racconti d`inverno

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racconti d`inverno
Libertà Edizioni
Bocconi, Boscarino, Cevasco, Gori,
Lencioni, Magnolfi, Moretti, Mulas,
Pezzano, Pollutri, Scipioni
RACCONTI D’INVERNO
A cura di Anna Alberico
LibertàEdizioni
Ai lettori
RACCONTI D’INVERNO
Fabrizia Scipioni
COME UN’ATTRICE
Ciao Anna, eccoti arrivare, forse per dissolvere la nebbia, che per la prima volta quest’anno, stamattina nascondeva il Po. Forse per distrarmi dai pensieri, che mi
impediscono di scrivere.
Ogni mattina, passare sul Ponte della Becca, mi rigenera
il cervello. Vedere laddove il Mincio e il Po, formano il
becco, per diventare un solo fiume.
Il Ponte della Becca è un ponte della provincia di Pavia,
posto sull'esatto punto in cui il Ticino si immette nel
fiume Po; è costruito con un'armatura in ferro, che lo
avvolge completamente. È percorso dalla Strada statale
617 Bronese, che percorre la tratta Broni-Pavia.
Terre di Vini, d’Oltrepò.
Immensità d’acqua: e mi piace ogni mattina, guardare
dal finestrino del pullman tutta quell’acqua, e immaginare che un giorno avrò una casetta su un fiume. Una
casetta poverissima, un locale, esagerando due. Un terrazzino che guarderà i barcaioli passare.
Non temo le piene. Tante ne ho viste.
Ricordo il freddo del mese dei morti.
Il mio cappotto nero era nuovo, e mi sentivo benissimo
con su il bavero, come un’attrice che stava girando uno
spot.
Un’attrice che stanca degli impegni cinematografici si
accontenta di fare pubblicità, purché eleganti e di style.
Non accettai la pubblicità di quel reggiseno, non mi piaceva mettere in mostra il corpo, lo ritenevo una forma di
distrazione dal resto.
Guardami la testa, guardami l’interiorità, quella è unica.
Di tette ne puoi trovare quante ne vuoi uguali alle mie,
di culi idem.
Quella volta lasciai lo spot del reggiseno a Monica, che
è molto meno pretenziosa di me, o solo diversa. Lei non
ha problemi ad usare tutto quello che può, anzi dice, che
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preferisce usare il corpo a discapito del resto. Quasi come se mettesse avanti la sua armatura per difendersi. E
ci ha fatto un sacco di soldi con quell’armatura e la sua
sensualità.
Molto più carina Sara, la figlia della mia amica, che assomiglia a Monica ma è molto più fine e semplice. Eppure l’asso vincente di Monica è stato proprio quel suo
atteggiarsi a snob. In fondo non lo è. Filò, non molto
tempo fa, con un giovane amico per niente snob. Ognuno è quel che è, ma chi se ne frega. Già ho tanti pensieri,
che non posso occuparmi anche delle reazioni altrui,
delle loro personalità. Sono stanca. Sono una vecchia
attrice in pensione. Vecchia, ho centoventi anni quattro
mesi e tre giorni.
In realtà la carta d’identità ne riporta la terza parte, ma è
una cazzata. L’età non è quella decisa il giorno della nostra nascita, ma quella delle esperienze passate, del
cammino fatto, della saggezza acquisita.
Del sorriso.
Il sorriso è il biglietto da visita della mia vera età.
E anche della tua cara Anna.
Ah già, devo continuare il racconto, di quel giorno di
Novembre, col cappotto nuovo e il bavero tirato su.
Vecchia star? No, mi ricorda il dado e la gallina vecchia.
Camminavo lungo l’Alzaia, guardando il Naviglio.
Negli ultimi anni, ho scoperto l’acqua come mio elemento.
L’acqua che scorre, bella, forte, che l’uomo può sporcare e pulire.
L’acqua, la vita.
Nulla più dell’acqua può dipingere questa mia vita, che
va, che scorre, che si divide e ridiventa una.
Quel giorno di Novembre faceva un freddo bestiale,
quel freddo che sembra tagliare la pelle, cappotto nero e
bavero su, capelli sciolti, con un ciuffo fuori dal bavero,
un vezzo. Occhiali scuri, messi per civetteria, per far
mistero.
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Camminavo e mi sentivo benissimo, veramente dentro
me stessa, connessa al cielo, a Dio.
Quanti “mavaffanculo” ho detto nei miei giorni, per riuscire a proseguire, e quel mattino mi stupii di non averlo
detto a quel piccione milanese che mi taglio la strada
con il suo volo. Un tale spavento, come sempre accade
per ciò che non aspetti.
Camminando, camminando, finalmente arrivai alla meta, Via Leopardi, la giovane Signora era lì, intirizzita dal
freddo ma felice, sorridente, seduta per terra, vendeva i
suoi disegni, paperette, gattini, cigni colorati a matita su
cartoncini da poco.
Un euro… gliene chiesi uno, e lei con tanto orgoglio mi
fece scegliere.
È una giovane donna, forse malata di mente, forse arrivata dalla droga, ha pochi denti.
È stato bello.
Abbiamo scherzato insieme e scambiato due chiacchiere.
Volevo chiederle se lei avrebbe mai accettato di fare
uno spot di biancheria intima, ma mi sembrava una domanda volgare, tendenziosa, fuori luogo, sarebbe stato
poco elegante anche solo il domandarglielo… a lei, una
barbona.
Con il mio segnalibro con disegnato un volo di uccelli,
ringraziai e mi avviai verso il continuo della mia vita,
riflettendo sul fatto di come ogni cosa, la mente la rimandi in relazione ad altro.
Chiesi a quella stessa mente di darmi l’assoluto.
E quella volta mi ascoltò, mi fece tirare fuori dalla tasca
del cappotto nero il cartoncino con disegnati gli uccelli
in volo, lo guardai con più attenzione. Un laghetto sullo
sfondo.
Solo a quel punto ricominciai a sentire freddo, il bavero
era sceso, lo risollevai e mi rimisi a fare l’attrice.
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Francesco Boscarino
IL CAVALIERE SOLITARIO
C’era una volta un cavaliere solitario.
Che fosse cavaliere lo doveva solo al fatto che aveva un
cavallo. Vecchio.
Il cavaliere trattava benissimo quel vecchio cavallo che,
grazie alle amorose cure, aveva ancora qualcosa da dire
sui lunghi pendii morbidi di erba novella.
Quei pochi umani che potevano affermare di conoscerlo
lo nomavano cavaliere anche per una certa aria di puro
romanticismo che emanava dai suoi discorsi.
La faccenda dei discorsi era comunque rara, in quanto
gli occorreva una carburazione ricca in metanolo per lasciare scoperto il suo animo.
Girovagando un giorno, tra le pieghe di una valle sconosciuta ai più, si imbatté in tre donzelle di alto lignaggio
che sostavano all’ombra di alcuni radi noccioli.
Istintivamente rallentò l’andatura del destriero.
Erano forse in difficoltà quelle tre dame?
O forse avevano sostato per dare riposo alle loro cavalcature?
Combattuto tra l’istinto che lo premeva ad accertarsi ed
il timore di essere frainteso, decise che di brutte figure
ne aveva collezionate già tante.
Una in più non avrebbe fatto differenza.
Il vecchio cavallo era un poco appesantito, non ne voleva sapere di frenate brusche. Oltrepassò i noccioli.
Cosi gli toccò di tornare indietro al passo.
S’accostò cauto a briglie lente, il fare di chi non avesse
nessun altro posto dove andare.
Le tre donzelle lo osservavano altrettanto caute, ma con
un’aria di attesa, come si aspettassero l’evento, che fosse solo una questione di tempo.
Il cavaliere non prese tempo:
- Buongiorno a voi nobili dame - esclamò - avete forse
bisogno di soccorso?
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Le tre donzelle sorrisero. Contemporaneamente
Solo allora si accorse che erano tutte bellissime, come
meravigliose le vesti, che poco potevano nascondere
delle splendide forme.
- No, cavaliere. Non proprio di soccorso abbiamo bisogno - rispose una di loro, la più scura di capelli. - Ma riprese - il vostro arrivo è quantomeno opportuno.
- Oh bella - pensò il cavaliere - non hanno bisogno ma
sono “opportuno”?
- Il mio nome è Saria, la damigella al mio fianco è lady
Tjcky, mentre quella che finge di non puntarvi la sua
balestra è lady Armedia.
- Sono lusingato di conoscere sì nobili damigelle - disse
il cavaliere, ma era perplesso. Opportuno?
- Giungete a proposito - disse quella che nomava Armedia, - tra noi è nata una disquisizione e non ne veniamo
a capo. Abbiamo così deciso di eleggere un giudice.
- Maschio - aggiunse lady Tjcky - perché voi siete un
cavaliere, vero? E un cavaliere è un maschio, giusto?
Ma volete restare in sella ancora a lungo? Scendete su,
che non è quistione da sella questa!
Se prima il cavaliere era perplesso adesso era stranito.
Che volevano quelle tre damigelle?
E gli sovvennero antiche leggende di strani incontri nelle perdute selve con donne bellissime da cui nessuno
aveva più fatto ritorno.
Scese dal destriero, ma con una mano all’elsa.
- Non avete da temere - disse lady Saria – il nostro intento è pacifico. Venite dunque e sedete con noi. Vi porremo un quesito. Voi dovrete solo rispondere con il vostro senno. Non vi è inganno, né minaccia.
Rassicurato in parte il cavaliere s’avvicinò, attese che le
damigelle si fossero accomodate alla meglio e sedette
anch’egli, sul tappeto di foglie.
- Ecco dunque la quistione - esordì lady Saria - noi si
discuteva tra donne su quale carattere fosse più apprezzato dai mariti, o comunque dagli uomini in generale,
tra quelli che noi stesse rappresentiamo.
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- Io rappresento l’amore coniugale - disse lady Tjcky,
senza porre intermezzi, senza lasciar respirare il povero
cavaliere, che iniziava ad avere paura - la sicurezza,
l’affetto, le attenzioni che ogni donna deve avere per il
suo uomo, la fedeltà, la prole, il calore della casa.
- Sono certamente ottime cose - riuscì a biascicare il cavaliere. Ma i nervi gli saltavano sotto la pelle.
- Belle cose? - eruppe lady Armedia - Un uomo che sia
un uomo deve avere una compagna al fianco! Una donna che sappia dividere con lui i pericoli, le insidie, le
avventure della vita! Che cavalchi con lui, al suo fianco,
pronta a combattere, a dividere sacrifici e gloria!
- …certo con i tempi che corrono…. - si sentì dire il cavaliere, ma la voce non gli sembrava la sua.
- Ma dopo aver combattuto, cosa cerca un uomo? - intervenne lady Saria - cerca l’oblio, cerca un rifugio. E
solo una donna che gli offra la consolazione delle sue
braccia, che gli permetta di dormire sul suo seno, accarezzandolo piano, solo questa è la donna che egli cerca.
Per un attimo il cavaliere si perse dentro le immagini
evocate. Ma fu solo un attimo. Si riprese in tempo.
Nessuna parve essersi accorta di nulla.
Il vento fece stormire le fronde dei noccioli.
Qualche foglia sparsa prese aria per posarsi un poco più
lontano.
Le tre dame tacevano. Il quesito era ovvio. Esse guardavano il cavaliere.
Quiete. Improvvisamente chetate attendevano che lui
parlasse, fissandolo con occhi intenti, luminosi.
Non altrettanta quiete albergava nell’animo del cavaliere.
Ognuna aveva ragione.
Ed ognuna torto.
Chi preferire? E chi offendere?
Si risolse, attendere era più pesante. Abbassò gli occhi
un attimo, prese fiato e con il fiato il coraggio.
Parlò.
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- Amo ognuna di voi. Di nessuna potrei fare a meno. E
nessuna mi sarà più cara di tutte voi. E non sarà mai mia
la scelta. Ma sarà quella tra voi di cui avrò bisogno che
verrà da sola. E mai avrò da lamentarmi perché non esiste uomo più fortunato di me.
Aveva appena pronunciato queste parole. Aveva appena
fatto in tempo a cogliere il lampo, contemporaneo, del
sorriso delle tre damigelle, che queste scomparvero in
una nuvola di fumo. Appena rischiarata da qualche scintilla azzurra. Il cavaliere fece un piccolo balzo
all’indietro, chiuse istintivamente gli occhi, portando
una mano a proteggersi il viso.
