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II Cristianesimo:
una nuova fede minaccia la stabilità dell'impero
I rapporti dell'impero e della società romana con le nuove religioni
Una delle linee più consolidate della politica ufficiale dei primi 2 secoli dell'epoca imperiale fu l'impegno dei
principi più attenti agli equilibri culturali della società romana a sostenere il culto religioso tradizionale, di
cui erano pontefici massimi e nel quale investivano importanti risorse personali e pubbliche, ad esempio
nella costruzione e nella restaurazione di templi. I culti e le divinità di origine ellenica, egizia e orientale
furono osteggiati apertamente da Augusto, Tiberio, Claudio e Traiano, mentre i cedimenti di Caligola,
Nerone, Domiziano e Commodo all'aperta divinizzazione dei sovrani di stampo ellenistico furono visti e
condannati, almeno a Roma, come eccessi.
La mentalità romana rimase sempre aperta e tollerante nei confronti delle tradizioni dei popoli sottomessi,
ma i culti ammessi nella capitale e nelle città dovevano rispondere a criteri di rispetto dell'ordine pubblico
e non mettere in discussione la suprema autorità dello Stato e i suoi interessi.
In epoca imperiale, tuttavia, accanto alla religione pubblica, che era parte integrante delle attività dello Stato,
si andarono diffondendo culti misterici riservati a sette di iniziati, che attiravano un certo numero di adepti
desiderosi di raggiungere un'unione personale con il divino più profonda.
Tra queste religioni personalistiche ebbe, ad esempio, grande diffusione il culto di Mitra, divinità solare di
origine indoiranica che si contrapponeva alle tenebre e assicurava la vittoria del bene e della vita sul male e
sulla morte. A lui si rendeva culto in templi sotterranei, offrendogli sacrifici di animali, in particolare del
toro, per riceverne forza e protezione.
La diffusione dell'Ebraismo nelle principali città del Mar Mediterraneo
Tra i culti tollerati dall'impero, ma in costante rapporto di tensione con le sue istituzioni e il suo dominio,
c'era la religione del popolo ebraico, che occupava la Palestina e aveva come capitale Gerusalemme.
Fin dalle epoche precedenti all'occupazione romana, e con particolare intensità a cominciare dal VI secolo
a.C, migliaia di ebrei avevano abbandonato la terra di origine per sfuggire alle invasioni degli assiri, dei
babilonesi e dei persiani. Era cosi cominciata, e non si era mai completamente interrotta, la diaspora, cioè la
dispersione di intere comunità di ebrei che si erano stabiliti in Egitto, sulle coste dell'Asia Minore, a Cipro e
Creta e nelle principali città della Grecia. Anche a Roma, all'epoca di Tiberio e Claudio, la comunità ebraica
era molto numerosa.
Gli ebrei praticavano una religione che li distingueva da tutti i popoli dell'Impero Romano. Essi adoravano,
infatti, un dio unico, creatore del mondo, alleato fedele del suo popolo e ostile alle divinità pagane,
considerate semplici idoli. Gli ebrei avevano progressivamente ordinato i loro testi sacri in un'unica raccolta,
la Bibbia, che fu completata e ordinata definitivamente nel corso del I e II secolo d.C. Nei libri profetici che
facevano parte di questa raccolta era annunciata la venuta di un Messia: un inviate celeste - in ebraico
l'«Unto», il consacrato e inviato da Dio, poi tradotto in greco con il termine «Cristo» - dotato di pieni poteri
di giudizio sulla Storia e destinato a instaurare il Regno di Dio sulla terra.
Insofferenti dell'occupazione romana, gli ebrei che vivevano in Palestina erano divisi in correnti spirituali e
fazioni: i sadducei e la classe sacerdotale propendevano per una certa collaborazione con i romani; i farisei
operavano per il rinnovamento spirituale del popolo e si astenevano dalla collaborazione con i pagani; gli
esseni fondarono comunità di tipo monastico e si isolarono dal resto della società in attesa del Messia; gli
zeloti, infine, erano attivisti politici che si ispiravano all'intransigenza religiosa contro i culti pagani per
organizzare la resistenza e aperte rivolte contro i romani. Nel 70 d.C. Tito soffocò nel sangue un importante
movimento di ribellione (vedi il Capitolo 5); nel 135 d.C. Adriano completò l'opera distruggendo
Gerusalemme e spingendo gli ebrei residenti in Palestina alla quasi completa emigrazione. Ma nel frattempo,
in seno all'Ebraismo, era nato il Cristianesimo, un movimento che al principio apparve come una nuova
corrente dell'Ebraismo e ben presto, anche a seguito dell'ultima e più radicale diaspora, mostrò i caratteri di
una nuova religione.
