giudizio critico, la distinzione fra
il divino e il non divino, tra il degno di adorazione e il non degno di
adorazione. E qui,perciò, vale senza riserve la proposizione:ciò che l’uomo
66
pone come oggetto null’altro è che il suo stesso essere oggettivato.”
NOTE
sembra suggerire senza mezzi termini un processo bi-direzionale,ovvero
proiettivo ma anche identificativo:
Un confronto con il pensiero teologico novecentesco
Nonostante la polemica e la divergenza filosofica dichiarate,tuttavia
l’armamentario concettuale hegeliano è servito a Feuerbach ai fini del
concepimento della sua interpretazione teogonica, in merito alla quale egli ha
dimostrato di aver tesaurizzato il concetto hegeliano di alienazione, questa
volta non destinato a svelare lo sviluppo della vita dello Spirito assoluto, ma
applicato all’uomo in carne ed ossa. L’alienazione, dunque, diventa la spia
della privazione subita dall’uomo di qualcosa che invece gli appartiene fin
dall’inizio. Il panorama teologico novecentesco in cui matura la meditazione
sul pensiero di Feuerbach si presenta articolato e vario. Il punto di partenza
per una ricognizione in tal senso è costituito dalla forza delle suggestioni che
tale pensiero ha suscitato, dai potenti suggerimenti di riflessione teologica
sortiti dalla critica alla religione e allo stesso sapere teologico. In virtù di ciò,
sia la teologia di Barth, sia la teologia della secolarizzazione, e quella
cosiddetta della morte di Dio <<costituiscono tutte, in modo più o meno
67
esplicito e consapevole, un tentativo di risposta a Feuerbach>> .La
rilevanza assunta da un confronto con la filosofia di Feuerbach appare con
una certa evidenza se si considera, appunto, che essa è imperniata sul
problema Uomo-Dio, secondo una connotazione e una prospettiva d’indagine
153
153
in cui l’uomo è perentoriamente richiamato all’esigenza di un recupero della
sua stessa essenza. Approfondendo la questione è doveroso osservare che
la soluzione dell’antropologia feurbachiana, circa la relazione fra umano e
divino, si caratterizza per la coesistenza di due modalità secondo cui
concepire la suddetta relazione:
“Essa suggerisce al tempo stesso la complementarietà di Dio e uomo e la
loro reciproca esclusione. La complementarietà: parlare di Dio significa
parlare dell’uomo, come parlare dell’uomo significa parlare di Dio[…].
L’esclusione:attribuire qualcosa a Dio significa toglierlo all’uomo[…].
L’alternativa tra Dio e uomo si fa però drammatica: o Dio o l’uomo, o Dio o il
mondo, o Dio o la natura. Sopprimere Dio non è quindi tanto conseguenza
della constatazione di un errore dell’umanità-se Dio fosse una semplice
invenzione dell’uomo non si farebbe tanta fatica a sradicarlo dal suo cuorequanto piuttosto l’impegno per restituire dignità all’esistenza. Non si può
dunque parlare dell’uomo se non parlando di Dio, ma reciprocamente non si
68
può parlare dell’uomo se non escludendo Dio.”
Notando che il merito principale di Feuerbach è quello di ben rappresentare
la crisi dell’intera teologia protestante che deriva da Schleiermacher,
divenendo così la spina nelle carni di ogni teologia di questo tipo,poiché ne
svela il nascosto ateismo, ovvero il fatto che la divinizzazione feuerbachiana
dell’uomo è già in essa contenuta, quindi proprio avvertendone l’incisività
delle critiche mosse alla religione e alla teologia, Barth ha ingaggiato con
Feuerbach un confronto serrato, nella tacitata consapevolezza che il
superamento della prospettiva del filosofo tedesco potesse costituire un
approdo importante per il salvataggio della teologia e la salvaguardia della
sua credibilità. Per cui, assumendo l’infinita distanza e differenza qualitativa
fra Dio e l’uomo, il teologo scorge nell’ottica feiuerbachiana un significativo
suggerimento di elaborazione teorica per quelle teologie <<che hanno reso
possibile il suo ateismo>>14, promuovendo una sorta di immanentismo del
divino nell’uomo che, di fatto, esclude Dio:
“Il grande merito positivo di Feuerbach, secondo Barth, è quello di
rappresentare la crisi dell’intera teologia protestante che deriva da
Schleirmacher. Feuerbach è la spina nelle carni di ogni teologia di questo
tipo, poiché ne svela il nascosto ateismo. La divinizzazione dell’uomo propria
69
della teologia feuerbachiana vi è già infatti contenuta in nuce.”
154
154
155
NOTE
Nella prospettiva di Barth la negazione della costruzione filosofica
feurbachiana dell’uomo, di conseguenza la scoperta della differenza
realmente costitutiva e invalicabile fra uomo e Dio, consente di affrancarsi
definitivamente dalle insidie del materialismo di Feuerbach. Ma, per quanto
possa apparire spiazzante, il chiarimento in chiave religiosa della
connotazione di tale materialismo, può costituire un ponte concettuale per un
confronto con il dibattito teologico di intonazione secolarista. Intendendo
essere più espliciti, in sede di valutazione critica si è affermato che,
soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero, quella di intonazione più
marcatamente sensistico-marerialistica, nonostante un sentito interesse
nutrito per la fisiologia, supportato da un frequente uso di fonti mediche
antiche e moderne, nonché l’aperta e dichiarata intenzione di una fondazione
scientifica della filosofia, non si può parlare di vero e proprio positivismo,
classicamente inteso, poiché il ricorso alla scienza naturale sarebbe una
modalità di convalida di tesi a cui era giunto anteriormente alla propria
iniziazione scientifica mediante il suo metodo genetico-critico, consistente
nella demistificazione della loro genesi, cioè della motivazione pratica che le
fa sorgere. Alla luce di ciò, si dovrebbe assumere un’ottica interpretativa in
cui la matrice del materialismo feurbachiano non sarebbe il serbatoio di
categorie del<<Systeme de la nature>> della tradizione scientificomaterialistica degli illuministi francesi-ma nell’evento religioso della Riforma,
della quale l’idea di umanizzazione dell’amore divino schiudente <<la
possibilità di un amore umano effettivo>>, cioè di un amore <<patologico>>
che si prende cura-anche in modo <<medico-scientifico-delle sofferenze
materiali dell’umanità>>, viene sviluppata ed elaborata nel materialismo di
Feuerbach con l’esito finale di portare a termine <<l’opera di demitizzazione
70
della Riforma>> . L’elaborazione teologica di Gogarten e Bonhoeffer merita
un confronto con la filosofia di Feurbach, considerata la consonanza che la
tensione che anima queste elaborazioni teologiche è sostanzialmente un
recupero positivo e convinto della profanità del mondo, per cui l’accettazione
e la rivalutazione della dimensione mondana si coniugano con l’esigenza
consapevole di sganciarsi dalle tradizionali visioni trionfalistiche e
provvidenzialistiche del creazionismo occidentale, come ad esempio si
evince in Bonhoeffer, nel segno evidente di una conquistata emancipazione
dell’uomo da ogni debolezza, a volte causa di una surrettizia reintroduzione
del concetto tradizionale di Dio:
155
“Io parto dal fatto che Dio viene spinto sempre più fuori da un mondo
diventato adulto,dall’ambito della nostra conoscenza e della nostra vita, e che
71
da Kant in poi ha conservato uno spazio solo al di là dell’esperienza.”
In questo spirito di rivalorizzazione della dimensione mondana bisogna
leggere la polemica di Bonhoeffer verso ogni apologetica del limite. Il
bersaglio polemico è tutto l’insieme di quei tentativi di elucubrazione
teologica che fanno leva sulla debolezza dell’uomo, che ne enfatizzano
parossisticamente i limiti costitutivi, che, in ultima analisi, si risolvono in
visioni del divino inteso come deus ex machina teso sempre all’intervento
provvidenziale:
“Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana(qualche
volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane
vengono a mancare- e in effetti quello che chiamiamo in campo è sempre il
deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come
forza davanti al fallimento umano;sempre dunque sfruttando la debolezza
umana o di fronte ai limiti umani.”
In aperta polemica con visioni fatal-provvidenzialistiche la proposta teologica
di Bonhoeffer è quella di promuovere l’incontro fra Dio e l’uomo non ai limiti,
bensì al centro delle possibilità esistenziali dell’uomo, palesando, così, una
significatica ripresa in chiave di meditazione teologica del monito
feurbachiano della riconquista da parte dell’uomo delle sue stesse capacità e
possibilità, senza che la constatazione dei limiti costitutivi del singolo
conduca a legittimare l’alienazione dell’umano in Dio:
“Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma
nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e
72
nel bene dell’uomo.”
Emerge, così, una visione religiosa fortemente polemica verso ogni
rappresentazione del divino, in termini che si potrebbero definire
opportunisticamente pagani, utilitaristicamente improntati, per promuovere, al
contrario, un rapporto uomo-Dio basato sulla gioiosa accettazione dell’uomo
attivamente protagonista di questa relazione con il divino. Il pensiero
cristologico di Bonhoeffer è quindi intriso fortemente per l’amore per l’uomo
concreto e per il suo impegno mondano. Infatti, per avere un’idea di come
156
156
“Non posso sapere chi sia l’uomo Gesù Cristo, se non dico
contemporaneamente: Gesù Cristo-Dio e non posso sapere chi sia il DioGesù Cristo, se non dico contemporaneamente: Gesù Cristo Uomo. Le due
grandezze non possono venire isolate l’una rispetto all’altra, poiché isolate
non sono. Dio in un’eternità senza tempo non è Dio, Gesù nella limitatezza
temporale non è Gesù. Anzi Dio è Dio nell’uomo Gesù. In questo Gesù Cristo
Dio è presente. Questo Dio-uomo unitario è il punto di partenza della
73
cristologia.”
Assumendo come punto di partenza la tesi di Kierkegaard che nega che
Feuerbach attacchi il cristianesimo, poiché in realtà la polemica è verso i
cristiani la cui condotta non corrisponde alla dottrina del cristianesimo, si
evince come il teologo danese costituisca il primo di una serie di teologi che,
non solo non hanno trascurato la portata delle analisi di Feuerbach, ma le
hanno addirittura ritenute cariche di implicazioni feconde. Nel caso di
Kierkegaard assume una certa rilevanza il rifiuto feurbachiano della soluzione
hegeliana dei rapporti di compenetrazione fra fede e ragione, per cui <<la
riconciliazione fra la fede e il sapere degli hegeliani ortodossi, ben lontano dal
fornire un ultimo rifugio al cristianesimo dell’epoca moderna, non
74
rappresentava che un tradimento e della fede e della ragione>>. Per le
teologie della <<meditazione>>, poi, l’opera di Feuerbach necessita di una
correzione della sua interpretazione dell’esperienza religiosa, avvertendo la
157
NOTE
questa elaborazione teologica maturi in seno alla critica indirizzata al
cosiddetto ‘pensiero a due piani’(per intenderci la metafisica figlia di quel
cattivo platonismo tanto osteggiato da Nietzsche, perché sancisce il divorzio
dell’uomo dalla terra), è sufficiente uno sguardo cursorio alla Cristologia, un
corso che Bonhoeffer tenne all’università di Berlino nel semestre estivo del
1933, il cui testo è andato perduto ma è stato ricostruito da Eberhard Bethge
sulla base di appunti raccolti da alcuni uditori, e pubblicato poi nel 1960. La
significatività del testo consiste nel fatto che esso costituisce una prima,
importante anticipazione dei temi cristologici dibattuti nella più sistematica
Etica. È rilevante osservare che la comprensione piena della natura di Cristo
da parte di Bonhoeffer s’incardina sulla necessità di concepirne
inscindibilmente la componente divina con quella umana, in un’ispirazione
interpretativa che intende restituire dignità e valore alla dimensione umana,
riconoscendola quale elemento indispensabile e, per questo, non
trascurabile:
157
necessità di ripartire da Dio prima di occuparsi del cristianesimo in quanto
fenomeno storico. Secondo questo filone teologico, che rifiuta la riduzione
della dimensione religiosa in termini puramente umani, sociologici e
psicologici, sono proprio gli assunti sensualistici e antropologici della
prospettiva di Feurbach che pregiudicano, creando in realtà ostacoli, una
comprensione reale dell’esperienza religiosa, inducendo, quale esito finale,
ad una chiusura immanentistica. Pertanto, l’opposizione all’impostazione
genetico-critica della dimensione religiosa, trova una significativa
espressione in Pannenberg, che, pur riconoscendo che <<Feuerbach non si
sbaglia nell’affermare che Dio è un pensiero dell’uomo, perché tutto ciò che
appartiene a un linguaggio religioso-come anche il cristianesimo- è da
intendersi come un linguaggio dell’uomo>>, evidenzia la manchevolezza di
Feuerbach di considerare che <<Dio è un pensiero necessario
75
dell’uomo>> . Più specificatamente Pannenberg, contro Feuerbach, fa
valere l’indissolubile correlazione fra finito e infinito, per cui la stessa
concepibilità dell’uomo è dipendente dalla concepibilità di Dio. L’uomo è
strutturalmente determinato a rapportarsi a ciò che lo trascende e lo supera,
nella convinzione che <<non è possibile concepire filosoficamente l’uomo
76
senza porre la divinità,non è possibile pensare il finito senza l’infinito>> . Ma
altrettanto significativo è il giudizio che, nell’ambito delle cosiddette
<<teologie del dialogo>>, ha espresso Buber sulla filosofia di Feurbach, da
cui emergerebbe la positività e la forza del suggerimento
dell’intersoggettività, quale ottica valutativa della problematica religiosa. Nella
prospettiva dialogica l’autenticità della relazione sia con il reale che con Dio
sopravviene in base allo schema ‘io-tu’, che appunto in Buber assume una
certa pregnanza. È dunque abbastanza comprensibile che, assumendo che
l’essenza dell’uomo non si scopre laddove egli è oggetto di un’analisi
filosofico-metafisica o delle scienze, ma dove incontra il ‘tu’, <<Martin Buber
attribuiva grande importanza all’opera di Feuerbach, che aveva tentato di far
iniziare la filosofia non più con la ‘coscienza di sé’, ma con l’uomo
77
reale,impensabile al di fuori della relazione ‘io-tu’>>. A proposito di ciò,
nella consapevolezza che la dimensione intersoggettiva avrebbe già una
configurazione filosofica di rilievo nello scritto di abilitazione Ǘber die
eine,allgemeine,unendliche Vernunft del 1828, in sede critica si è avuto modo
di rilevare che non solo <<la tematica dell’io-tu si aggancia alla teologia
austriaco-giudaica di Martin Buber>> ma che addirittura <<gli eredi dell’opera
158
158
159
NOTE
78
di Buber si sono abituati a quest’immagine>> . La considerazione di cui ha
goduto l’opera di Feuerbach nel corso del dibattito teologico del XX secolo,
potrebbe anche indurci a ritenere che il processo reale di secolarizzazione,
avendo marcato la civilizzazione occidentale, chiarisce l’opera di Feuerbach,
la quale riprodurrebbe in sé quel divenire-mondo e quella secolarizzazione
della fede tradizionale, che sono gli stessi terreni in cui ha avuto luogo certa
teologia novecentesca che nelle sue migliori espressioni ha oscillato<<fra
queste due possibilità formali: ideologia dell’accettazione del mondo(teologia
della secolarizzazione) o divenire mondo dei sistemi teologici
79
dell’identità>>. Il rifiuto dell’adesione a sterili ideologie aliene dalla realtà,
nonché di tautologici modelli di pensiero dell’identità, attraverso il
mantenimento costante della vivacità della ragione critica, è la base del
potente suggerimento di Feuerbach per un rinnovo della stessa teologia nei
termini dell’acquisizione di uno spirito critico e autocritico. La
metabolizzazione della filosofia di Feuerbach si riverbera nella rinnovata fede
nell’uomo della teologia di Bonhoeffer, nel suo fiero rigetto della religione
nelle sue degenerazioni superstiziose, ma anche ingrate verso l’uomo
quando ne accentuano la debolezza. Siamo dell’avviso che è proprio nella
distinzione fra religione e teologia che alberga una specificità rilevante della
filosofia feuerbachiana, che ne caratterizza la collocazione anche
nell’arcipelago culturale della sinistra hegeliana. Questa distinzione consente
di guadagnare una valutazione secondo cui questa filosofia non è nonreligiosa, ma ,più precisamente, anti-teologica. Feuerbach non intende
negare la religione, ma rifiuta quella falsa rappresentazione religiosa che è
Dio. Essere religiosi per Feuerbach consiste nel porre la credenza nell’uomo,
per cui solamente un orizzonte autenticamente umano è quello realmente
religioso. Ed è dunque agevole notare come questa connotazione filosofica si
stacchi con una certa evidenza da quella tipica dell’arcipelago della Sinistra
hegeliana, che, dal canto suo, rifiuta in blocco la religione e Dio. In
Feuerbach, invece, si nega Dio ma non la religione che invece è addirittura
identificata con la filosofia. Nella religione si cela il segreto dell’uomo. Essa
non deve essere negata ma se ne deve restituire il carattere umano,
squarciandone il velo di misticismo mistificante che gli è calato dalla teologia.
Antropo-logia e teo-logia si contendono così un territorio in cui s’incontrano:
la religione, intesa come re-ligio, dimensione di collegamento, di
appartenenza ad un ordine infinito. Esse sono le due chiavi di lettura di
questo infinito, in due direzioni opposte e dunque rivali: la teo-logia cerca di
conquistarlo sul piano dell’astrazione, dell’alienazione concettualizzata, che
159
legittima l’impoverimento dell’uomo, sancendone la divaricazione con la sua
stessa essenza. L’antropo-logia, al contrario, trova il suo svolgimento
appunto nella dimensione dell’uomo, nella ricomposizione di un’ originario già
esistente, nel superamento delle scissioni di essenza. Dunque, l’esito
conclusivo è la sostituzione di Dio con l’uomo, non perché si nega qualcosa
con il rimpiazzo nudo e crudo di un altro ente, ma perché, in realtà, l’uomo si
scopre Dio, anticipando così un approdo filosofico novecentesco, non solo
gravido di implicazioni onto-metafisiche, ma anche etiche. Alla re-ligione dei
Dio si sostituisce quella dell’uomo, all’ordine ultraterreno quello terreno, al
divino l’umano, in un processo che vede l’uomo impegnato nella riconquista
della sua umanità e della sua unità. All’astratto si sostituisce il concreto. Alle
costruzioni fantastiche la realtà dell’uomo, all’infanzia sognante, che ripone
fuori di sé la sua essenza, si sostituisce la maturità dell’appropriazione dell’al
di qua. Lo svelamento del segreto della religione tradizionale significa
assegnare all’infinito la sua giusta collocazione, quella autentica, nell’umanità
dell’uomo.
Un confronto con la fenomenologia e la filosofia dell’esistenza
La valutazione feurbachiana per cui l’idealismo tedesco ottocentesco è
fondato sull’asserto che il soggetto è il creatore di tutta la realtà, non è
liquidabile nell’ambito retorico dell’espressione polemica, incagliata nella
sterilità di certe schermaglie stucchevoli fra filosofi. Piuttosto, se essa è
arricchita anche dalla considerazione che Feuerbach considera l’hegelismo
viziato di teologia, potrebbe rappresentare, non tanto fra le righe, una potente
anticipazione del tema dell’onto-teologia di heideggeriana memoria, nonché
del primato del soggetto e della sua manipolabilità tecnica del mondo. Il
riferimento è appunto al corso dell’università di Friburgo nell’anno
accademico 1931-1932, intitolato la Dottrina platonica della verità, in cui si
avanza l’ipotesi che l’epoca della metafisica è stata inaugurata da Platone,
con la sua concezione della verità intesa come visione dell’idea da parte del
soggetto, facendo diventare quest’ultimo il perno della verità stessa,
giungendo così alla fondazione dell’umanesimo, destino dell’occidente
metafisico, dimentico dell’essere, che viene appunto obliato a vantaggio del
domino sull’ente. Si sostiene ciò, tuttavia, non dimentichi del fatto che mentre
Feuerbach sostiene la sua critica al Soggetto idealistico all’interno della
dialettica Spirito-materia, il secondo invece inquadra la polemica con l’ontoteologia e il soggetto-centrismo della metafisica occidentale nell’ambito della
dialettica Dominio del soggetto-Primato dell’essere; per cui la polemica
feurbachiana con l’idealismo e con l’ideal-spiritual-ismo è connotata da una
marca tipicamente ottocentesca, ovvero quella dell’essere chiamati alla
160
160
161
NOTE
dicotomica opzione <<spirito-materia>> ai fini di una spiegazione della
genesi della realtà, mentre in Heidegger il discorso si orienta ad una
poderosa polemica epocale, che ha ispirato certa filosofia tedesca dedita alla
critica delle civiltà. Se, poi, si volge lo sguardo a come ha trovato accoglienza
lo sviluppo dell’ultima fase del pensiero di Feurbach, centrata sul corpo,
all’interno della prospettiva dell’esistenzialismo fenomenologico di MerleauPonty, si coglie l’opportunità di svolgere ulteriori considerazioni, centrate
fondamentalmente sulla constatazione che il riconoscimento di Feuerbach
dell’interazione continua e costitutiva del corpo con il mondo, farebbe del
filosofo del segreto della religione una sorta di anticipatore del chiasmo
concettuale tipico di Merleau-Ponty, per il quale <<noi esitiamo come
apertura al mondo>>.Oltre al concepimento dell’anima e del corpo in termini
di livelli comportamentali espresso ne La struttura del comportamento, è noto
che la filosofia di Merlau-Ponty si distingua ne La Fenomenologia della
percezione per l’ispirazione alla fenomenologia husserliana, tuttavia curvata
in senso esistenzialistico, che sviluppa la tematizzazione della <<vocazione
80
al mondo>> dell’io e della sua attività di coscienza. In quest’ottica il cogito è
tale solo a condizione che venga meditato all’interno del mondo, per cui il
pieno possesso della soggettività è autentica solo in relazione all’essere al
mondo. Insieme alla percezione, chiave di delucidazione del rapporto fra
coscienza e mondo, ma anche ottica ermeneutica per la ricognizione dei temi
classici della filosofia(la sensazione, la conoscenza delle cose,la
comunicazione con gli altri, lo spazio,il tempo,la libertà), per Merleau-Pontyè
il corpo a ricoprire un ruolo particolare, in quanto fattore che permette
l’intersezione della coscienza nel mondo, al punto tale che si può distinguere
un duplice piano:quello biologico,in cui il corpo assolve alla funzione di
conservazione della vita;quello simbolico – culturale, tipico delle attività
coreutiche. La sfera percettiva, inltre, è in intima connessione con quella
corporea, è ad essa funzionale, la chiama direttamente in causa,
esprimendone
l’attività
più
propria
di
esso.