Un lieve turbinio di foglie di nocciolo. Un filo di polvere verso il sole.
Con la mano ancora davanti agli occhi, non la vide
subito.
Tra le volute di fumo che andavano disperdendosi era
apparsa una fanciulla, una sola, con i capelli colore del
grano, le braccia tornite con mani affusolate eppure forti, ampie le spalle e splendidi i fianchi, come pure il resto delle membra. E gli occhi, oh beh…
Gli occhi. Gli occhi erano due promesse.
Il cavallo è vecchio, è trattato benissimo ed ancora gli
frulla di scatenarsi sui dolci pendii primaverili.
Il cavaliere si racconta solo se ha bevuto un bicchiere o
due di troppo.
Nelle taverne si parla spesso, ed ancora, di lui.
Della notte che sfidò il cavallo della morte, e lo lasciò
indietro, a rincorrerlo, inutilmente.
Della notte in cui si prese gioco della vita, la sua.
Gli riuscì l’impresa e nulla la morte poté opporre. Perché il cavaliere non era più solitario.
Perché solo un uomo amato da una donna conosce
l’immortalità.
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Massimo Lencioni
IL CIRCO
Il circo non è mai mutato. Una corona di luci dapprima
si profila inattesa, squarcia il cielo che non dice nulla,
scorre lungo lo scalmo delle strutture e delle tele, lungo
le corde tese, e si raduna alle casse. Un grappolo di uova
bianche di luce occhieggia intermittente, lungo gli stipiti,
attorno alle insegne, sopra le locandine, e illumina le
facce di chi è in fila alle biglietterie. Grottesche e intense,
le facce delle famigliole escono così dall’anonimato
domenicale e già, un poco, si ritrovano sulla ribalta.
Il circo è grande. Non importa quale ne sia il tenore,
quale famiglia a gestirlo. Nel pomeriggio accampa uno
splendore notturno fatto di promesse che, fuori, le tende
un poco lise e mai mutate negli anni non sembrano certo
poter mantenere. Anzi, un velo di tristezza si stende
sempre, come una pioggerella stenta e fumosa, lungo la
sagoma di quelle povere piramidi di tela, tra i carrozzoni
di provincia, per gli sterrati dei lotti in concessione.
E, in effetti, anche se ormai, per quelli come me, è una
certezza, il circo è un presagio. Posato lì, prima della
mattina, da una ronda di attacchini, veloci come uccelli
migratori, in una ridda di manifesti dai colori accessi e
la tipografia eccessiva. Grossi maciste nostrani che, in
pugno le redini, si sfaldano ben presto con le piogge e
impietosamente scivolano dai muri al marciapiede. Vittime non delle belve che promettono di domare, ma di
colle a buon mercato. Biglietti omaggio profumati
d’inchiostro e già sporchi volati dalle mani di giovani
zingari a quelle dei bambini per mano ai loro babbi.
Sempre, quell’agglomerato, all’ora di apertura, si ritrova
minacciato da un chiarore grigiastro, senza vento, e un
traffico senz’anima lo frusta.
Ma dentro, sotto quella vecchia tenda, si spalanca un
tempio umido e odoroso, un meraviglioso palazzo di
piacere, che ti leva il fiato. Con la stessa trepidazione
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compi un peccato, cogli un piacere carnale. Lo stesso
stordimento doveva accogliere i cadetti nei bordelli,
quando ancora ce n’era e ancora usava accompagnarli a
perdervi la verginità.
Qui, forse, quella sensazione è più piena, godendo anzi
un guadagno dalla considerazione che il circo, rispetto
al malaffare e alla clandestinità di certi piaceri, ha potuto mantenere.
Insomma, in questa cava interna, in cui lo spazio parla e
si dispone, si compone mentre lo percorri con lo sguardo e ne ascolti l’ampiezza, il cuore ha un leggero soprassalto. L’anima, commossa e quasi vergognosa di
tanta emozione, ritrova l’ordine, si compiace di queste
figure note: le fila sovrapposte, le sedie incanalate, i
rossi porpora a segnare gli ordini, l’arena battuta, le
corde che profumano di giungla.
Naturalmente, mai sei stato nella giungla. Ma sei qui un
Salgari che si cala in questi panni, ispirato in queste matinée dagli odori e i colori di un mondo sognato e, perciò, tanto più noto.
Gli spalti vanno riempiendosi, lo spettacolo comincerà
tra poco. Il programma è ricco, i nomi degli acrobati
tanto più ridondanti – i titanici domatori, i mitici acrobati, i funamboli slavi e pallidi, i buffi clowns – quanto più
provinciale la compagnia. Le scalette di corda oscillano
impercettibilmente contro le luci fissate alle cime del
tendone. Pare sentano ora il fiato levatosi dalle decine di
persone. Un vocio eccitato e civile percorre il catino del
circo. Salgari, adesso, è un baffuto omone anacronistico
che snocciola nomi e numeri, in ordine di apparizione.
Siamo tutti con il cuore in gola e in mano carta e penna,
avidi di tutto vedere, tutto ricordare.
Un drappello di neri cavallini scuote la testa quasi in
sincrono e con zoccoli vellutati percuote la rena d’oro.
Scalpitando compie alcuni giri attorno alla pista. Lo
spettacolo sta per iniziare e lo senti nell’aria. Il biglietto
ti si scioglie nelle mani.
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Goffredo Gori
SOLUZIONE INVERNO
Il grande vecchio arriva con la solita cartella di cuoio
sottobraccio e puntuale come sempre alla riunione ordinaria mensile del comitato direttivo del capitale. Preceduto da due scherani che scostano ogni intralcio dal suo
cammino, entra alle otto in punto nella lussuosa sala dove intorno ad un maestoso tavolo ovale di mogano si
tengono le riunioni. Gli altri membri del comitato sono
già dentro ed attendono in piedi il suo arrivo discorrendo a gruppetti di due o tre. Al suo ingresso tutte le conversazioni si spengono all'istante, mentre uno degli
scherani serra la porta e vi rimane davanti ben piantato
sulle gambe leggermente divaricate e con le braccia
conserte. Il grande vecchio raggiunge il suo posto a capotavola senza degnare d'uno sguardo coloro che incontra e che rispettosamente si fanno da parte. Con un gesto
secco della mano trattiene lo scherano che ancora lo
precede dal sistemare per lui la sedia imbottita che gli è
riservata. Si siede aggiustando a suo agio la distanza
della sedia dal tavolo, estrae un fascicolo dalla cartella e
depone questa per terra accanto alla sedia e quello sul
tavolo davanti a sé. Solleva gli occhi per la prima volta
verso gli altri membri del comitato, mentre lo scherano
si sistema dietro di lui, specularmene rispetto a quello
rimasto alla porta. Seguendo il rituale prestabilito, gli
altri membri del comitato siedono allora ai loro posti.
«Signori» esordisce con voce chiara e profonda il grande vecchio, «questa riunione sarà molto più breve del
previsto e non seguiremo l'ordine del giorno prestabilito». I leggeri brusii ed i discreti colpetti di tosse che il
suo annuncio produce vengono stroncati dalla sua mano
che si alza leggermente. «Signori» riprende, «i dati parlano chiaro», batte con il palmo della mano sul fascicolo, «e sono sotto gli occhi di tutti. Almeno di tutti quelli
che hanno occhi per vedere». Tutti ascoltano con estre18
ma attenzione, giacché l'abilità del vecchio –così viene
infatti chiamato in sua assenza– nel leggere i dati ed interpretarne le conseguenze è leggendaria. Anzi, per il
fatto che disdegna l'uso delle moderne tecnologie di
analisi, incrocio e consolidazione dei dati, un'aura di
magia aleggia intorno alla sua infallibile abilità.
«Dunque» riprende dopo essersi schiarito la voce, «siamo in tutta evidenza di fronte ad una crisi primaria e
dobbiamo senza indugio correre ai ripari». Tace e guarda uno ad uno i membri del comitato. Legge la meraviglia negli occhi di tutti e batte di nuovo e più pesantemente il palmo della mano sul fascicolo. «Vedo dallo
stupore delle vostre espressioni che dovrò dilungarmi in
spiegazioni che non avevo ritenuto necessarie, data la
competenza che dovrebbe essere scontata per chi ricopre il vostro alto ruolo di rappresentanti degli azionisti.
Cercate almeno di non farmi perdere tempo prezioso. La
crisi della quale parlo sta nella crescita anormalmente
elevata e preoccupante della caduta tendenziale del saggio di profitto».
La voglia di commentare l'affermazione del vecchio
rompe i freni del rigido protocollo ed il brusio conquista
la sala. Uno dei membri più giovani del comitato osa
persino intervenire senza averne prima avuta la facoltà:
«La situazione degli azionisti che rappresento non è certamente rappresentata da un tale quadro. Mi domando…».
«La prego di osservare un comportamento consono
all'incarico che riveste. Che voi tutti rivestite». La voce
del vecchio è adesso tagliente e furente. La prospettiva
delle pesanti sanzioni che potrebbe infliggere impone di
nuovo il silenzio, un silenzio carico di tensione.
«Certamente molti dei vostri rappresentati non subiscono attualmente alcuna diminuzione del saggio dei loro
profitti. Non mi preoccupo per loro o, per essere preciso, non mi preoccupo solo per loro. E nemmeno mi allarmano le diminuzioni che alcuni azionisti patiscono a
tutto vantaggio degli incrementi di cui altri beneficiano.
Non siamo certo un'associazione nella quale cane non
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morde cane, anzi. Quello che m'impensierisce seriamente è la diminuzione del saggio di profitto consolidato ed
in particolare la sua tendenza complessiva, che non esito
a definire nefasta. Come ben sapete tale perdita, contrariamente alle credenze, non deriva dagli investimenti
che i nostri rappresentati effettuano: essi conoscono bene i metodi per ottenere finanziamenti senza rischi ed a
carico di terzi. La sua causa reale è l'erosione continua
che il lavoro si ostina a far subire ai nostri margini di
guadagno. Nel passato abbiamo combattuto questa vera
e propria piaga che l'ottusità del lavoro c'infligge con
innovazioni brillanti e nobili: la schiavitù, le conquiste
imperiali, lo sfruttamento ad oltranza di terra, acqua,
piante ed animali, la mondializzazione. È inutile che adesso mi dilunghi in un'elencazione certo piacevole, ma
da tutti conosciuta, anche dai nostri avversari. Signori,
dobbiamo trovare un nuovo ordine nel quale i nostri
rappresentati possano continuare in pace l'accumulo del
profitto». Nel silenzio perfetto della sala, raccoglie la
cartella di fianco alla sedia e prende il fascicolo dal tavolo. Mentre ripone l'uno nell'altra, si alza e conclude:
«Tra una settimana voglio i vostri contributi alla soluzione del problema. Torchiate i vostri sottoposti e sfruttate le risorse che avete. Ci rivediamo tra due settimane
per decidere».
Lo scherano che stava dietro la sedia precede il vecchio
mentre questi si dirige all'uscita; l'altro scherano spalanca prima la porta e si sistema poi accanto al primo, ricostituendo la formazione con la quale erano arrivati.
Due settimane dopo il vecchio entra di nuovo nella sala
riservata alle riunioni del comitato direttivo del capitale.
L'animazione eccitata degli altri membri è palpabile nel
silenzio carico d'attesa che precede l'inizio dei lavori.
«I vostri contributi» inizia senza preamboli, «si sono rivelati per lo più banali e di scarsissima utilità. A tempo
debito, mi riservo di prendere i provvedimenti che s'impongono nei riguardi di coloro che hanno dato prova di
tale desolante pochezza. Altre proposte, invece, si sono
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rivelate interessanti e degne di nota». Uno sguardo carico di arcigna approvazione parte dal vecchio verso il
giovane membro del comitato che aveva osato interromperlo la volta precedente.
«Grazie a queste poche proposte valide ed all'attenta rielaborazione che esse hanno subito per opera dei miei
servizi, ho identificato la soluzione che fa per noi. Uno
dei miei servi è incaricato di esporvela». Ad un suo
cenno lo scherano di guardia dietro le sue spalle apre
una porticina secondaria, fa entrare un uomo di mezz'età
dall'aria spaurita e lo conduce accanto al vecchio. «Parla
e sii conciso ed esauriente» ordina questi.
