Qui il documento in pdf - Il partito che vogliamo

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Qui il documento in pdf - Il partito che vogliamo
Contributo dei compagni e delle compagne dell’opposizione PRC di Roma in previsione del
congresso.
1. Costruzione di un Fronte popolare antiliberista e anticapitalista
L’attuale maggioranza del partito, da anni, si pone l’obiettivo dell’unificazione delle sinistre
attraverso la costruzione di contenitori sempre nuovi, secondo logiche tutte politiciste che ci vedono
in costante interlocuzione con organizzazioni a-comuniste collocate alla destra del PRC.
Il fine ultimo di questi progetti sembra essere sempre e solo quello della rappresentanza, tema di cui
non disconosciamo l’importanza, ma che come comunisti riteniamo debba scaturire da un
radicamento reale nelle lotte e sia funzionale alle lotte stesse.
E’ evidente come questi tentativi di costruzione “politicista e dall’alto” abbiano prodotto continui
fallimenti sul piano della progettualità politica, senza alcuna ricaduta positiva per la classe e con un
progressivo indebolimento del nostro partito. Indebolimento che sarebbe ancor più grande e
definitivo se passasse la proposta della costruzione di un soggetto unitario della sinistra a cui
Rifondazione sarebbe chiamata a cedere sovranità politica ed elettorale, partecipando secondo il
meccanismo “una testa, un voto, senza vincolo di mandato”.
Per costruire un unità della sinistra di alternativa che produca lotta reale e per mantenere
l’autonomia politica ed organizzativa del PRC come partito comunista, riteniamo necessario
proporre, in alternativa al soggetto della sinistra proposto dalla maggioranza, la costruzione di un
“Fronte antiliberista e anticapitalista”, che nasca dall’interlocuzione con quelle soggettività che
praticano costantemente il conflitto di classe, nei territori e nei luoghi di lavoro.
Un Fronte in cui le forze aderenti elaborino insieme un programma minimo di classe e pratichino
l’unità nelle lotte per un reale avanzamento della classe stessa. Un fronte che ragioni anche sul tema
della rappresentanza, ma che faccia nascere la stessa da un percorso di lotta e rivendicazione.
2. Il PRC e la ricostruzione del partito comunista
L’impoverimento di iscritti e militanti che il PRC sta sperimentando in questa fase è la diretta
conseguenza di tante scelte sbagliate e di un progressivo impoverimento culturale, di prassi ed
organizzazione comunista.
Le forze del partito sono state impiegate prevalentemente in appuntamenti elettorali vissuti con
l’acqua alla gola, affrontati sempre con la necessità del trasformismo, nascondendo i propri simboli
e la propria appartenenza ideologica dietro a contenitori di “sinistra generica” sempre differenti ed
a-comunisti.
L’aver perseguito l’obiettivo di questa unità della sinistra e la conseguente de-comunistizzazione del
partito (non formale ma di fatto), ha portato molti sinceri compagni ad abbandonare il progetto di
Rifondazione, migrando in altre organizzazioni o abbandonando l’attività politica organizzata.
Molte forze positive del partito, sono state in larga parte utilizzate per la costruzione di percorsi
socialdemocratici e politicisti come “rivoluzione civile” o “l’altra Europa per Tsipras”, mentre molti
fondamentali aspetti dell’attività politica propria dei comunisti sono stati sottovalutati o affrontati
senza la dovuta forza ed organizzazione. Tra questi, il necessario insediamento nella “classe”
attraverso il lavoro nei movimenti sociali e di lotta, spina dorsale di quel Fronte popolare
antiliberista ed anticapitalista necessario a condurre la lotta di classe in questa fase.
Ma soprattutto è stato trascurato l’insediamento tra i lavoratori, possibile mediante la costruzione di
“cellule” nei posti di lavoro (da affiancare all’insediamento territoriale conseguito attraverso le
“sezioni”) e attraverso l’organizzazione ed attuazione di una chiara linea sindacale definita dal
partito.
La situazione attuale vede quindi il nostro partito particolarmente debole, con un limitato numero di
iscritti e soprattutto di militanti. In questo senso la natura del PRC non può che essere quella di un
“partito di quadri”, formati per agire da avanguardie nelle pieghe del conflitto capitale-lavoro e in
ogni movimento di lotta e rivendicazione sociale. Un partito di quadri che si ponga quindi come
avanguardia e punto di riferimento di un più ampio fronte sociale e politico antiliberista ed
anticapitalista, senza rinunciare alla propria autonomia e visibilità, ma essendo parte integrante del
conflitto e non “strumento di rappresentanza” dello stesso.