La
prospettiva
dell’<<esistenzialismo sensistico>> dell’ultimo Feuerbach trova una
significativa declinazione filosofica nella prospettiva di Merleau-Ponty, in cui
la percezione rivela la costitutiva apertura dell’io al mondo, per mezzo di
quell’intermediario che è il corpo. Non solo, ma questa apertura coscienziale
al mondo, è rivelativi anche dell’ineludibile vocazione intersoggettiva del
singolo. La mondanità della coscienza costituisce la strategia più plausibile
per sfuggire all’alternativa solipsistica. Così, non di meno appare suggestivo
ipotizzare una linea di continuità fra Feuerbach e Sartre. Se Feuerbach è
dell’avviso che la religione tradizionale si fonde su una concezione di Dio che
161
oggettiva qualità dell’uomo, e pertanto ne rappresenta il sogno, l’universo
delle sue aspirazioni, allora questo nucleo trova una significativa declinazione
nella prospettiva della psicoanalisi esistenziale sartriana de L’Essere e il
Nulla. Sartre ritiene che la struttura ontologica del progetto fondamentale
debba essere attinta da una psicoanalisi esistenziale, diversa da quella
freudiana per il fatto che il suo termine ultimo non è il riconoscimento di una
forza istintiva agente, ma di una scelta libera. Nell’ottica della psicoanalisi
esistenziale, progetto d’essere, possibilità, valore, sono termini equivalenti
che esprimono il fatto fondamentale che l’uomo è desiderio di essere. Ma
desiderio di essere cosa? Di quale essere? Evidentemente dell’essere in sé,
per cui la coscienza tende all’ideale di una coscienza che sia fondamento del
suo proprio essere in sé. Questo ideale è Dio, che annuncia l’uomo nella sua
fonda mentalità. Nell’ottica sartriana l’essere uomo significa tendere a Dio;
l’uomo è fondamentalmente anelito ad essere Dio, poiché l’uomo è un Dio
mancato; tutto sembra indicare che l’in sé del mondo e il per sé della
coscienza sono in uno stato di disintegrazione rispetto ad una sintesi ideale
che non ha mai avuto luogo e che è sempre impossibile. Il suo perpetuo
scacco spiega ad un tempo l’indissolubilità dell’in sé e del per sé e la loro
relativa indipendenza. Nonostante l’impossibilità del passaggio fra il per sé e
l’in sé, esso costituisce il passaggio cui l’azione umana tende
incessantemente. La fecondità delle filosofia di Feuerbach la si può rinvenire
in Freud e nell’ambito psicoanalitico, per quanto concerne le dinamiche
proiettive che diventano i modelli oltre che per il transfert in generale, anche
per lo svelamento di certe manifestazioni psicopatologiche, se non addirittura
potentemente sistematizzate nella categorie di identificazione proiettiva;
all’interno del dibattito teologico novecentesco della secolarizzazione, che è
raccolta, nell’ottica della constatazione dell’essere <<diventato adulto>> del
mondo, dall’attenzione di Bonhoeffer per la mondanità-umanità-corporeità di
Dio, nel rifiuto netto delle consolazioni provvidenzial-miracolistiche ad uso e
consumo dei credenti; ma anche in quel panorama fenomenologico, così
attaccato al trascendentale, ma non per questo dimentico del rapporto iomondo, al punto che Merleau-Ponty costruisce una filosofia centrata sul
corpo e sull’ intersoggettività. Tutto ciò secondo uno schema di sintesi che
farebbe valere l’apporto di Feuerbach nella psicoanalisi per la componente
funzionale messa in evidenza nello svelamento dell’esperienza religiosa,
all’interno delle teologie secolari per l’invito alla demitizzazione e alla
rivalutazione della mondanità, nella fenomenologia corporea di MerleauPonty come potente suggeritore della dimensione corporea,la chiave
fondamentale per svelare il rapporto dell’ io con il mondo.
162
162
L. Feuerbach, Das Wesen des Christentum, Gesammelte Werke-Akademie
Verlag-Berlin-1973, vol.5,pp.461-463; trad. it. L’Essenza del cristianesimo, a
cura di Fabio Bazzani,Fabbri editore, Milano 1996,pp.321-323.
2
Ivi, pp.21-22.
3
Ivi,pp.22-23.
4
L. Feuerbach, Gedanken über Tod und Unsterblichkeit aus den Papieren
eines
Denkers,nebst
einem
Anhang
theologisch-satyrischer
Xenien,herausgegeben von einem seiner Freunde, trad. it. Pensieri sulla
morte e l’immortalità, a cura di Fabio Bazzani,editori riuniti,Roma,1997,
p.132.
5
Ivi, pp.145-146.
6
L. Feuerbach, Das Wesen des Christentum, Gesammelte Werke, vol.5, cit.,
p.6; trad. it. L’Essenza del Cristianesimo, cit. , p.43.
7
Ibidem.
8
Ivi,p.45.
9
Ibidem;
10
Ibidem.
11
Ibidem.
12
Ivi,p,75.
13
Ibidem;
14
Ivi, p.76.
15
Ibidem.
16
F. Schmieder,”Zur Bedeutung des Projektionbegriffs für Feuerbachs
religionskritik
und
materialistiche
philosophie”
in
Internationale
Feuerbachforschung, Waxmann, Münster 2006, p. 269.
17
Ivi, p. 269.
18
Ivi, p. 270.
19
Ivi ,p. 271.
20
Ivi, p. 271.
21
Falko Schmieder, cit . ,p. 277.
22
L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, cit. , p. 76; trad. italiana,
L’essenza del cristianesimo, cit., p. 95.
23
Ivi, 97-99.
24
Ivi, pp.188-189.
25
Ivi , pp. 192-193.
26
Ivi, p. 160.
27
Ivi, p. 177.
28
Ivi, p.181.
29
Ivi, pp. 183-184.
30
Ivi, p. 184.
31
Ivi, pp.224-233.
163
NOTE
1
163
32
L. Feuerbach, Pierre Boyle, Gesammelte Werke, cit. , vol.4, p. 31; trad. it.
in Opere, a cura di Claudio Cesa, Editori Laterza, Bari 1965, p. 80.
33
Ivi , p.81.
34
Ivi, pp.93-94.
35
L. Feuerbach, Das Wesen der religion, Gesammelte Werke, vol.10,
p.4;trad. it. L’essenza della religione, cit. , ,p.11.
36
Ivi, pp.17-36.
37
L. Casini, La riscoperta del corpo. Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche,
edizioni studium, Roma, 1990, p.16.
38
Ivi,p.17.
39
Ivi,p.37.
40
Ivi,p.42.
41
L. Feuerbach, Das wesen der religion, cit.,pp.34-35; trad. italiana,
L’essenza della religione,cit.,pp.42-43.
42
Ivi,pp.75-76.
43
L. Casini, La riscoperta del corpo,cit.,p.159.
44
Ivi,p.159.
45
Ivi,p.162.
46
Ivi, p.204.
47
Ivi, p.205;
48
Ivi, p.204.
49
Ivi, p.205.
50
Ivi, p.205.
51
Ivi, p.205.
52
U. Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Torino,
1972, p.143.
53
Ivi, p.144.
54
Ivi,p.144.
55
Ivi, pp.216-217.
56
J. Grandt, Ludwig Feuerbach und Die Welt des Glaubens, Mönster, Verlag
Westfälisches Dampfboot, 2006,p.8.
57
J. Weniger,
Ludwig Feuerbach,
Denker
der
menschlichkeit,
Aufbautaschenbuch Verlag, Berlin 2004,p.203.
58
C. A. Scheier, Ludwig Feuerbach-Denker der Ellipse, in Internationale
Feuerbachforschung, Waxmann Münster, 2006, p. 209.
59
F. Tomasoni, Ludwig Feuerbach e il futuro della filosofia. Cronaca di un
convegno, in <<Rivista di storia della filosofia>>, n. 4, 1990,p. 758.
60
F. Andolfi, Introduzione a Spiritualismo e materialismo, cit., pagg. 38-39.
61
S. Freud, Opere 1892-1899, volume 2,edizioni Boringhieri,1968,Torino,pag.
38.
62
S. Freud, Opere, vol.9,cit.,pp.367-368.
164
164
63
Ivi, p.497.
W. W. Meissner, Proiezione e identificazione proiettiva, Bollati Boringhieri,
Torino, p.1988, p.47.
65
Ivi, p,75.
67
U. Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Torino,
1972, p.211.
68
Ivi, p.210.
69
U. Perone,cit.,p.212.
70
F. Andolfi, saggio introduttivo a Spiritualismo e Materialismo,cit.,pp.16-17.
71
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, lettera del 30.VI.1944, a cura di Italo
Mancini, Milano,1969,p.416.
72
Ivi, p.351.
73
D. Bonhoeffer, Cristologia, postfazione di Eberhard Bethge e Otto Dudzus,
Queriniana, Brescia, 1984, p.24.
74
M. Xaufflaire, Feuerbach e la teologie de la secolarisation, Les edition du
Cerf, Parigi,1970,p.308.
75
Ivi, p.323.
76
Ibidem.
77
Ivi, p.335.
78
Ivi,p.384.
79
Ibidem.
80
J.
Hymers, Verteidigung von Feuerbach Moleschott-Rezeption, in
Internationale Feuerbachforschung, cit. , p.139.
165
NOTE
64
165
DIGIUNO D’AMORE, DIGIUNO MISTICO E DIGIUNO NARCISISTICO
di Rosa Sidella
1.
Eutanasia, arte del digiuno e chili yo-yo
Le passioni legano gli uomini sin dalle epoche più remote. Amori non
corrisposti, amori proibiti, amori da delirio sono spesso caratterizzati da pene
e tormenti, ovvero da sofferenze che, attanagliando saldamente il cuore,
possono anche avere come conseguenza quella dell’inappetenza. L’amore
può dunque accompagnarsi al digiuno e un tipico esempio è fornito da
Giovanni Verga quando in Storia di una capinera racconta la storia di un
amore impossibile tra una novizia di nome Maria e il bel Nino. Durante
un’epidemia di colera, Maria lascia il convento e trascorre qualche tempo
nella casa di campagna della sua famiglia a Vizzini e, lì, s’innamora di Nino.
L’amore viene corrisposto ma la fanciulla, dovendo tornare in convento per
prendere il velo, vedrà sgretolare il suo sogno d’amore e dovrà persino
rassegnarsi a vedere il suo amato andare in sposo a sua sorella. Un amore
tragico, irrealizzabile, che porterà la povera Maria ad ammalarsi seriamente e
a morirne persino. Le commoventi pagine del racconto mostrano la volontà
dell’eroina nel dimenticare quest’amore impossibile (anche ricorrendo alla
mortificazione della propria carne) ma anche la difficoltà di portare a termine
tale progetto. A tal proposito sono indicative le parole di Maria:
Qualche volta la fragilità si ribella, la tentazione mi riassale; allora mi prostro
ai piedi dell’altare, passo le notti inginocchiata sul freddo pavimento del coro,
macero il mio corpo coi digiuni e colle penitenze, e allorchè la materia è
1
doma, allorchè le forze son rifinite, la tentazione è vinta, e la calma ritorna.
Storie come questa dovrebbero far riflettere sulla vasta portata dei
sentimenti e su come le delusioni affettive possano anche portare a un
ripiegamento su sé stessi, alla perdita d’interesse e a forme masochistiche di
eutanasia. Si potrebbe prendere in esame anche la celebre storia d’amore tra
l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e l’affascinante imperatrice Sissi,
l’imperatrice ricordata, oltre che per il suo anticonformismo alla vita di corte,
anche per la sua <<statura altissima per quei tempi>> (un metro e
1
settantadue) e per la sua estrema gracilità: <<in tutta la vita non supererà
mai il suo peso di cinquanta chili; la sorveglianza del suo peso si trasformerà
in ossessione, se non
166
166
NOTE
2
in anoressia>> . Nicole Avril tratteggia anche Francesco Giuseppe
(imperatore diviso tra l’amore per la propria madre e quello per la propria
3
sposa) come un uomo <<ossessionato dalla propria immagine>> . Nei due
coniugi <<le loro bellezze gemellari si rispecchiano incessantemente l’una
4
nell’altra>> tanto da farli apparire come <<due narcisi>> . L’ imperatore
innamorato, preoccupato per la salute della moglie, <<alla vigilia del fatale
armistizio di Villafranca>>, in una lettera, la scongiurerà di non andare troppo
a lungo a cavallo: <<tu ti stanchi troppo altrimenti e mi diventi troppo
65
magra>> .
L’anoressia di Sissi dovrebbe ricondurre a quanto detto da Recalcati, sulla
scia di Lacan, sulla fame d’amore. L’astinenza dal cibo può essere intesa
come una domanda, una richiesta di maggiore presenza dell’Altro nella
propria vita. Lo psicanalista scrive:
La domanda anoressica, esibendo provocatoriamente le stimmate del
proprio corpo – di un corpo che presentifica l’immanenza del rischio della
morte - , è una domanda d’amore rivolta all’Altro: “Fammi vedere se ti manco,
fammi vedere i segni del tuo amore, io che ti mostro i segni del mio amore
7
disperato, fammi vedere se in te c’è un segno d’amore” .
Un altro significativo esempio di digiuno d’amore viene fornito dal recente,
appassionante romanzo di Margaret Mazzantini Non ti muovere, in cui si
narra l’avvincente passione di un medico rinomato, Timoteo, per una donna
8
<<volgare>> . Mentre Angela, la figlia di Timoteo, lotta tra la vita e la morte
in ospedale dopo aver avuto un incidente in motorino, quest’ultimo ricorda
una storia d’amore adulterina, forse squallida ma piena di pathos
incontenibile. Emerge chiaramente l’abisso tra Elsa, la bellissima moglie di
Timoteo, donna in carriera ricca di charme, e Italia, la sua amante, donna che
9
<<con la sua cesta di rafia in
sembra una <<maledetta stracciona>>
10
testa>> . Eppure, tra le braccia di questa donna, il cui <<alito è quello di un
11
topo>> , Timoteo conosce una parte di sé stesso che mai avrebbe pensato
di possedere e viene assalito da un turbine di passione che lo spinge ad
andare da lei in auto, nel cuore della notte, viaggiando
12
<<inappetente>> .
Non esistono solo digiuni d’amore! Kafka, ad esempio, ha parlato di una
13
particolare <<arte del digiuno>>
praticata da un Digiunatore. Egli ha
raccontato di un uomo chiuso in una gabbia, il digiunatore appunto, lasciato
senza cibo solo per far spettacolo. Poco importava al pubblico della sua
14
<<grave malinconia>> derivata dalla fame, o di disturbare il povero uomo
167
167
notte e giorno con la << pallida luce notturna della sala >> o con
<<lampadine elettriche tascabili messe loro a disposizione dall’impresario >>
15
, quello che contava era che il digiunatore riuscisse a conquistare il
pubblico col suo corpo scheletrico. E certo, il poveretto, si sentiva ferito
nell’orgoglio quando qualcuno dubitava se il suo fosse un reale digiuno o se,
invece, egli si nutrisse di nascosto. Quando l’attrattiva del digiunatore passò
di moda, perché il pubblico si rivolse ad altre tipologie di spettacoli, egli si
vide costretto ad andare a cercar fortuna altrove. Ad un grande circo
assicurò, oltre al << suo nome un tempo famoso >>, anche di << continuare i
16
suoi digiuni esattamente come prima >> .
A volte il digiunatore si diceva, allora, che forse tutto potrebbe migliorare
un pochino se la sua sistemazione non fosse proprio così vicina alle
scuderie. In quel modo la gente aveva una scelta troppo facile, senza poi
parlare del fatto che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza degli animali
durante la notte, il trasporto di pezzi di carne cruda destinata alle belve
proprio accanto a lui, e i ruggiti durante i pasti lo offendevano e lo
deprimevano di continuo. Ma un reclamo alla direzione non osava inoltrarlo;
in fin dei conti doveva proprio agli animali tutta quella gran folla di visitatori,
fra i quali poteva esserci di tanto in tanto anche qualcuno destinato a lui, e
chi poteva prevedere dove mai l’avrebbero cacciato se lui avesse cercato di
richiamare l’attenzione sulla sua esistenza e quindi anche sul fatto che, ad
essere precisi, lui rappresentava un inciampo nel percorso che conduceva
alle stalle. Un inciampo assai lieve, d’altronde; un inciampo che diventava
17
sempre più lieve .
E’ interessante notare come questo scritto possa essere ricondotto alla
stessa condizione personale di Kafka, ovvero alla sua sobrietà in fatto di
cibo. In uno dei suoi scritti più famosi, confrontandosi col padre, mette a nudo
le sue debolezze, definendo quest’ultimo come <<la misura di tutte le
18
cose>> , come l’esempio lampante di << forza, salute, appetito, potenza di
voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di supe-riorità, tenacia,
19
presenza di spirito, conoscenza degli uomini>> , tutte caratteristiche poco
pronunciate o addirittura del tutto assenti in sé stesso. Kafka era schiacciato
20
da un forte senso d’inferiorità e la sua <<tendenza alla sparizione>>
è
visibile nella sua firma. Egli << in due suoi romanzi, nel Processo e nel
Castello, riduce il proprio nome alla lettera iniziale K. Nelle lettere a Felice
accade che il nome diventa sempre più piccolo e infine sparisce
21
completamente>> . Nella Lettera al padre Kafka ricorda la sua infanzia e
soprattutto la condotta che suo padre lo invitava a tenere durante i pasti:
168
168
NOTE
Quel che compariva in tavola bisognava mangiarlo, era proibito esprimere
giudizi sulla qualità delle portate – tu però le trovavi spesso disgustose, le
definivi <<robaccia>>; quell’ <<animale>> (la cuoca) le aveva rovinate. E
poiché tu, conformemente al tuo robusto appetito e alla predilezione per
bocconi grossi e bollenti, mangiavi in gran fretta, il bambino doveva
spicciarsi, a tavola regnava un silenzio opprimente rotto da esortazioni:
<<prima mangia, poi parla>>, oppure <<dài, più svelto, più svelto>>, oppure
<<guarda, io ho già finito da un pezzo>>. Non era permesso rosicchiare le
ossa, ma tu lo facevi. Non era permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi.
L’operazione più importante era tagliare il pane a fette regolari, ma che tu la
eseguissi con un coltello gocciolante di salsa era indifferente. Bisognava fare
attenzione a non lasciar cadere sul pavimento resti di cibo, e di solito erano
sparsi soprattutto ai tuoi piedi. A tavola si doveva pensare solo a mangiare,
ma tu ti pulivi e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti frugavi nelle
22
orecchie con uno stuzzicadenti .
23
Canetti ricorda che Kafka è stato <<vegetariano>>
(anche se, in un
periodo trascorso a Marienbad, Kafka, in una cartolina, scrive a Felice di
24
mangiare anche <<carne salata>> ), ma che << dapprima questo
25
atteggiamento non appare come una vera e propria ascesi>> . Egli mira a
tenere lontani dal proprio corpo <<veleni e pericoli>>: questo spiega anche la
26
sua avversità verso <<caffè, tè, alcool>> e verso la medicina tradizionale
27
che a suo avviso <<si occupa troppo dei singoli organi>> . In realtà, come
dice Canetti, << il rifiuto della medicina è però anche in parte odio di sé
28
stesso>> .
Non soltanto il digiunatore è l’esempio di chi deve dimagrire per far
spettacolo. La postmodernità vede, infatti, il realizzarsi di un culto portato
quasi all’esasperazione per la propria immagine, lanciato soprattutto, ma non
solo, dalla moda e dalle varie trasmissioni televisive. Vestiti sontuosi e
pregiati sono indossati sulle passerelle, infatti, nella maggior parte dei casi,
da modelle altissime e magrissime, che lanciano, direttamente o
indirettamente, il messaggio che il successo sia offerto, in questa società,
29
proprio da una <<bellezza longilinea>> .
Un’amara considerazione porta a valutare che, ormai, pur di ottenere un
posto di prestigio e un lavoro altamente retribuito, si è disposti a tutto, e in
particolare anche al ricorso alla chirurgia estetica al fine di restare quanto più
a lungo possibile giovani e in linea. Il culto per la bellezza del proprio corpo
30
diventa, oggi, un vero e proprio <<obbligo>> a cui soprattutto le donne non
169
169
devono sottrarsi. Se le cose stanno così, si riesce meglio a comprendere
come l’insoddisfazione di sé scaturita da un confronto con veline o modelle
spinga, sempre più, a conformarsi ai canoni standard di bellezza imposti dai
media che, per essere realizzati, spingono a ricorrere di diete dimagranti
spesso drastiche e invasive. In realtà, oltre alle donne comuni, sono
soprattutto le modelle a dover sottostare a tali diete, diete che le indirizzano
nel tunnel dell’anoressia. Il paradosso del nostro tempo consiste nel fatto che
<<più le nostre società diffondono consigli e immagini estetiche, più le donne
vivono male il loro aspetto fisico: tendenzialmente il bel sesso non si vede
bello>>. La bellezza si trasforma così, in una <<tirannia implacabile>> che
31
altera la salute fisica e psicofisica soprattutto delle donne .
Stanchezza cronica, irritabilità, disordini mestruali, calo del desiderio
sessuale, lesioni dello stomaco e dell’esofago, disordini intestinali e crisi
nervose sono le conseguenze delle diete, degli abusi di lassativi e del vomito.
A questo si aggiunge il fatto che l’insuccesso frequente dei metodi dimagranti
si accompagna con la demoralizzazione, la depressione e un senso di colpa,
32
vergogna, svalutazione e disgusto di se stesse .
Se da una parte si realizza la <<tirannia della linea>>, dall’altra si affermano
i disordini alimentari e << lo spizzicare anarchico, l’alimentazione vagabonda
e destrutturata>>. Va detto che i chili persi li si recuperano con grande facilità
33
(Lipovetsky ironicamente parla di chili yo-yo ).
Ad avviso di Lipovetsky è il consumismo che, esacerbando il desiderio con
34
le tentazioni del cibo, induce alle <<ingordigie passeggere>> . <<La nostra
35
epoca acclama la magrezza>> , eppure si deve ammettere che sempre più
si afferma nei paesi industrializzati il sovrappeso. Rifkin sostiene che i
maggiori responsabili dell’aumento smodato di peso nelle società del
benessere sono i fast-food, da lui decisamente condannati (soprattutto i
famosi McDonald’s) in quanto considerati divulgatori nefasti sia di un regime
alimentare poco salutare sia di una cultura incentrata prettamente sul
consumo di carne (soprattutto bovina)che va a ledere i diritti degli animali
(egli propone un regime alimentare vegetariano). Una critica mordace dei
fast-food è stata mossa anche da Bauman:
Gli avvocati hanno già intentato cause contro McDonald’s, Wendy’s,
Kentucky Fried Chicken, Burger King e altre catene di fast food. Essi
rappresentano ‘vittime’ come un tale Gregory Rhymes, un quindicenne alto
165 centimetri, del peso di oltre 180 chili. Rhymes dichiara che andava da
McDonald’s varie volte al giorno, consumando di solito Big Mac maxi,
170
170
Rifkin, inoltre, osserva che una cosa alquanto inquietante è sapere che la
37
preoccupazione di <<buttare giù chili>> , per apparire più belli, si manifesta
già dall’età di cinque anni. Nelle nostre società il disequilibrio dei
comportamenti alimentari nei bambini è anche realizzato dagli slogan
pubblicitari: essi tendono a promuovere alcuni prodotti alimentari (merendine,
patatine ecc.) rispetto ad altri più salutari (merenda con frutta fresca per es.)
38
rendendo così <<la gente benestante […] sempre più grassa>> . Rifkin
precisa che una dieta ricca di grassi animali fa aumentare <<il rischio di
contrarre le cosiddette malattie del benessere: patologie cardiovascolari,
39
tumore, diabete>> .
Va detto che l’ <<anoressia, e il suo alter ego bulimia>>, appaiono in realtà,
nella nostra società, come le <<figlie gemelle della vita del consumatore nella
moderna società
NOTE
patatine fritte e frappè al cioccolato. Il suo avvocato, Samuel Hirsch, ha detto
che Rhymes e altri clienti venivano intenzionalmente ingannati dalle aziende
alimentari, che approfittavano astutamente della loro ignoranza su <<ciò che
è bene per loro>>. Le aziende hanno obiettato, per bocca e mano di
personaggi pubblici altrettanto agguerriti e influenti, presentando la ‘libertà di
36
mangiare’ come banco di prova della libertà individuale tout court .
171
40
liquida>> anche se, forse, la prima predomina sull’altra, in quanto, come
dice Lipovetsky, quella per la magrezza è ormai diventata <<un’ossessione di
41
massa>> . Con tale asserzione non si può far altro che concordare…
2. Ascesi verso Dio e ascesi verso lo zero
Se il digiuno d’amore è spesso una reazione a una sofferenza affettiva, il
digiuno mistico, realizzato dagli asceti, è un sacrificio che porta, sì, a una
mortificazione del corpo ma solo per ottenere un appagamento e una felicità
senza pari. E’ il caso di Santa Caterina da Siena (1347-1380), nata durante
la terribile peste nera in una famiglia numerosissima (25 figli di cui molti morti
anche a causa della peste) dal padre tintore Giacomo Benincasa e dalla
madre Lapa.
Ancora bambina cominciò a praticare dure forme ascetiche, digiuni,
penitenze, veglie, e a isolarsi, pur dentro casa, come un’eremita. La
situazione in famiglia diventava insostenibile, la madre non si dava pace. Per
quel che si sa e si può immaginare, la sua caparbietà ascetica, l’anoressia
171
radicale (Caterina mangiava pochissimo, e ridurrà via via qualità e quantità
del cibo), non erano solo e tanto puro masochismo, una nevrotica volontà di
autodistruzione, perché quella violenza infantile aveva un corrispettivo
nell’amore di cui si sentiva investita e che le dava un senso di pienezza
straordinario, una singolare esaltazione gioiosa. Caterina si sentiva infatti
motivata all’assolutezza dell’annullamento da una assolutezza di felicità: è
quella che nella tradizione cristiana si chiama l’esperienza di Dio,
42
l’esperienza mistica .