L'uomo tossicchia nervosamente ed inizia a parlare in
un tono flebile ed indeciso che, confortato dall'attenzione dell'uditorio, diventa sempre più sicuro:
«La soluzione strutturale per il problema posto è l'inverno. La tecnologia attuale per il controllo climatico permette con una certa approssimazione di instaurare a piacimento la stagione invernale. Le limitazioni attuali possono senz'altro essere superate, anche se, come spero di
dimostrarvi tra poco, è conveniente lasciare un certo
margine di alea controllata. Innanzi tutto è necessario
che l'inverno venga percepito come il contraltare di un
pericolo mortale per l'umanità. Il riscaldamento globale
e le turbolenze climatiche che da esso derivano corrispondono perfettamente a ciò che cerchiamo. Già adesso, malgrado la nostra, ehm, vostra politica di minimizzazione di questi fenomeni per via degli alti costi che la
loro riduzione implicherebbe, essi sono generalmente
percepiti come nocivi e, dunque, una loro ulteriore demonizzazione non dovrebbe essere imputata alle nostre,
ehm, vostre macchinazioni. Il punto centrale è che l'inverno dovrà apparire come la fredda e salutare risposta
al surriscaldamento del pianeta, come la nuova frontiera
dell'umanità che ribalta ed annulla gli equilibri, i conflitti e gli schieramenti precedenti. Vivere d'inverno apparirà come biologicamente ed eticamente corretto. Il vento
freddo e le tormente di neve ripuliranno i corpi e le coscienze dalle corruzioni del caldo. In breve, l'inverno
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diventerà un bene prezioso e scarso che tutti brameranno. Si possono prefigurare chiaramente scenari di competizione tra classi sociali, tra regioni o interi stati in
nome del sacrosanto diritto ai rigori invernali. Sotto
questo nuovo vessillo saranno combattuti conflitti, sorgeranno scuole di pensiero filosofico ed economico, le
scienze mediche, biologiche e naturali seguiranno nuove
piste, muteranno radicalmente le abitudini alimentari e
quelle turistiche. Insomma, è chiaro: conflitti e scarsità,
i due asini da soma al servizio del profitto, lavoreranno
a pieno ritmo stimolati dall'inverno.
Non mi soffermerò ulteriormente sulle caratteristiche
intrinseche dell'affare inverno, né sulle ricadute molteplici che l'adozione di questo nuovo paradigma comporta. Tutte le vostre domande e tutti i vostri dubbi troveranno risposta nei seminari di approfondimento e personalizzazione che sono stati approntati e che saranno dispensati su domanda. Vorrei adesso sottolineare alcuni
aspetti d'importanza fondamentale che non devono essere persi di vista. Il primo è che, mentre l'aspirazione
all'inverno e ad una sua qualità senza falle devono essere generalizzati, l'accesso all'inverno e la sua attuazione
concreta devono restare parziali ed imperfetti. La creazione di strutture geo-politiche e sociali in competizione
per l'inverno sarà fonte di profitto. Quindi bisognerà che
vi siano dei vincitori che pagano per conservare l'inverno conquistato e degli sconfitti che pagano per entrarne
in possesso. Il fondamento dovrà essere una sorta di teoria dell'equilibrio, in base alla quale un grado di temperatura in meno per qualcuno deve necessariamente corrispondere ad un grado in più per qualcun altro. Per fortuna le basi scientifiche, religiose e sociali capaci di alimentare il successo di tale teoria esistono già; occorrerà finanziarle ed incrementarle in modo che il concetto
prenda forza ed acquisti lo status di principio naturale.
La qualità dell'inverno inoltre rimarrà imperfetta: improvvise giornate di caldo umido con il contorno di invasioni repentine di zanzare e di deliquio dei sensi dovranno sempre poter accadere. In questo modo la bontà
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corroborante del freddo invernale sarà apprezzata ancor
più ed aumenterà la volontà di conservare e preservare
quel bene prezioso. Parimenti i disgraziati che non fruiranno della stagione invernale dovranno avere di tanto
in tanto il sollievo di un vento gelido e la sorpresa di
una nevicata depuratrice. Così sarà riattizzato il loro desiderio d'inverno ed essi potranno essere spremuti fino
all'osso con progetti e proclami di avanzamento egualitario verso il diritto al freddo.
Infine occorre comprendere a pieno l'importanza delle
zone depresse alle quali sarà precluso l'inverno. È assolutamente indispensabile che esistano dal momento che
esse saranno vitali serbatoi di disperazione che, com'è
noto, permettono la fornitura agevolata di lavoro svilito
ed a buon mercato.
Questo è tutto. Se ci sono domande…».
L'uomo guarda incerto il vecchio che annuisce e blocca
con un gesto della mano il fermento crescente nella sala.
«Va bene così. Per la chiarezza della tua esposizione avrai un emolumento supplementare» dice al servo e fa
un rapido cenno allo scherano dietro la sedia perché lo
conduca via.
Poi si rivolge ai membri del comitato e domanda: «Ebbene, cosa ne pensate?».
Una lunga salva d'applausi entusiasti è la risposta spontanea e poco protocollare degli astanti.
La giornata è stata intensa e soddisfacente. I seminari,
gli incontri particolari, le discussioni ed i chiarimenti
hanno riempito completante il mattino, il pomeriggio e
parte della sera. Mentre rientra al suo palazzo, sprofondato in una comoda poltrona della sua lussuosa limousine nera, il vecchio osserva affascinato la tormenta di
neve attizzata dal vento polare che spazza le strade. A
cento metri dal palazzo obbedisce ad un desiderio improvviso ed ordina all'autista di accostare e di seguirlo
lentamente mentre lui proseguirà a piedi. Con un cenno
intima agli scherani di rimanere a bordo. Non vuole es-
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sere disturbato durante la sua breve passeggiata rinfrescante e purificatrice.
Tremante per il freddo glaciale, risale quasi subito in auto, ma ormai una polmonite fulminante l'ha colto e lo
ucciderà nel giro di poche ore.
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Francesca Moretti
IL FLAUTO E ANNA
I miei passi si trascinano, il mio udito ha bisogno di rumori forti ed i miei occhi non possono fare a meno degli
occhiali, però ho ancora buona memoria ed
un’intelligenza viva. Non so quanti giorni ho davanti,
ma non dimentico nessuno di quelli che ho dietro.
Abito in una città di provincia, proprio in centro, dove
ho acquistato un appartamento al primo piano, le cui
scale saranno la mia dannazione, ma non per ora.
La mattina mi sveglio presto, metto una fetta di pane in
forno e il caffè al fuoco, poi mi affaccio alla finestra e
controllo il tempo. Dopo colazione vado in piazza a dare
da mangiare ai piccioni, poi torno a casa e suono il mio
strumento musicale preferito: il flauto. Il flauto è la mia
vita, con le sue voluttuose melodie. Per un momento mi
immergo nella danza del suono, dimentico me stesso e
le mie miserie, per ballare con questa “signora” sconosciuta che mi trascina in mondi pieni di armonia e fantasia. Mentre suono penso a ciò che nella realtà oramai è
troppo lontano dal presente: la mia giovinezza. E la giovinezza sale nel ricordo mentre dal flauto escono note
senza tempo, piene di passione e sentimento. Quando la
musica che esce fuori è bella la trascrivo sul pentagramma per non dimenticarla e poi la faccio ascoltare
ai miei studenti.
Alle dodici in punto inizio a prepararmi il pranzo, poi
mi piace fare un riposino. Leggo il giornale e dopo mi
concedo una passeggiata. Alle sei viene uno dei miei
studenti a cui insegno a suonare il flauto e la lezione dura un’ora precisa, dopo di che mi preparo la cena.
Le giornate si ripetono sempre uguali eccetto la domenica. Di domenica alle 9.15 prendo l’autobus che porta a
Villa Santa Maria. Villa Santa Maria è un ricovero per
anziani gestito dal Comune. Entro e come sempre cerco
fra i presenti lei … Anna, la trovo e le vado vicino.
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- Ciao.
- Chi sei? Risponde lei dolcemente.
- Sono tuo marito.
- Io non ricordo di avere un marito.
- Oh sì che ce l’hai e una volta ne eri anche orgogliosa.
Non guardarmi adesso, ero un bel giovane allora.
Lei sorride.
- Ti ho portato una torta di albicocche e delle caramelle
mou.
- Mi piacciono entrambe, come fai a sapere i miei gusti?
- Sono tuo marito.
- Non ricordo di avere un marito.
- Tu eri mia moglie ed eri la più bella ragazza che avessi
mai visto, ci incontrammo in treno, io andavo verso il
fondo e tu risalivi verso l’inizio del treno e ad un certo
punto ci siamo trovati di fronte. Parlarti fu inevitabile
quanto bere se si ha sete.
Le racconto la nostra storia in continuazione e lei regolarmente la dimentica. Le racconto di situazioni vissute,
di quello che lei mi diceva, per cercare di farla ancorare
alla realtà, ma lei sfugge. Ogni volta dimentica. Per lei
sono uno sconosciuto sempre nuovo, ma per fortuna le
ispiro fiducia e non rifiuta i miei racconti che la fanno
divertire.
Se nel parlare uso frasi troppo lunghe, quando arrivo in
fondo lei si è già dimenticata di come ho iniziato e così
devo ricominciare da capo. La mia presenza è un conforto anche se sparisco dalla sua mente cinque minuti
dopo che sono uscito dalla porta.
Io ricordo tutto anche per lei, per poterglielo raccontare.
A volte, stanco di ripetere le stesse cose, pur se importanti, ho inventato un passato, mi sono presentato come
un vero sconosciuto, ho raccontato storie. È tornata
bambina, innocente e fiduciosa, paurosa e sentimentale,
di buon umore grazie alla sua indole felice.
Io invece sono triste, vederla così mi riempie di angoscia. Vorrei averla vicina anche a casa, poter contare su
di lei, pranzare insieme e dormire insieme ed invece non
è possibile.
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È notte, mi addormento col gatto acciambellato sul cuscino ed il flauto sul comodino.
Domenica prossima le porterò dei fiori.
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Andrea e Paolo Bocconi
LA MUSICA DENTRO (MA CHI È CHET BAKER?)
“Ma chi è Chet Baker?”
A questa inattesa domanda di suo fratello, Paolo esibì la
stessa espressione incredula che apparve sulla faccia
della madre quando lui, tanti anni prima, le aveva chiesto: “Ma chi è Mussolini?” Poi pensò che Andrea aveva
qualche attenuante per non aver mai sentito parlare di
Chet Baker; lui stesso aveva scoperto da poco che la
musica nel mondo non gravitava necessariamente intorno al Festival di Sanremo.
Una sera d’estate un militare americano, rimasto in Italia dopo la guerra, aveva fatto ascoltare a lui e a un
gruppo di amici un disco che aveva appena ricevuto
dall’America; il brano era Sixteen tons e aveva risvegliato in Paolo una mai sopita curiosità verso i filoni
musicali d’oltre oceano.
“È difficile spiegarti chi è Chet Baker, forse la cosa migliore da fare e che io e te prendiamo la bicicletta e andiamo a fare un giro di Mura e vedrai che troveremo la
risposta alla tua domanda.”
La proposta era caduta in un silenzio incredulo. Un ragazzo di diciotto anni non si porta dietro il fratellino, se
non ci è obbligato. I genitori si scambiarono uno sguardo sorpreso, fu la mamma a rispondere, anche se nessuno le aveva chiesto niente…
“Bene, ma tornate presto. Tu devi prepararti per il compito di greco, se non sbaglio.”
Ancora raccomandazioni, ma loro già scendevano le
scale di corsa, facendo tremare tutto. Li inseguivano
raccomandazioni inutili.
Le Mura di Lucca sono lunghe quattro chilometri, perfette per un po’ di allenamento, a piedi o in bici. Andrea
spingeva forte per stare dietro al fratello: aveva una
Bianchi Rossa, col cambio Campagnolo a tre rotini. La
prima bici col cambio e ne abusava, cambiando rapporto
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in continuazione anche se l’anello sulle Mura era ovviamente tutto pianeggiante. Paolo invece pedalava con
un rapporto lungo, da fondista, e gli stava avanti senza
rendersi conto che il suo passo normale era troppo impegnativo per il fratellino, che però sarebbe morto piuttosto di dirgli: rallenta.