Le origini del Cristianesimo: Gesù dì Nazaret e la sua predicazione
Gesù, Yehoshua in ebraico, nacque a Betlemme intorno al 6 a.C. e visse l'infanzia e la giovinezza nella città
di Nazareth, in Galilea, la regione più settentrionale della Palestina. Da ciò viene a Gesù l'appellativo di
«Nazareno».
A circa 30 anni egli cominciò a vivere come un predicatore itinerante, raccogliendo intorno a sé un certo
numero di seguaci e simpatizzanti entro i quali si andò progressivamente affermando un gruppo di 12
fedelissimi (numero che richiamava simbolicamente le 12 antiche tribù di Israele: gli Apostoli).
Le fonti cristiane che narrano di lui, e in particolare i Vangeli, mettono molto in risalto l'autorevolezza, la
forte carica innovativa del suo insegnamento e le sue capacità di taumaturgo, attribuendogli guarigioni
miracolose e altri gesti straordinari.
Gesù apparteneva alla millenaria tradizione ebraica dei profeti, personaggi votati alla riscoperta della fede di
Abramo e dell'osservanza della legge di Mosè. Tuttavia, egli indicava ai suoi contemporanei la nuova via di
un rapporto fiducioso e personale con l'unico Dio, che egli definiva «Padre» e di cui esaltava la
misericordia. L'amore per Dio Padre e per il prossimo, senza distinzioni e senza condizioni (fino
all'esaltazione dell'amore per i nemici, del perdono e dell'umiltà) furono i due elementi fondamentali del suo
messaggio.
Gesù giunse a presentarsi come il «Messia» e come il «Figlio di Dio». Sfidò dunque le autorità religiose che
guidavano anche politicamente gli ebrei della Palestina, accusandole di impedire a tutti i semplici fedeli un
abbandono sincero a Dio.
Gesù non sembrò interessarsi ai delicati equilibri politici della Palestina del suo tempo, concentrandosi su
questioni religiose. Tuttavia, egli fu accusato di attentare alla purezza della dottrina della legge ebraica e alla
sua osservanza e di minacciare l'unità del popolo di Israele. Il procuratore romano Ponzio Pilato, per paura di
essere messo in cattiva luce presso l'imperatore Tiberio, non si oppose all'arresto di Gesù a Gerusalemme.
Processato per bestemmia e condannato a morte con il concorso delle autorità romane, sempre preoccupate di
mantenere l'ordine in una delle più turbolente province dell'impero, fu crocifisso sul colle detto «Golgota».
La predicazione degli Apostoli e la diffusione del Cristianesimo
Poco tempo dopo la morte del loro maestro, i più fedeli discepoli di Gesù cominciarono ad annunciare,
partendo da Gerusalemme, che Gesù era resuscitato dai morti, era apparso loro e li aveva «inviati» (dal
verbo greco apostéllo, da cui il loro titolo di «Apostoli») per proclamare al mondo i suoi insegnamenti e la
nuova «via» che conduceva all'unione con Dio e alla vita eterna.
Nei primi anni, tra il 30 e il 40 d.C, questa predicazione fu rivolta agli ebrei che vivevano in Palestina e
nella provincia di Siria. Secondo le fonti cristiane pare che proprio ad Antiochia di Siria per la prima volta i
seguaci di Gesù, «il Cristo», fossero detti «cristiani».