Non bisogna dimenticare che la nostra patrona d’Italia, pur riducendosi a
bere solo poche gocce di acqua al giorno e a dormire per poche ore, era
molto vigorosa tanto che <<più sconcertante per Caterina, e certo più
43
pericoloso, fu il sospetto di possessione demoniaca o stregoneria>> . Bell
precisa che <<tra le anoressiche medievali il cui numero è impossibile da
stabilire, probabilmente solo una piccola percentuale riuscì a convincere i
genitori e poi i funzionari ecclesiastici che il loro strano comportamento era
44
ispirato da Dio>> .
Lo psicanalista Recalcati, scostandosi da un’interpretazione religiosa,
sostiene che S. Caterina ha realizzato un ripiegamento narcisistico atto a
punirla del fatto di essere sopravvissuta a due sorelle (Bonaventura e
Nanna), morte entrambe nell’arco di un anno. <<Facendo del suo corpo la
45
tomba di un’identificazione inconscia dell’altro morto>> , Caterina si votò,
con l’anoressia, all’amore verso Dio: l’umiliazione del corpo era il solo modo
che ella aveva per farsi vedere e ascoltare da Dio. <<Così Dio le assicurava
l’esistenza di un Altro dell’amore che l’altro materno non aveva potuto
46
incarnare>> .
Lo storico Bell inoltre, con dovizia di particolari, evidenzia la Santa
anoressia di Veronica Giuliani, Chiara d’Assisi, Umiliana de’Cerchi, Angela
da Foligno, Maria Maddalena de’ Pazzi e persino il digiuno di Gesù nel
47
deserto <<per quaranta giorni e quaranta notti>> (anche se i Vangeli
<<sono concordi nel negare che il digiuno possa essere una via alla
48
santità>>) . Bell tende a sottolineare, come fa anche Recalcati, come in
49
molti casi la <<santa anoressia>> si sia presentata dopo la grave perdita di
un familiare.
Ma il mondo con le sue basse esigenze fisiche e con i suoi desideri rimane;
e la ragazza decide, anche sotto l’impressione delle lezioni di catechismo che
prende alla lettera e molto seriamente, che è il suo corpo a causare la morte,
che ha causato la morte della persona amata.[…]La santa anoressica si
rivolta contro il cristianesimo dipendente, passivo, surrettizio; la sua pietà si
172
172
L’ostinazione del mistico nel rifiutare di assumere cibo regolarmente lo ha
portato, in molti casi, anche alla morte. Va detto che Schopenhauer, l’autore
del pessimismo implacabile, ha rifiutato e condannato tutte le forme di
suicidio tranne una: la morte di un Santo. Per il filosofo, a una morte come
questa si può arrivare solo se, da un lato, si realizza una rinuncia completa
alla volontà, e se, dall’altro, l’asceta che si è lasciato morire di fame è giunto,
prima della morte, al sommo grado di saggezza filosofica. Schopenhauer,
inoltre, esalta il percorso di vita degli asceti fatto di castità e rinuncia ai
piaceri, penitenza, carità, pazienza nel sopportare gli oltraggi… A tal
proposito egli scrive:
NOTE
incentra intensamente e personalmente su Gesù e la sua crocifissione, e
cerca attivamente un’unione intima e fisica con Dio. Una volta convinta che il
suo sposo spirituale comunica direttamente con lei e ottiene così una reale
50
autonomia, i comandi degli uomini sulla terra diventano insignificanti .
Con il termine di ascesi, da me già più volte impiegato, intendo in stretto
senso quell’annientamento intenzionale della volontà, che si ottiene
rinunziando ai piaceri, e andando in cerca delle sofferenze: cioè la pratica
volontaria di una vita di penitenza e di macerazioni, fatta in vista di una
51
costante mortificazione del volere .
173
Per Schopenhauer, insomma, il santo deve essere anche un filosofo e
questo è quanto, secondo Critchley, è avvenuto in Simone Weil. In tale
autrice si ritrova un cristianesimo eterodosso e gnostico che emerge con
estrema chiarezza dai Quaderni. La sua prima esperienza religiosa, descritta
in una lettera al padre Perrin, si verificò ad Assisi nella cappella di Santa
Maria degli Angeli, cappella in cui San Francesco aveva pregato più volte, e
lì, la Weil disse: <<qualcosa più forte di me mi ha obbligato, per la prima volta
52
nella mia vita, ad inginocchiarmi>> . Inoltre, la filosofa fa presente che, nel
1938, mentre recitava la poesia inglese Love di Herbert, durante uno dei suoi
53
forti mal di testa, << Cristo stesso è sceso e mi ha presa>> . Simon Weil fu
colpita da una forma di tubercolosi che lasciava buone speranze di
guarigione ma il rifiuto a nutrirsi a sufficienza aggravò il suo stato tanto da
condurla alla morte. E’ senza dubbio commovente, come ci fa notare
Critchley, costatare che, nonostante il suo volontario digiuno, l’ultimo appunto
sul suo quaderno è stato rivolto al cibo:
Da questa alleanza tra la materia e i sentimenti reali deriva l’importanza dei
pasti nelle occasioni solenni, nelle feste, nelle riunioni di famiglia o di amicizia
– anche tra due amici – ecc. (così pure delle leccornie, bevande…). E quella
173
dei cibi speciali: tacchino e marron glacés di Natale [Christmas pudding] –
ravizzoni della Candelora a Marsiglia – uova di Pasqua – e mille costumi
locali o regionali del folklore (quasi spariti). La gioia e il significato spirituale
54
della festa è nella leccornia speciale della festa .
Questo esempio di dedizione religiosa può ricondurre a quanto detto da
Pascal circa il problema della fede. Per il filosofo, è necessario diventare
cristiani praticanti e occorre diminuire tutte quelle passioni che ostacolano la
fede. Ha detto Pascal: << E’ il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ecco
55
che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione >> .
Come detto precedentemente, Schopenhauer si è mostrato a favore di tutte
quelle pratiche atte all’autoflagellazione del corpo, pratiche che debilitano a
tal punto l’ organismo di chi le attua, da condurlo alla morte. Di avviso diverso
si è mostrato Nietzsche. Nei suoi scritti egli si è prodigato per la piena
valorizzazione dell’uomo nella vita terrena, ha descritto i martiri come dei
56
fanatici che, con i loro gesti, <<recarono danno alla verità>> . Si dice in
Genealogia della morale:
L’asceta tratta la vita come un cammino sbagliato, che si finisce per dover
ripercorrere a ritroso fino al punto dove comincia. […] Una vita ascetica è
infatti un’autocontraddizione: domina qui un ressentiment senza eguali,
quello di un insaziato istinto e una volontà di potenza che vorrebbe
signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa, sulle sue più
profonde, più forti, più sotterranee condizioni; qui si consuma un tentativo di
impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza; qui lo sguardo si
rivolge, astioso e perfido, contro la stessa prosperità fisiologica, in particolare
contro la sua espressione, la bellezza, la gioia; mentre si avverte e si ricerca
un compiacimento dell’insuccesso, della marcescenza, del dolore, della
sventura, del brutto, dell’espiazione volontaria, dell’autorinuncia, della
57
flagellazione e dell’olocausto di se stessi .
Quanto detto, sia in positivo sia in negativo, sul digiuno ascetico non trova
nessun riferimento in un’altra forma di ascesi che viene a delinearsi
nell’epoca contemporanea. Mi sto riferendo, in particolare, all’ <<ascesi verso
58
lo zero>> . Questa ascesi narcisistica, realizzata dalle anoressiche odierne,
59
è tutt’altro che rivolta a Dio! Essa è una sorta di <<ripiegamento autistico>> .
L’anoressia delle sante rappresenta il <<cammino per giungere alla santità>>
60
, un percorso dove queste ultime <<accettano con gioia gli effetti del loro
61
digiuno>> , rinunciando in nome della santità ad <<avere bisogni sessuali,
62
narcisistici o nutritivi>> . Nell’ascesi verso Dio, il rifiuto del cibo sta nel
174
174
63
<<desiderio di essere santa>> , nell’ <<estasi negativa>>
65
<<desiderio di essere magra>> .
64
, si riferisce al
evoca l’egocentrismo, la soddisfazione beata di sé, il fatuo padroneggiarsi,
la contemplazione di sé, il ripiegamento su sé stessi, la schizoidia, la
schizofrenia. A volte si capovolge: astio permanente verso di sé, impossibilità
di considerare qualcosa di diverso dalle proprie difficoltà, ecc. In breve,
Narciso si contempla incessantemente in uno specchio, accarezzando con lo
sguardo oppure odiando la propria immagine. E’evidente che un Narciso non
vede il mondo che attraverso sé stesso, in modo ristretto e nevrotico.
Tuttavia, <<vedere il mondo attraverso se stesso>> non è ciò che facciamo
66
tutti, nessuno escluso?
NOTE
In una società che sta perdendo i suoi schemi, ogni uomo appare come una
sorta di Narciso che, di fronte alla sua immagine riflessa in uno specchio, non
può far altro che amarsi o odiarsi. Su tale aspetto Pierre Daco è illuminante: il
<<comune narcisismo>>
67
I corpi anoressici che <<popolano, seriali, le nostre città>> , sono corpi
ambigui caratterizzati, secondo Recalcati, da un lato, da una sensazione di
<<iperattivismo>> e di <<potenza>>, e, dall’altro, dall’apparire come
68
mummificati e cadaverizzati . Sono corpi resi pelle e ossa dal disprezzo di
sé. I contributi preziosi di Bauman e Binswanger saranno adoperati nel
prossimo paragrafo, per illuminare nel miglior modo possibile tale
problematica…
3. Consumismo, anoressia delle Nazioni e il caso Ellen West
Quello dei disturbi alimentari è uno dei fenomeni più inquietanti e sempre
più dilaganti nella nostra epoca. Se nei Paesi poveri del mondo (Africa ad
es.) aumenta di giorno in giorno il tasso di mortalità legato alla denutrizione,
nei Paesi ricchi, i Paesi del benessere, sono in netto aumento patologie
preoccupanti quali ad es. l’anoressia e la bulimia, patologie che, se non
curate con dedizione, spirito critico e tempestività, possono anche portare
alla morte. Nelle sue analisi Bauman sostiene che l’anoressia e la bulimia
sono <<i due disturbi gemelli dell’alimentazione che costituiscono un marchio
69
di fabbrica della società dei consumi>> .
70
Il noto sociologo lega il <<corpo che consuma>>
alla società dei
consumi, mostrando come quest’ultima non aspiri al <<soddisfacimento dei
175
175
desideri>> bensì all’<<evocazione di un numero sempre maggiore di
71
desideri>> . Non si può far altro che confermare tale diagnosi. L’epoca
dell’opulenza materiale è quella dei grandi magazzini che, <<trasformando i
luoghi di vendita in castelli dei sogni, […] hanno rivoluzionato il rapporto con i
72
consumi>> . Va precisato, però, che il consumismo, sviluppatosi nei Paesi
ricchi del mondo, ha tagliato fuori dai suoi giochi tutte gli altri Paesi, cioè
quelli ridotti agli stenti. A tal proposito è bene lasciare la parola a Bauman:
L’anoressia è l’equivalente della risposta di Paesi come la Corea del Nord e
la Birmania all’ambivalenza del mondo esterno: chiudere le frontiere e
proibire tutte le importazioni, al costo di mantenere gli abitanti in uno stato
perpetuo di infelicità e necessità. Gli abitanti possono anche finire con
l’abituarsi alla loro vita di infelicità e iniziare a temere il cambiamento; ridotti
alla fame, si irriterebbero alla sensazione di stomaco pieno – come l’eroe del
racconto di Franz Kafka Un Digiunatore, furioso e disperato per dover limitare
il suo digiuno a soli quaranta giorni: << Avrebbe potuto resistere a lungo,
illimitatamente a lungo; perché smettere proprio ora che era al massimo del
digiuno? Perché volerlo privare della gloria di digiunare ancora, di diventare
non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi, il che probabilmente già era,
ma di oltrepassare persino se stesso fino all’inconcepibile, dal momento che
73
non sentiva nessun limite per le sue capacità di digiunare? >>
176
Forse i toni usati da Bauman in questo articolo pubblicato sul Corriere della
Sera qualche anno fa, potrebbero apparire ad alcuni apocalittici ma, in realtà,
le considerazioni fatte da tale studioso dovrebbero servire a richiamare
l’attenzione sulla circostanza che, ancora oggi, nel 2010, gli interventi attuati
dalle varie politiche atti a migliorare la situazione economica delle Nazioni
ridotte alla povertà, sono ancora troppo inconsistenti per risolvere il problema
alla radice. D’altra parte, nei Paesi ricchi, l’abbondanza in tutti i settori vige
solo in apparenza. La cultura consumistica, esacerbando <<la cura di sé e
74
l’amor proprio in modo prevalente>> nonché <<la cura della forma fisica>> ,
75
ha portato alla preoccupazione della <<difesa del corpo>> e all’emergere
dei disturbi legati al cibo.
Ciò che si delinea, al giorno d’oggi, è sempre più una società caratterizzata
da un
76
<<persistente senso di insoddisfazione>>
(generato dalle istituzioni
politiche, dai lavori frammentari, dalla difficoltà a investire in modo fruttifero i
77
propri risparmi…) e dalla <<leucemizzazione delle relazioni sociali>>
che
portano, come dice La Porta, ad un indebolimento del carattere. Egli
puntualizza che:
176
In un contesto che genera ansietà e che insegna che l’unico modo per
79
sopravvivere è quello di <<armarsi>>
verso il futuro, l’unica consolazione
dovrebbe essere data, allora, dal cibo, ma non è così. Non si può certo
negare che questa è l’epoca delle leccornie (<<le guide di cucina e i libri di
ricette invadono gli scaffali delle librerie>>), l’epoca che, coniugando spezie,
vini di qualità, stravaganza e creatività, porta alla preparazione di piatti
80
esotici, afrodisiaci, e di <<cucine “composite”>> , ovvero a sperimentare
81
<<combinazioni gustative inedite>> .
Si può facilmente costatare, inoltre, che nella nostra era, sono ormai finite le
82
classiche <<abbuffate iperboliche>>
attuate soprattutto durante i
tradizionali pasti domenicali o durante le festività religiose principali (in
particolare Lipovetsky evidenzia come ogni anno vengano lanciati sul
mercato circa <<1500 nuovi prodotti light >>, e tale numero si mostra in
83
progressivo aumento ). Nonostante tutto, oggi il rapporto col cibo diventa
nevrotico tanto che l’incubo ricorrente dell’individuo postmoderno, mosso da
84
un <<narcisismo analitico>>
che lo porta a sorvegliare ogni singola parte
del proprio corpo, è quello di non ingrassare.
85
<<Nell’epoca dell’eterna giovinezza e della sempieterna magrezza>> gli
sforzi per riconciliarsi con la bilancia si vanno moltiplicando. Il problema del
peso coinvolge maggiormente le donne, sempre più orientate, come precisa
Lipovetsky, sia all’utilizzo di creme dimagranti lanciate dai media sia alla
pratica di sport (il jogging per es.) che aiutano a mantenere linee slanciate.
Dice Lipovetsky:
Alla radice dell’allergia femminile al grasso, c’è il nuovo desiderio di
neutralizzare i segni troppo vistosi della femminilità e la volontà di essere
giudicate meno come corpo e più come soggetto padrone di se stesso. La
passione per la magrezza traduce, sul piano estetico, il desiderio di
emancipazione delle donne dal loro destino tradizionale di oggetti sessuali e
di madri, così come racconta un’esigenza di controllo su di sé. Se, ai nostri
giorni, la cellulite, le rotondità e i tessuti flaccidi provocano altrettante reazioni
negative da parte delle donne, è perché la snellezza e la tonicità stanno a
86
indicare padronanza di sé, successo e self management .
177
NOTE
[…] Il << carattere>> delle persone appare senza dubbio in forte declino:
quel carattere si formava infatti nella lotta per superare ostacoli,
nell’assunzione di responsabilità a lungo termine, sulla necessità di fare
78
scelte dalle conseguenze irreversibili .
177
Un fisico curato, longilineo e sodo non può far altro che destare
ammirazione e invidia. La stessa cosa non si può dire per chi ha trasformato
il culto per la magrezza in patologia, arrivando all’<<esibizionismo
87
dell’orrore>> . Si può provare, con l’aiuto di Binswanger, ad analizzare il
caso clinico di una paziente affetta da anoressia, Ellen West, giovane donna
che non è riuscita ad uscire da un tunnel pericoloso che l’ha condotta alla
morte. Tra gli eventi più significativi della sua vita si deve menzionare che a
nove mesi rifiutò il latte e fu nutrita con brodo di carne e che a ventun anni
mostrò uno stato d’animo tendente alla depressione e iniziò a disprezzare sé
stessa. Di lì in poi, non vide più la morte come <<l’uomo della falce>>, ma
come << una nobile signora, con bianchi asteri nei capelli scuri e grandi occhi
88
grigi, profondi e sognanti>> . La paziente, dopo un periodo di riposo a letto,
giunse a pesare 75 kg. Si sposò a ventotto anni con un cugino. Dopo il
matrimonio iniziò a diventare triste nel guardarsi allo specchio, giungendo a
89
odiare <<il proprio corpo>> . La cattiva nutrizione la portò ad avere un
aborto a ventinove anni.
A trent’anni anni, la paziente diventò vegetariana e a trentuno aumentò l’uso
dei lassativi e l’alimentazione peggiorò. Ellen iniziò ad apparire vecchia e
deperita, pesava solo 47 chili. Provò a stordirsi col lavoro. Iniziò a ingannare
quanti la circondavano, facendo sparire di nascosto le pietanze dal piatto e
alterando il peso della bilancia. Mangiava con avidità tutti quei cibi che non la
facevano ingrassare.
.
A trentadue anni prendeva dalle <<sessanta alle settanta pastiglie di
lassativo vegetale, col risultato che di notte>> era <<assalita da un vomito
tormentoso e di giorno da violenta diarrea, spesso con concomitante
90
cardioastenia>> . A trentadue anni e mezzo si sottopose a psicoanalisi ma
presto ne rimase delusa. A quell’età più che in passato manifestò propositi
suicidi. Ogni pasto era dominato dall’angoscia. La vita diveniva grigia,
91
l’esistenza diventò <<soltanto un tormento>> . Bramando la morte Ellen
sospirava:
Io sono realmente prigioniera: prigioniera in una rete da cui non posso
liberarmi. Io sono prigioniera in me stessa; mi aggroviglio sempre più in me
stessa e ogni giorno è una nuova, inutile lotta: le maglie si stringono sempre
di più […] Sono circondata da nemici. […] Non serve a nulla che lo
psicanalista mi dica che sono io stessa a inventarmi gli armati, che son solo
personaggi immaginari e non uomini reali. Per me sono realissimi
92
[sottolineatura di Ellen] .
178
178
Binswanger, nelle sue analisi, attinge sia al metodo fenomenologico di
Husserl (per afferrare nella sua totalità l’origine e l’evoluzione della malattia
96
mentale), sia all’ <<analitica esistenziale di Heidegger>> . In particolare,
quest’ultimo ha posto in luce la struttura fondamentale dell’esser-ci [Dasein]
97
[In-der-Welt-sein] in confronto
dell’uomo, e il suo <<essere-nel-mondo>>
agli altri simili. Nel nostro caso, questo aspetto si nota particolarmente nel
fatto che Ellen ha rifiutato il latte già a nove mesi, evidenziando, così, un
distacco tra sé e il mondo circostante. Da tale caso clinico emerge anche una
non piena accettazione della propria femminilità, come traspare dal fatto che
fino a sedici anni, i giochi di Ellen, erano stati prettamente maschili e lei
aveva preferito indossare i pantaloni. Per l’antropologo, la corporeità non è
un problema psico-fisico ma un problema esistentivo. Ad avviso di Galimberti
<<l’alienato non è più colui che vive “fuori dal mondo”, ma colui che
nell’alienazione ha trovato l’unico modo per lui possibile di essere-nel98
mondo>> . In Ellen la sensazione di vuoto risale già all’infanzia. Ellen
99
<<vorrebbe esser diversa da quello che è>> e tale disperazione la spinge
alla morte.
Si possono annoverare altri casi clinici come il caso Nadia di Janet che, al
pari di Ellen West, ha odiato e nascosto la sua femminilità vestendosi in
modo maschile. Nadia in realtà <<vorrebbe essere completamente
100
asessuata>> . Se Ellen si vergogna soprattutto di fronte a sé stessa, Nadia
179
NOTE
Al ricovero nella casa di cura Bellevue, le mestruazioni erano ormai cessate
da anni. La paziente presentava disturbi endocrini, pensieri ossessivi come la
paura d’ingrassare, e una grave depressione ciclotimica. Le venne
diagnosticata da alcuni psichiatri la nevrosi coatta, da altri la psicosi maniacodepressiva. Non vedendo possibilità di miglioramento, gli psichiatri misero il
marito davanti a un bivio: trasferire sua moglie in un reparto chiuso o
riportarla a casa. Il marito scelse la seconda possibilità. Ellen lasciò la casa di
cura pesando 47,5 kg. all’incirca come quando vi era entrata. Dopo tre giorni
a casa sembrava rinata, mangiava e scriveva lettere. La sera prese <<una
93
dose mortale di veleno>> e il mattino successivo spirò .
94
Il caso di Ellen West è un caso di <<schizofrenia>> . Binswanger
evidenzia che, in qualsiasi diagnosi, vanno considerate anche le altre
patologie presenti in famiglia. Nel caso di Ellen, il padre <<è da ritenersi un
carattere schizoide>>, come il padre del padre <<severissimo autocrate>> e
il fratello del padre dedito a un <<rigido ascetismo>>. Anche le sorelle della
madre e il fratello minore della paziente potrebbero rientrare <<nell’ambito
del tipo schizoide>>. Influiscono, insomma, sulla paziente, <<tratti ereditari
95
maniaco-depressivi e schizoidi>> .
179
vorrebbe nascondersi agli occhi degli altri. Nadia vorrebbe <<disperatamente
essere se stessa, ma come un Sé diverso>> , cercando di <<condurre
101
ma <<quanto più ella tenta di
pubblicamente un’esistenza non pubblica>>
rendersi invisibile, non appariscente, tanto più la sua presenza <<dà
102
nell’occhio>> .
Binswanger riprende il concetto filosofico-teologico di <<malattia mortale>>
103
proposto da Kierkegaard. E’ tale autore che, secondo Binswanger,
fornisce le basi per una comprensione antropologica dei casi da schizofrenia
perché, alla base di tale patologia, c’è il desiderio di <<non voler essere se
stessi, e insieme il desiderio opposto, il disperato voler essere se stessi>>
104
. L’invito da fare soprattutto alle adolescenti dovrebbe essere, allora, quello
di accettare i propri pregi e difetti, ovvero la propria unicità. D’altronde, anche
Leibniz, col principio di Identità degli indiscernibili, ha stabilito che non ci
sono in natura due cose assolutamente simili.
Ci piace concludere le considerazioni sviluppate in queste pagine con
l’invito di Roberta Borsani: <<accanto a un’anoressica c’è sempre Narciso,
dentro un’anoressica c’è Narciso. Per uscirne, ragazze, bisogna annegarlo.
Dovete farlo prima che lui si anneghi trascinando sott’acqua anche voi.
105
Ingenue Ottilie>> .
180
1
G. Verga, Storia di una capinera. Incanto, tempesta, delirio in un sogno
d’amore proibito, Acquarelli, Vago di Lavagno (Verona) 1997, p. 87.
2
N. Avril, Sissi. Vita e leggenda di un’imperatrice, Oscar Mondadori, Milano
2009, p. 47.
2
Ivi, p. 47.
3
Ivi, p. 114.
4
Ivi, p. 115.
5
D. Fertilio, Il Kaiser innamorato, in Corriere della Sera, 14 febbraio 2007.
6
D. Fertilio, Il Kaiser innamorato, in Corriere della Sera, 14 febbraio 2007.
7
M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Mondadori, Paravia 2000,
p. 108.
8
M. Mazzantini, Non ti muovere, Oscar Mondadori, Milano 2008, p. 26.
9
Ivi, p. 52.
10
Ivi, p. 50.
11
Ivi, p. 37.