Fu un sollievo per Andrea vedere che dopo Porta Santa
Maria Paolo si rialzava e pedalava senza mani...
“Perché ci fermiamo?”
Paolo aveva lasciato la bicicletta appoggiata a una panchina e si era messo a parlare con due compagni di
scuola. C’erano anche altri grandi.
“Ragazzi - disse agli amici- questo è mio fratello, si
chiama Andrea.”
Il ragazzino si sentì orgoglioso e smise di chiedersi perché si erano fermati. Tutti guardavano l’orologio e poi
riguardavano il grande muro grigio di fronte, più alto
delle stesse mura... Il muro del carcere.
“Zitti, zitti” fece uno.
Una nota tenuta scavalcò il grande muro: laggiù, là dentro, qualcuno suonava. La nota, ormai alta nel cielo,
cominciò a spandersi in tutte le direzioni in onde lente e
lisce, ricomponendo nell’aria i frammenti di un’anima.
Paolo si avvicinò all’orecchio di Andrea: “È una tromba, Chet Baker, il più grande dei bianchi.”
Neanche a Messa la domenica la gente stava così in silenzio. Ogni tanto qualcuno in bici si avvicinava per capire quello che succedeva lì, poi se ne andava.
Andrea era così contento di essere con il fratello che
non chiese mai di andare via. Quando finì e tutti presero
le bici chiese al fratello: “Ci torniamo?”
“Sì, ma non dire nulla a papà e mamma.”
Questo era un dono in più, un segreto da condividere.
Era l’ottobre del ‘61. Uno di quei mesi con la nostalgia
dell’estate. Il piovoso autunno lucchese quell’anno tardò, Paolo e Andrea fecero molti altri giri di Mura in bicicletta. A casa Paolo suonava ad esaurimento la musica
di Chet, così scoprì che oltre al suono della tromba aveva anche una voce, ma strana, diversa da tutti quei can29
tanti italiani mezzi tenori; sembrava cantare solo per se
stesso con quella vocina che ti arrivava diritto al centro
della malinconia. Sui giornali nessuno parlava più della
grande tromba bianca. Andrea imparava i nomi di Charlie Parker, Dizzie Gillespie, Lester Gordon, Gerry Mulligan.
Un giorno, arrivati puntuali al muro della prigione, c’era
una ragazza ad aspettarli: anzi, ad aspettare Paolo. Era
molto carina, aveva i capelli tirati dietro in una coda di
cavallo e non degnò Andrea di uno sguardo. Si sistemava continuamente la gonna, guardandosi attorno. Forse
aveva paura che passasse suo padre o forse lo faceva così, senza ragione. Quando si sentirono le prime note di
Almost blue fece un gridolino eccitato, ma era chiaro
che si annoiava molto. Dopo dieci minuti propose a
Paolo di fare un giro. Lui disse al fratello di aspettarlo e
si avviò verso il baluardo.
Andrea restò lì, furioso senza capire perché, con un vago struggimento che si intonava benissimo alle note di
Chet. Anche il giorno dopo c’era la ragazzina, si ripeté
la storia del baluardo e il giorno dopo ancora Andrea
andò a giocare a pallone con gli amici del palazzo INCIS. Paolo poi non gli aveva chiesto di venire con lui.
Anche in casa cambiò musica, in Italia ora c’era il rock
and roll, Paolo aveva comprato Ventiquattromila baci di
Adriano Celentano e Claudio Villa dovette dividere il
regno con un certo Modugno. Si smise di ascoltare il
jazz, con evidente sollievo dei genitori.
Poi cominciò a piovere, il lungo monsone autunnale
freddo di Lucca, e a nessuno veniva voglia di gite in bicicletta o di pallone. Paolo passava la maggior parte del
tempo al telefono, bisbigliando con voce bassissima.
Andrea prese il suo primo quattro a latino e si innamorò
senza alcuna speranza della Torciglioni. Non lo disse a
nessuno.
Passò un anno.
“Vuoi venire al concerto?”
“Che concerto?”
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“Chet Baker. Ha finito la pena. Esce e fa un concerto al
Teatro del Giglio.”
L’idea non piaceva molto a suo padre: era pur sempre
un drogato. Ma il fatto che fosse al Giglio e la lista dei
notabili che volevano esserci, fecero pendere la bilancia
verso il sì. Del resto si era disintossicato in carcere. A
volte, le maniere dure… diceva suo padre guardando la
madre, sempre troppo morbida con i figli, secondo lui.
Andrea non era mai stato a teatro. La madre lo vestì elegante.
In prima fila c’era lo psichiatra che aveva cercato di curarlo, Lippi Francesconi. Era lui che lo portava tutte le
sere dalla clinica Santa Zita al Bussolotto, il night versiliese dove suonava. Si deliziava del suo jazz fino a tardi
e poi lo riportava in clinica. Quella maledetta sera
d’agosto lo psichiatra aveva un impegno, Baker era andato da solo e si era fatto nel bagno di una stazione di
servizio. Lo avevano arrestato lì.
Andrea guardava i velluti rossi e stava ben fermo sulla
poltroncina, osservando tutto. Era l’unico ragazzino in
platea. Ed eccolo, quella musica ora aveva un corpo e
un volto, che le somigliavano. Un uomo piccolo e agile,
sembrava uno di quei pugili bravi, che ci tengono a salvare la faccia. Ma il naso li tradisce. Molto tempo dopo,
qualcuno gli avrebbe rotto tutti i denti. Facendo tacere la
miglior tromba bianca per due anni.
Chet quella sera suonava come se non ci fosse nessuno,
ma il suo magnetismo se li portava tutti dietro. Quando
riconoscevano un pezzo, i fratelli se ne bisbigliavano il
nome all’orecchio.
“Meglio di prima”, sentirono dire a qualcuno dietro di
loro.
Qualcuno indicava una bella donna con i lunghi capelli
scuri, la sua donna, Carol.
Quando suonò My Funny Valentine capirono che il concerto era finito. Nell’estate era finito anche il primo
amore di Paolo e c’era stata la maturità. I Beatles erano
alle porte.
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Erano grandi i fratelli. Erano uomini nel 1988, quando
una scarna notizia riportò che Chet Baker era morto ad
Amsterdam, forse cascato da una finestra, forse chissà.
Andrea aveva telefonato a Paolo per avvisarlo: ti ricordi?
Paolo prese il walkman, ci infilò il nastro di Baker e andò davanti alle mura del carcere, per sentirselo in santa
pace sulla panchina. Quel giorno non c’era nessuno. Solo lui, Chet e My Funny Valentine.
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Giovanna Mulas
IN QUEL DICEMBRE CHE DI DICEMBRE POCO
AVEVA (PANAS)
Si domandava, Leila, perché Gavina uscisse sempre,
dico sempre, a quell’ ora della notte.
Precisamente alle 23.35.
Alle 00.55, Gavina faceva ritorno, in silenzio così
com’era uscita.
Leila si domandava dove effettivamente andasse, cosa
facesse, chi frequentasse. E la sua curiosità quasi si faceva morbosa, per come conosceva bene la compagna
del corso d’università, in quel di Firenze ed in quel dicembre che di dicembre poco aveva, poco fiutava d’ inverno in verità.
Un solicello tiepido e vispo, infatti, dall’ inizio di ottobre aveva scaldato tetti e cuori degli italiani,interrotto
brevemente da piogge insicure e temporali che, Gavina
cincischiava preoccupata, - Nella mia Sardegna si fanno
alluvioni-.
Però, Gavina amava l’acqua.
Rimaneva ore, a cantare nenje sotto la doccia. Leila se
n’era accorta, preoccupandosene non poco. Dico, ore
anche quando l’acqua da calda si faceva prima fredda,
poi naturalmente gelida. E una doccia gelida, in un dicembre seppur scaldato da solicello allegro, non poteva
rappresentare il massimo dei comfort.
Una mattina l’aveva scorta così, come si scorge un passerotto pallido e alla fame –Gavina tornava dalla Sardegna con forme di pecorino e ognibendiDio che ti raccomando. Eppure aveva l’appetito scarno di un uccellino
da latte e biscotti secchi- affacciata al terrazzotto che
dava, ad angolo, su Via di Selva Candida ed il viale dei
Gigli. Nuda e magra, alta – forse stranamente troppo alta, per essere davvero sarda- i capelli lunghi sulle scapole sporgenti lasciati scorrere accarezzati dal vento, dalla
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pioggia noiosa, ritmica. Fissava, Gavina, un punto imprecisato della sua realtà, fissava il Dott. Cecco che,
come ogni mattina alle cinque spaccate – e cascasse il
mondo se oltrepassava di un solo minuto le cinque!portava il suo pastore maremmano, paletta e scopina in
pugno, a benedire pali e frasche.
Forse fissava il panettiere Angioino che a quell’ora
staccava un attimo, una decina di minuti circa, per il terzo caffè della giornata; esattamente caffè e cornetto caldo, visto che l’ Angioino teneva origini romane. Il camioncino delle guardie giurate che passava e ripassava
eppoi si fermava a prelevare dal Banco dei Paschi di
Siena, mitra spianati a difendere i soldi dei poveri dai
poveri, la polizia con le sirene spiegate o la signora Cinzia Martelli in Matteucci che rientrava (tic tac – tic
tac) dalle sue scorribande notturne in minigonna, tacchi
a spillo e parrucca rossa en pendant col rossetto sbavato.
O forse Gavina, semplicemente, fissava l’orizzonte ed il
cielo oltre. Quel cielo di Sardegna così lontano forse,
forse troppo. Si, certo. Doveva essere così. Ma perché
fissarlo nuda in pieno inverno e con la pioggia a frusta?
L’aveva chiamata, quella mattina, Leila lo ricordava
come fosse ieri.
- Gavina?
-…Gavina?- ripeté più forte, rabbrividendo per il
freddo.
- Vieni dentro, possono vederti, sei…sei nuda.
E Gavina, come in trance, si voltò a guardarla.
E Leila fu attraversata da un brivido di orrore tale da
paralizzarle tronco e nuca, da rizzarle i peli sul corpo.
Fu un istante, un solo unico istante, però.
Gli occhi dell’ altra, La Creatura, l’avevano fissata di
odio e dolore, un dolore d’abisso, neri, segnati, scuri,
profondi e vuoti, vacui.
Ma Gavina, subito, tornò la ragazza di sempre.
- Entro subito. Avevo mal di testa, volevo prendere un
po’ d’aria. Tutto qui. Non devi preoccuparti.
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- S…s…sì - aveva mormorato l’altra, pensando che forse quegli occhi, quell’inferno, se l’aveva sognato, vista
l’ora.
Ecco; proprio così era andata, quella mattina.
Dalla volta Leila aveva rinunciato a chiedere all’amica
dove andasse e perché a quell’ora, chi frequentasse. Che
sapeva di lei, dopo tutto? Che veniva dalla Sardegna, da
che punto preciso non avrebbe saputo dirlo. Di una famiglia d’origine neanche l’ombra. Nessuna telefonata in
due anni di corso, nessuna lettera, nessuna visita almeno
sotto le feste comandate. Di fidanzati neanche a parlarne. Nebbia fitta, insomma. Leila aveva imparato ad accettare la sua amica così com’era, e forse com’è giusto
che sia: senza passato da chiacchierare, solo vita da
camminare assieme, ora e, si spera, domani. L’ accettava coi suoi infiniti silenzi di mare e montagna, la discrezione, i suoi consigli solo se richiesti, mai una risata
fuori luogo o forzata, la camera sempre in ordine, oggi
pulisco io e va bene, domani cucino io e va bene; non
preoccuparti: nessun disturbo.
No, nessuna domanda a Gavina.
Un oscuro presentimento avvertiva Leila che non doveva;
che esisteva un confine che non andava valicato.
E così lasciava scorrere i giorni, e le notti, come dovevano scorrere, senza alcuna forzatura, senza porsi domande non porte seppure, suo malgrado, di Gavina cominciava ad avere timore. Non poteva definirlo terrore,
questo no, ma lo sfiorava davvero da vicino. Evitava di
frequentare la cucina la notte dopo le undici, ad esempio. Un paio di volte le era capitato di avvisare lo stimolo di urinare talmente forte da dormire coi crampi alla
pancia. Ma niente, la resistenza era stata stoica. Così,
all’alba, già due volte s’era dovuta cambiare, e lavare in
silenzio, lenzuola e coperte.