Il “partito di quadri” necessario, non può però prescindere da una solida e strutturata formazione
degli stessi; formazione da organizzare attraverso una scuola quadri rivolta a tutti i dirigenti e
militanti attivi del partito. In questo senso potrebbe essere utile ripristinare un tesseramento a due
livelli (come nel vecchio PCI): uno per i simpatizzanti/sostenitori ed uno per dirigenti, quadri e
militanti attivi.
Ovviamente la debolezza del PRC e del movimento comunista in genere, dovrà necessariamente
esser superata anche mediante un ragionamento legato al superamento della parcellizzazione delle
organizzazioni marxiste, attraverso un processo costituente che porti alla ricostruzione di un partito
comunista coerente, unito, autonomo. Ma tale percorso per “l’unità dei comunisti” non potrà essere
affrontato con un progetto costruito esclusivamente dall’alto, magari col solo intento di rientrare in
parlamento. Per l’unità dei comunisti e per la “Costituente”, le organizzazioni marxiste non possono
che partire dalle lotte e dalla pratica del conflitto di classe, pratica nel quale riconoscersi per limare
le divergenze e trovare la linea e l’identità comune. Un percorso quindi che può essere facilitato
lavorando nel “Fronte popolare anticapitalista” con le altre organizzazioni comuniste.
3. Linea sindacale e insediamento nei posti di lavoro
Sindacati e partiti devono essere reciprocamente autonomi ed i comunisti devono difendere questa
autonomia con forza, coerenza e sincerità, anche nei confronti del proprio stesso partito.
Se non viene garantita l'autonomia accadrà nei fatti che le basi dei sindacati saranno usate dai
vertici politici del partito. Nella nostra era il partito politico che tende a dominare i sindacati è il
Partito Democratico. Quindi i comunisti, specialmente in Italia ed in questa epoca storica, devono
essere favorevoli a tutte le misure (ad esempio clausole di incompatibilità) che tendono a rafforzare
la reciproca autonomia tra il politico e il sindacale, anche quando la mancanza di autonomia
potrebbe apparentemente rafforzare la sinistra.
I comunisti devono militare nei sindacati per battersi con fermezza e determinazione affinché i
sindacati assolvano sino in fondo il proprio ruolo, che è di difendere gli interessi elementari della
classe lavoratrice (una classe da analizzare nella sua attuale composizione, attraverso specifiche
operazioni di inchiesta). Lotte di questo tipo e l'esistenza di sindacati radicali, creano un clima
propizio per la modifica dei rapporti di forza anche sul piano politico, nei confronti dei nostri
avversari di classe. Una classe sindacalmente attiva guadagna spazio, visibilità, fiducia in se stessa,
e crea oggettivamente le migliori condizioni per la crescita dei comunisti.
Il capitalismo tende a colpire le organizzazioni sindacali anche quando queste sono moderate o
tende a formare nuove organizzazioni sindacali quando si tratta di contrastare quelli più radicali. Un
caso emblematico è quello della CISL. I comunisti devono entrare in contatto con i simpatizzanti di
questi sindacati e condurre insieme a loro le lotte in difesa degli interessi materiali di classe. I
sindacati creati dalla polizia zarista per contrastare la sinistra divennero ben presto la principale
fonte del malcontento operaio. Questo esempio fu preso da Lenin per argomentare la necessità
anche di lavorare nei sindacati reazionari.
Il problema dei sindacati è che spesso non svolgono nemmeno il loro compito di difesa degli
interessi minimi dei lavoratori. Spesso questo è dovuto alla formazioni di elites sindacali (di
burocrati) che si separano dalla base. Questi burocrati in periodi di riflusso come questo si
concedono ai peggiori cedimenti nei confronti della controparte.
Rifondazione comunista non ha una linea sindacale e i suoi iscritti devono muoversi nel sindacato
per proprio conto senza direttive da parte del partito.
Riteniamo che i comunisti possano e debbano militare in ogni sindacato, anche quelli più reazionari,
come in questo periodo storico, purtroppo la CGIL. Ma debbano farne parte con una linea chiara.