12
Ivi, p. 86.
180
13
F. Kafka, I Racconti, Rizzoli, Milano 1989, p. 273.
Ivi, p. 269.
15
Ivi, p. 265.
16
Ivi, p. 271.
17
Ivi, p. 273.
18
Id., Lettera al padre, Feltrinelli, Milano 1991, p. 15.
19
Ivi, p. 12.
20
E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, Mondadori, Milano
1980, p. 120.
21
Ibidem.
22
F. Kafka, Lettera al padre, cit., pp. 19-20.
23
E. Canetti, L’altro processo, cit., pag. 40.
24
Ivi, pag. 136.
25
Ivi, pag. 40.
26
Ibidem.
27
Ivi, pag. 41.
28
Ibidem.
29
G. Lipovetsky, La terza donna. Il nuovo modello femminile, Frassinelli,
Milano 2000, pag. 121.
30
Ivi, p. 140.
31
Ivi, p. 131.
32
Ivi, p. 132.
33
Ivi, p. 129.
34
Ivi, p. 130.
35
Id., Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2007, p. 195.
36
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 107.
37
J. Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, Oscar
Mondadori, Milano 2002, p. 193.
38
Ivi, p. 195.
39
Ivi, p. 196.
40
Z. Bauman, La dittatura è l’anoressia delle nazioni. Così il male oscuro
della <<società liquida>> ha finito per contagiare il regime birmano, in
Corriere della Sera del 2 novembre 2007.
41
G. Lipovetsky, La terza donna, cit., p. 129.
42
C. Leonardi, Caterina la mistica, in Bertini-Cardini-Fumagalli Beonio
Brocchieri-Leonardi, Medioevo al femminile, Laterza, Roma-Bari 2005, p.
171.
43
R. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi,
Laterza, Roma-Bari 2002, p. 35.
44
Ivi, p. 26.
181
NOTE
14
181
45
M. Recalcati, L’ultima cena, cit., p. 189.
Ibidem.
47
R. Bell, La santa anoressia, cit., p. 137.
48
Ivi, p. 138.
49
Ivi, p. 134.
50
Ivi, pp. 134-136.
51
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia,
Torino 1969, p. 434.
52
S. Weil, Quaderni, (vol. I), Adelphi, Milano 1982, p. 56.
53
Ivi, p. 60.
54
Id., Quaderni (vol. IV), Adelphi, Milano 1993, p. 399.
55
B. Pascal, Pensieri, in B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi,
Milano 1978, 481 [8] p. 588.
56
F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, Adelphi, Milano
2007, p. 76.
57
Id., Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 2007,
pp. 111-112.
58
M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, Franco
Angeli, Milano 2002, p. 39.
59
Id., Il disagio della civiltà ipermoderna, in <<Communitas>>, 2009, 37, p.
78.
60
R. Bell, La santa anoressia, cit. p. 210.
61
Ivi, p. 208.
62
Ivi, p. 210.
63
Ivi, p. 208.
64
M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit., p. 41.
65
R. Bell, La santa anoressia, cit., p. 208.
66
P. Daco, La nuova psicologia. Nuovi valori, educazione, amore, sentimento
di Dio, spiritualità, vite anteriori, Rizzoli, Milano 1994, p. 215.
67
M. Recalcati, Il disagio della civiltà ipermoderna, in <<Communitas>>, cit.,
p. 82.
68
Ivi, p. 81.
69
Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 104.
70
Ivi, p. 98.
71
Ivi, p. 99.
72
G. Lipovetsky, Una felicità paradossale, cit., p. 11.
73
Z. Bauman, La dittatura è l’anoressia delle nazioni, cit.
74
Ibidem.
75
Id., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2004, p. 52.
76
Ch. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di
turbamenti, Feltrinelli, Milano 2004, p. 22.
46
182
182
G. Lipovetsky, L’impero dell’effimero. La moda nelle società moderne,
Garzanti, Milano 1989, p. 296.
78
R. La Porta, L’autoreverse dell’esperienza. Euforie e abbagli della vita
flessibile, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 20.
79
M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano
2008, p. 43.
80
G. Lipovetsky, Una felicità paradossale, cit., p. 197.
81
Ivi, p. 198.
82
Ivi, p. 196.
83
Id., La terza donna, cit., p. 115.
84
Id., L’impero dell’effimero, cit., p. 139.
85
Id., La terza donna, cit., pp. 114-115.
86
Ivi, p. 122.
87
M. Recalcati, Clinica del vuoto, cit., p. 69.
88
L. Binswanger, Il caso Ellen West, SE, Milano 2001, p. 62.
89
Ivi, p. 26.
90
Ivi, p. 29.
91
Ivi, p. 41.
92
Ivi, p. 42.
93
Ivi, p. 56.
94
Ivi, p. 203.
95
Ivi, p. 201.
96
Ivi, p. 211.
97
Ibidem.
98
Ivi, p. 212.
99
Ivi, p. 146.
100
Ivi, p. 160.
101
Ivi, p. 170.
102
Ivi, p. 171.
103
Ivi, p. 102.
104
Ibidem.
105
La Borsani, riprendendo Le affinità elettive di Goethe, analizza il mito di
Ottilie ed Edoardo. I due narcisi sono perfetti amanti, l’uno determinato e
appassionato, l’altra introversa e silenziosa. Le loro differenze caratteriali li
completano e li trascinano in un’attrazione irresistibile. Purtroppo, Ottilie,
involontariamente, causa la morte del bambino nato dalle nozze di Edoardo e
Carlotta e questo dramma la porta a una lenta consumazione attuata
attraverso un radicale rifiuto del cibo. Ottilie è un caso di anoressia. Poco
dopo muore anche Edoardo. (R. Borsani, http:/lafatacentenaria.blogs
spot.com/2009/03/morire-di-fame-eco-e-Ottilie.htm/: Morire di fame: Eco e
Ottilie, 12 Marzo 2009).
183
NOTE
77
183
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2002.
Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819; Il mondo
come volontà e rappresentazione, tr. it. di N. Palanga, Mursia, Torino 1969.
185
Giovanni Verga, Storia di una capinera. Incanto, tempesta, delirio in un
sogno d’amore proibito, Acquarelli, Vago di Lavagno (Verona) 1997.
Simon Weil, Cahiers, I, Librairie Plons, Paris 1970; Quaderni (vol. I), a cura e
con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982.
Id., La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950; Quaderni (vol. IV ),
a cura e con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993.
186
186
«Noi siamo al mondo in virtù del nostro corpo, in quanto percepiamo il
mondo con il nostro corpo. [...]. Riprendendo così contatto con il corpo e con
il mondo, ritroveremo anche noi stessi, giacché, se si percepisce con il
proprio corpo, il corpo è un io naturale». Così scriveva Merleau-Ponty nella
Fenomenologia della percezione (Il Saggiatore, Milano 1965, p. 281) per
rimarcare la costitutiva unità psicofisica che caratterizza l’essere vivente.
Eppure, nonostante «nel campo della scienza, del senso comune e della
cultura popolare – scrive M. Alcaro - non c’è chi si sogni minimamente di
negare la corposa solidità dell’impalcatura dentro la quale operiamo e
pensiamo» (p. 11), gran parte della tradizione metafisica e logocentrica
occidentale ha manifestato innegabilmente la tendenza alla spiritualizzazione
del soggetto e alla contemporanea svalutazione e rimozione della corporeità
dell’essere vivente.
Un’immagine del corpo, quella consegnataci in primo luogo dalla filosofia moderna, come aspetto marginale, secondario della vita. Impossibile
non ripartire da Cartesio. Che cosa è il corpo (e il mondo), per il filosofo
francese, se non una mera rappresentazione del soggetto? Non è forse
semplicemente una macchina della quale dubitare, un aspetto secondario
della nostra esistenza? Di più: il corpo non è essenziale neppure per la
conoscenza. È all’anima, infatti, che appartengono i significati delle cose ed è
sempre l’anima che li attribuisce indipendentemente dalla corporeità. Il
soggetto cartesiano, difatti, non incontra, non percepisce la realtà, con il
corpo; semplicemente la deduce dal pensiero. Ma la realtà, ci ha insegnato
H. Arendt, può essere semmai accettata o rifiutata, ma mai dedotta. La
deduzione della realtà - si legge in La vita della mente, con un chiaro
riferimento al soggettivismo cartesiano - «non è se non una elaborata e
velata forma di rifiuto» (il Mulino, Bologna 1978, p. 132). Scaturisce da qui
l’immagine di un Io decorporeizzato, sradicato e demondanizzato, titolare
indiscusso del senso del mondo e di tutto ciò che in esso risiede;
un’immagine destinata ad avere un lungo successo anche nel panorama
della filosofia contemporanea.
Quest’ultima, nonostante il suo carattere fortemente critico nei confronti
della metafisica e i reiterati e dichiarati tentativi di affrancarsi da quei
“postulati” metafisici presenti all’interno della nostra tradizione di pensiero,
rimane ancora in larga misura aggrovigliata in quei reticoli epistemologici che
ereditiamo dalla metafisica occidentale. E vi rimane soprattutto allorquando si
ostina a negare – per dirla ancora con H. Arendt - che «mente e corpo,
pensiero e esperienza sensibile, l’invisibile e il visibile si co-appartengono,
187
RECENSIONI
L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea, a c. di M.
Alcaro, Mimesis, Milano 2009.
187
sono, per così dire, “fatti” l’uno per l’altro» (Ivi, p. 196), consegnandoci, per
contro, un’immagine dell’essere vivente depauperato della sua corporeità,
della sua sensibilità. È così che la natura, il mondo, i corpi vengono fagocitati
dall’Io, dal linguaggio e dalla rappresentazione.
Essi, tuttavia, esistono a prescindere da chi li rappresenta, da chi li
osserva, da chi li interpreta, da chi li nomina. Ed è proprio questa autonomia
che viene rivendicata dagli autori del volume L’oblio del corpo e del mondo
nella filosofia contemporanea, i quali, in una prospettiva di superamento della
concezione riduzionistica della natura, si impegnano a dimostrare – come si
legge nell’Introduzione - «la prossimità della mente alla terra, il carattere
mondano della psiche, l’opportunità di promuovere un riavvicinamento e un
rifidanzamento dell’uomo con la natura» (p. 23).
Il nodo centrale della questione è, allora, l’impossibilità di ridurre la
realtà del mondo ad una mera rappresentazione del soggetto. Tuttavia, la
critica alla visione metafisica dell’io non comporta un’adesione da parte degli
autori ad un naturalismo di stampo fisicalista. Anche le scienze sperimentali,
infatti, si sono dimostrate incapaci di dar conto della complessità dell’essere
vivente, poiché – osserva M. Alcaro - «non hanno percepito o non hanno
individuato che l’individuo è tale perché è un soggetto», sebbene la proprietà
di essere soggetto, come ci ha insegnato E. Morin, non è esclusiva
dell’uomo, ma appartiene a tutti i viventi.
Sono queste immagini dell’essere vivente, riduttive e assieme
fuorvianti, che gli autori del testo, attraverso l’esplorazione di percorsi
filosofici alternativi ed eterogenei, mettono in discussione. Nonostante
l’eterogeneità dei percorsi seguiti, tuttavia, l’aspetto che maggiormente
colpisce del volume - al di là della condivisibilità dei singoli interventi - è la
convergenza delle diverse prospettive che mettono molto bene al vaglio le
isolate, ma assai significative, linee di pensiero che nella contemporaneità
riaffermano l’autonomia e la centralità ontologica del corpo, nella convinzione
che restituire l’uomo alla sua interezza è la conditio sine qua non per
risaldare il legame tra soggetto e mondo.
Il primo intervento di Mario Alcaro (Le radici biologiche dell’identità
personale, della libertà e della morale) ha come scopo quello di mettere in
luce l’inseparabilità dei caratteri psichici e biologici dell’essere vivente e
l’assoluta naturalità di quelle che vengono considerate le “espressioni alte”
dell’attività spirituale umana: la propria ipseità, la morale, la libertà. Se da un
lato, tuttavia, l’autore guarda con favore alla proposta degli esponenti del naturalismo angloamericano di adottare un’«epistemologia naturalizzata» per
render conto dei processi psichici, dall’altro segue gli esiti infausti a cui
pervengono questi teorici, rimanendo essi ancora rigidamente legati ad una
concezione restrittiva e impoverita della natura. Un’idea questa, spiega M.
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RECENSIONI
Alcaro, comune ai diversi orientamenti presenti all’interno del naturalismo
angloamericano e condivisa sia da quanti si ostinano ad applicare i canoni
metodologici della fisica ai fenomeni psichici, sia da coloro che, invece, si
arrendono di fronte alla straordinaria complessità dei prodotti della psiche,
interpretandoli come «non naturali». È per questo che l’autore propone, per
contro, una «naturalizzazione di tipo biologico» della psiche. Le prospettive
teoriche aperte dalle riflessioni di C. Darwin, H. Bergson, H. Jonas, G.
Edelman, E. Morin, A. Damasio ci costringono a riconsiderare l’immagine
complessiva della natura che ereditiamo dal meccanicismo della fisica
classica e delle scienze naturali. Ci rivelano che anima e corpo, dimensione
spirituale e dimensione corporea altro non sono se non diverse
manifestazioni della medesima realtà che è il bios. Un bios che si lascia
scorgere nei caratteri costitutivi degli esseri viventi: nella capacità dei viventi
di auto-organizzarsi, nella loro progettualità e anche nella loro libertà. «È la
vita – osserva M. Alcaro seguendo le originali indicazioni fornite da filosofi
come Bergson o Jonas – e non lo spirito dell’uomo che ha dischiuso
l’orizzonte della libertà» (p. 45). E così come la libertà, anche l’identità e il
senso morale (che si intravede, affermava Darwin, anche nelle “virtù sociali”
degli animali), hanno un fondamento naturale e, pertanto, non possono
essere considerate prerogative esclusive dell’uomo. L’autore rivendica,
insomma, l’esistenza di una costitutiva continuità tra l’uomo e la natura, di
una soggettività originaria, quella che Damasio denomina «proto-sé»,
attraverso la quale gli esseri viventi (uomo compreso) si muovono nel mondo
salvaguardando e potenziando la loro vita e il loro essere.
Il saggio di Francesco Lesce (Filosofie del corpo vivente) condensa
molto bene le importanti e significative riflessioni sul corpo e la natura che ci
lasciano due dei più rappresentativi autori dell’area filosofica francese del
Novecento: Merleau-Ponty e Deleuze.
Del primo, l’autore mostra molto opportunamente come il suo grande
merito sia stato quello di consegnarci un’immagine del corpo, pensato «nella
sua unità soggettiva di corpo vivente» (p. 59), superando quel dualismo
ontologico che la metafisica occidentale, nelle sue componenti maggioritarie,
da Cartesio a Husserl, ha posto tra coscienza e corpo (natura). Il corpo
vivente - osserva Lesce - deve essere inteso come l’elemento originario che
struttura la soggettività e il rapporto che essa istituisce con il mondo. Non
esisterebbe alcun pensiero senza il corpo: il corpo ne è la condizione
d’esistenza. In secondo luogo, con la nozione merleau-pontiana di “carne”,
ossia «l’elemento comune a tutti i viventi, il cui carattere universalmente
indisciplinato si riflette ogni volta nell’indeterminatezza del nostro singolare
essere-nel mondo» (p. 68), si supera definitivamente la scissione cartesiana
tra soggetto e oggetto, tra io e mondo. Non c’è più, in altre parole, da una
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parte il soggetto che sente e, dall’altra il mondo che è sentito; attraverso la
carne, l’essere vivente si relaziona al mondo e si sdoppia in senziente e sentito. È così che, nell’intreccio tra il corpo dell’uomo e quello del mondo, viene
finalmente soppressa l’idea di una coscienza costituente.
Il medesimo intreccio è riaffermato da Deleuze per elaborare una
filosofia dell’immanenza che sappia restituire alla natura la sua vitalità
produttiva. Le riflessioni deleuziane sul corpo e sulla natura, infatti, devono
essere lette - osserva Lesce - come una critica «all’idea di soggetto
trascendentale, ossia di soggetto che si stacca dalla vita del mondo per
cercare di imporre i suoi comandi sugli strati fisico-chimici della Materia, e su
quelli organici della Vita» (p. 70). È attraverso il corpo affetto, il corpo
attraversato da tensioni, forze vitali e dinamismi, che si costituisce la
soggettività, non più signora, ma «frammento della realtà vivente».
Del resto, anche le ricerche scientifiche sul cervello, come mostra
accuratamente Antonio Alcaro in La psiche e il cervello. La descrizione
neuroscientifica dei processi psichici, confortano gli autori nello sviluppo di
questa prospettiva. Esse hanno, infatti, oramai acclarato che esiste una
stretta corrispondenza tra la struttura anatomica dell’organismo vivente e le
sue qualità spirituali, una profonda e indissolubile relazione tra psiche e
corpo, tra coscienza e bios. Questo, tuttavia, non implica, come vogliono le
neuroscienze, che la psiche possa essere interamente oggettivata, e trattata
e spiegata deterministicamente, come se fosse un fenomeno esclusivamente
«riconducibile a dinamiche fisico-chimiche elementari». Infatti, scrive
giustamente A. Alcaro, «se tutto è, in ultima istanza, riconducibile ad un
insieme di eventi e processi materiali, perché esiste la psiche? Perché
ciascuno di noi, anziché agire in modo meccanico, sente, percepisce,
immagina e patisce?» (p. 82). Vi sono alcuni aspetti, quelli privati e
soggettivi, che non possono essere interamente materializzati. Ed è proprio
su questi aspetti che, negli ultimi tempi, le neuroscienze dell’affettività e la
neuropsicoanalisi si sono soffermate, segnalandoci, sì, l’origine naturale,
somatica, celebrale delle emozioni, dei sentimenti e in generale dell’attività
neuropsichica, ma, al contempo, l’impossibilità di una loro assoluta
oggettivazione, perché essi si trovano in un tempo e su un terreno di confine
e di relazione tra il reale e il virtuale e, come tale, non localizzabile.
È all’interno di questa cornice teorica che devono essere iscritte anche
le riflessioni sul corpo e la natura di Luce Irigaray, la cui opera - seguendo la
condivisibile interpretazione dell’intervento di Katia Menniti Corpo e natura
nella filosofia di Luce Irigaray - deve essere letta come il tentativo di
definizione di una nuova filosofia materialista, capace di «ricucire quel
legame tra soggetto e mondo», (reciso da secoli di riflessione filosofica), tesi
a incorporare la natura, il corpo e il femminile nella soggettività. Alla base di
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RECENSIONI
questa scissione c’è, ancora una volta, la negazione dell’originario e
costitutivo rapporto tra mente e corpo. È per questo che la filosofa francese
propone un ripensamento «non soggettivistico della soggettività», che passa
attraverso il riconoscimento delle sue radici corporee e della differenza
sessuale. La metafisica occidentale ha rinnegato «la matrice materiale
dell’umano apparire», il suo inizio materno, fornendoci una serie di dualismi
che hanno relegato il femminile, il corpo e la natura in una posizione
subalterna, e che hanno reciso la possibilità della relazione con l’altro. È da
qui che prende le mosse una nuova forma di materialismo, che ha lo scopo di
ristabilire «quell’uguaglianza ontologica tra mente e corpo», senza la quale
non è possibile ristabilire un rapporto con il mondo. Un corpo che, scrive
opportunamente Menniti, «segna la non coincidenza del soggetto con la
coscienza» (116).
Proprio l’affermazione di tale coincidenza ha condotto a quella perdita
del mondo, accuratamente trattata da Giuseppe Cantarano nel suo saggio,
La derealizzazione del mondo. Qui l’autore ricostruisce criticamente quel
processo che, a partire dalla modernità, ci consegna l’immagine di un
individuo che perde il suo legame con il corpo, con il mondo e con la sua
stessa umanità. Un individuo, in altre parole, sopraffatto dalla tecnica, intesa
heideggerianamente come supremo esito del nichilismo, la quale sostituisce
il reale con l’ideale e distrugge l’individualità. Tecnica che, nel razionalizzare
il mondo, lo priva di ogni principio superiore, svuotandolo di senso. Ed infatti,
scrive l’autore, «la tecnica – e l’economia, naturalmente - hanno
monopolizzato la razionalità. Relegando ogni altra istanza – politica,
religiosa, mitica, poetica, estetica – all’insignificanza» (138). La razionalità
tecnica quando incontra la razionalità economica produce delle conseguenze
drastiche per l’esperienza. Ed ecco come la phyisis viene dissolta dalla
tecnica e riprodotta artificialmente dall’individuo; l’oikos sconfina nella polis,
dissolvendo il politico.
Di rilievo è, infine, l’intervento di Emilio Sergio (Le “ragioni” del
materialismo), il quale legge il materialismo di Hobbes e l’antropologia
filosofica di Feuerbach come tentativi di riformulazione di una nuova teoria
della corporeità e della soggettività. Sergio ci restituisce una concezione del
meccanicismo hobbesiano molto distante dalle interpretazioni storiografiche
ottocentesche e novecentesche. Il meccanicismo hobbesiano, difatti, «non è
il meccanicismo cartesiano senza il sostanzialismo della res cogitans» (p.
163). Diversamente da Cartesio, il filosofo inglese ha, infatti, sentito
l’esigenza di riaffermare l’autonomia e l’indubitabilità del mondo rispetto al
soggetto. L’autore dimostra tale tesi facendo riferimento soprattutto ai luoghi
del De corpore, nei quali Hobbes lega la realtà del mondo alla certezza
sensibile. Ma Sergio mostra, soprattutto, come la filosofia materialista
191
hobbesiana sia assai ricca di sfumature naturaliste che, per certi versi,
possono essere accostate al pansensismo dei filosofi naturalisti. Nella
filosofia hobbesiana, a tutti i corpi, persino a quelli inanimati, pertiene, infatti,
una elementare capacità di sentire che li mette in contatto tra loro. È,
pertanto, nella materia organizzata che devono essere rintracciate le
condizioni per l’insorgere dei fenomeni psichici.
Feuerbach, da parte sua, emancipandosi dalle diverse forme di
spiritualismo e di materialismo ereditate dalla tradizione filosofica, proporrà
una forma di «materialismo sensista», fortemente polemica nei confronti di
qualsivoglia svalutazione del vivente e mortificazione del corpo. Essa è in
grado di restituirci «una concezione integrata della individualità sensibile e
delle sue facoltà» (p. 177) e di delineare un’idea di natura intesa come «unità
organica e totalità infinita delle forme di vita, rispetto a cui l’uomo è come un
microcosmo» (p. 176). La vera realtà del nostro esserci si presenta come «un
essere non-concettuale» che, come tale, rifugge dai nostri tentativi di
razionalizzarla. Un volume, dunque, ricco di suggestioni, che invita realmente
a riflettere sulla necessità di un ripensamento complessivo della nostra
visione del soggetto, del mondo e della natura.
Stefania Tarim
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J. MAXWELL COETZEE, Diario di un anno difficile, trad. di M. Baiocchi,
Einaudi, Torino 2008, pp. 229.
È stato recentemente pubblicato Diario di un anno difficile, comparso
nel 2007 nella versione originale quale ultimo lavoro dello scrittore
sudafricano, bianco di lingua inglese, John Maxwell Coetzee, Nobel per la
Letteratura nel 2003. Coetzee è nato a Worchester nel 1940, si è laureato in
Matematica ed Inglese, ha lavorato tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti quale
docente di Letteratura americana, nel 1971 è rientrato in Sud Africa ed ora
vive in Australia dove insegna presso l’Università di Adelaide. Dal 1974 con
“Terre al crepuscolo” è iniziata la sua produzione narrativa che diventerà
intensa, si alternerà con quella saggistica e di critica letteraria e gli procurerà
numerosi riconoscimenti. Coetzee è lo scrittore impegnato a rappresentare le
gravi e contraddittorie condizioni della sua terra d’origine, l’Africa meridionale.
Un luogo attraversato da culture, tradizioni, religioni, popolazioni, lingue
diverse specie dopo l’apartheid, una regione della terra dove infinite sono le
differenze, interminabili i contrasti a livello individuale e sociale. Da qui
192
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RECENSIONI
proviene la figura ricorrente nei suoi romanzi, quella dell’uomo che ha
difficoltà ad inserirsi nel contesto, non riesce nelle sue aspirazioni e rimane
solo, escluso, vinto dalla situazione senza che sia possibile distinguere da chi
sia dipeso, se da lui o dall’ambiente, dalla persona o dalla vita.