Spesso la notte la coglieva una fame nervosa –aveva già
sofferto di bulimia in età adolescenziale- indescrivibile
ma tant’è; apriva il cassetto e le sigarette stavano lì ad
aspettarla. Era arrivata a fumarne due pacchetti, prima
di addormentarsi.
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Ed oggi non era più tanto sicura che la presenza di Gavina nell’appartamento le stesse facendo così bene. Le
dava nervosismo, terrore (almeno un pochino), insonnia,
fame, fame e fame che non trovava sazietà. Anche gli
studi cominciavano a risentire dello stato dei suoi nervi
e Franco, il suo ragazzo da una vita (si sarebbero sposati
a laurea presa, diceva da sette anni a questa parte. Lui
avrebbe lavorato nell’azienda di tonno in scatola del padre, chiaramente come contabile, lei alla segreteria. Sarebbe diventata la segretaria di Tonno Padre e a lui avrebbe dato tanti - almeno tre o quattro- tonnini inscatolati e pronti a ereditare il patrimonio di famiglia.) la trovava
…come dire? Diversa. Si, sei diversa Leila…hai qualcosa…non so…anche il tuo aspetto sta cambiando…sei
così…magra…non ti vedevo così da quando hai abortito, si. Oh, no, non piangere! Era necessario tesoro…gli
studi, sai. Penso tu debba fare degli esami tesoro…ne
ho parlato con tua madre ecco…pensiamo tu sia un poco esaurita, sai, gli studi…che ne dici?.
A Leila era scappato da ridere, ma quella che doveva
sembrare una risata le era uscita con un suono roco,
strano, un irripetibile graoooahhh ah! senza capo, né
senso, né coda. Dunque Leila non ce la faceva più. Aveva
deciso che quella notte, o la va o la spacca, avrebbe saputo la verità su Gavina, se verità c’era. E se non c’era,
meglio così; tutto avrebbe continuato a scorrere come
prima.
Attese che arrivassero le 23. 30, prima di sguasciare
fuori dalle coperte così come si era coricata tre ore prima, nella norma, dopo aver dato la buonanotte a Gavina
e …scusami…sono molto stanca. Oggi non riesco a vedere la fine del film. A domattina.
Uscì da sotto le coperte chiaramente già vestita e pronta.
Soltanto le scarpe da ginnastica –quelle prese dai cinesi
in piazza Duomo- indossò, in un silenzio di tomba, trattenendo il respiro. Fu quando sentì chiudere la porta
d’ingresso che uscì dalla cameretta. Attese d’ udire an-
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che lo scatto del portoncino dell’ascensore, e scappò lesta dall’appartamento.
Volò per le scale come il vento, piano, piano. Ed eccola
in strada seguire a distanza, accucciandosi tra muri e
macchine in sosta, la figura sottile di Gavina, eccola infrattarsi dietro un lampione, una porta, l’ingresso illuminato a giorno di un night club.
Camminarono per tre ore circa tanto che Leila pensò più
volte di desistere, di tornare in casa al sicuro, al caldo
del suo letto e al cd di Louis Armstrong. Poi i lampioni
presero a diradarsi, la strada a farsi prima acciottolato e
ghiaia, poi semi asfalto di periferia, infine sentiero di
campagna. Latrare di cani, urla di civette. Buio, troppo
buio e freddo. Scorreva il Fiù Nero, lì vicino. Scorreva
il fiume, che in quel periodo dell’anno non poteva dirsi
il massimo della sicurezza viste le ultime piogge e visto
gli scarichi delle industrie ammassate più in alto, a valle.
Leila vide Gavina proseguire sicura tra i pioppi alti, carezzarne i tronchi, avvicinarvi il viso quasi a parlarci e
forse, forse qualcosa davvero sussurrava ( a chi o cosa e
chi o cosa le rispondeva?) ma da lì, accidenti, da quella
distanza poco o niente poteva distinguere.
Gavina raggiunse la riva del Fiù Nero e lì, Leila, vide.
Strabuzzò gli occhi, vide. E udì.
Altre donne c’erano lungo la riva. Sei o sette avrebbe
potuto contarne.
Nude e bianche, disposte in fila, magre e spettrali, i lunghi capelli di fili di stoppia lungo le scapole e i seni secchi, senza vita né latte. Urlavano, le streghe, urlavano
alla luna e le nebbie una nenja che canto doveva essere
e nel fluttuare delle acque si perdeva, tra le nebbie appariva, e scompariva. E battevano dei panni con ossa di
morto, li battevano e li battevano ancora, a ritmo di urlo,
instancabili, smunte, vuote d’anima.
Gavina levò gli abiti, le raggiunse sulla riva e , a loro, si
unì. Il canto si fece forte, più forte l’ululato a nebbie e luna.
E il canto, un istante, un attimo, chetò. Gli occhi, quei
fossi neri, tutti, puntarono in direzione di Leila. I fumi
della nebbia s’allungarono a rivestire, sudario, ogni ombra.
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Fu quando la luna si scoprì interamente dalle nebbie che
la ragazza non le vide più.
In qualunque direzione guardasse, loro, gli spettri, non
c’erano.
Un rivolo di sudore ghiacciato le percorse la schiena.
Poi un grido, un altro, un altro ancora, nel buio.
Leila avvisò il battito del cuore farsi stranamente lento,
imperturbabile nonostante l’orrore.
Leila
Leilaaaaaaaaaaaaaa
Vieniiiiiiiiii
Lei…laaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!
Leila, in silenzio, si spogliò degli abiti.
Tolse le scarpe e non avvisò il freddo
Non avvisò l’orrore
Puntò i pioppi
Leilaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
Ne carezzò i tronchi
Fregò i capezzoli e il pube su foglie e sporgenze
Lei … Laaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!
Puntò gli occhi alle acque e vide, nel buio e le nebbie le
vide, ancora
Gavina a braccia aperte, ad aspettare
Leilaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
Le unghie come artigli e gli occhi di pozzo e d’inferno
E Leila raggiunse le Panas* lì, sul ruscello
E alle sorelle, si dice, finalmente si unì.
Si dice che ancora, la notte e tra i pioppi, le nebbie e la
luna, se ne senta il canto.
PANAS: Chi erano
Secondo la tradizione popolare sarda erano donne morte di
parto che tornavano temporaneamente fra i mortali con le
stesse sembianze che avevano da vive.
Essendo morte in un momento particolare della loro esistenza (considerato "impuro"), erano condannate a lavare i
panni della loro creatura per un tempo che variava dai due
ai sette anni.
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Bruno Magnolfi
L’AUTOSTRADA DEL SOLE
La mia casa è sotto al margine del cavalcavia di un sentiero poco frequentato che scavalca l´autostrada. Quando mi metto a dormire, durante la notte, mi sembra di
vivere il confine tra la civiltà e la natura. In quel punto,
attorno a quella mia specie di abitazione, ci sono solo
campi verdi a distesa tra file sfumate di alberi, e per arrivare al paese più vicino ci si impiega a piedi più di
mezz´ora. Sopra la mia testa transitano pochi mezzi,
lungo quella via non ci passa quasi nessuno. In autostrada invece il traffico non termina mai, è un fiume continuo di materiale umano e di merci che scorrono accanto
a me, quasi ai miei piedi. Certe volte mi chiedo se qualcuno che guida tutti quei mezzi non immagina che ci sia
io al margine della sua traiettoria, e poi qualche volta
sogno che qualcuno di loro si fermi e mi porti con sé.
Non immagino un posto preciso dove recarmi, però dentro di me formicolano spesso così tante voglie che devo
per forza ricacciarle all´indietro, e questo, penso, non è
da persona, ed io, certe volte me lo ripeto per darmi più
forza, sono una persona, anche se sono da solo, e anche
se sono arrivato fin qui non mi ricordo neanche più in
quale maniera. Ho ricavato due pareti con delle lamiere
lungo il margine del cemento armato del ponte, e davanti a me, con delle assi di legno, mi chiudo la notte
all´interno del mio spicchio di mondo. Il rumore continuo del traffico sull´autostrada è fortissimo, però ci si
abitua. Ho una vecchia bicicletta con me, e con quella
durante le belle giornate arrivo fino al fiume, e lì a volte
mi lavo, prendo l´acqua che mi serve per la mia casa, mi
siedo, osservo la natura bellissima di quella campagna.
Qualche volta, di giorno, passano da sotto al cavalcavia
gli operai che svolgono le manutenzioni, oppure le
squadre per il taglio dell´erba al margine
dell´autostrada, con i loro trattori giganteschi, le attrez39
zature meccaniche e tutta una serie di segnali luminosi
bellissimi, e a volte mi salutano, mi gridano qualcosa
nella loro maniera: sono calabresi, rumeni, marocchini.
Certe volte li invidio, mi sembrano persone importanti,
svolgono un mestiere che li pone al disopra di tutti: lavorano per gli altri, penso, per la sicurezza di quelli che
non si accorgono neppure che c´è chi li veglia. Ho conosciuto Artur, un giorno, uno della manutenzione
dell´autostrada, con la polvere e l´asfalto appiccicati sui
suoi vestiti arancione ed il viso di chi non ride mai. Ha
detto che la vita è uno schifo, ma io gli ho sorriso, non
poteva dire sul serio. In primavera l´erba cresce giorno
per giorno, siamo già usciti da questo inverno freddo e
piovoso, tra qualche mese lavorerò nei campi vicini a
raccogliere gli ortaggi, poi i pomodori, forse mi prenderanno per tagliare l´uva. La mia vita è naturale, con la
luce del giorno e con le stagioni, ed i miei sogni viaggiano con gli autoarticolati che passano davanti a me.
Sembrano tutti uguali, ma non è vero. Uno di loro prima
o poi mi porterà via, in fondo a questo braccio di autostrada, e sarà là che inizierà tutto il riscatto della mia vita. Ci sarà qualcuno su un camion che si fermerà sulla
corsia di emergenza, sorriderà senza chiedermi niente,
ed io andrò assieme a lui e mi ricorderò che sono
anch´io come lui, una persona, e tutto inizierà ad andare
in maniera migliore, ed il futuro mi farà scordare del
tutto di avere abitato sotto questo cavalcavia. Forse tornerò indietro, un giorno in cui tutto scorrerà per me nella maniera migliore, cercherò di ritrovare questo cavalcavia, e gli alberi, i campi, anche il fiume, e aspetterò la
squadra della manutenzione dell´autostrada, e sarò tanto
contento di ritrovare tutte quelle persone, perché potrò
dire ad Artur che si era sbagliato, che la vita non era
come diceva lui.
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Renato Pezzano
CASA DEL MATERASSO
Era il centro commerciale più grande che avesse mai visto in vita sua, quattro piani zeppi di negozi di ogni genere, dal giardinaggio al vestiario, dalle scarpe agli articoli sportivi, addirittura un salone espositivo di autovetture, e poi ristoranti, parco giochi, cinema...
Nel settore giocattoli per poco non aveva comprato un
galeone pirata da costruire di dimensioni esagerate, si
era lasciato tentare anche da una Ferrari in scala uno a
quattro, praticamente un metro di modello, che non avrebbe saputo proprio dove mettere una volta arrivato a
casa...
Poi una fitta al collo, quel maledetto collo che gli dava
noie da tempo, a causa della sua intensa attività da bassista rock fino ai trentasei anni, età in cui aveva abbandonato i palchi per dedicarsi a tempo pieno al suo lavoro
da programmatore, che lo costringeva comunque a stare
seduto oltre dieci ore al giorno al PC.
Si massaggiava con la mano destra il trapezio, bestemmiando tra i denti, pensando alle mattinate perse a fare
fisioterapia e laser senza aver ottenuto nessun tipo di
beneficio tangibile, quando vide quelle vetrine luminose, chiare, enormi e la scritta in un bel verde smeraldo
sopra, “Casa del materasso” e pensò ad un bellissimo
cuscino in lattice, quelli che conservano il tuo profilo
anche quando ti alzi, ed entrò.
Tre vetrine, letti, futon, divani a una e due piazze, coperte, materassi di ogni forma e prezzo, strutture e cuscini, cuscini per ogni testa e per ogni gusto, alti, bassi,
medi, piatti, in piuma, in cotone, lana grezza, grano, lattice, spugna, seta...
Poi una voce, morbida ma efficiente, molto gentile e invitante e dietro il bancone, lei. La dea.