In seguito, l'annuncio fu rivolto progressivamente alle comunità ebraiche presenti in Asia Minore, in Egitto,
in Grecia e fino a Roma, provocando conversioni ma anche polemiche e aperto rifiuto da parte della
maggioranza degli ebrei. Nel corso del I secolo d.C. pareva comunque che il Cristianesimo fosse una nuova
setta dell'Ebraismo. Tuttavia, tra il 45 e il 64 d.C, probabile anno della sua morte, Paolo di Tarso apri con
convinzione le porte dell'adesione alla nuova religione anche a uomini e donne appartenenti a popoli pagani
e fondò comunità cristiane in Asia Minore e, in Grecia, a Efeso, Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto. Paolo
era stato inizialmente un fiero avversario dei cristiani. Nel 34 d.C. si era convertito alla nuova religione e ne
era diventato uno strenuo difensore, dedicando ogni sua energia alla diffusione. Predicò instancabilmente la
nuova dottrina in tutto l'impero acquistando cosi l'appellativo di «Apostolo delle genti», cioè di tutti i popoli
che non praticavano la religione ebraica e cristiana.
Dopo aver imposto la sua linea universalistica in un serrato dibattito interno alla prima comunità cristiana,
in cui prevalevano gli elementi di origine ebraica, Paolo e altri missionari come lui interpretarono la via
inaugurata da Gesù nel nome della misericordia di Dio per tutta l'umanità non più come una semplice
riforma dell'Ebraismo, ma come una nuova religione, capace di offrire la salvezza a uomini e donne di ogni
ceto e di ogni razza.
La diffusione del Cristianesimo tra il I e il II secolo d.C. e le prime persecuzioni
Sotto il regno di Nerone, a Roma e in altre importanti città i cristiani rappresentavano un'esigua minoranza
ed erano guardati con lo stesso sospetto con cui i romani erano soliti considerare i nuovi culti religiosi
provenienti dall'Oriente.
Secondo lo storico Svetonio, già Claudio aveva dovuto occuparsi di disordini sorti all'interno dell'importante
comunità ebraica della capitale a causa di discussioni intorno alla nuova religione. Ma fu Nerone ad
approfittare della relativa importanza dei cristiani, spesso appartenenti alle classi inferiori della società,
scaricando su di loro le accuse di aver provocato l'incendio che nel 64 d.C. distrusse alcuni quartieri di
Roma. I cristiani furono quindi perseguitati e sembra probabile che in questa prima serie di arresti e
condanne siano stati giustiziati anche Paolo di Tarso e Pietro, il capo degli Apostoli e primo papa, poi guida
della comunità di Antiochia e infine di quella di Roma.
Un atteggiamento ostile nei confronti dei cristiani fu assunto anche da Domiziano, Traiano e persino da un
imperatore moderato come Marco Aurelio. Infatti, l'organizzazione delle loro comunità, la coerenza delle
loro scelte morali, il rifiuto della religione tradizionale di Roma (compreso il culto dell'imperatore o del suo
nume tutelare) e l'amministrazione di patrimoni sempre più ingenti per l'uso di raccogliere nelle mani
delle autorità le offerte per sostenere i bisogni dei più poveri, attirarono contro i cristiani l'accusa di costituire
una specie di «Stato nello Stato», obbedendo solo alle proprie guide e seguendo le proprie leggi.
I cristiani, tuttavia, nel corso del II secolo d.C. crebbero continuamente di numero, accogliendo convertiti
senza distinzioni di razza e censo, uomini e donne e anche personaggi appartenenti alle famiglie più in vista della società.
L'organizzazione della Chiesa nelle principali città dell'impero
A cominciare dal II secolo d.C, in tutte le principali città dell'impero erano presenti una o più comunità
cristiane dette «Chiese» (dal greco ekklesìa, «assemblea»). Ad annunciare il Vangelo e a guidare la preghiera
comune in ciascuna di esse erano alcuni presbiteri (dal greco prèsbus, «vecchio»), spesso coadiuvati da
diaconi (dal greco «diàkonos», «servitore») che amministravano una specie di cassa comune costituita da
donazioni volontarie dei fedeli a favore dei poveri.