Oltre che per il tema dell’eroe solitario, dell’uomo sconfitto nelle sue
ambizioni, Coetzee si è fatto notare, nell’ambito della letteratura mondiale,
anche per lo stile, per essere stato, cioè, un innovatore dal punto di vista
formale, per aver sperimentato tecniche espressive sempre nuove.
Procedendo in questa direzione è giunto ora al “Diario di un anno difficile”
che si compone di due parti, la prima intitolata Opinioni forti, la seconda
Secondo diario. Nell’opera si dice di un noto e vecchio scrittore, John C.,
d’origine sudafricana ma vivente in Australia, una figura nella quale si può
facilmente intravedere la trasposizione di quella dell’autore. Egli è stato
invitato a collaborare alla composizione di un libro di saggi su quanto avviene
nel mondo d’oggi ma poiché l’età non gli consente di trascrivere col computer
gli interventi preparati chiede aiuto ad una giovane e bella filippina, Anya, che
vive nello stesso condominio e accetta l’incarico pur se con qualche
esitazione. Anya è fidanzata con Alan, un australiano di mezza età che
lavora quale consulente finanziario. Da quando Anya inizia col suo lavoro di
segretaria-dattilografa il libro di Coetzee si presenta diviso, anche
graficamente, in tre sezioni, la prima dedicata alle opinioni che John C. ha
formulato circa noti avvenimenti, personaggi, problemi della storia, cultura,
scienza, letteratura, arte, filosofia, politica, società, costume soprattutto dei
tempi contemporanei, la seconda al particolare processo vissuto dal vecchio
scrittore una volta venuto a contatto con la sua improvvisata collaboratrice, la
terza ai pensieri, alle riflessioni, alla condotta di questa, anche nei riguardi del
fidanzato, da quando lavora con John C..
Sono i tre motivi principali dell’opera che, però, l’autore non compone in
una trama, non trasforma in un romanzo, non svolge in modo che si
combinino tra loro, s’intreccino, agiscano insieme ed insieme pervengano agli
esiti finali. Essi procedono ognuno per proprio conto, sono addirittura separati
da linee continue che nemmeno alla fine scompaiono. È il Coetzee che vuole
ancora riuscire nuovo, singolare nello stile e stavolta vuole lasciare al lettore
la libertà d’interpretare il suo messaggio, la possibilità d’intervenire nell’opera.
Spetta, infatti, a chi legge notare i brevi spunti che l’autore saltuariamente
inserisce per far capire quanto sta avvenendo in un confronto così strano, per
far vedere come il vecchio scrittore dalla vicinanza della bella Anya, dalle
fantasie anche erotiche che ella gli accende, dal suo modo libero, disinvolto
di pensare e fare, sia indotto a ridurre la gravità, il rigore delle proprie
convinzioni, ad accostarsi di più a quella vita comune, quotidiana dalla quale
era sempre stato lontano. E al lettore spetta pure il compito di capire come
193
Anya, pur rimanendo la bella e disinvolta ragazza che tutti sanno, cominci, in
seguito alla conoscenza di John C. e dei suoi pensieri, a soffermarsi su
aspetti, momenti della vita finora trascurati, ad essere più cauta nei giudizi, a
valutare di più le situazioni. Giungerà a lasciare Alan poiché lo scoprirà
capace di derubare lo scrittore dei suoi risparmi. La giudicherà una frode e la
rifiuterà insieme a chi la sta ordendo. E’ un chiaro segno della ricerca di un
nuovo equilibrio iniziata in lei una volta conosciuto John C. ed un altro segno
sarà il rapporto che con questi ella continuerà pur quando, finita la loro
esperienza, saranno lontani. La donna lo penserà, gli scriverà e così lo
scrittore mostrando di avere pure lui ancora e sempre bisogno di quanto
appreso tramite Anya. Due esistenze diverse, una soltanto teorica, l’altra
soltanto pratica, si erano incontrate per caso ed unite per sempre. L’idea e la
realtà, l’arte e la vita avevano constatato che non c’erano tra loro ostacoli
invalicabili, che potevano combinarsi e procedere insieme. Entrambe
avevano trovato ciò che ad ognuna mancava, ora erano complete e
mostravano come era possibile farlo. È il messaggio che Coetzee vuole
trasmettere tramite quest’ultima sua opera e degno di nota è che esso sia
risultato semplice, chiaro circa un problema rimasto sempre complesso, che
abbia avuto una forma così nuova per contenuti così vecchi.
Antonio Stanca
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A. GRUNENBERG, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Storia di un
amore, a c. di U. Gandini, Longanesi, (Il Cammeo), Milano 2009, pp. 491.
Antonia Grunenberg ha raccontato la storia del Novecento attraverso le
esperienze e il pensiero della Arendt, tessendo una trama in cui gli
avvenimenti storici, i drammi personali, l'ebraismo, il nazismo, gli incontri con
i grandi maestri del tempo, la vita universitaria, la carriera accademica e il
grande amore delineano il percorso intellettuale e la vita stessa di questa
donna che amava pensare senza ringhiere. Nel suo libro la Grunenberg
racconta il vortice di emozioni e di esperienze, di avvenimenti storici e amori
che si susseguono nella storia della pensatrice. Le parole della Arendt, le sue
lettere, i frammenti delle sue pagine sembrano proporre un dialogo metafisico
tra i due protagonisti, Hannah Arendt e Martin Heidegger. È come se
attraverso questa ricostruzione e tramite il loro legame e le loro vite fosse
possibile rispondere alle domande che la Arendt si era posta. È la storia di
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RECENSIONI
due pensatori e di un unico amore che ha influenzato le loro vite e i loro
percorsi intellettuali. Dal primo incontro, il legame tra Hannah e Martin
Heidegger fu come la melodia degli avvenimenti catastrofici del Novecento.
La Grunenberg, seguendo cammini teorici e esperienze quotidiane, lascia
trasparire l'interpretazione che entrambi davano del loro amore. La giovane
studentessa ansiosa di sapere, dalla linea slanciata e i tratti regolari, con
un'intelligenza brillante e dagli occhi radiosi aveva ammaliato lo studioso
introverso, piccolo e magro, il filosofo creativo, una delle più penetranti
intelligenze del secolo. Il loro amore destò scandalo: lei una studentessa di
18 anni, uno spirito libero; lui 35 anni, sposato. A unirli è la passione
dell'amore e il fascino del pensiero filosofico. Nella loro vita esposta
all'accadere irrompe l'amore: dalla magia del loro primo incontro nascerà un
legame che durerà tutta la vita e segnerà la lontananza o la vicinanza fisica e
intellettuale tra i due. L'elemento magico della loro relazione era l'essere uniti
oltre qualsiasi cosa, un abbandono assoluto dal quale solo quella relazione li
proteggeva. Il loro amore era nutrito dalla passione, dalla fedeltà e dalla fede
assoluta nella verità della vita vissuta e si succedeva tra la felicità e la
tragedia, tra l'impegno e la delusione.
Antonia Grunenberg narra del loro amore non solo come di un
sentimento verso l'altro, ma come se avesse una forma propria e chiedesse
qualcosa ad entrambi: “Noi non sappiamo ciò che possiamo diventare per gli
altri attraverso il nostro essere”(Heidegger ad Arendt, lettera del 10 febbraio
1928, in H. Arendt, M. Heidegger, Briefe, 1998, p. 11).
L'autrice racconta in che modo la Arendt ha vissuto questo rapporto con
tutta se stessa, in una logorante relazione con i suoi sentimenti, di come
quest'amore l'aveva carbonizzata, aveva arso lo spazio tra lei e Heidegger,
stabilito l'identità assoluta tra i due, cancellato gli altri e distrutto il mondo.
Hannah rinunciò a lui sentendosi nulla, senza corpo né anima, ma non riuscì
mai ad allontanarsene completamente. Heidegger non poteva rinunciare a
lei: quella donna lo aveva travolto e rinvigorito, lo aveva aiutato a fare
chiarezza in sé. Lei trasformò le sue ferite sentimentali in impegno
intellettuale e utilizzò l'amore come argomento di ricerca. Cercò di
allontanarlo da sé per ritornare nell'infra e vivere altre relazioni, mentre il suo
essere ebrea cominciava a crearle difficoltà.
Antonia Grunenberg analizza la questione dell'ebraismo nella vita dei
due pensatori, rilevando le cause e le conseguenze di una situazione politica,
sociale e culturale fondamentale nelle loro vite e nel loro rapporto. Hannah
viveva questa condizione non solo come una questione personale in quanto
costretta all'esilio, ma soffriva a causa della reazione dei suoi amici
intellettuali, i quali preferivano l'assimilazione o l'allineamento al nazismo.
Essa interpretava tale condizione come un punto di partenza da cui
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ricominciare per rileggere e ripensare la tradizione, affinché ogni individuo
potesse essere rispettato e salvaguardato. Intanto il suo amato maestro si
era schierato a favore del nazismo, intendendolo come veicolo di speranza,
l'alternativa al caos dell'era delle masse, della dipendenza dalla tecnica, dello
smarrimento culturale. Partendo da questa situazione storica e personale
Hannah s'immerge nella politica e da apolide comincia una nuova vita, sino a
giungere negli Stati Uniti, in cui tutto è in continuo movimento, tutto è fonte di
energia e stimola un costante impulso ad agire.
Antonia Grunenberg riesce ad illustrare, attraverso le sue parole, la loro
lontananza sia fisica che intellettuale. Attraverso le loro storie l'autrice ci
dipinge i loro sentimenti, i loro pensieri, l'angoscia della Arendt nel sopportare
un tale distacco e la frenesia continua nel volerlo rincontrare. Il suo amante è
lontano, ma il dibattito culturale la spinge in ogni modo a confrontarsi con il
suo pensiero, sino all'incontro con il suo grande amore dopo anni di fuga,
persecuzione, di delusione, rabbia e straniamento. L'incontro tra i due fu
l'incontro tra il filosofo umiliato e isolato e la grande saggista ebrea. Essa
scrisse di quest'incontro “in base all'intensità dell'ira, del sollievo, dell'amore,
dell'apprensione, della sua profonda lacerazione”. Dalle sue parole è chiaro
che Hannah non sapeva e non poteva rinunciare a lui, seppur combattuta tra
i suoi sentimenti e la presa di coscienza dell'impossibilità della loro relazione:
“Avrei perso il mio diritto alla vita se perdessi il mio amore per te”. (Arendt a
Heidegger, lettera del 22 aprile 1928, in M. Heidegger, H. Arendt, Briefe, p.
70).
Antonia Grunenberg, quindi, delinea come una insanabile rottura con la
tradizione il rapporto tra i due filosofi, il loro pensiero, la loro capacità di
cominciare. Se da un lato Hannah Arendt mira alla comprensione del mondo,
sottolineando la costante preoccupazione per il suo decadimento e la sua
distruzione e nel definire il suo approccio alla politica si rivolge contro la
filosofia tradizionale, la quale ha trascurato il mondo, dall'altro Heidegger
considerava il filosofo come l'unico capace di portare a termine il proprio
ufficio prendendo le distanza dal sé, dal mondo e dall'azione, ergendosi a
“pensatore di professione”, incapace di agire nel'infra.
La Arendt accusa il suo amante e il suo maestro di aver privato la sua
filosofia di un'accezione politica, che è invece il fulcro del pensiero
arendtiano. La Grunenberg sottolinea tale differenze e mira ad evidenziare
l'importanza del “chi”, dell'esserci nella connotazione arendtiana. L'esserci,
secondo la Arendt, presuppone un mondo in cui s'incontrano gli altri, ma gli
uomini devono confrontarsi e dialogare per permettere l'esistenza di uno
spazio politico. Heidegger non comprende l'atto politico e non affonda le sue
radici nella condizione umana, che per la Arendt è ciò che fa tutti gli individui
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RECENSIONI
al plurale, in quanto esseri messi al mondo con la nascita e che affermano il
proprio chi nello spazio pubblico.
Nell'ultima parte la Grunenberg delinea le modalità attraverso le quali i
due amanti manifestavano il loro esserci nel mondo e si prendono cura di
esso. Per entrambi l'idea di mondo è l'insieme delle possibilità in cui l'essere
umano esiste, ma la Arendt aggiunge una nuova possibilità: inizio di
qualcosa, spazio di relazione, confronto e azione. La contingenza del mondo
lo rende bisognoso di cura, che è ciò che permette la relazione con gli altri;
tale cura è attenzione per la condizione umana, che ha alla sua origine la
pluralità e non l'essere singolo. Se per il maestro è l'ente nella sua totalità
l'origine dell'essere, per la filosofa ogni origine è legata all'esserci, cioè
all'individualità plurale: “L'uomo può essere in armonia con se stesso se
esiste un accordo di due o più suoni; per essere uno egli ha bisogno degli
altri. Solo nel rapporto con gli altri egli può vivere l'esperienza della libertà”
(H. Arendt Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 670).
Cosi come dimostra la Grunenberg in questo libro, le esperienze della
Arendt rispondono alle dinamiche del suo stesso pensiero: essa cerca di
affermare il proprio chi sulla scena pubblica cercando di vivere le dinamiche
del suo tempo, avvertendo la necessità del dialogo, come testimoniano le
innumerevoli corrispondenze con i suoi amici, il suo amante e il suo
compagno. La su interpretazione del concetto di libertà, il suo essere nel
mondo si apre ad uno spazio politico, in cui le differenze vengono rispettate e
il singolo uomo riconquista il suo valore in quanto portatore di diritti. La
politica “consiste nella rivendicazione di un diritto ad avere diritti, uno spazio
in cui esercitare il diritto all'azione e all'opinione”. Se gli uomini non fossero
uguali non potrebbero comprendersi, ma se non lo fossero non avrebbero
senso il discorso e la prassi umana: “ognuno nasce come un essere unico e
irriducibile a tutti gli altri”. (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, di A.
Guadagni, Edizioni di Comunità, Milano 1978, p. 410).
Raccontando tali avvenimenti l'autrice di quest'opera delinea come la
Arendt, nel suo tentativo di comprensione, ci offre un'analisi del suo tempo,
cercando di creare delle oasi di salvezza, attraverso il riconoscimento della
possibilità di nuovi inizi, di nuove azioni che possano trasformare ciò che è
cominciato in qualcosa che può ricominciare, riportando nell'uomo la capacità
di modificare il suo infra attraverso il proprio chi.
Questo libro apre una nuova modalità di lettura della vita di Hannah
Arendt, in quanto racconta della sua storia attraverso le sue parole, il suo
amore, le sue esperienze. Sono queste caratteristiche che consentono di
riavvicinarci all'essere umano e rivisitare il suo potere. La facoltà di
modificare la realtà attraverso l'agire politico è cosi delineata come la
costruzione di una società in cui ci siano individui che si rispettano e si
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riconoscono, poiché consapevoli
irripetibilmente differente.
di
essere
ognuno
un
soggetto
Caterina Annese
L. BATTAGLIA, Bioetica senza dogmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009,
pp. 357.
Questo saggio propone l’oltrepassamento della classica dicotomia
sacralità-qualità della vita per aprirsi al concetto di buona vita. Quest’ultimo
concetto in molteplici assonanze ha trovato fertilità nella storia del pensiero,
possiamo ritrovarlo già in Aristotele con il concetto di “fioritura umana” e
nell’oggi lo troviamo in altre preziose declinazioni rappresentate dal pensiero
della Nussbaum e di Sen.
Bioetica senza dogmi argomenta le tematiche bioetiche fondandosi su
una bioetica liberale, per trovare nella parte centrale del testo l’importante
risvolto che il femminismo ha contribuito a dare ai temi etici: è nella
valorizzazione delle differenze che la società e la cultura possono meglio
comprender l’essenza dei diritti umani, della giustizia e persino della dignità
concetto che diamo troppo sovente per scontato. E’ nell’ascoltar chi per
troppo tempo non ha avuto voce che il pensiero umano può beneficiare di un
arricchimento anche spirituale, con un approfondimento e svelamento di altre
sensibilità e prospettive: si pensi al mondo emotivo ed affettivo che
arricchiscono la ragione e la costituiscono.
Il saggio riflette su molteplici temi etici: alcuni ormai molto mediatici ed
altri (proprio perché appartengono a fasce deboli o agli invisibili) troppo poco
esplicitati: l’autrice del saggio tesse ed inanella argomentazioni con un
approfondimento costante di ciò che è la giustizia, cercando di coglierla nella
sua essenza: concetto essenziale e sponda di ogni prospettiva e
argomentazione etica.
Le riflessioni intessutesi nel testo con le opere di Mill, Sen e Nussbaum
tra le altre, pongono un deciso oltrepassamento dell’utilitarismo e del
contrattualismo aprendosi al nuovo approccio delle capacità, ossia cercare di
porre ogni persona in un percorso di completo sviluppo delle capacità
umane. Nella bioetica liberale punto cardine del pensiero dell’autrice, un
paradigma fondante è l’uguale valore delle differenze; è proprio grazie alla
ragionevolezza che possiamo far coesistere i valori di ciascuno e la tutela
delle minoranze.
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198
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RECENSIONI
In Bioetica senza dogmi si propone una intersezione della teoria della
cura con la teoria della giustizia: cura e giustizia sono colte come
interdipendenti, solo in questo modo si creano le possibilità di una nuova
cittadinanza, che pone nell’autonomia personale da promuovere il punto
cardine per eccellenza: al fine di far germogliare una sempre più fiorente
società che si apra a norme transculturali di giustizia, libertà e eguaglianza:
sempre all’interno di un orizzonte che unisca una impostazione
universalistica con una attenzione alle specificità locali.
Il saggio si svolge attraverso l’avvicinamento di diverse opere, ma certo
uno degli autori prediletti è J.S. Mill capace di argomentare la tutela dei diritti
dell’individuo e della protezione delle persone dallo stato dispotico e dalla
tirannia della maggioranza: quest’ultimo aspetto è ancora oggi di estrema
attualità; viviamo un periodo storico in cui il conformismo rischia di segnalare
in modo tacito, senza pensiero critico, ciò che è considerato naturale
contrapponendolo a quanto è pensato innaturale. Il rischio è ritenere i
comportamenti e i pensieri della maggioranza come una abitudine quindi
come norma che distingue tra il bene e il male. Si pensi a quanto viene
contrapposto, a livello sociale e morale, nell’ambito dell’inizio vita e del fine
vita sotto i concetti di naturale e artificiale; pensiamo alla procreazione,
all’imposizione della legge n°40 in Italia: alcune coppie sono destinate alla
continua impasse biologica, od al rischio di trasferire malattie genetiche ai
nascituri od ancora a subire la negazione di una fecondazione eterologa
come se non fosse invece l’accoglienza e l’amore verso chi verrà alla vita
l’aspetto primo ed ultimo. Si pensi al testamento biologico e al diverso
approccio tra una filosofia della relazione che approfondisce l’alleanza
terapeutica ed una visione del mondo che l’impedisce perché soffocata da un
paternalismo che non ascolta, dimentico non solo della tolleranza che per
l’appunto propone i propri valori senza cercare di imporli.
Le biotecnologia entrano in uno spazio sociale simbolico e affettivo: gli
orizzonti si modificano dal diritto di libertà dalla riproduzione si è arrivati al
diritto di riproduzione, dal consenso informato si è arrivati al diritto di non
sapere. Ecco allora l’importanza del dialogo, il confronto: è nell’interesse
della verità che ci si espone alle diverse opinioni. Su questa linea troviamo
anche Simmel che pensa al conflitto come momento importante per un’etica
del riconoscimento; nell’oggi la tecnica ha aperto a nuovi dilemmi ma ha al
contempo consentito alle persone di arrivare ad un più alto sviluppo morale,
perché la riflessione è stata necessaria!
In genetica nuove frontiere sono state dischiuse, hanno portato ad
esporre diverse ragioni si pensi a Jonas, Engelhardt e soprattutto alla terza
via di Habermas che con equilibrio arriva a considerare il consenso presunto
di colei o colui che arriverà alla vita, come momento di scelta etica.
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I temi della bioetica esprimono nella più vivace trasparenza la differenza
di uno stato di diritto da uno stato etico: il primo è uno stato ove ognuno è
libero di definire il proprio progetto di vita e l’altro ove lo stato si fa
paternalistico nell’indicare la strada della felicità e dell’esser giusti. La
presenza di uno stato etico, spodestando la possibilità della persona di
autodeterminarsi, non consente alcuna fioritura perché lontani da un’etica
della compassione e della responsabilità che consentono un agire empatico
nel rispetto della propria e altrui vulnerabilità. E’ il principio del danno
l’indicatore che consente al diritto di intervenire, non altro. Questo saggio che
rivela una bioetica attenta a tutto il vivente, improntato ad un’etica planetaria
oltre gli steccati culturali, avvicina la persona in un contesto storico che non è
più solo quello dei diritti umani ma quello del diritto comune dell’umanità:
superando una visione antropocentrica e androcentrica che impoverisce. In
queste pagine si coglie anche una vena biopolitica, non potrebbe esser che
così se è vero che cura e giustizia sono interdipendenti e l’autrice pone
anche la questione di rifletter su come il potere politico soddisfa i bisogni.
Il mondo vivente apre a nuovi tempi e a nuove sensibilità, oggi non più
nell’orizzonte dei diritti umani colti una volta per tutte ma in un passaggio da
quello che sono i diritti naturali verso i nuovi diritti.
Vi è un intreccio tra femminismo e bioetica, nel voler dare voce alle
donne, per poterle salvaguardare dall’oppressione talvolta insita nella cultura
che si trasferisce certo anche nelle tematiche bioetiche, che se non
sviscerate nella loro interezza vedono crearsi anche una sofferenza di
genere. E’ nella cultura, nella sua genesi, che dobbiamo saper cogliere il
limite di un diritto che non sa esser sessuato e che non rispetta i vissuti e le
specificità insite nelle peculiarità dei generi. Le attenzioni dell’autrice in
riferimento alla bioetica in prospettiva di genere abbracciano l’etica
universale, aprendosi anche oltre i confini europei per porre l’attenzione sui
più deboli anche nelle altre culture cercando di dare voce a chi non l’ha.
Nussbaum filosofa molto cara all’autrice introduce il valore degli aspetti
emotivi ed affettivi come fondamentali anche nell’argomentazione etica, ed è
anche grazie a questa sensibilità che si apre dinanzi l’importanza della tutela
dei valori condivisi e del rispetto delle diversità, sensibilità questa vicina al
consenso per intersezione presente in Rawls. La giustizia si designa oltre un
mero utilitarismo e contrattualismo andando quindi oltre il mutuo vantaggio di
Rawls, per porsi verso un nuovo contratto tra eguali e nell’interdipendenza
delle generazioni.
E’ un saggio che ricorda il vivente in tutte le sue forme, proponendo
certo un’etica ambientale ma anche un’etica animale, etiche che possono
arricchire la spiritualità della persona e consentirle un modo diverso di
assaporare il tempo della vita, non solo perché vitale in sé ma perché in
200
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P. COLONNELLO, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai scritta,
Guida, Napoli 2009, pp. 68.
All’interno della vexata quaestio del coinvolgimento di Martin Heidegger
col regime nazista, il rapporto con la sua allieva Hannah Arendt ha sempre
costituito un punto nevralgico. Di origine ebraica, tra i massimi studiosi del
totalitarismo, impegnata nella difesa del popolo ebraico e della sua cultura
all’interno di organizzazione di stampo sionista durante la Shoah, la Arendt
seguì il percorso del suo antico maestro, tanto nei suoi aspetti teorici quanto
in quelli di rilevanza civile, con l’animo attraversato da sentimenti ambivalenti.
La grande amarezza che caratterizza l’atteggiamento arendtiano negli anni
Trenta e Quaranta dello scorso secolo, che la porta al giudizio piuttosto
201
RECENSIONI
compagnia di altre forme di vita che ci accompagnano ed aprono
all’indissolubile; oltre la mera visione razionale che limita a noi stessi la
profondità insondabile del mondo emotivo ed affettivo: si pensi all’importanza
della pet therapy, alla possibilità di ascoltare e cercare di coglier un mondo
così vicino a noi ma al contempo così diverso, che consente di uscire dalla
propria prospettiva per accoglierne altre.