Non so quanti di noi nella vita credano ai colpi di fulmine. Lui sì.
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Bionda, solare, capelli appena sulle spalle, lisci ma di un
colore che ricordava l’oro vivo, massiccio, leggermente
spettinati forse a causa dei continui aggiustamenti delle
mani, due occhi azzurri grandi come perle, enormi, luminosi, due fari che qualsiasi viandante perso nel buio
della vita avrebbe usato come guida. Gli sorrise, cordialmente e sinceramente, ovviamente mostrando una
fila di denti bianchi e perfetti, lui ricambiò il sorriso, ma
pensando quanto fossero meno belli i suoi, di denti, a
causa dei troppi caffè e del troppo vino bevuto nei concerti in giro per la penisola.
Incantato da quel volto così aperto e beatificante, solo
dopo si accorse del corpo sodo e ben allenato che apparteneva alla sua dea. Seno non grosso ma ben sodo, che
faceva appena capolino dalla camicetta bianca sbottonata al punto giusto, jeans attillati a vita bassa, come piacevano a lui, gambe lunghe e ben tornite, scarpa con
tacco educato e piede in vista molto ben curato.
Insomma, era fatto, come avrebbe detto il suo amico
batterista, fatto. Cotto. Cucinato. Se ne accorse subito.
Nel frattempo la dea, che gli aveva già chiesto tre volte
se potesse essergli utile, accortasi del suo stato di totale
assenza dal mondo terreno, ridacchiando complice lo
richiamò alla realtà, agitandogli la mano (bellissima anche quella) davanti agli occhi.
Lui si riprese quel tanto che bastò a fargli farfugliare di
un cuscino per la cervicale, sbagliando almeno due verbi e tre sostantivi, e lei lo invitò a seguirlo nel reparto
lattice.
Anche il sedere dondolava a tempo con gli angeli, lui
dietro come i topolini appresso al pifferaio, se lei si fosse gettata nel fuoco lui l’avrebbe seguita senza nemmeno domandarsi perché.
Fatto.
Era fatto.
Ma la sua timidezza l’aveva sempre ostacolato, e sapeva
bene che, una volta arrivato alla cassa per pagare quel
maledetto cuscino, non sarebbe riuscito a pronunciare
nulla di più sensato di un grazie.
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Lei lo spiazzò. Mentre batteva lo scontrino, lo guardò
teneramente e gli disse “Lei è molto timido, ma ho notato come mi guardava e quanto è arrossito, mi sembra
una persona sola, se posso permettermi, eppure molto
bella. Le piacerebbe se ci vedessimo dopo il lavoro?”
Descrivere le sensazioni che attraversarono il suo animo
da ultratrentacinquenne convinto di conoscere ormai la
vita nelle sue mille sfaccettature è impossibile. La cosa
certa era che balbettò un “… non ho capito bene, scusi…” patetico, talmente patetico che lei lo guardò, scoppiò a ridere e gli disse “Non importa, non si preoccupi,
mi scusi anzi per essere stata così inopportuna, grazie e
arrivederla…”
Prese il suo cuscino, stette due secondi fermo a guardare
prima la cassa, poi lo scontrino e, senza alzare la testa,
ringraziò e uscì abbastanza rapidamente.
In macchina, mentre rientrava nel suo monolocale in periferia, mise un pezzo degli Eagles, Desperado, e cominciò lentamente a bestemmiare e man mano che le
bestemmie diventavano più forti accelerava, sempre di
più, trovandosi sulla tangenziale a centosettanta chilometri orari, gli occhi lucidi e la morte che dal sedile di
fianco lo guardava interessata, anche se poi, valutandolo
per bene, si disse che non era ancora il momento di portarselo via, in fondo era solo un povero diavolo solo con
molti errori nella vita ma ancora qualcosa da fare.
Dormì malissimo, ma soprattutto non dormì su quel cuscino, anzi non lo aprì nemmeno.
Il giorno dopo, caffè, barba, maglione quello buono di
cachemire, tornò deciso alla Casa del materasso ed entrò, coraggioso e anche un po’ rude, e si diresse direttamente verso la sua commessa/dea, che stava nel frattempo parlando al telefono distratta.
Tossicchiò per attrarre l’attenzione e lei lo vide, chiedendo scusa al suo interlocutore chiuse frettolosamente
la telefonata e disse “… salve, che sorpresa, non mi aspettavo di vederla nuovamente qui, forse il cuscino non
è di suo gradimento…?”
43
Lui la guardò molto intensamente, ancora ci sapeva fare
con quegli occhi che spesso, durante un concerto, gli
avevano fatto catturare una bella nottata in compagnia, e
le disse “Io sono Sergio, piacere, ieri ero sovrappensiero
mentre lei mi parlava e le chiedo scusa, vorrei accettare
il suo invito a rivederci al di fuori del lavoro, le va ancora signorina… signorina?”
Ora, quando una donna invita un uomo ad uscire è un
evento abbastanza raro e memorabile; se lui rifiuta o
temporeggia, soprattutto quando la lei è una bella donna
sicura delle sue potenzialità, automaticamente l’uomo
rientra nella categoria imbecille chi si crede di essere io
ho la fila davanti alla porta, ma si riempie di fascino e
misterioso carisma… Tranne se torna il giorno dopo a
rimediare, nel qual caso perde completamente non solo
il fascino e il carisma ma fa la figura del perfetto cretino.
C’è solo una soluzione per evitare la totale perdita di dignità, giocare d’attacco. Lui giocò d’attacco. E giocò
genialmente.
Lei gli disse “Guardi, ieri mi aveva dato un’impressione
di fragilità, e mi sono permessa di dirglielo semplicemente, ma evidentemente era impegnato a guardare il
mio seno, così non ha nemmeno capito le mie parole e
oggi, come se nulla fosse, lei torna qui, borioso, petto
gonfio… ma cosa crede? Lo sa che ho la fila la sera davanti alla porta del negozio, posso scegliere io, ormai lei
ha rifiutato.”
Lui la guardò, sorrise, ma non teneramente, bensì un
sorriso furbo, da un solo lato della bocca. Prese lentamente una penna e il blocchetto dei post-it adesivi, quelli gialli, e cominciò a scrivere numeri dall’uno in poi, su
ogni foglio un numero crescente… uno, due, tre… Lei
lo guardò un po’ interdetta, ma non ebbe il coraggio di
chiedergli cosa stesse facendo perché la cosa la incuriosì
in modo morboso.
“Quindi, signorina, lei mi sta dicendo che, per uscire
con lei, dovrei prendere il mio numerino e attendere il
turno, o addirittura l’estrazione…?” disse continuando a
scrivere numeri sui post-it arrivando a finire il blocchet44
to e prendendone un altro, sul quale ricominciò a scrivere i numeri dall’uno a seguire.
Lei, a questo punto, gli chiese cosa stesse facendo con i
suoi post-it, ma lui, arrivato alla fine anche del secondo
blocchetto, la guardò seriamente e disse “Vuoi la fila
davanti la porta per uscire, la sera? Avrai la tua fila, per
sempre…” e sorrise per niente benevolmente.
A quel punto la dea, che dea ormai non era più, divenne
rossa paonazza, alzò perentoriamente una mano col dito
indice teso e tremante, indicò la porta e non riuscì che a
farfugliare qualche sillaba, tanta la rabbia e l’odio che
provava verso quel perfetto sconosciuto che, appena il
giorno prima, aveva pensato di conoscere più a fondo.
Passò qualche giorno in assoluta quotidianità finché,
una gelida sera, mentre lei si accingeva a spegnere le
luci del negozio per la chiusura, si avvicinò un tizio,
deciso, un bell’uomo, entrò, attese che lei si girasse per
guardarlo e appena fu in vista le disse “Buonasera signorina, lei è la commessa della Casa del materasso?
Direi di sì. Questa sera allora sarebbe il mio turno…”
Lei lo guardò sgranando gli occhi e, presa da un momento di smarrimento, rispose “Mi scusi, a parte che
siamo in chiusura, non so nemmeno chi lei sia e il suo
turno per che cosa, di grazia? Se le serve un materasso
dovrà tornare domani, dopo le nove…”
Lui, senza parlare, la prese per mano e la strattonò con
forza, sbattendola su un materasso lì vicino, poi, come
da istruzioni ricevute, chiuse la porta a chiave, spense le
ultime due luci e cominciò a riempirla di ogni sorta di
imprecazioni e offese, apostrofandola con aggettivi e
definizioni che avrebbero fatto rabbrividire chiunque.
Lei, atterrita, aspettò che lui avesse finito per riprendere
fiato e appena poté cacciò un urlo agghiacciante, lungo,
stridulo, l’uomo aprì la porta e ridendo scappò.
Non accorse nessuno, le guardie erano lontane, l’ora
tarda, la Casa del materasso era fra gli ultimi negozi a
chiudere.
Come mai quell’uomo era venuto lì, parlando del suo
turno, il turno di cosa… Pensò ad uno squilibrato, un
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matto come tanti, alla fine nemmeno pericoloso, decise
di non parlarne con nessuno.
Restò scossa e il giorno dopo chiese riposo per riprendersi.
Tornata al lavoro, dopo qualche tempo, la sera, spense
le luci, ma appena si avvicinò alla porta un ragazzo giovane, biondo, con i capelli sparati le disse “Salve, lei
dev’essere la donna dei post-it, oggi tocca a me…”
chiuse la porta e cominciò a dirle quanto di più terribile
gli venisse in testa, spingendola con forza verso la cassa. Lei iniziò ad urlare, a implorare aiuto, tentò di colpirlo con i pugni, ma lui la bloccò e con la faccia a due
centimetri dalla sua le urlò che era una donnaccia e così
via.
Poi lei cadde a terra in lacrime e lui, guardandola, scoppiò a ridere e se ne andò, ringraziandola gentilmente.
Nell’uscire, dalla tasca gli cadde un post-it.
Lei rialzandosi lo vide, c’era un numero scritto a penna
e riconobbe la grafia. Capì subito che il foglietto giallo
era uno di quelli che il tipo del cuscino di lattice aveva
segnato davanti a lei, per poi farle quella promessa assurda della fila di uomini.
Andò al commissariato la sera stessa, per sporgere denuncia, ma gli agenti la guardarono un po’ insospettiti
perché il racconto era confuso, questi tizi che entravano,
l’offendevano e andavano via ridendo, senza rapinare,
senza violenza fisica se non una spinta, senza altra intenzione se non quella di offenderla… e poi quel post-it.
L’ispettore raccolse la denuncia e poi, quando lei se ne
andò, guardò i suoi ragazzi, scoppiarono a ridere e continuarono il loro lavoro.
Passarono diverse settimane. L’episodio fu archiviato.
Era inverno, freddo, lei sistemava l’inventario, quella
sera si era trattenuta fino a tardi in negozio ed ora, nel
centro, non volava una mosca. Arrivarono in cinque, in
fila, una fila perfetta, ognuno con in mano il post-it numerato, ognuno sorridente. Lei li vide dalla vetrina principale e il terrore le si disegnò sul volto. Chiedendo
permesso, nello stesso ordine in cui erano giunti, entra46
rono nella Casa del materasso e cominciarono ad urlare
sconcezze e oscenità per circa cinque minuti a testa e ad
offenderla in modo pesantissimo, ma la cosa più tremenda era che fuori si stava assiepando un gruppo di
altre persone, tutte quante con il loro post-it in mano,
tutte quante tranquillamente in attesa del loro turno.
Lei, catatonica, gli occhi azzurri spalancati ma spenti, i
capelli spettinati e lo spirito avvilito, era ormai diventata
la ragazza dello sfogo serale, non capì mai perché,
nemmeno quando dopo questa ennesima denuncia e la
perplessità ormai evidente dell’ispettore, le affiancarono uno psichiatra e un assistente sociale.
Perse il posto, perse gli amici, e quando usciva raramente per prendere un po’ d’aria, se vedeva un talloncino
giallo o arancione adesivo nella vetrina di una cartoleria
o in un supermercato cominciava ad urlare e a strapparsi
i capelli, fuggendo via senza controllo.
Di lui non si seppe mai più nulla, gli amici, quei pochi,
dissero che era partito per non si sa quale isola delle Filippine, giurando che mentre saliva sull’aereo rideva e
rideva in modo preoccupante.