A capo di tutte le comunità presenti in una grande città o in intere regioni, dette «diocesi», ci furono prima
gli stessi Apostoli e alla loro morte i loro successori: i vescovi (dal greco epìskopos, «colui che sorveglia
dall'alto»). Con il passare del tempo, i vescovi acquisirono una grande autorità per il continuo aumento del
numero dei convertiti e per la crescente importanza economica dei beni amministrati dalla Chiesa. Al termine
del II secolo d.C, quindi, i cristiani erano una minoranza consistente di cittadini e sudditi dell'impero tra i
quali vi erano anche stranieri e schiavi liberati a spese della comunità; essi obbedivano alle loro autorità
religiose e si distinguevano per un culto che sembrava non avere niente in comune con le religioni
tradizionali. Essi, infatti, adoravano un unico Dio e il suo Figlio Gesù Cristo; esaltavano l'umiltà, la
misericordia e la pace invece delle virtù eroiche che avevano fatto la grandezza di Roma; abbattevano le
differenze di classe su cui era basata la società romana; praticavano riti nuovi e inquietanti (si cibavano, ad
esempio, del «corpo di Cristo» durante la celebrazione dell'eucaristia); attentavano all'unità dello Stato
rifiutandosi di sottoporsi alla sua suprema autorità anche in campo religioso e rivendicando una libertà di
coscienza che rischiava di sconfinare nella ribellione.
I Padri Apologisti e la nascita di una nuova cultura
Nel corso del II secolo d.C. i cristiani si posero il problema di difendere la propria fede dagli attacchi della
cultura dominante. Gli intellettuali più influenti, infatti, vedevano nell'adesione di tanti uomini e donne del
popolo al Cristianesimo la prova che il nuovo culto era in realtà una rozza dottrina priva di spessore e
incapace di reggere il confronto con la ragione critica, che si esprimeva da secoli principalmente nella
tradizione filosofica di origine greca.
Nel corso del 1 e II secolo d.C. si diffusero, ad esempio, le dottrine greche del Pitagorismo. Questa antica
tradizione mirava alla liberazione dell'anima dalla prigionia del corpo mortale tramite la conoscenza e
accoglieva la credenza di origine orientale nella reincarnazione. Un altro concorrente del Cristianesimo era lo
Stoicismo, che proponeva agli spiriti più sensibili, come l'imperatore Marco Aurelio, la via dell'equilibrio e
della moralità di chi segue con eroismo la via segnata dalla legge che regge l'universo. Di orientamento più
misticheggiante, perché tendeva a favorire la contemplazione e l'unione dell'anima con il Divino, era il
Neoplatonismo, che nel III secolo d.C. ebbe in Plotino (204-270 d.C.) il suo maggiore esponente.
Di fronte a questo grande fermento di idee, i cristiani più istruiti si proposero di dialogare con la cultura del
loro tempo, ponendo le basi per una presentazione del Cristianesimo e delle sue fonti, la Bibbia ebraica e i
testi cristiani, che mettesse in luce la capacità della nuova dottrina di rispondere alle domande fondamentali
della ragione umana circa l'origine del cosmo, la natura dell'uomo e il suo destino e non solo alle esigenze
del bisogno spirituale e religioso.
I primi Padri Apologisti, che avviarono la storia della teologia cristiana, intendevano cosi smentire i sospetti
contro la loro fede e sostenere l'impegno missionario anche nei confronti delle classi più elevate. Tra di essi
spiccano i nomi di Giustino (100-165 d.C), autore latino di due Apologie, ovvero «difese», in cui protestava
contro le persecuzioni ai cristiani presentando al pubblico pagano l'essenziale della nuova dottrina,
Clemente di Alessandria (150-215 d.C.) e Origene (185-253 d.C. circa), due raffinati pensatori di lingua
greca che cercarono di conciliare il Cristianesimo con alcuni elementi e termini propri della filosofia
platonica.
Con il passare del tempo, l'opera degli intellettuali cristiani servì non soltanto a difendere e presentare la fede
ai non credenti, ma anche a precisare la dottrina all'interno della stessa Chiesa, combattendo le «eresie» (del
greco haìresis, «scelta»), cioè le negazioni o le interpretazioni sbagliate e fuorvianti di una verità di fede
proclamata dalla Chiesa.
Con l'opera dei teologi cristiani dei primi secoli prese avvio una nuova cultura, che raccoglieva idee e
simboli della tradizione antica e li utilizzava per dare forma alla nuova visione del mondo rappresentata dal
Cristianesimo. Questa cultura, come vedremo, dominò la civiltà europea per tutto il Medioevo.