Non è forse questo lo spazio della cura che nell’accogliere consente di
porre i semi perché le diverse capacità abbiano nel vivere uguale dignità?
non è forse giustizia quella visione del mondo o sensibilità che consente a
tutti di esprimersi nelle forme e contenuti propri? anche volgendo lo sguardo
oltre il guado che la sola ragione non può oltrepassare ma che i principi
affermatisi grazie al femminismo consentono alla nostra cultura di far propri?
Una bioetica che riflettendo sui concetti chiavi e sul voler abbracciar
tutto il vivente non può che esser senza dogmi, perché questi sono categorie
dell’umano che non hanno ancora accolto la fertilità degli altri viventi: è nella
convivenza che umilmente possiamo scorgere la fioritura che si contrappone
al dogma che in sé non ha respiro ed è solo volontà di potenza: l’approccio
alle capacità è forse volontà di essere-con consentendo alla vita di esprimersi
in tutte le sue forme contenuti e saperi; sì i saperi di un vivente che insegna
già con la sua presenza solo a chi abbandona la veste della presunzione e
incontra il mondo con l’umiltà: un mondo naturale, tutto, che nonostante le
molteplici ferite è sempre lì a mostrarci la sua vulnerabilità e fiducia e
consentitemi familiarità!
Andrea Contini
201
tranchant su Heidegger e sulla sua opera filosofica che trova espressione nel
saggio sulla filosofia dell’esistenza del 1945, lascia gradualmente spazio a
una considerazione più serena ed equilibrata che si traduce in una sorta di
omaggio e di riconoscimento pubblico del suo debito teorico nei confronti del
pensatore di Messkirch in occasione dell’ottantesimo genetliaco di
quest’ultimo (Martin Heidegger a ottant’anni, 1969). Gli interpreti arendtiani
sono del resto concordi nel ritenere che l’opera della pensatrice sia
incomprensibile senza considerare la sua Auseinandersetzung con
Heidegger, la quale la accompagna nel corso dell’intera sua ricerca.
Pio Colonnello si colloca al centro del rapporto tra Heidegger e Arendt
considerandolo come un “luogo” decisivo a partire da cui gettar luce sul
dramma (storico e teorico a un tempo) vissuto da Heidegger e da gran parte
dell’intelligenza tedesca ed europea di fronte al fenomeno dei totalitarismi del
Novecento. Lo fa con un artificio letterario, quello del ritrovamento di
un’epistola scritta dall’autore di Sein und Zeit ad Arendt il 12 febbraio 1951,
nel periodo cioè in cui i due si rividero per la prima volta dopo l’avvento del
nazismo e l’ultimo conflitto mondiale. Tale fictio permette all’autore di
considerare la vicenda dal punto di vista non di un giudice esterno ma
dall’interno del dramma personale e teorico vissuto da Heidegger. Si tratta di
un’operazione rischiosa: in questi casi gli anacronismi sono trappole che è
difficile evitare. Colonnello vi riesce grazie al robusto supporto storicofilosofico che sostiene l’artificio letterario. I riferimenti costanti e sicuri
all’opera heideggeriana ― non solo ai testi pubblicati in vita ma anche alle
lezioni universitarie, la cui edizione sistematica ha permesso negli ultimi anni
di dirimere spinose questioni interpretative ― nonché agli scambi epistolari
― soprattutto a quelli con Arendt e con Karl Jaspers ― permettono all’autore
di offrire al lettore un’ipotesi ermeneutica coerente ed efficace, nel senso che
danno una chiave interpretativa unitaria capace di comprendere (anche se
non di giustificare moralmente) gli atti di rilevanza civile e politica più
controversi compiuti da Heidegger.
Per comprendere l’operazione ermeneutica messa in atto in questo
testo occorre non dimenticare che esso si regge su due assunti. Il primo è
che quella chiave interpretativa è sempre di tipo filosofico: anche quando
agisce politicamente Heidegger lo fa sempre a partire da un pensiero e
un’intenzione filosofici ― al punto che, a mio modo di vedere, la critica più
convincente mossa dalla Arendt nei confronti del suo maestro è quella di
deformazione professionale; il secondo assunto è che, di conseguenza, il
luogo che Heidegger considera come decisivo dal punto di vista politico è
l’università. Il merito maggiore del volume di Colonnello è forse proprio quello
di farci comprendere come il famigerato Discorso di rettorato, con cui
Heidegger nel 1933 accetta la carica di rettore dell’Università di Friburgo con
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RECENSIONI
il benestare del novello governo nazista, sia comprensibile unicamente sulla
base di una prospettiva prettamente filosofica che vede nel lavoro teorico, in
particolare in quello filosofico, la forma di “servizio civile” decisiva per la
comunità politica tedesca in quel particolarissimo frangente storico. Certo,
non bisogna dimenticare che la rilevanza e la dignità teorica di tale discorso
pecca dell’incredibile e colpevole ingenuità di credere nella possibilità che il
mutamento politico messo in moto dal nazionalsocialismo ― cui Heidegger,
assieme a tanti altri intellettuali europei, riconosceva una rilevanza weltgeschichtlich ― accettasse di lasciarsi guidare docilmente dai “sacerdoti” del
sapere. Un tragico errore in cui purtroppo Heidegger non fu l’unico a cadere.
Sante Maletta
G. CERA, Il familiare e l’estraneo, Edizioni di Pagina, Bari 2008, pp. 90.
Lavoro che condensa e approfondisce riflessioni e ricerche condotte da
diversi anni, Il familiare e l’estraneo risulta la coerente prosecuzione di una
riflessione teoretica che pone inequivocabilmente al centro il problema
dell’esistenza.
In quest’opera, Giovanni Cera, partendo da un impianto ben attento a
legare tra loro elaborazione filosofica ed esistenza concreta, riflette sui
fenomeni del familiare e dell’estraneo attraverso un metodo ed una scrittura
che concretamente si servono della vita per parlare di essa nella molteplicità
delle sue manifestazioni.
Si tratta di una densa trattazione che assume come tema di fondo la
logica dell’essere che vede le cose, tutte le cose, e in senso più ampio
l’esistenza, nella loro insuperabile finitezza. La vita è vita che si definisce
ontologicamente proprio attraverso il finire che ha sempre, per Cera, un
doppio significato, nel senso di passare/finire (non essere più presente), e
definirsi come il venire delle cose ad essere il proprio essere, poiché una
cosa, ogni cosa, è finendo di essere che inizia ad essere: « finire in quanto
passare/non essere (più) presente vuol dire definirsi, trovare e ricevere dei
confini d’essere, un’identità […]. Niente finisce/passa senza definirsi, sia pure
al modo dell’indefinito, cioè di ciò che non ha confini netti, che mostra
un’identità ambigua, o del non finito, cioè di ciò che si è interrotto, non si è
concluso/compiuto/ realizzato […] » (Duplicità del finire, pp.20-21).
Cera osserva, quindi, come tutte le cose della vita hanno inizio,
divengono e finiscono e finendo pur si definiscono in forme e identità che
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sostanziano la vita già, però, nell’inizio, poiché il nascere stesso delle cose
coincide col loro mostrarsi e, quindi, definirsi.
Ora, ogni cosa, finendo, è come se cedesse alla necessità d’essere, per
e nei limiti d’essere che è, quella che è, privandosi della possibilità d’essere
altro da sé. Tutte le cose, nell’essere quello che sono, cedono a questa
necessità, destinandosi ad essere/avere identità e riconoscibilità e
nominabilità. Ed è per questo che le cose, tutte le cose si caratterizzano per
essere, nell’essere, familiari, per essere/avere, cioè, una struttura/natura fatta
di elementi reciprocamente correlati e integrati e, pertanto, tra loro non
estranei o in dissidio. In sostanza, una cosa, ogni cosa, nel suo essere tale,
è, per Cera, una famiglia, essendo/divenendo per necessità, un complesso di
parti congiunte/legate ontologicamente tra loro e, pertanto, familiari, in cui
l’una parte rimanda alle altre nel segno del senso e del sostegno. «Famiglia
(for, φηµί) è un insieme di parti con- dicibili, cioè tali che ognuna c’è in quanto
ci sono le altre con le quali è consaputa. È il luogo del richiamo, della
illuminazione/verità e dell’ausilio reciproco: del richiamo perché l’una parte
c’è, e per esserci, ci sono, ci devono essere anche le altre; della
illuminazione/verità perché l’una parte dà senso alle altre, ricevendone a sua
volta, e perché ognuna sa delle altre […]; dell’ausilio perché ogni parte
collabora e dà sostegno alle altre » (La relazione di familiarità, p. 29).
Staccare una parte dalle altre, isolare un elemento per unirlo ad altri, significa
ottenere l’in-sensato, il malato, il corrotto; il defamiliarizzarsi delle cose altro
non è se non il sottrarsi/distaccarsi funzionale di una parte dal tutto di cui è
parte. «E’ il significato ontologico o primario dell’estraneo: estraneo è ciò che
è fuori, ciò che non c’entra col porsi, cioè con l’essere e con la vita, di una
cosa. L’estraneo è “creato” dal familiare, è ciò da cui il familiare ha da
distinguersi e si distingue, per poter essere e per il fatto di essere: il familiare,
determinandosi come familiare, determina l’estraneo. L’estraneo è l’altro, il
non del familiare» ( La relazione di familiarità, pp. 27-28).
La familiarità/estraneità sostanzia, peraltro, l’essere delle cose come
poste tra loro in relazione perché aventi forma e cioè un dentro che si separa
misteriosamente dal fuori e che al tempo stesso è il suo fuori. Distaccandosi
nettamente dall’idea classica che distingueva l’essere dall’apparire, Cera,
sembra, così, ridurre l’essere stesso della cosa, di ogni cosa, alle sue
manifestazioni e apparizioni affermando, infatti, che « il dentro, per un verso,
è altro dal fuori, non è il fuori, per altro verso è il fuori, il suo fuori però:
giacchè la forma, che è data da ciò che sta dentro, è fuori, vale a dire è
manifesta, appare, si vede ed anzi solo in quanto ha un dentro, ha un fuori ed
è manifesta e appare e si vede» (La forma come limite, pp. 3-4).
Appare
chiaro,
quindi,
che
il
processo
di
individualizzazione/identificazione delle cose trae la sua origine da un atto di
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RECENSIONI
separazione che permette non solo la divisione da, ma anche la
formazione/affermazione. Tutto questo nei limiti della vita, poiché la morte, al
contrario, è solo isolamento e scorporazione, separazione insensata. La
morte per l’autore, non riguarda la vita, ne è solo il limite che la definisce in
termini di precarietà e caducità e la sostanzia come tempo, ma in nulla
pregiudica o condiziona la libertà che siamo. La non vita non “è” della vita,
afferma Cera in un passaggio fondamentale, lasciando intendere sia che la
non vita è estranea alla vita e cioè non ne è funzione, non le appartiene, sia
che la non vita è della vita nei termini in cui, però, può essere pensata e detta
solo a partire da essa. E allora, a sostanziare la vita è il sentimento della
nostalgia, definita dall’autore spia del Destino poiché «dice che le cose
stanno, magari per esiti di un processo, perché provenienti da, al modo della
paticità, dell’estraneità, della non-familiarità, della non-vita ossia sono tali che
si vorrebbe tornare nel punto in cui non c’erano, a prima che avvenissero,
retrocedere nel luogo/tempo della pace, della serenità, dell’innocenza, del
non- errore» (Il tempo perduto, il tempo non avuto). La vertigine della perdita
spinge, allora, l’uomo a prolungare la sua vita oltre la vita, a prolungare
addirittura il passato, resuscitandolo nel presente, narrandolo e, chè è lo
stesso, inventandolo: «il passato narrato è il passato inventato. […]. Il dirlo,
narrandolo, è costruirlo, appunto “inventarlo”» (La narrazione come
invenzione p. 64). Narrare, ricorda l’autore, significa, peraltro, voler
ordinare/illuminare l’estraneo che è il passato per riconvertirlo in familiare.
Tentativo costretto a fallire poiché tra il passato e il presente che lo dice c’è
uno scarto insuperabile, come, insuperabile, in fondo, è, e resta, per Cera, l’
estraneità. L’esistenza che viviamo è il caos/caso trasformato in logos
attraverso le pratiche e le forme e i diversi/ulteriori sensi, gli eccessi di senso,
che l’uomo sperimenta per familiarizzare col mondo dandosi da sé la luce.
Ma la luce non è, come per Agostino, la verità/Verità; la luce, non è la doppia
luce delle cose già visibili e distinguibili e tali per effetto della luce che è Dio
che ne è autore e facitore. Il movimento dell’uomo e il suo autoesonero
processivo sono tali, per Agostino, perché preceduti ontologicamente e
logicamente da Dio che dando luce alle cose permette all’uomo di viverle
all’insegna della familiarità/intimità. Rovesciando questo punto di vista, Cera
sembra quasi affermare che le cose, nel loro essere quelle che sono, non
solo sono prive di qualsiasi fondamento metafisico, ma, sono fatte anche di
una luce che può, addirittura, per riprendere Dewey, essere/rappresentare il
falso poiché «ciò che è familiare in quanto noto, è scontato, non è (più)
messo in conto, cioè considerato e discusso. […]. Vedere “rivedendo” vale
come non vedere. Il “falso” del già visto nasconde il “vero” del non visto» ( Il
non vedere della familiarità p.61).
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Avvolto nel groviglio della contingenza l’uomo mira ad appropriarsi del
mondo aprendosi ad esso, vivendolo e abitandolo per come esso è: estraneo
oltreché familiare. Estranee e familiari sono le cose, tutte le cose, per natura
e costituzione; estraneo e familiare è il mondo in cui l’uomo si muove nel
doppio e ambiguo e contraddittorio bisogno del diverso e dello stesso.
Proprio tale consapevolezza permette di evidenziare uno dei tratti più
rilevanti del discorso dell’autore che viene puntualmente sviluppato ed
indagato nelle pagine conclusive del testo a partire dalle tesi di Sartre: è la
contingenza/gratuità che sostanzia la vita.
Il destino dell’uomo è, allora, quello di vivere all’insegna
dell’ingiustificabilità, dell’estraneità e dell’incomprensibilità. È la rivincita
dell’estraneo sul familiare, del non senso sul senso/sui sensi delle tante vite
che fanno la vita così come noi la intendiamo.
Annalisa Marinelli
J.-M. GUYAU, Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione, a cura
di Ferruccio Andolfi, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2009, pp. 253.
Il pensiero contemporaneo ha registrato negli ultimi decenni un
rinnovato interesse nei confronti della filosofia morale che, a partire dalla crisi
di modelli universali, non cessa di interrogarsi su nuove forme di normatività,
capaci di dare un significato all’esperienza etica, pur accogliendo le istanze di
autonomia e di creatività avanzate dalla cultura dell’ individualismo. La
riflessione filosofica non può infatti non prendere atto di una condizione che è
divenuta propria della modernità: l’inadeguatezza di una legge astratta come
quella del dovere, a fondare una morale che sappia tenere conto delle
sempre più pressanti esigenze di affermazione di valori personali, anche sul
piano etico. A questo riguardo, la proposta di una morale «senza obbligo e
senza sanzione » avanzata dal filosofo francese Jean-Marie Guyau in un suo
saggio del 1885, può ancora fornire spunti interessanti al dibattito attuale.
L’opera, intitolata appunto Abbozzo di una morale senza obbligo e
senza sanzione, già apprezzata nella precedente edizione del 1999, è ora
pubblicata dall’ editrice Diabasis a cura di Ferruccio Andolfi, nella traduzione
di Anna Maria Mandich. La riproposta è meritoria, oltre che per ragioni
storiografiche, legate all’originale sintesi di positivismo e evoluzionismo,
soprattutto per ragioni teoriche, tematizzando questioni che, come sostiene il
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RECENSIONI
curatore in apertura della sua densa introduzione, anticipano il «crepuscolo
del dovere» annunciato poco più di un decennio fa dal filosofo morale Gilles
Lipovetsky. La critica al dogmatismo morale avanzata da Guyau risulta così
radicale rispetto alla cultura del suo tempo, come emerge dall’accurata
ricostruzione di Andolfi, da suscitare anche l’interesse di Nietzsche, di cui
sono pubblicate in appendice le annotazioni che riportò a margine del testo.
La ricerca che Guyau intraprende sulla moralità è dettata dalla
necessità di rispondere a nuove esigenze emerse nel suo tempo, in
conseguenza dello sviluppo scientifico e della crescente secolarizzazione
della società, che hanno diffuso lo spirito critico e messo in crisi i valori
metafisici e morali tradizionalmente condivisi. Ecco che ripensare l’etica
equivale per il nostro autore, come del resto per la cultura attuale, anche a
ripensare la complessa dialettica tra individuo e società, che sappia
conciliare le istanze individuali e quelle sociali.
A questo proposito egli conduce un serrato confronto con tradizioni
filosofiche opposte: il kantismo nella formulazione di Renouvier, di cui
contesta l’interpretazione della legge morale in termini formali e insieme
dogmatici, e l’utilitarismo di Bentham e Stuart Mill che, assegnando all’uomo
come fine supremo l’interesse personale, manca di render conto del carattere
originario delle spinte altruistiche. E soprattutto con Spencer, la cui
prospettiva evoluzionistica costituisce il quadro teorico in cui si inscrive il
discorso di Guyau, che tuttavia respingendo l’assunto fondamentale della
necessità oggettiva dell’altruismo, perviene ad esiti decisamente innovativi. Il
particolare, la distanza dall’autore dei Principi di etica è segnata dall’accento
posto sulla variabilità delle condotte personali, non riconducibili ad una legge
uniforme, in nome della necessità di lasciare «una più larga sfera d’azione
alla libertà individuale» (p.156).
Il suo progetto muove prima di tutto dalla decostruzione dei fondamenti
metafisici delle teorie del dovere, per indicare l’inerzia etica di ogni obbligo
che si richiami al rispetto di una legge formale. Sottolineando che «non si può
volere per volere » (p.80), il nostro autore respinge una volontà puramente
formale e rimarca l’importanza della motivazione individuale all’agire morale,
che vien meno rispetto a astratte prescrizioni di imparzialità e universalità,
una motivazione che non può essere solo razionale ma deve iscriversi anche
nella sensibilità per tradursi appieno nell’azione. Per questo si sofferma sul
sentimento kantiano del rispetto, contestandone l’origine a priori, sulla base
di un necessario coinvolgimento della sensibilità nella scelta morale, anche
soltanto in termini di resistenza delle inclinazioni e dei desideri soggettivi.
Dimostrandosi attento lettore della Critica della ragion pratica, rileva come
l’analitica dei moventi morali debba riconoscere il mistero dell’attuabilità della
libertà morale sul piano della sensibilità individuale.
207
Rispetto perciò al dogmatismo del dovere che, come abbiamo visto, non
riesce a rendere conto della complessità dell’agire morale, valorizza il dubbio
come segno della «dignità del pensiero» (p.88), affermando la necessità di
sostituirla alla morale della certezza e della fede, nella convinzione che sia
destinata a consolidarsi con lo sviluppo della razionalità. E all’obiezione che
comporti il venir meno di un importante fattore di coesione sociale, egli
replica che la morale del dubbio può risultare socialmente più efficace nella
modernità perché, dando spazio alla relatività delle conoscenze, pone un
limite al dogmatismo, frena l’egoismo e favorisce i processi di condivisione.
Alla critica delle etiche del dovere è correlata quella dell’idea di
sanzione, di cui Guyau mette in dubbio il valore morale: che il vizio sia punito
e la virtù premiata corrisponde ad un’aspettativa che l’uomo ha ereditato
dalla cultura religiosa comune a tutte le fedi, ma che risulta priva di
fondamento alla luce della riflessione filosofica e scientifica sui principi
dell’agire. Corrisponde certamente ad una convinzione istintiva, rafforzata
anche dall’idea della giustizia distributiva che, pur appartenendo all’ambito
sociale ed economico, viene indebitamente applicata a quello morale,
introducendo l’idea di «una proporzionalità tra lo stato buono o cattivo della
volontà e lo stato buono e cattivo della sensibilità» (p.106) . E a tale
proposito, obietta che il venir meno alla legge del dovere, soprattutto nella
sua accezione trascendentale del pensiero di ispirazione kantiana, non può
influire sulla sensibilità, data la distanza che separa questa dalla dimensione
della volontà e della razionalità. D’altro canto, qualora la legge venisse intesa
invece in senso trascendente, come espressione della volontà divina, la
sanzione risulterebbe in questo caso perfino contraddittoria, soprattutto
rispetto all’idea che «Dio, questo supremo ideale, dovrebbe essere incapace
di fare del male a chiunque e a maggior ragione di rendere male per male»
(p. 196).
Dalla critica alla morale del dovere e all’idea di sanzione , Guyau deriva
la necessità di porre nuove basi per la morale. E conformemente allo
sviluppo della cultura positivistica, la ridefinisce in termini scientifici,
liberandola da ogni impostazione metafisica e individuandone il principio tra i
fatti empiricamente verificabili: nel tentativo di fondarla sugli impulsi concreti
che spingono gli uomini ad agire, riconosce priorità alla vita, concetto che
intende alla luce della psicologia evoluzionistica. La vita è sì
autoconservazione, ma nel senso che questo impulso si conserva solo nella
misura in cui mette a frutto tutta la sua fecondità :«la vita- egli scrive – è
fecondità e viceversa la fecondità è vita traboccante, la vera esistenza» (p.
109). Ciascuno di noi, così come ogni forma del vivente, si trova impegnato
in una ricerca, condotta per lo più in modo inconsapevole, in vista
dell’accrescimento di sé. L’individuo persegue tale impulso che però, lungi
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RECENSIONI
dall’esaurirsi all’interno di un orizzonte egoistico, si realizza nella sua
compiutezza solo dispiegandosi all’esterno, in un processo di progressivo
arricchimento e intensificazione della vita. Guyau individua la fonte della
moralità in questo impulso vitale, che, sebbene per natura individuale, nel
suo dispiegarsi sviluppa un atteggiamento disinteressato e generoso, che
feconda la volontà al punto che «l’uomo vuole diventare un essere sociale»
(p. 108), nella consapevolezza di non poter bastare a se stesso. Questo
processo diviene perciò la condizione della capacità di comprendere gli altri e
di simpatizzare con loro, ponendo le basi ad un altruismo, che non risponde
ad un obbligo imposto da autorità sociali o ad un principio astrattamente
intellettuale, ma ad un modo di essere originario, che coinvolge anche le
dimensioni della sensibilità e dell’emotività.
Contrariamente a quanto prefigurato dalle morali rigoriste, l’altruismo
non richiede allora sacrificio ed abnegazione di sé, ma è la conseguenza
della più completa realizzazione della vita individuale. La vita intesa come
«una forza accumulata che richiede di essere spesa» (p.101), risponde a un
dovere che deriva dal potere, vale a dire da una dote di potenzialità che
l’individuo si impegna a dispiegare. Tutte queste energie non possono che
profondersi in attività che, pur compiendosi in diversi ambiti, da quello
biologico a quello intellettuale e culturale, a quello artistico, nel grado
maggiore di evoluzione portano allo sviluppo di una moralità della solidarietà
a cui corrisponde sia un perfetto adempimento della moralità, che un’
equilibrata integrazione sociale.
Fin dalla prima pubblicazione dell’Abbozzo, i lettori non hanno
risparmiato critiche, rilevando ora il carattere utopico dell’ideale morale
proposto, ora la natura metafisica dei presupposti alla base del suo pensiero.
La categoria di vita, che Guyau riprende dalla tradizione della filosofia
evoluzionista, è accolta alla luce della necessità di garantire la possibilità di
una effettiva attuazione della moralità, che coinvolga tutti piani dell’essere, e
inscritta in una prospettiva vitalistica che avvicina la vita etica a quella
estetica, come nota il curatore. Lo conferma anche il frequente riferimento nel
testo alla natura sublime della «dépense »che, interpretata « nel suo aspetto
più elevato, come luogo della libera creazione individuale» (p. 8) , assicura al
tempo stesso realizzazione etica personale e gratificazione sociale.
Oltre alla critica di irrealizzabilità, dell’ideale morale di Guyau si è
sottolineata anche di recente l’indeterminatezza, che appare un limite di
rilievo se si tiene conto del suo programma di fondazione della moralità.