Solamente quando il proprietario del suo monolocale lo
affittò nuovamente, aprendo i cassetti per pulire e preparare la casa per il nuovo inquilino, trovò un gran numero
di pacchetti di post-it, alcuni chiusi, altri aperti e numerati, altri con delle frecce e delle indicazioni stradali apparentemente senza senso, vie, numeri romani, segni
strani e un pacco di volantini che recitava così:
“Sei depresso, sei deluso, sei stato maltrattato e deriso
dalla tua donna o da una donna in genere? Puoi sfogarti,
abbiamo la nostra bellissima e biondissima psichiatra
del dopo lavoro che ascolterà tutte le tue lamentele.
Chiamando il numero in basso sulla destra riceverai gratuitamente il tuo talloncino di prenotazione, che ti darà
diritto, seguendo le indicazioni che troverai partendo dal
numero civico indicato sul primo post-it, a raggiungere
il luogo indicato e ad esercitare per cinque minuti il tuo
sfogo verbale.
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In caso di fila, si prega di rispettare il proprio turno con
pazienza ed educazione.
È un servizio gratuito. Post-it compresi.”
48
Emiliano Cevasco
PEZZI DI RARO BROCCATO (LO SCHIZZO)
Il tergicristallo batteva il tempo alla pioggia incessante
ma non violenta, lenta, quasi imbarazzata nel suo stancante durare.
Il riverbero dei fari di tutte le macchine di fronte, ferme in coda, si attaccava al vetro fradicio della coerente
Peugeot di Ora.
Qualche clacson, giulivo, dava prova di sé, talvolta.
Orazio accese una sigaretta, dopo averla diligentemente
confezionata.
- Dal produttore al consumatore - pensò.
Soffiò via il fumo dalla bocca, per svuotarla da un fastidio che andava immediatamente rinnovato. Ora incrociò
gli occhi di suo padre, seduto accanto.
Non era una banalità, men che meno una consuetudine.
Da quando si erano conosciuti, fra di loro si era da subito inserita maiuscola una distanza.
Una distanza può avere diversissime forme: una strada,
una porta, un paio di occhiali, una madre, una storia, la
Storia, una ferita, una differenza, una similitudine e chi
più ne ha più ne metta.
Nel tempo, si erano guardati certo negli occhi, ma il
rapporto che Ora viveva era sempre molto sbilanciato;
la faccia del padre era sempre molto più grande della
sua e più definita, più arrabbiata e più sensata.
Quella sera, sulla sua macchina, Orazio sapeva che la
distanza era un confine sottile, un limine azzurrognolo
di una sigaretta, una concretezza impalpabile meno solida di tanti astratti simboli.
Si fissarono per un buon numero di secondi e, forse, si
emozionarono pure un po'.
Poi, il padre si voltò. Lentamente, come un cane stanco
e piagato, lasciando gli occhi del figlio incollati al suo
profilo di sessantenne tenuto male.
Fu allora che la sentì.
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Una fitta.
Una fissa emozione che albergava in lui da tempo e di
cui - oste compiacente, fingeva d’ignorarne l'esistenza aveva voluto dare segno di sé, urlare in un corridoio della coscienza la propria forza e determinazione.
L'assassino era in casa.
L'assassino era entrato, anche se le imposte erano state
controllate ed erano davvero ben chiuse, la porta serrata
a mandata doppia.
L'assassino era in casa.
L'assassino non era mai uscito.
Aveva nel tempo affilato le lame e gli artigli, lisciato i
capelli e lustrato le zanne.
Era tempo di omicidi.
Prima di scegliere le armi, scelse la follia: voleva capire
come, quando e perché. Razionalizzare l’imbecillità di
una distrazione così grave. Capire come avesse potuto
sedergli accanto a bere e fumare, senza vederlo. Incastrare ai posti giusti le parti di finzione, inconsapevolezza e lucidità. Sapeva di sapere, da tempo lo sentiva. Negandolo. Si era lasciato il tempo di organizzarsi, voltandosi dall’altra parte. Non doveva lasciarsi prendere dal
panico: agire come al solito e fingere d’ignorarlo osservandolo attentamente. Allora, forse, lui avrebbe abbassato la guardia. L’avrebbe sottovalutato. Lasciandogli il
tempo di allestirgli la morte.
Del resto, al momento aveva altro da pensare. Un pezzo
per volta.
Il primo era Lei.
La sua ombra.
Poco dopo arrestava la macchina di fronte a una clinica
del centro città. Entrato nel parcheggio sfilò la chiave e,
solerte, andò ad aprire la portiera del padre. Questi scese, arrancando un poco. Senza parlare, si diressero verso l'uscio, solenne.
- Oggi farò al dottore la domanda.
disse il vecchio.
Il figlio continuava a camminare, senza rispondere. Pareva non registrare le informazioni.
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- A seconda di quanto mi dirà, deciderò il da farsi.
I due avanzavano in un applauso di ghiaia, spesso in
senso opposto a gruppi di volonterosi pazienti che si
improvvisavano podisti nel parco di lusso della clinica
uguale.
L'ingresso di Villa Rosa, sagacemente così chiamata per
il colore suino che ne caratterizzava le pareti, accolse
padre e figlio in una reception lustra e marrone: le lampade ai muri intervallavo la luce in un sapiente gioco di
chiaroscuro.
Quel locale emanava una ricchezza. La ricchezza più
sordida, forse. Tutto era bello. Al bancone delle accettazioni, una funzionaria gnocca; ai prelievi, un'infermiera
gnocca: persino l'addetta alla pulizia dei pavimenti era
gnocca.
Il pavimento, lucidissimo, rifletteva le sagome degli astanti, in una corruzione di forme che faceva somigliare
il marmo piastrellato ad uno schermo aperto sulle bolgie. La differenza con un ospedale pubblico era evidente, elementare. Eppure, Orazio sapeva di non volere cure in un posto del genere. Lo strazio e i calcinacci a terra, le camerate con le tende mezze aperte e mezze chiuse erano stati capaci di offrirgli, nelle circostanze ospedaliere, un affetto che in quella specie di aziendaospedale non riusciva nemmeno a pensare possibile. Ma
anche che lì potevi comprarti una dignità e la finzione
compensava gli arbitrii di una corsia.
Dopo un lungo viaggio fra i corridoi di Villa Rosa, l'ufficio del chirurgo aprì loro le porte. Un uomo possente
con indosso una maglietta fece un cenno, alzandosi dalla scrivania; stava mangiando un panino.
- Prego, accomodatevi - disse, un po' imbarazzato.
Orazio era rimasto sorpreso dalle fattezze del medico:
pareva abissino, o forse arabo: decisamente a Villa Rosa
non se l'aspettava. La cosa che lo divertiva di più era
pensare al padre alle prese con un dottore immigrato. Le
discussioni sul tema dell'immigrazione fra padre e figlio
erano tristemente note per le loro desolanti lunghezza,
accanimento e noia.
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- Ho letto la sua cartella... - iniziò il dottore,
- La prego, si fermi. Preferirei che mio figlio uscisse - il
vecchio interruppe.
- D’accordo.
E il figlio uscì.
A fianco della porta dell'ufficio, una veranda si apriva
per qualche metro. Dietro Villa Rosa un pezzo di prato
era stato addomesticato a un certo rigore; le fontanelle
spruzzavano acqua leggera sull'erba verdissima. Orazio
prese posto su una sedia scomoda e si fece una sigaretta;
poco lontano, una inserviente grassottella accompagnava le foglie secche in sacchi neri.
Una non era gnocca. Giustamente, lavorava fuori.
Per una bizzarra associazione di pensieri, a Orazio venne in mente come non avesse mai visto commesse a
McDonald's gnocche e di come si fosse convinto che
quella fosse un'abile operazione di marketing per snellire le code.
L'inserviente smaniava per parlare con qualcuno. Alla
lunga, è evidente, le foglie secche stancano.
- È qui per Caligaris? - chiese la donna, avvicinandosi.
Era paffuttella ma non spiacevole; i suoi occhi nerissimi
sprizzavano curiosità e una certa malizia. Portava due
grossi orecchini doratissimi che facevano a botte con la
carnagione annerita dalle lampade.
- Non credo. Il dottore che ho visto non mi pareva italiano.
La donna rise.
- Allora è proprio Caligaris! Quello negro è! Posso offrirti un caffè?
L'offerta prese Orazio alla sprovvista. La sorpresa lo
aveva colto e probabilmente non riusciva a dissimularla.
Gli inviti del mondo femminile lo lasciavano sempre un
po' interdetto. Tuttavia accettò, gettando la sigaretta ormai esausta.
Attraversarono tutto il prato passando sulle apposite ardesie composte in un colorito disegno floreale. L'inserviente non aveva smesso di parlare mai; Ora sperava potesse terminare almeno il fiato, dato che di argomenti
sembrava ricchissima. Nel parcheggio, mentre sprolo52
quiava su scappatelle di dottori e pazienti, adocchiò una
macchina, ci girò intorno
- Questa è la sua macchina, di Caligaris.
Insieme diedero un'occhiata ad un gippone un po' boro
bianco con riflessi azzurri.
RENEGADE
recitava il cofano dell'automobile
- Rinnegato a Villa Rosa - pensò.
Sopra la targa, l'adesivo di un serpente in procinto di
addentare campeggiava nero lucido.
- C'ha sta cazzo di mania dei serpenti, quello.
Al bar bevvero un caffè buono ma avvelenato dai troppi
discorsi. Quando si salutarono, Orazio realizzò di non
esser riuscito a superare le tre-quattro parole. In pochi
minuti un numero inverosimile di informazioni avevano
chiesto asilo al suo cervello, vanamente.
Era incredibile. Le uniche cose che aveva registrato erano alcuni particolari su Caligaris, che amava i serpenti
ed era un po' chiacchierato per qualche scopata con pazienti e assistenti.
- Questi sono giovani, gli ormoni sono alti!
Gli aveva detto la sua improvvisata compagna di caffè.
- Grazie del caffè, davvero. Era molto buono.
- Qui a Villa Rosa, tutto è buono. L'hai data un'occhiata
all'ingresso?! - disse la donna strizzando un occhio:
- Quelle lì fanno mica la vita che faccio io! C'ho già un
figlio, lo sai? E ho 32 anni!
- Complimenti. Anche io ho un figlio, e direi che siamo
coetanei. Ah, per la cronaca, mi chiamo Orazio - allungò, un po' affettato.
- Io sono Agatha.
- Bel nome, per via dei gialli?
- Non lo so perché mi hanno chiamato così. Con i miei
ho sempre urlato, parlato mai.
53
Dalla porta dell'ufficio di Caligaris sbucò il padre. Salutò il dottore e si guardò intorno, un po' spaesato.
Ora lo vide e salutò Agatha con un bacio abbastanza
formale.
- Allora? - chiese Orazio al padre quando furono vicini.
- Ce l'hai una sigaretta? - tagliò corto lui.
- Te la faccio se vuoi...
Il padre sbuffò, regalò una bestemmia a dio:
- Ma ce la fai a fare qualcosa di normale? Dai, veloce
che ce le ho in macchina.
- Potresti assaggiare il tabacco.
- Non mi interessa. Voglio una DIANA... Lo sai? il dottore... Caligari...
- Caligarisss - sibilò Ora per citare Fantozzi.
- Sì, quello lì... non è negro. È pugliese.
- Pensavo che per te fossero negri dall'Emilia Romagna
in giù.
- Sbagli. Da La Spezia in giù.
- Con la vecchiaia diventi più elastico...
- Spiritoso... comunque, un po' africano lo è: nello studio, da tutte le parti, foto di serpenti. In una che è con un
boa e non si capisce chi stritola l'altro!
- Uao... La Domanda gliel'hai rivolta?
- Sì. L'avevo detto.
- E sei soddisfatto?
- Non lo so ancora.
- Vuoi parlarne?
- Non ora. Adesso voglio una DIANA, porco dio!
Risalirono sul Peugeot, il tempo andava migliorando e
tutto sommato fors'anche il clima in macchina.
Il padre accese la Diana sbuffando, soffiò fuori il fumo
con l'espressione di chi da tempo aspettasse da bere per
sanare una gola riarsa.
Ora guardava fuori, al di là della strada, dell'asfalto, delle code.
Nella testa continuava a pompare il pensiero dell'omicidio necessario. Orfano del tergicristallo, il vetro della
macchina ospitava rade gocce;
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- Allora, 'sta cazzo di domanda?
domandò adesso Ora
Il padre non rispondeva.