Cristianesimo, chiesa e impero fra III e IV secolo
Dèi della città e Dio unico: una convivenza difficile
I cristiani e Roma: la posizione del potere. A Roma le prime comunità cristiane nacquero forse negli anni
quaranta del I secolo, e sicuramente la loro presenza era significativa sotto Nerone (54-68). Nel giro dei
cent'anni successivi, la nuova religione guadagnò aderenti - sia pure, per il momento, in percentuali
abbastanza ridotte - anche ai livelli più alti della società e all'interno della stessa élite di governo. Ma qual era
l'atteggiamento che gli altri, i non credenti, avevano nei confronti della nuova fede? Nei primi due secoli
dell'Impero occorre distinguere nettamente fra l'atteggiamento ufficiale verso i cristiani e il punto di vista
dell'uomo della strada, del "romano medio". Il potere politico scelse una sostanziale neutralità: l'adesione al
cristianesimo non costituiva di per sé una colpa e i cristiani andavano perseguiti soltanto se si fossero resi
colpevoli di specifici comportamenti criminosi, come qualsiasi altro cittadino. Questa linea fu sancita
dall'imperatore Traiano, all'inizio del II secolo, e tale rimase senza grandi variazioni fino alla metà del III
secolo.
L’ostilità popolare. A livello di mentalità diffuse, invece, i cristiani ereditarono molti dei pregiudizi che
già gravavano sugli ebrei: che fossero una comunità chiusa, di gente che odiava il resto dell'umanità, che
rifiutava gli dèi della religione ufficiale, che praticava propri culti riservati e misteriosi, nel corso dei quali ci
si abbandonava a eccessi sessuali o addirittura a pratiche sanguinose (infanticidio e antropofagia: un
pregiudizio nato probabilmente dal fraintendimento dell'idea cristiana del "corpo e sangue di Cristo" di cui il
fedele si "ciba" nel corso della messa). La diffusa ostilità popolare verso i cristiani fu a volte sfruttata dal
potere politico. Nel 64, per esempio, il centro di Roma andò a fuoco e Nerone, che alcuni sospettavano come
artefice dell'incendio, non trovò di meglio che scaricare la colpa dell'accaduto sui cristiani, sapendo di poter
contare sull'ostilità della popolazione contro questa "setta". Si trattava comunque di qualcosa di ben diverso
dalle cosiddette persecuzioni, cioè dalla caccia sistematica ai. cristiani che si verificò solo dalla metà del III
secolo.
Gli dei e la città. C'era però, nelle dottrine della nuova religione, un punto che rendeva problematico il
rapporto con l'autorità politica: l'assoluto monoteismo dei cristiani. Il fatto di non riconoscere nessun'altra
divinità all'infuori del proprio Dio implicava il rifiuto, almeno da parte dei fedeli più coerenti, di prendere
parte ai culti della religione romana tradizionale. Ma perché questo costituiva un problema?
La religione romana era una religione essenzialmente pubblica. I culti venivano celebrati dai sacerdoti che
erano magistrati come tutti gli altri, sia pure con alcune caratteristiche speciali. Ai cittadini non era chiesto di
aver fede, non almeno nel senso che questa parola ha nella nostra cultura (cioè come convinzione intima e
personale circa l'esistenza della divinità, le sue caratteristiche e il suo rapporto con il fedele): si chiedeva
loro, semplicemente, di prendere parte ai riti e ai culti, perche questo costituiva parte integrante della
condizione di cittadino, come potevano esserlo andare a votare, partecipare alle assemblee o assistere agli
spettacoli del circo. In altri termini, si partecipava alla vita religiosa della città perché si era cittadini, non
perché si era "credenti" nel senso moderno della parola.
Il culto degli imperatori. La funzione politica della religione romana tradizionale si era arricchita in epoca
imperiale: già Augusto era stato divinizzato dopo la morte. Anche in questo caso, ciò non vuol dire che i
romani credessero in Augusto morto e divinizzato nello stesso senso in cui un cristiano crede in Gesù morto
e risorto, o un musulmano in Allah e nel suo profeta Maometto; vuol dire, invece, che furono creati dei
sacerdoti con il compito specifico di celebrare un culto dell'imperatore defunto e che a questo culto l'intera
cittadinanza era chiamata a prendere parte.