Viene perciò spontaneo chiedersi, se la sua riflessione dia davvero un criterio
di orientamento efficace per l’agire morale. In verità, per il nostro autore la
proposta di un’etica «minima » corrisponde non ad una debolezza, ma ad un
punto di forza della sua dottrina. Proprio per questo egli l’ ha formulata nei
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termini di anomia, - impiegando questo termine prima ancora di Durkheimappunto per indicare una concezione dell’agire morale che respinge leggi
fisse e universali. In opposizione alle dottrine imperative, che prescrivono di
conformarsi ad un ideale univoco e immutabile, egli ha riconosciuto così la
varietà delle condotte e delle «ipotesi metafisiche» che le orientano. Con ciò
Guyau non intende tuttavia sminuire l’importanza che l’autonomia morale
tematizzata da Kant ha rivestito nella riflessione morale moderna, ma
garantirla in tutta la sua portata, soprattutto in riferimento alla capacità
autolegislatrice del soggetto anche in merito alla scelta degli ideali etici.
L’anomia non è perciò tematizzata, come potrebbe apparire ad una prima
considerazione, in contrapposizione all’autonomia kantiana, ma come il suo
inveramento al fine di assicurare «l’originalità individuale e non l’universale
uniformità» (p. 153) in nome dell’indiscutibile valore della libertà.
Proprio l’aver assegnato il primato alla libertà nei termini della potenza
creatrice della vita lo porta a subordinare l’intelligenza all’azione, incontrando
così l’approvazione di Nietzsche - come risulta dalle note – che pure non
avrebbe condiviso la valenza etico-sociale del sentimento vitale. Per Guyau
infatti la fecondità della vita non può che manifestarsi nell’azione, che diviene
il prolungamento dell’idea e trova la sua forma più sistematica nel lavoro. In
questa prospettiva la moralità genera accordo dell’uomo con se stesso,
anche grazie alla continuità di pensiero e azione. Di conseguenza l’immorale
patisce una sanzione interiore , prima ancora che esporsi a quella sociale:
l’arresto nello sviluppo dell’essere, l’inaridimento e la perdita di stabilità e
coerenza.
Si potrebbe obiettare perciò che la morale è troppo importante per
essere affidata ad un istinto, seppure fortemente motivato dalla stretta
correlazione tra potenziamento di sé e espansione altruistica. Una
perplessità che lo stesso Guyau espresse nel timore che lo sviluppo della
razionalità avrebbe corroso l’istinto altruistico. Anche per questo la sua
posizione ci appare sorprendentemente attuale, pur tenendo conto che nella
riflessione odierna è incerto se il venir meno dell’altruismo sia da attribuire ad
un eccesso o a un difetto di razionalità.
Marina Savi
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La Fondazione Ismu, l’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità e l’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia hanno
organizzato il 28 novembre 2007 il Convegno “La scuola e il dialogo
interculturale”, dando anticipatamente avvio all’ “Anno europeo del dialogo
interculturale”, promosso dal Consiglio d’Europa per il 2008. Il volume qui
presentato è la pubblicazione degli atti del Convegno.
Nella Parte prima, Il dialogo interculturale: uno sguardo all’Europa e
all’Italia, vengono presentati i temi più generali dell’integrazione all’interno
dello scenario europeo e nel contesto della scuola italiana.
Catherine Withol de Wenden, nella sua relazione Il dialogo interculturale
in prospettiva europea, tratta le sfide dell’integrazione, di cui il dialogo
interculturale in Europa deve tener conto. Sfide poste dalle richieste delle
minoranze immigrate del riconoscimento e del rispetto culturale e religioso,
della rivisitazione della memoria storica, del superamento delle frontiere, non
solo di quelle determinate dalle relazioni internazionali, ma anche delle
frontiere culturali e sociali interne alle città europee, e dell’esclusione sociale
e delle discriminazioni. Sottolinea la complessa questione della costruzione
dell’identità europea. “Si deve intraprendere – scrive – anche una riflessione
sull’identità, sull’apertura a una identità europea” (p. 23). Lamenta che “nella
realtà quotidiana, fra la gente, la visibilità dell’Europa è molto debole”, che i
valori europei “giacciono latenti, presenti ma invisibili”, e conclude che
“occorre rendere visibili questi valori a scuola, come le fondamenta della
cittadinanza europea”.
Elena Besozzi, in Culture in gioco e modelli di integrazione nella scuola
italiana, mette in evidenza “come le strategie di accoglienza e di
inclusione/integrazione scolastica siano molto diversificate nei diversi paesi
europei” (p. 25). Affronta la questione del modello italiano di accoglienza e
integrazione e rileva, in Italia, come nei diversi paesi europei, “discontinuità
temporali, incoerenze o contraddizioni tra politiche e pratiche” (p. 29). In Italia
– scrive – “manca di fatto in modo vistoso, da un lato, una coerenza con le
politiche nazionali sull’immigrazione, che a livello italiano oscillano tra
inclusione ed esclusione, e, dall’altro, un riscontro diretto e pieno tra
affermazioni di principio (ideali) e buone pratiche di intercultura e di dialogo
interculturale dentro le scuole”. La politica scolastica italiana – osserva –
enfatizza l’accoglienza, l’integrazione, il dialogo, ma deve fare i conti con le
politiche migratorie del nostro Paese, che oscillano tra apertura e chiusura,
inclusione ed esclusione. Ciò – scrive – “produce un indebolimento degli esiti
positivi dei percorsi di integrazione scolastica degli alunni stranieri” (p. 30). Il
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La scuola e il dialogo interculturale, a c. di M. Clementi, Fondazione
ISMU, Milano 2008, pp. 241.
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modello assimilazionista e il modello differenzialista - afferma –
“rappresentano i due poli estremi, che escludono la possibilità di un
approccio dialogico e di pratiche interculturali” (p. 36). La scuola
multiculturale – rileva – ha molte risorse a disposizione: le lingue, le religioni,
“ma la risorsa fondamentale è data dallo sviluppo di una mente
multiculturale” (p. 37).
Lorenzo Luatti, in Una nuova professionalità docente per la scuola
plurale, focalizza le linee di attenzione che contribuiscono a definire il profilo
culturale e professionale dei docenti nella scuola plurale. Presenta alcuni
itinerari principali lungo i quali oggi, nella scuola plurale, dovrebbe svilupparsi
la formazione e la riqualificazione della professionalità dei docenti,
menzionando esperienze realizzate da gruppi di insegnanti in alcune città
italiane sui processi di inserimento e integrazione di alunni stranieri in classe
e fuori dalla classe.
Nella Parte seconda, Il dialogo interculturale a scuola tra teoria e pratica
didattica, vengono trattati quattro ambiti tematici, nei quali si intrecciano
riflessioni teoriche ed esperienze concrete.
Nell’ambito tematico “Nuovi saperi e curricoli in chiave interculturale”,
Giovanna Cipollari, in Oltre l’etnocentrismo. La revisione del canone e dei
curricoli, sottolinea che l’incontro tra soggetti, popoli e culture richiede alla
scuola l’elaborazione di una nuova mission, quella della “cittadinanza
planetaria”, “caratterizzata dalle interconnessioni, dalle interdipendenze, dalle
reti telematiche, dalla concezione della persona relazionale che è chiamata a
ritrovare in primis un rapporto con la natura, non più disposta ad essere
assoggettata” (p. 59). Sottolinea inoltre che l’aumento progressivo degli
allievi stranieri in classe rappresenta solo la spia di una realtà complessa,
“che richiede la revisione di un esistente anacronisticamente legato alla
formazione di una rigida identità nazionale, al taylorismo, alla
specializzazione e alla separazione, paradigmi ormai insufficienti a preparare
le nuove generazioni all’identità cosmopolita richiesta dalla società
dell’interdipendenza e della relazione” (p. 57).
Bruno Jannamorelli, in Matematica è intercultura, mira a favorire una
formazione interculturale degli allievi o a far acquisire la consapevolezza che
il sapere matematico è un’eredità comune a tutta l’umanità. Avanza una
modifica della visione eurocentrica. Esistono – osserva – conoscenze
matematiche in civiltà precedenti quella greca. Sottolinea i contributi
dell’Egitto e della Mesopotamia e mette in risalto che mentre il Medioevo
segna un periodo di oscurantismo per l’Europa, nel mondo arabo c’era un
fiorire di matematici: studiosi arabi scoprirono e tradussero le opere
matematiche scritte in India, in Cina e nel mondo ellenistico.
Marina Medi, in Il curricolo di storia, sottolinea che l’esigenza di
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RECENSIONI
rivedere l’insegnamento della storia in chiave interculturale è diventata
sempre più forte e condivisa e impegna nel rileggere il passato in chiave non
esclusivamente eurocentrica. La consapevolezza della dimensione planetaria
dei problemi del nostro tempo, dei processi di globalizzazione – osserva –
impone di superare l’approccio eurocentrico dei nostri programmi di storia e
di realizzare uno studio della storia attento alla dimensione interculturale
richiesta dal nostro tempo, di “decostruire il ‘canone’, “ cioè il curricolo
implicito rimasto praticamente invariato nella scuola italiana dalla sua
fondazione”(p. 89). Propone un curricolo verticale di storia in chiave
interculturale. L’insegnamento tradizionale della storia prevedeva di ripetere i
contenuti con metodi più approfonditi nei diversi cicli scolastici, “è invece più
opportuno pensare alla progettazione verticale della materia in modo
opposto” (p. 92).
Nel secondo ambito tematico “Ripensare il patrimonio in chiave
interculturale”, Simona Bodo e Silvia Mascheroni, in Ripensare il patrimonio
culturale: per una progettualità condivisa tra scuola, museo e territorio,
presentano le esperienze di “A Brera anch’io” (Soprintendenza per il
Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Milano e della Lombardia
Occidentale, Pinacoteca di Brera), “Patrimonio culturale e integrazione: quale
dialogo con la scuola e il territorio?” (Fondazione Ismu) e “Un patrimonio di
tutti” (Settore Educazione al Patrimonio Culturale della Città di Torino), per
illustrare il potenziale di una progettualità condivisa tra agenzie formative,
museo e territorio, e offrire alcune importanti linee guida per il cambiamento.
“Si tratta – scrivono – di esperienze che hanno contribuito a favorire un
ripensamento del patrimonio in un’ottica dialogica e una più piena
partecipazione dei migranti alla vita della comunità di cui sono entrati a far
parte” (p. 107).
Nello stesso ambito, Milena Sozzi, in La sfida dell’educazione
interculturale nel rapporto tra scuola e territorio, osserva che la scuola è
“luogo di elaborazione culturale in osmosi continua con il territorio, il cui
rapporto biunivoco consente di sperimentare reciproci ruoli di apprendimento
e insegnamento” (p. 112).
Nello stesso ambito, Emanuela Daffra, in A Brera anch’io. Il museo
come terreno di dialogo interculturale, focalizza il cuore del progetto: “la
messa a punto di un percorso che coinvolge egualmente ragazzi autoctoni e
di origine immigrata, e mira a favorire la nascita di una cittadinanza attiva che
sia condivisa da entrambi” (p. 118). Il lavoro in classe e i percorsi in
Pinacoteca “rappresentano per gli alunni autoctoni e di origine immigrata
un’esperienza significativa per conoscere radici comuni, ambiti di
scambio/confronto e specificità delle rispettive culture di provenienza. Ogni
alunno in quanto persona può essere testimone privilegiato del proprio
213
mondo culturale” (p. 118).
Nello stesso ambito, Vincenzo Simone, in Un patrimonio di tutti. Per una
mediazione inclusiva dei beni culturali, sottolinea gli elementi importanti per
comprendere la motivazione del progetto “Un patrimonio di tutti” (Settore
Educazione al Patrimonio Culturale della città di Torino): “la consapevolezza
di una realtà urbana che si trasforma e la riflessione sulla vita culturale dei
‘nuovi cittadini’” (p. 121).
Nello stesso ambito, Simona Bodo e Silvia Mascheroni, in Patrimonio
culturale e integrazione: un percorso di formazione e ricerca-azione,
esplorano “modalità e strumenti innovativi per la progettazione e la
valutazione di iniziative in partenariato interistituzionale nell’ambito
dell’educazione al patrimonio in chiave interculturale” (p. 128).
Nel terzo ambito tematico “Il dialogo interreligioso a scuola”, Marco Dal
Corso, in L’inedito del pluralismo nella scuola, è convinto che il dialogo
interreligioso “reinterpreti l’dea di identità, di cittadinanza e di laicità che tanto
interessano il dibattito politico, sociale ed anche educativo” (p. 135).
Nello stesso ambito tematico, Brunetto Salvarani, in Le esperienze del
pluralismo, ricorda, in ambito educativo-scolastico, l’esperienza pilota del
Tavolo Interreligioso di Roma, che sì inserisce all’interno del più ampio
progetto detto Intermundia, lo sforzo che da qualche anno è stato avviato dal
mensile di educazione interculturale CEM Mondialità, edito a cura dei
missionari saveriani di Brescia, sul tema dell’insegnamento della religione in
una prospettiva interculturale, il progetto Bibbia Educational, e sottolinea che
“solo in queste pratiche dialogiche, di cui la scuola è il laboratorio unico ed
imprescindibile, è possibile contribuire a costruire un’identità culturale e
sociale condivisa per il futuro cittadino europeo” (p. 147).
Nello stesso ambito tematico, Alberto Fornasari, in Religioni in dialogo: i
laboratori Irre Puglia nelle scuole, si sofferma sul progetto realizzato
dall’Irsae, ora Irre Puglia, Interground, giocare e studiare l’intercultura.
Sottolinea l’obiettivo: la diffusione del concetto di intercultura “intesa come
confronto e dialogo tra culture e identità diverse, e come pratica della
diversità che diventa risorsa di crescita e arricchimento nei vissuti personali e
nei contesti territoriali” (p. 150).
Nello stesso ambito, Gabriele Gabrieli, in Viaggio nelle religioni della
mia città, progetto coordinato dal Centro di educazione interculturale di
Mantova, operativo dal giugno 1994, illustra i macro obiettivi del progetto: far
scoprire la città di Mantova attraverso la ricerca dei luoghi di culto e far
conoscere alcuni aspetti delle diverse religioni (cristiana, ebraica,
musulmana, hindu, buddista, sikh).
Nel quarto ambito tematico “Il cinema per narrare. Comunicazione
interculturale e apprendimento della lingua”, Pierangela Diadori, in Cinema,
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RECENSIONI
apprendimento della L2 e pragmatica transculturale, affronta il caso del
cinema come strumento di riflessione per l’apprendimento della lingua in
un’ottica pragmatica e transculturale in contesto migratorio. Il cinema – scrive
– “rappresenta un tipo di testo privilegiato, capace di offrire occasioni di
analisi, confronto e riflessione sulla lingua come strumento di interazione, ma
anche su altri aspetti culturalmente specifici della comunicazione” (pp. 185186).
Nello stesso ambito tematico, Riccardo Triolo, in Il cinema tra le “sfide di
Babele”, sottolinea che il cinema, nella pratica didattica interculturale,
“occupa un posto importante in quanto finestra sul mondo: il cinema diventa
ambasciatore di terre lontane, testimone di consuetudini e stili di vita
differenti, veicolo di culture ‘altre’” (p. 187). Il cinema “può dirsi, a buon diritto,
un medium interculturale” (p. 188). Tra gli svantaggi nell’utilizzo
dell’autodiovisivo ricorda:“la rapida obsolescenza del materiale utilizzato (per
quanto concerne gli elementi socioculturali), la scarsità del materiale già
didattizzato (l’insegnante deve perciò provvedere alla didattizzazione di
materiale autentico); il rischio si sfruttamento passivo, che si verifica ogni
qualvolta gli allievi non sono messi nelle condizioni di intervenire attivamente
nel processo di significazione; complessità del lavoro di didattizzazione” (p.
194).
Nello stesso ambito tematico, Costanza Bargellini e Silvana Cantù, in
Viaggi nelle storie. Uno strumento poliedrico per un progetto interculturale,
esaminano il progetto “Viaggi nelle storie. Frammenti di cinema per nararre”,
“uno strumento multimediale composto da quattro DVD e un CD. Ciascun
DVD contiene numerose sequenze filmiche che, raggruppate in capitoli,
affrontano da più punti di vista quattro diverse tematiche: ‘Crescere’,
‘Famiglia’, ‘Lavoro’ e ‘Migrare’. Il CD contiene testi e un database che
permette una serie di interrogazioni per la ricerca delle sequenze filmiche”
(pp. 206-207). Lo strumento “coniuga differenti obiettivi formativi: quelli
afferenti all’educazione interculturale, quelli strettamente linguistici e quelli
comunicativi, tenendo anche presente la pluralità dei destinatari ipotizzati e
quindi la loro specificità” (p. 207).
Nello stesso ambito tematico, Luca Beltrami, in Il progetto “Migranti”del
comune di Cremona, sottolinea che il progetto nasce dalla precisa volontà di
promuovere in un contesto di classe plurilingue l’utilizzo del cinema come
strumento di mediazione interculturale, “uno strumento in grado di favorire il
dialogo con i ragazzi e il loro vissuto personale” (p. 217).
Pietro Birtolo
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Quattordicesimo rapporto sulle migrazioni 2008, Franco Angeli, Milano
2009, pp. 379.
Vincenzo Cesareo, in apertura del volume, osserva che l’immigrazione,
“che costituisce ormai una risorsa indispensabile per il nostro paese” (p. 12),
è caratterizzata dalla persistente rilevanza della presenza irregolare e dalla
crescita dell’imprenditorialità degli stranieri. Per contrastare l’immigrazione
irregolare, – scrive – “ben potrebbero concorrere sanzioni pecuniarie a carico
di chi da essa trae vantaggi economici, sanzioni assai più adatte a
un’applicazione su larga scala di quanto non siano quelle penali e le
espulsioni, sulle quali si è puntato sinora in modo pressoché esclusivo” (p.
29). E’ dell’avviso che si debbano ripensare le politiche migratorie nell’ottica
della sostenibilità. “C’è ragione di ritenere – scrive – che un’immigrazione
governata nell’ottica della sostenibilità possa facilitare una reale accoglienza:
quest’ultima può infatti essere tanto più assicurata, quanto più esiste
un’effettiva capacità di ricezione da parte del paese di approdo. Tuttavia
stabilire quale sia la soglia di sostenibilità è indubbiamente arduo ”(ibid.). E
conclude: “ su tali questioni è tempo ormai che, al di fuori di ogni logica
emergenziale, si avvii nel paese una seria riflessione, alla quale la
Fondazione Ismu è impegnata a dare il proprio apporto” (ibid.).
Gian Carlo Blangiardo osserva che la presenza straniera in Italia è
andata accrescendosi, con una crescente affermazione delle presenze est
europee, e sottolinea alcuni importanti cambiamenti messi in evidenza nel
corso di questi ultimi anni dal fenomeno migratorio: il progressivo passaggio
dell’universo immigrato da forza lavoro a vera e propria popolazione in senso
demografico e il processo di continuo radicamento e di disseminazione della
presenza straniera su territorio italiano. E’ convinto che bisogna impegnarsi
per avvicinare sempre di più l’obiettivo di una integrazione della popolazione
straniera. “Affinché tale obiettivo possa realizzarsi – scrive – è tuttavia
necessario che il ritmo dei nuovi ingressi vada al passo con le capacità della
società ospite e delle sue istituzioni nel produrre integrazione” (p. 52). Ciò
dovrebbe tradursi nell’orientamento “ad accogliere flussi quantitativamente
compatibili con gli equilibri, i vincoli e le risorse del paese, così da poter
realmente accrescere la qualità della vita della popolazione immigrata e
favorirne il processo di integrazione” (ibid.).
Patrizia Farina e Livia Ortensi trattano le migrazioni in Europa e notano
che la Germania si riconferma il principale paese per numerosità di immigrati,
“con una proporzione di stranieri e nati all’estero tra un quarto e un terzo
delle presenze totali dell’Europa a 27 membri” (p. 56). Notano anche che “le
dinamiche migratorie recenti continuano ad essere caratterizzate da ingenti
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RECENSIONI
flussi verso Spagna, Italia e Irlanda” e che “la composizione dei flussi è
complessivamente mutata essendo cresciuta notevolmente l’importanza
relativa di Ucraina, Federazione Russa, paesi latinoamericani e soprattutto
Cina” (p. 63). Per quanto riguarda le migrazioni femminili, osservano che
“l’intensificarsi dei flussi è dovuta a legislazioni favorevoli ai ricongiungimenti
familiari e, in tempi più recenti, a progetti femminili autonomi ed
essenzialmente di natura economica” (p. 66). Di fronte all’invecchiamento
della popolazione europea e alla carenza di servizi, “l’assunzione di
manodopera femminile è diventata un’esigenza comune a tutte le classi
sociali e proprio la generalizzazione di questo bisogno è responsabile
dell’avvio di nuovi flussi femminili o dell’alimentazione di quelli storici” (ibid.).
In Gran Bretagna nel biennio 2001-2002 quasi metà delle infermiere assunte
proveniva da Filippine, India e Sud Africa. La presenza femminile è dunque
“un fattore chiave negli equilibri di welfare dei paesi riceventi ed è
un’opportunità per le donne straniere” (ibid.).
Ennio Codini si sofferma sugli aspetti normativi in materia di
immigrazione nel 2008. “Molte – scrive – sono state le norme adottate o
comunque proposte in materia di immigrazione e anche assai controverse.
Ma nel complesso le iniziative hanno riguardato aspetti tutto sommato
marginali della disciplina o comunque misure di limitato impatto. Solo l’area
particolare dell’asilo ha conosciuto sviluppi davvero importanti. Con il decreto
legislativo 25/2008 (di attuazione della direttiva 2005/85) è stata dettata una
compiuta disciplina delle procedure di esame delle domande. Si è così
completata la definizione da lungo tempo attesa di una disciplina organica
dell’asilo. Oggi finalmente tale disciplina esiste” (p. 71). Per quanto riguarda
l’immigrazione extracomunitaria per motivi di lavoro, “essa è stata oggetto,
nei primi dieci mesi del 2008, solo di alcune frammentarie misure e iniziative
tanto controverse quanto di scarso impatto rispetto ai principali problemi” (p.
72). Il Governo ha collocato le misure e le iniziative legislative ritenute più
importanti in materia di immigrazione per lavoro degli extracomunitari nel
“pacchetto sicurezza”, “un insieme eterogeneo di provvedimenti – un decreto
legge (D. I. 23 maggio 2008, n. 92), un disegno di legge, due progetti di
decreto legislativo – adottati dal Consiglio dei Ministri il 21 maggio” (p. 73). “A
di là del pacchetto sicurezza non vi sono state misure di carattere generale
per l’immigrazione di lavoratori extracomunitari” (p. 76). Quanto alla
questione chiave dell’integrazione degli immigrati, “essa è stata trascurata
dal legislatore nazionale (che peraltro con il decreto legge 93/2008,
convertito dalla legge 126/2008, ha quasi cancellato il Fondo nazionale per
l’inclusone sociale degli immigrati) ma non si può certo dire che non
emergano tensioni in proposito. Nel 2008 ha continuato a svilupparsi il
contenzioso in ordine ai luoghi di preghiera islamici. […]. Nel 2008 ha
217
continuato anche a svilupparsi il contenzioso in ordine all’accesso degli
immigrati alle prestazioni del welfare state. […]. In tema di acceso degli
immigrati alle prestazioni del welfare state, il legislatore è intervenuto per
restringere l’accesso degli immigrati alle prestazioni con due norme entrambe
contenute nel già citato decreto legge 133/2008” (p. 79).
Bruno Nascimbene e Alessia Di Pascale trattano gli orientamenti
comunitari e sottolineano che “dal punto di vista dell’adozione di nuova
legislazione, non si rinvengono molte novità. Tra esse spicca però la direttiva
cosiddetta rimpatri. Concepita come uno strumento per rafforzare la lotta
all’immigrazione illegale, essa testimonia in modo chiaro la complessità nella
definizione di una politica comune europea in materia di immigrazione e
asilo: se da una parte vi è il riconoscimento esplicito del legame tra
immigrazione, occupazione e crescita economica, anche per far fronte
all’invecchiamento e alla riduzione della popolazione europea, e vi è un
richiamo ad un impegno serio degli Stati membri, dall’altro lato si
intensificano le istanze volte a porre un freno ai flussi migratori, con un
inasprimento della lotta all’immigrazione clandestina” (p. 82). Sottolineano
altresì che “l’immigrazione non può essere affrontata solo in termini di
sicurezza, concentrandosi sulle modalità per combattere la clandestinità e
per arginare i flussi irregolari. Occorre, invece, uno sforzo propositivo e fattivo
per gestire l’immigrazione in base alle esigenze del mercato del lavoro,
rendendo possibile, soprattutto, una reale integrazione, che assicuri
l’inserimento degli immigrati in tutte le sfere della società” (p. 97).