1. I comunisti devono difendere gli interessi materiali dei lavoratori e in quei sindacati dove il
ruolo di difesa degli interessi minimi di classe non viene svolto (come ad esempio la CGIL)
essi devono costituire delle opposizioni sindacali che mirino a cambiarne la linea.
2. I comunisti devono sempre opporsi alla burocratizzazione del sindacato e non possono
accettare compromessi disonorevoli nel sindacato (come Lavoro e società nella CGIL) per
guadagnare spazio nell’apparato a scapito della coerenza della propria linea.
3. I comunisti devono militare nei sindacati con lo scopo primario di alimentare la lotta di
classe e aumentare gli iscritti al partito. I comunisti pertanto non devono in alcun modo
identificarsi sentimentalmente con un sindacato alimentando il settarismo tra sindacati, ma
al contrario devono portare la linea del partito nel sindacato e devono essere all’occorrenza
sempre essere pronti ad abbandonarlo.
In questo senso l’autoconvocazione, l’organizzazione di consigli tra i lavoratori (come i
consigli di fabbrica gramsciani) e la costruzione di cellule nei luoghi di lavoro, possono
essere strumenti utili per contrastare le burocrazie, le derive concertative e la mancanza di
conflittualità nel sindacato.
4. Politica internazionale, unione europea, euro.
Il capitale ha la capacità di organizzarsi e di costruire gli strumenti adeguati, in ogni sua fase, per il
proseguimento del suo unico vitale obiettivo, il profitto.
Non è possibile pensare quindi che gli strumenti di cui si è dotato in Europa, trattati e moneta unica,
siano neutrali da un punto di vista di classe.
La complessa architettura monetarista infatti è la specifica risposta del capitale europeo, soprattutto
tedesco, alla caduta del saggio di profitto.
I trattati e la moneta sono complementari l'un l'altro per costruire quella gabbia dentro la quale si
impone il progetto di liquidazione del welfare, di totale sottomissione del lavoro al capitale, di
messa a margine delle forme di aggregazione di classe, di privatizzazione della proprietà pubblica e
della messa a profitto di tutto ciò che è patrimonio comune.
Per la realizzazione di tutto ciò è anche necessario creare delle super-strutture politiche che
accentrino tutto il potere nelle mani degli esecutivi e quindi c'è bisogno di manomissione delle
costituzioni formali (J.P. Morgan 2013), perché le costituzioni sostanziali già sono state manomesse.
Riteniamo quindi che l'Europa moderna non sia uno spazio neutro come non lo è la sua moneta.
L'architettura dell'euro infatti istituzionalizza il predominio degli stati del nord Europa forti e
creditori, verso gli stati del sud Europa debitori, mettendo ovviamente in competizione anche le
rispettive classi lavoratrici.
L'Europa costruisce un sistema e un mercato del lavoro non omogeneo con una concentrazione di
proprietà nel nord e la riduzione del sud Europa in un bacino di lavoratori a basso costo e senza
diritti.
In questo senso l'unione europea non può essere oggettivamente il terreno più avanzato allo
sviluppo della lotta di classe su scala continentale. Anche perché è evidente che, un eventuale lotta
per democratizzare l’UE attraverso parole d’ordine vuote come la “disobbedienza ai trattati” è
impossibile da vincere stante gli attuali rapporti di forza (l’esperienza di Tsipras in Grecia è
esemplare in questo senso).
Stante cosi le cose bisogna avere il coraggio di rompere la gabbia e affermare con forza il tema
dell'uscita dall'euro e dall’UE.
Questo ovviamente dovrà essere accompagnato da una politica economica e sociale che tuteli le
classi lavoratrici e che rimetta al centro il ruolo e la sovranità popolare in tema di scelte e decisioni
collettive.
Una politica economico-sociale che protegga salari, che ripristini i diritti dei lavoratori, che preveda
una nuova scala mobile, che riduca l'orario di lavoro, che preveda una tassazione fortemente
progressiva, che nazionalizzi banche e asset produttivi importanti che disciplini i movimenti di
merci e capitali.
Prendere con forza e determinazione questa posizione e sviluppare intorno ad essa una piattaforma
di lotta e rivendicazione, ci permetterebbe di rivolgerci con una proposta chiara e di rottura ad una
classe disorientata, ma che in maniera ancora poco cosciente comincia ad individuare nell’UE-BCE
una delle cause del suo impoverimento ed aumento del suo sfruttamento, evitando nel contempo di
lasciare questo tema in mano a forze di destra, xenofobe e reazionarie.