Dio e gli dei. Per tutte queste ragioni, la religione romana era molto tollerante nei confronti delle convinzioni
individuali. Ciascuno, nel privato, poteva adorare gli dèi che voleva, farsi la propria personale idea della
divinità, al limite essere ateo; quello che invece non veniva tollerato era il rifiuto di prendere parte alla vita
religiosa della comunità. Tale gesto significava infatti un rifiuto della città, delle sue regole e, in età
imperiale, equivaleva di fatto a un'implicita contestazione dell'autorità.
Non solo. Sappiamo che da sempre i romani spiegavano i loro successi o insuccessi sulla base della pax
deorum, la "pace con gli dèi": solo se la città era "in pace" con le sue divinità gli eserciti romani si
affermavano, l'Impero si. ingrandiva, lo stato prosperava. La presenza crescente di cristiani che rifiutavano
quelle divinità metteva dunque in crisi, nell'ottica tradizionale, la pace con gli dèi, e la presenza stessa dei
cristiani nell'Impero minacciava l'equilibrio fra cielo e terra, su cui si reggeva da secoli il successo di Roma.
Un caso esemplare: la persecuzione di Decio. Da questa situazione derivava un paradosso denunciato
spesso dai cristiani dei primi secoli, ma perfettamente comprensibile alla luce della mentalità romana. Da un
lato i cristiani erano liberi di praticare i loro culti, nei modi e nelle forme che a essi parevano più opportune;
dall'altro, si poneva un grave problema quando la loro fede li portava a rifiutare la religione della città, i suoi
riti, il culto dell'imperatore vivente e di quelli defunti e divinizzati. Si trattava, insomma, molto più di un
problema politico che di un problema religioso. Lo conferma il modo in cui si scatenò la prima vera e
sistematica persecuzione contro i cristiani, di cui fu promotore l'imperatore Decio (249-251). Il meccanismo
era semplice: tutti i cittadini dovevano presentarsi di fronte a una commissione e compiere un sacrificio agli
dèi romani, grazie al quale ricevevano un documento che attestava la loro osservanza dei culti tradizionali.
Come si vede, non erano in discussione le convinzioni religiose dei sudditi - infatti molti cristiani, per paura
della punizione, compirono il sacrificio - ma il loro adempimento dei riti ufficiali.
Da religione perseguitata a religione dell'Impero
Diocleziano e la chiesa. Nella seconda metà del III secolo periodi di tolleranza verso i cristiani si alternarono
a fiammate persecutorie, feroci ma brevi e dettate non tanto da motivazioni ideologiche, quanto dalle urgenze
imposte dalla convulsa situazione interna e internazionale. Nel 303, a vent'anni dalla sua ascesa al trono,
Diocleziano scatenò una nuova, violentissima persecuzione, l'ultima nella storia della chiesa primitiva. La
scelta era coerente con la più generale politica di rafforzamento dell'autorità imperiale intrapresa da
Diocleziano: un'autorità che non poteva ammettere all'interno dello stato poteri alternativi o zone franche che
si sottraevano al controllo dell'apparato di governo.
La persecuzione non ottenne risultati significativi e fu abbandonata nel 305, almeno in Occidente, quando
l'anziano imperatore si dimise. I tempi erano ormai maturi per un cambiamento di rotta nei rapporti fra
chiesa e Impero, che infatti si verificò sotto i nuovi potenti, emersi dalle macerie del sistema tetrarchico.
313: l'editto di Milano. Il 313 è un anno fondamentale nella storia dei rapporti fra cristianesimo e autorità
imperiale: con un provvedimento congiunto firmato a Milano, il nuovo augusto d'Occidente Costantino e il
suo collega orientale Licinio concedevano per la prima volta a tutti gli abitanti dell'Impero (e dunque anche
ai cristiani) piena libertà di manifestare il proprio culto. Era una sconfessione esplicita della politica perseguita da Diocleziano e l'inizio di un'alleanza di ferro tra potere politico e potere ecclesiastico, destinata a
incidere in profondità sul futuro dell'Europa e del mondo.
Come interpretare l'editto? La notizia della conversione di Costantino nel 312, alla vigilia della battaglia che
gli assicurò il controllo dell'Occidente, è inverificabile, anche perché fornita solo da fonti cristiane; quanto
all'altro firmatario, Licinio, era un pagano e tale rimase per tutta la vita. Le ragioni furono piuttosto di
carattere politico, legate ancora una volta alla concezione romana della religione.