Laura Zanfrini tratta il problema lavoro e rileva che “il 2008 ha registrato
alcune importanti novità nel rapporto tra immigrati e mercato del lavoro
italiano” (p. 101). Osserva che, “nonostante il permanere di diffuse situazioni
di sofferenza occupazionale e, soprattutto, di forti differenziali di genere e tra i
diversi gruppi etnici, i dati più recenti evidenziano un ridimensionamento dei
gap tra i tassi di attività e di occupazione riferiti alla popolazione nativa e a
quella d’origine straniera e registrano una crescente presenza di migranti nei
nuovi posti di lavoro” (p. 102). Osserva inoltre che “l’incidenza dei labour
migrants nell’ambito dei flussi d’ingresso – anche a carattere permanente – è
tornata ad aumentare, invertendo un trend ormai consolidato, grazie in
particolare alla costituzione di spazi di libera circolazione (con l’adesione
della stessa Confederazione elvetica) e all’ammissione nell’Unione europea
di alcuni Stati grandi esportatori di manodopera” (ibid.).
Mariagrazia Santagati si sofferma sulla scuola italiana e sottolinea che
essa è nella stessa direzione verso cui sta andando l’Europa. “Le scuole
italiane – scrive – appaiono principalmente interessate ed attrezzate a
gestire la prima fase dell’accoglienza e dell’inserimento degli alunni” (p. 126).
Oltre alle prassi relative all’accoglienza e al primo inserimento scolastico, “la
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RECENSIONI
revisione delle discipline in prospettiva interculturale è una linea d’azione
perseguita dal 54,6% del campione degli insegnanti intervistati,
prevalentemente nell’ambito delle ore di italiano, storia e geografia” (pp. 131132). Osserva che un elemento fondamentale per l’integrazione riguarda
l’acquisizione della lingua del paese ospitante, che tutti gli Stati dell’Unione
europea hanno adottato misure specifiche in merito e che “anche in Italia, la
scuola ha colto la centralità della questione linguistica, ha elaborato modelli
di intervento e messo in atto strategie inclusive e di facilitazione” (p. 132).
Maurizio Marceca affronta il problema salute degli immigrati ed osserva
che l’aspetto maggiormente critico, in termini di possibili ripercussioni nel
campo della salute, è rappresentato dall’introduzione nel “Pacchetto
sicurezza” del reato di clandestinità. Queste disposizioni, – scrive – “pur non
contenendo previsioni in senso restrittivo relative all’accesso ai servizi
sanitari per gli stranieri immigrati irregolari e clandestini, hanno già prodotto,
appena annunciate dai media, un evidente calo nel loro ricorso ai servizi […],
di fatto, una ‘clandestinità sanitaria’ pericolosa per il singolo individuo, ma
anche per la collettività. Tale rischio ha indotto la Società italiana di medicina
delle migrazioni (Simm) a diffondere, il 16 giugno 2008, una lettera aperta dal
titolo Immigrati irregolari e clandestini e diritto all’assistenza sanitaria” (p.
141).
Alfredo Agustoni tratta la condizione abitativa dei soggetti migranti e
sollecita “un rinnovato protagonismo di politiche attente, in un’ottica di
servizio e non di mercato, ai segmenti della popolazione più deboli nel
settore abitativo” (p. 166).
Andrea Di Nicola si sofferma su criminalità e devianza degli immigrati e
osserva che i tassi delle segnalazioni di stranieri, pur quantificati sulle
presenze irregolari, “rimangono molto più alti di quelli degli italiani in tutta la
penisola, e per tutti i reati considerati presi in esame. Anche nelle carceri i
numeri confermano una sempre maggiore presenza di stranieri; così come
l’approfondimento sui reati di droga ha messo in luce una certa criticità” (p.
175). I numeri – conclude – “ci devono fare riflettere per prendere delle
decisioni consapevoli, informate, bilanciate e, a questo punto, veloci” (ibid.).
Giovanni Giulio Valtolina tratta il problema dei minori stranieri in Italia e
dei minori stranieri non accompagnati. Sottolinea che una reale opportunità di
scelta deve essere offerta a questi minori e che proprio una reale opportunità
di scelta “dovrebbe essere l’elemento su cui basare una politica di
‘integrazione sostenibile’, capace di rispettare anche le identità e le diversità
etniche” (p. 201).
Carlo Devillanova si sofferma sui costi dell’immigrazione per la finanza
pubblica ed osserva che “sono assai diffusi i timori per i possibili costi
economici indotti dall’immigrazione” (p. 205). Sottolinea che “i risultati non
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mostrano un maggior ricorso al welfare da parte degli immigrati. Al contrario,
se si considerano anche i benefici legati all’anzianità, i dati evidenziano un
trasferimento netto di risorse dagli immigrati agli italiani” (p. 218).
Silvio Ferrari tratta il problema delle moschee in Italia e osserva che “in
realtà in Italia esistono soltanto tre moschee, a Milano, Roma e Catania: tutti
gli altri luoghi di culto censiti dal Ministero dell’Interno sono costituiti da
appartamenti, capannoni, palestre, garage, scantinati, dove i musulmani si
trovano per pregare. In molti casi questi spazi sono inidonei ad ospitare un
largo numero di persone”(pp. 219-220). A proposito della richiesta, da parte
delle comunità musulmane, di costruire vere e proprie moschee, Ferrari dice:
“si tratta di un processo fisiologico, legato all’aumento del numero dei fedeli
ed alla stabilizzazione della presenza musulmana in Italia. […]. Non è quindi
il caso di demonizzare un fenomeno che si inserisce in un processo di
evoluzione naturale della presenza musulmana in Italia”(p. 220).
Maurizio Ambrosini e Paola Bonizzoni si soffermano sul fenomeno dei
ricongiungimenti familiari in Italia e ne sottolineano la rilevanza sociale e
politica.
Chiudono il volume Simona Bodo e Silvia Mascheroni con lo scritto Il
patrimonio culturale, nuova frontiera per l’integrazione; Francesco Fasani e
Biagio Speciale con lo scritto Le rimesse degli immigrati residenti in Italia;
Marco Lombardi con lo scritto Hub e percorsi migratori; Francesco Vecchio
con lo scritto La dinamica dei flussi migratori nel sud-est asiatico; Laura Davì
con lo scritto Le diaspore internazionali e la loro organizzazione da parte
degli Stati nazionali dei paesi di origine e Nicola Montagna con lo scritto La
nuova migrazione cinese nel Regno Unito.
Pietro Birtolo
Certifica il tuo italiano. La lingua per conoscere e farsi conoscere, a cura
di C. Demarchi e N. Papa,Fondazione Ismu, Milano 2008, pp. 140.
Si tratta di un progetto cofinanziato dal Ministero della Solidarietà
Sociale (ora Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali) e
dalla regione Lombardia e realizzato in collaborazione con l’Ufficio Scolastico
Regionale per la Lombardia, la Fondazione Ismu e l’Osservatorio Regionale
per l’integrazione e la multietnicità.
Il progetto è articolato in una serie di interventi mirati al tempestivo
inserimento degli stranieri non integrati sotto il profilo linguistico.
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RECENSIONI
Si riconosce che la conoscenza della lingua del Paese di immigrazione
rappresenta “uno strumento decisivo al fine di realizzare il pieno inserimento
lavorativo, sociale e culturale” (p. 11), “un passaggio essenziale per
agevolare il processo di inclusione nella società di accoglienza” (p. 14). Si
rileva l’importanza di promuovere azioni formative per la piena integrazione
linguistica e sociale degli stranieri. Si sottolinea che le Regioni, le Province e i
Comuni sono chiamati a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il
pieno riconoscimento dei diritti degli stranieri presenti sul territorio italiano e
che un ostacolo è rappresentato, appunto, dalla non conoscenza della lingua.
“La conoscenza della lingua – si sottolinea – risponde ai requisiti primari di
integrazione positiva, perché permette di comprendere la nuova realtà
socioculturale e di apprezzarne le differenze rispetto aquella di provenienza”
(p. 19). Si riconosce che c’è un diffuso bisogno di formazione linguistica e
che da parte degli immigrati c’è la volontà di investire in essa, “considerata
come requisito fondamentale per un pieno inserimento nella società italiana”
(p. 83). Gli immigrati vorrebbero scuole aperte di sabato e domenica per
studiare, anziché stare nel parco e non fare niente.
La certificazione di italiano registra il grado di conoscenza della lingua
italiana ed è una certificazione ufficialmente riconosciuta. Essa descrive ciò
che un individuo è in grado di fare nei diversi ambiti di competenza
linguistica: la comprensione di elaborati scritti, la comprensione all’ascolto,
l’abilità nella comunicazione orale e scritta.
Relativamente agli esiti degli esami per la certificazione previsti dal
progetto Certifica il tuo italiano, si rileva che “il successo riportato dai
candidati è stato molto alto” e che “una percentuale davvero irrisoria non
supera del tutto le prove” (p. 85). Si rileva inoltre che il successo è più ampio
nelle abilità di ascolto, nella comprensione della lettura e produzione orale,
che sono quelle più presenti ed esercitate nei contesti di interazione sociale
quotidiana. Si rileva infine che i commenti conclusivi di chi ha frequentato i
corsi sono soddisfacenti, giudicati utili a facilitare il percorso di inclusione
sociale. I corsisti, soprattutto le badanti, ritengono la certificazione
importante, perché appare come un primo passo per un lavoro diverso e più
qualificato, per una vera e propria promozione sociale. Si sottolinea che la
possibilità offerta al termine dei corsi di sottoporsi ad esami di certificazione,
e quindi di vedere descritta in modo formalizzato e in termini di spendibilità
sociale la competenza linguistico-comunicativa raggiunta,“rappresenta un
modo per considerare la questione della lingua e l’investimento in formazione
linguistica da parte degli immigrati non come barriera alla convivenza civile,
ma come forma e strumento per il raggiungimento dell’integrazione sociale di
questo settore ormai consistente nella composizione della nostra società” (p.
87). Si conclude affermando che “quanto è stato realizzato da Certifica il tuo
221
italiano in termini di elaborazione teorica e di pratica formativa ha contribuito
a offrire ai migranti giovani e adulti una buona ragione per (ri)entrare in
formazione” e che per il migrante “l’evento educativo risponde al bisogno
essenziale di essere parte della nuova comunità” (p. 90).
Pietro Birtolo
A. Margalit, L’etica della memoria, Il Mulino, Bologna 2008
Il tema della memoria tra passato e futuro e il ruolo indiscutibilmente
rilevante che essa gioca in rapporto alla costruzione e al mantenimento
dell’identità, sono alcuni dei motivi attorno a cui si snoda questo interessante
saggio di Avishai Margalit, L’etica della memoria. Il titolo è indicativo di quello
che sarà il filo conduttore: una definizione del concetto di memoria a partire
da e attraverso la distinzione tra etica e memoria, nell’elaborazione di
un’analisi che si addentra in modo assai lucido in un argomento sempre di
particolare attualità.
Non bisogna dimenticare che Margalit è ebreo e la storia stessa del
popolo ebraico è particolarmente legata a queste tematiche, avendo nel
corso dei secoli subito quelli che si potrebbero definire dei veri e propri
attacchi alla memoria, e avendo soprattutto ogni volta cercato di ricostruire se
stesso proprio attraverso un continuo tentativo di rinforzo della memoria
stessa.
La domanda principale cui l’autore cerca di dare una risposta è se
esista davvero un’etica della memoria. Per quanto egli giunga alla
conclusione secondo la quale la memoria riguarda principalmente, appunto,
l’etica, esistono dal suo punto di vista anche casi in cui essa avrebbe a che
fare con la morale, con una dimensione quindi meno intima ed individualista
ma dal significato ugualmente importante. Un esempio per tutti sono i grandi
eccidi etnici, i cosiddetti crimini contro l’umanità, che, secondo l’autore,
rappresentano un vero e proprio attacco alla memoria condivisa.
Margalit procede alla definizione di morale ed etica intendendole
come ciò che regola le relazioni sottili la prima, e ciò che regola invece le
relazioni spesse la seconda. Le relazioni sottili sono da intendersi come
quelle relazioni piuttosto superficiali determinate in un certo qual modo senza
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RECENSIONI
che l’individuo ne sia direttamente responsabile. Mentre quelle spesse si
instaurano solo con persone di cui realmente ci interessiamo, il cui
benessere ci sta a cuore. Tale distinzione risulta essere fondamentale
nell’identificare la memoria come concernente le relazioni spesse e,
conseguentemente, l’etica. Il caso citato dall’autore, in cui un generale che
ha subito delle perdite di vite umane durante una battaglia, a distanza di anni
non ricorda piu’ il nome di uno dei suoi uomini, è lo spunto per dare inizio
all’analisi. La dimenticanza del generale è vista da tutti come un atto assai
grave, una mancanza imperdonabile che attenta alla sopravvivenza
dell’essenza stessa del soldato: questo perché il nome, piu’ di ogni altra
cosa, è interpretato come depositario dell’identità dell’individuo, pertanto
dimenticarlo significa cancellarne qualsiasi traccia, soprattutto la piu’
importante, l’unica che potrebbe effettivamente porre rimedio alla nostra
caducità e alla scomparsa nell’oblio. Laddove il ricordo può essere
interpretato come un prendersi cura di - all’interno di un rapporto triangolare
tra cura, etica e memoria, in cui il legame tra il primo e l’ultimo vertice di
questa figura concerne relazioni spesse e la memoria ha pertanto a che fare
con l’etica – dimenticare assume il significato di uno smettere di curarsi. Il
concetto di prendersi cura di cui l’autore si serve, è molto vicino alla sorge
heideggeriana, che pure Margalit cita, con un’inclinazione però
maggiormente rivolta al passato, in un’ottica secondo la quale la condivisione
di un passato comune è il terreno su cui poter costruire un rapporto di cura e
su cui si basano le relazioni spesse.
Paradossalmente però, per quanto risulti naturale ricordare individui
che ci stanno a cuore, può capitare di ricordare perfettamente persone di cui
non ci curiamo affatto, o, peggio ancora, verso le quali nutriamo sentimenti
assai negativi. Ma la cura, come dice l’autore, si cura solo degli altri
significativi ed è dunque legata ad una memoria condizionale, possiamo cioè
parlare di una memoria etica solo nella dimensione in cui essa si ricordi solo
di persone che ci interessano realmente.
Se però la questione risulta abbastanza lineare quando ci si riferisce
ad un individuo singolo, il tutto si complica nel passaggio a quella che
potremmo definire la memoria collettiva che non riguarda piu’ il singolo, ma
concerne una moltitudine che si trova a dover condividere gli stessi ricordi (o
le stesse dimenticanze).
Mentre nel caso della memoria del singolo si è affermata la teoria
freudiana secondo la quale è necessario riportare alla luce i ricordi dolorosi
che la mente umana rimuove, o meglio, nasconde, al fine di curare i traumi,
superandoli attraverso l’elaborazione, Margalit si chiede se ciò sia possibile
anche per i ricordi comuni. Il legame con l’oblio e con il perdono in questi casi
si fa pertanto imprescindibile.
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Altra questione è quella dei testimone, particolarmente di quello che
l’autore definisce testimone morale: la caratteristica che maggiormente
connota questi soggetti è la speranza, la speranza di sopravvivere per poter
testimoniare cio che è stato.
Non quindi una speranza dal valore escatologico, come può essere
quella di un martire, ma la piu’ limitata speranza che la propria parola possa
evitare che in altri luoghi e in altri tempi, possa ripetersi l’orrore, ciò che il
testimone ha vissuto.
Il testimone morale ha una sola, imprescindibile richiesta: “Riferisce
ciò che ha visto e chiede di essere creduto”(Agamben).
Strano caso quello del testimone, i cui ricordi gli appartengono
innegabilmente e costituiscono la sua storia privata, ma, in quanto legati ad
avvenimenti ritenuti importanti per la collettività, sono anche in un certo modo
i ricordi di tutti, parte imprescindibile della nostra memoria. I suoi ricordi
personali sono i ricordi della memoria collettiva.
Nel tracciare i contorni della figura del testimone morale,
particolarmente calzante ci sembra l’analisi etimologica proprio del termine
testimone che G. Agamben fa nel suo scritto Quel che resta di Auschwitz.
L’archivio e il testimone.
In latino esistono due parole per indicare il testimone: testis, che
indica colui che in una disputa si pone come terzo; supertestes, che indica
colui che ha vissuto qualcosa, ha attraversato un evento fino alla fine e può,
dunque, renderne testimonianza.
Questa seconda, che ci sembra abbia una connotazione
maggiormente esistenziale, rimanda direttamente all’essere superstite inteso
come il vivere fino in fondo le proprie esperienze di vita, sopravvivere ad
esse, ma soprattutto esserne testimoni.
Il testimone-sopravvissuto, con il suo racconto, lascia una traccia,
anzi, si fa traccia egli stesso, divenendo personificazione di ciò che resta del
passato, di quel carattere di permanenza di cui parla Ricoeur.
Nel caso di grandi tragedie storiche, in cui la condizione di testimone
è particolarmente complessa in quanto colui che sopravvive e ciò a cui si
sopravvive coincidono, si pone piu’ che in altre circostanze la questione della
verità, della verità integrale, e di ciò che essa non può in alcun modo
contenere.
La testimonianza di chi è sopravvissuto vale per ciò che essa non
può raccontare. Essa ci introduce nella dimensione del linguaggio, e questo
solleva inevitabilmente il problema della credibilità della testimonianza
stessa, della sua affidabilità.
Nel momento stesso in cui un accadimento viene espresso
attraverso il linguaggio con una narrazione, esso si stacca da se stesso per
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RECENSIONI
farsi già interpretazione di chi da quell’avvenimento è stato impressionato.
L’impronta che il fatto lascia è anteriore alla testimonianza, che lo trasmette
in base alla modalità in cui il fatto stesso è stato percepito e soprattutto
attraverso la lingua di chi l’ha vissuto. Traspare da tutto questo una certa
passività, una sorta di pathos a cui il testimone è in un certo senso
sottoposto.
Il punto è che, nella testimonianza, per quanto essa cerchi di essere
fedele all’accaduto, rimane sempre qualcosa di irriducibile, uno scarto che
non le permetterà mai di essere completamente aderente alla realtà.
Nel caso specifico dei sopravvissuti all’orrore, al genocidio, allo
sterminio, la loro testimonianza vale per ciò che in essa manca, e contiene
nel suo nucleo essenziale un intestimoniabile.
I superstiti parlano per delega, testimoniano di una testimonianza
mancante, testimoniano per un’impossibilità di testimoniare. Sulla natura di
questo intestimoniato occorre interrogarsi.
Quale statuto di verità è possibile dare ad una testimonianza che
parla in nome di chi non può parlare? E, ancora, laddove ci si è spinti oltre
qualsiasi estremizzazione dell’umano, in circostanze in cui la potenza
dell’umano è sconfinata nell’inumano, come può il non-uomo testimoniare
dell’uomo? Colui che non può parlare essere il vero testimone?
Colui che è senza parole fa parlare il parlante e colui che parla porta
nella sua stessa parola l’impossibilità di parlare. La testimonianza è
costitutivamente scissa, e non ha altra consistenza che nella sconnessione e
nello scarto, senza però ridursi ad esse.
Il superstite non potrà mai dirci tutto, essendo appunto
sopravvissuto a qualcosa che non ha conosciuto fino in fondo, e che dunque
non può realmente comunicare, ma tenterà in ogni modo di trasmettere il piu’
possibile, soprattutto ciò che non ha vissuto in prima persona, perché
spesso, l’unico scopo che un individuo riesce a darsi dopo tanta sofferenza, è
che la sua memoria divenga anche quella di chi non ha conosciuto tanto
orrore.
Questo è quello che Margalit definisce un testimone morale, che “ha
il compito speciale di svelare il male con cui entra in contatto”. Nonostante il
suo parlare sia una testimonianza incompleta, è l’unica che maggiormente si
avvicina a svelare l’ineffabile, il male radicale, la bestialità.
Wiesenthal scriveva, riportando le parole con cui gli aguzzini
ammonivano i prigionieri dei lager: “In qualunque modo questa guerra finisca,
la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare
testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il modo non gli crederà”.
Nella scelta di sottrarsi al suicidio e raccontare la propria storia
Margalit vede una precisa volontà del testimone di autodeterminarsi, e la
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considera una scelta di autenticità, a patto che essa non sia fatta in malafede
al solo scopo di dare una giustificazione alla propria vita, non riuscendo a
trovarne altre.
Eppure, particolarmente dopo eventi che hanno segnato
tragicamente la storia, non ci si può non chiedere se sia ancora possibile
dimenticare, se l’oblio sia ancora lecito: Margalit non si sottrae a questo
interrogativo e lo spinge oltre, fino al punto di soffermarsi sulla questione del
perdono e del rapporto che esso ha con la memoria, con il ricordo.
Angela Rizzi
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PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA “SEGNI E COMPRENSIONE”
Pubblicazioni ricevute da “Segni e comprensione”
Volumi:
G. BORRELLO, La filosofia come cura. Karl Jaspers filosofo e medico,
Liguori, Napoli 2009, pp. 180;
M. CONCHE, Sull’amore. Pensieri ritrovati in un vecchio quaderno da
disegno, intr. e trad. di S. Arcoleo, Quintessenza, Novara 2010, pp. 48;
A. DE DONNO, Michel Tournier. La scrittura e il suo doppio, Manni, San
Cesario di Lecce 2009, pp. 172;
Irrazionalismo e impoliticità in Giuseppe Rensi, a c. di F. Mancuso e A.
Montano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 218;
G. E. LESSING, Nathan il saggio, a c. e con trad. di L. Lestingi, Palomar,
Bari 2009, pp. 246;
L’uomo oggi. “Fantoccio” o “bellezza microcosmica”, a c. di P. Addante,
Laruffa, Reggio Calabria 2009, pp. 164;
D. MONACO, Deus Trinitas. Dio come “non altro” nel pensiero di Nicolò
Cusano, pref. di W. Beierwaltes, Città Nuova, Roma 2010, pp. 390;
Natura ed etica, a c. di M. Signore, Pensa, Lecce 2010, pp. 250;
Pensiero e giustizia in Simone Weil, a c. di S. Tarantino, Aracne, Roma
2009, pp. 168;
P. COLONNELLO, Storia esistenza libertà. Rileggendo Croce, Armando,
Roma 2009, pp. 128;
P. COLONNELLO, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai scritta,
Guida, Napoli 2009, pp. 60;
A. PIGLIARU, Saggi capograssiani, a c. di A. Delogu, Spes-Fondazione
G. Capograssi, Roma s. d., pp. 232;
G. E. SCHULZE, Vorlesung über Metaphysik nach der Machschrift von A.
Schopenhauer, Corso di Metafisica secondo il manoscritto di A.
Schopenhauer (1810-11), a c. di N. De Cian, Quaderni di Verifiche 10, Trento
2009, pp.LXXX, 260;
Soggettivazione e destino. Saggi intorno al Flaubert di Sartre, a c. di G.
Farina e R. Kirchmayr, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 186;
Periodici:
Aesthetica Preprint, n. 86, agosto 2009: C. Perrault, Il Gabinetto delle
Belle Arti, a c. di G. Di Liberti; C.I.S.d.E., Palermo;
Alpha Omega, a. XII, n. 3, settembre-dicembre 2009; Rivista di Filosofia
e Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma;
Annuario filosofico, n. 24, 2008; Mursia, Milano;
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Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre, a. V, 2009; Sartre e
Merleau-Ponty; Biblink, Roma;
Carte di cinema, n. s., n. 26, 2009; Fedic, Istituto di Storia
contemporanea di Ferrara;
Dianoia, a. XIV, n. 14, novembre 2009, Rivista di Storia della Filosofia;
Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna; Cleub;
Giornale di Metafisica,n. s. a. XXXI, 2009, n. 2; Metafisica e teologia 1;
Tilgher, Genova;
L’immaginazione, nn. 252, 2010; Manni, San Cesario di Lecce;
Notes et documents, a. XXXIV, n. s., n. 15, septembre-décembre 2009;
Inst. Int. Jacques Maritain, Roma;
Paradigmi, a. XXVII, n. s., settembre-dicembre 2009; Immagine e
immaginazione, a c. di S. Borutti; Franco Angeli, Roma;
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