Costantino e la chiesa. Anzitutto, le persecuzioni si erano dimostrate una scelta perdente, che assorbiva
uomini e mezzi senza raggiungere l'obiettivo, anzi incrementava le conversioni alla nuova religione. In
secondo luogo, a partire dal III secolo il cristianesimo si era infiltrato sempre più fra gli strati elevati della
popolazione e nella stessa classe dirigente: non era possibile, ormai, liquidarlo come una superstizione buona
per i ceti inferiori.
Dunque, in un momento in cui il potere aveva bisogno assoluto di guadagnare consenso, il più vasto
possibile e in tutti gli ambiti - compreso quello, essenziale, dell'esercito: e tra i soldati la nuova religione si
era diffusa in misura notevole -, Costantino dovette convincersi che la scelta di cavalcare il fenomeno
cristianesimo fosse politicamente più vantaggiosa rispetto a quella di osteggiarlo.
Il Dio cristiano protettore di Costantino. Come accennavamo, l'anno precedente all'editto di Milano, nel
312, Costantino aveva sconfitto il suo rivale al trono d'Occidente, Massenzio. Secondo la tradizione, in
quella battaglia decisiva Costantino adottò fra le insegne del suo esercito alcuni simboli cristiani: e sappiamo
come per la mentalità romana la vittoria militare fosse anche il segno più certo del sostegno divino alle
iniziative umane. Insomma, è come se con quella vittoria il Dio dei cristiani si fosse accreditato, agli occhi di
Costantino, come divinità potente e benevola, con la quale era opportuno essere in pace non meno di come
gli imperatori del passato avevano ricercato la pace con Giove e gli altri dèi.
L'efficacia del nuovo "protettore" divino fu del resto messa alla prova nel 324, allorché Costantino volle
riunificare tutto l'Impero, liquidando l'augusto d'Oriente Licinio. La propaganda ufficiale presentò lo scontro
nei termini di una resa dei conti tra il cristiano Costantino e il pagano Licinio, e dunque anche, in un certo
senso, fra il nuovo Dio e i vecchi dèi, con la schiacciante vittoria del primo.
Privilegi imperiali. Altri privilegi concessi da Costantino furono la possibilità di effettuare lasciti
testamentari a favore della chiesa - che in breve tempo incrementò enormemente i propri patrimoni (edifici,
terreni, denaro liquido) -, l'esenzione del clero da ogni onere fiscale e soprattutto la possibilità di rivolgersi,
per ottenere giustizia, a un tribunale ecclesiastico, cioè formato esclusivamente da membri del clero e
presieduto dal vescovo, le cui sentenze avevano la stessa validità di quelle emanate da un tribunale civile. La
chiesa si dotava così di un apparato giudiziario parallelo a quello laico e destinato a svilupparsi ampiamente
nel corso del Medioevo. Ma tali privilegi avevano una precisa contropartita: Costantino, infatti, si attribuì
anche il compito di suprema autorità religiosa, e in particolare di garante dell'unità dei cristiani.
Il concilio di Nicea. Nel IV secolo la dottrina cristiana si presentava ancora allo stato fluido e su molte
questioni coesistevano all'interno della chiesa posizioni molto distanti, talvolta inconciliabili. Il confronto fra
le posizioni assumeva spesso toni aspri e violenti; per di più, le dispute religiose non coinvolgevano solo
intellettuali e teologi, ma vedevano un'ampia partecipazione popolare, che rischiava di lacerare il mondo
cristiano, di indebolire la chiesa e, in ultima istanza, di diventare politicamente pericolosa.
Costantino si vide quindi indotto a convocare, nel 325, il primo concilio ecumenico nella storia della chiesa,
che tenne le sue sessioni a Nicea, non lontano da Costantinopoli, e fu presieduto dallo stesso imperatore.
Oggetto del concilio era la formulazione di una dottrina precisa in merito alla natura - umana o divina - di
Gesù. Ai prelati riuniti in assemblea Costantino impose una formula di compromesso - Gesù era "della stessa
sostanza del Padre", dunque contemporaneamente "vero Dio e vere uomo" - e l'adozione del cosiddetto
simbolo niceno, cioè della formula del Crez: che ancora oggi i cattolici recitano durante la messa.