Persuaso del ruolo di giocatore di poker, aveva in mano
qualcosa da giocarsi. Il figlio desiderava sapere e a lui
interessava non dire. Era un gioco lezioso e costruito
negli anni; il sapere era una moneta di scambio e le parole le sue banconote.
- Oh! la domanda?!
continuò esasperato, Ora.
Con un ghigno, il padre cercò di fissarlo profondamente
negli occhi.
Sbuffò
- Dove cazzo siamo? A un telequiz?!
e rise.
- Ode a Mike Bongiorno.
- Che Dio l'abbia in gloria, il bastardo.
risero, insieme.
Una rarità.
Nella serata via via più lucida, i due creavano una storia,
seduti accanto su sedili vecchi.
Dopo un semaforo, riprese vita la coda.
Ora approfittò per rollarsi una sigaretta.
- Sono buone, fatte a mano?
- No, le fumo perché sono masochista...
- Non dicevo le sigarette...
- ... quindi...?
- Pensavo alle seghe.
- Le seghe? Hai sessantanni suonati.
- Appunto, saranno almeno trentanni che non mi maneggio il birillo!
- Vuoi farlo adesso?!
I due risero.
In pochi minuti le rarità andavano diventando consuetudine.
- Praticamente, stiamo vivendo un'educazione sentimentale da XXI secolo.
- Sì, su una macchina francese, però!
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Dai finestrini aperti della macchina fuoriusciva il fumo
in spasmi azzurri, salendo più veloce dei gas di scarico.
- Sai, papà, dopo mio figlio mi è capitato di farmi qualche sega, i primi tempi.
- Non avevo dubbi...
- Non è quello. Hai buttato lì un discorso, io lo raccolgo.
Non si sa bene perché se parli tu di seghe sei un saggio
viveur filosofo, se lo faccio io sono lo scontato segaiolo
di campagna.
- Vai avanti, mi diverte, davvero.
Ora fissò un attimo il padre. Ne pesò la sincerità. Quella
persona lo interessava sempre di più. Dopo trentanni.
- Beh, trastullato il gingillo, ho fissato l'occhio nero del
mio birillo e....
- Ah, lo chiami anche tu il birillo, non è desueto...
- Credo sia desueto, ma birillo mi piace. Comunque, fissandomi il birillo, con le mani innaffiate di sperma, mi
sono sentito un po' in colpa...
- Hai fatto troppo catechismo!
Il padre scoppiò a ridere e batté con il palmo della mano
la schiena del figlio.
- No! Aspetta... voglio dire che mi sono sentito in colpa
in rapporto alla vita che avrei potuto dare...
- Quindi, stai dicendo che adesso io sono seduto vicino
ad un mio schizzo di sperma!!! Forte... davvero. È un
punto di vista che mi piace.
- Non ho parole...
- C'è una cosa che devo dirti...
- Che cosa?
- Come schizzo di sperma guidi bene. Sul serio...
- Senti, me lo dice che cazzo vi siete detti, all'ospedale?
- Minchia, che rottura... nooho.
- Papà... morirai?
- Come tutti, stronzo, e comunque, dopo di te! Vai che è
verde...
- Ok, schizzo!
Un'altra risata, un altro pezzo di raro broccato.
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Alessio Pollutri
CARRO CONTRO LA SCALA MOBILE
C'era una volta, immerso nella folla d'un grande magazzino, un uomo assai bizzarro da tutti chiamato Carro.
Era alto e magrolino, con il viso lungo e un bel nasino.
Aveva i capelli corti un po' arruffati e braccia lunghe su
ambo i lati. Era avvolto in una lunga giacca marrone,
sbottonata in onor del suo maglione, che era rosa, rosina, rosista e doveva esser messo in vista.
Fermo immobile lui stava, se lo guardavi, nulla fiatava.
La gente attorno scorreva veloce reagendo a volte un po'
feroce, per l'intralcio che Carro caro, creava lì come un
palo.
Carro, Carro, il pover uomo, aveva un cuore grande e
d'oro, una bocca assai labbrosa e gli occhi...
Carro, Carro, il gentil rampollo, aveva un lungo e curvo
collo, dei piedi assai piccini e le mani...
Carro, Carro, da bambino, aveva fatto il birichino ed
ora cieco e senza mani girava solo tra gli umani.
Come ogni cieco con un po' di sale in zucca, Carro aveva acquistato il Super-Power, bastone per non vedenti.
Il Super-Power bastone era capace d'allungarsi a dismisura ed insinuarsi, silenzioso, agile e velocissimo, in
mezzo a qualunque cosa. Nell'arco d'un insignificante
attesa di due minuti era capace di sfiorare tutto ciò che
lo circondava, creando nella testolina di chi lo portava il
disegno del mondo esteriore!
È il bastone per ciechi last generation acquistabile su
internet a prezzi super convenienti per chi ha la fortuna
d'esser cieco e di poter usufruire della super-riduzione.
È un bastone fantastico, flessibilissimo e leggerissimo.
Un bastone che ridona ai tuoi occhi ciò che ingiustamente la natura gli ha tolto.
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Un bastone geniale per chi aveva la fortuna d'avere delle
mani per poterlo usare.
Carro lo possedeva e lo portava sempre con sé...senza
mai sfiorarlo.
Carro, Carro, lo sfigatello era immerso in un gran bordello. Tutti lo spintonavano a destra e a manca e ciò gli
aveva storto persino l'anca. Adesso zoppicante, cieco e
monco gironzolava un poco in tondo.
Le voci erano la sua grande passione, l'ascoltava per ore
ed ora. Lasciava immergere le sue orecchie nelle voci
forti ed in quelle incerte, lasciando i suoni accarezzarlo,
scaldarlo, nutrirlo e coccolarlo. Immerso totalmente nella musica del mondo non gli dispiaceva affatto il suo girotondo. Si lasciava trasportare dalla corrente, ascoltando il canto della gente e passando così delle giornate che
nessuno direbbe “indaffarate”.
Quel giorno delle rondini primaverili bussarono con il
loro esile becco a punta sui docili timpani di Carro. Le
margherite crescevano ovunque. Rose rosse, verdi e viola spuntavano al suolo mentre angioletti piovevano dal
cielo in coreografie sincronizzate. La luna era bellissima, come il sole, come le stelle, come tutto. Il canto, sì,
il canto di quella voce, era miele per il suo cuoreorsacchiotto. La timidezza del suo corpo era tradita
dall'intraprendenza del suo animo. Leggero e soave, disegnava nel cielo i nuovi canoni della bellezza. S'avvicinava inconsciamente passo dopo passo, spinta dopo
spinta, livido dopo livido, alla fonte del suo desiderio. Il
fiume della libido sgorgava forte e portentoso dalla bocca aurea della dea che lo invocava dal terzo piano.
Poetico e coraggioso Carro passò ore ed ore ad errare su
una scala mobile che scorreva inversamente alla sua
marcia. I chilometri si susseguivano e nel deserto della
sua solitudine l'oasi lo attendeva lontano, nulla avrebbe
potuto trattenerlo.
Sarebbe arrivato! Attendilo o dea della bellezza!
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Attendilo o somma conoscitrice dei segreti d'Apollo, tu
che sai modellare il suono a tua immagine e somiglianza, tu che sai forgiare con la tua voce la più crudele spada della sottomissione, attendilo e sarai ricompensata
con l'amore totale ed incondizionato, attendilo e scoprirai come la tua arte possa essere nutrita e sostenuta
dall'amore di un uomo innamorato.
“Caro amore mio,
ti scrivo durante la lunga peregrinazione che mi condurrà a te. Sento le tue invocazioni modellarsi, avvicinarsi ed allontanarsi. Sul sentiero di spine che fortificherà il mio amore, mi perdo e naufrago sulle sponde
della disperazione. Dove sei? Se solo potessi rispondere
a questa domanda. Dove sei? Dove sei? A chi ignora la
distanza, il cammino apparirà più corto. Io sogno il
giorno in cui t'udrò vicina, mia cara, e come fuoco la
speranza brucia e incendia lo spirto mio tutto. Come il
filo d'Arianna, seguo la voce che il destino ha lasciato
sul mio cammino per ricondurmi all'amore universale,
l'universo risiede in te, mia dolce Frù-Frù. Arrivo”
Passarono giorni, settimane e mesi. Sulla scala mobile
Carro continuava a camminare. La neve appesantì il suo
slancio, il sole lo arse tutto ed il vento avverso lo rallentò, ma la voce non cessò mai d'impollinare le sue orecchie e quando, nella primavera del suo amore, dei fiori
sbocciarono nei suoi timpani, Carro sentì che il grande
momento stava per arrivare e nuova linfa nutrì ogni suo
passo.
Con determinazione tanta gente attraversò
è Carro amici, è Carro
la scala lo spingeva ma lui correva e correva.
Nulla più lo tratteneva senza indugi lui marciava
andando più veloce la distanza divorava.
Ma la scala, nemica arcana, aumentò la sua ferocia
urlando sì cattiva, triplicò la sua turbina.
Il rullo meccanico faceva le scintille
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e un gradino dopo l'altro colpiva alle caviglie.
La gente di passaggio sorpresa scivolava,
cadeva, urlava, disperata
si gettava dalla balconata.
Carro intrepido guerriero alzando le ginocchia
correva come un torero, fiero, audace e battagliero.
É Carro amici, è Carro.
−
−
−
Non potrai mai fermarmi, ma non è colpa tua. È
solamente perché la mia forza è davvero maggiore.
Il mio nome è Carro e sarà per mano mia che tu
morrai.
La tua arroganza mi fa pena. Misero uomo privo di
qualunque buon senso, credi davvero di potermi
battere senza la vista e senza le mani? Credi
davvero che basti la tua debole velocità a
raggiungere la vetta? T'illudi pezzente, t'illudi. Ti ho
mostrato una minima parte di tutte le mie capacità e
adesso che ti ho visto al massimo della tua forza...ah
ah ah...sei finito. Mi chiamo Scala Mobile e sarai tu
a morire per mano mia.
Adesso mi hai scocciato! Bankai!
Carro cominciò a correre velocissimo ed i suoi piedi
sparivano sotto il profumo della sua rapidità.
La scala mobile, spinta nell'angolo delle sue forze, richiamò a sé le energie lontane e cominciò a emetter delle luci strane.
Le luci abbagliavano sempre più veloci e nell'apice della
sua concentrazione la scala divenne piatta, liscia, scivolosissima nella sua pendenza amara.
Ed e lì cari lettori, che io ringrazio il fato avverso, che lo
rese cieco e ignaro a quanto ormai alla vetta era una
mano.
Carro scivolò al suolo...le sue braccia ebbero il riflesso
antico di aggrapparsi a qualcosa, invano. Lentamente il
suo corpo discendeva e con lui i sogni e la speranza.
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Mai come in quel momento Carro rimpianse le sue mani
ed i suoi occhi.
Le sue braccia battevano forte sul ruvido e intagliato
manto della scala mobile cercando di rallentare in qualche modo la discesa. I suoi piedi cercavano di fare attrito e la sua testa si muoveva verso l'alto alla ricerca di
qualche briciola della voce amata.
Sul suo viso, perfide e crudeli scivolavano le lacrime
che nessuna cecità portava via. E mentre la voce dell'amore scompariva, il pover uomo naufragò sul freddo
pavimento del piano terra.
Un cieco che passava lì vicino vedendolo al suolo gli
rubò il Super-power bastone e gli diede un calcio. La
scala mobile rise crudele e mefistofelica.
Come ogni giorno, lentamente Carro raccolse i pezzi del
suo corpo e si incamminò verso l'uscita. La porta di vetro scorrevole stranamente non si aprì e Carro ci sbatté
contro.
In mezzo al centro commerciale si sentiva solo e perso,
ricordando il canto della sua amata si raggomitolò in un
angolo e si addormentò.
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INDICE
9 FABRIZIA SCIPIONI Come un’attrice
12 FRANCESCO BOSCARINO Il cavaliere solitario
16 MASSIMO LENCIONI Il circo
18 GOFFREDO GORI Soluzione inverno
25 FRANCESCA MORETTI Il flauto e Anna
28 ANDREA E PAOLO BOCCONI La musica dentro (ma chi è Chet Baker?)
33 GIOVANNA MULAS In quel dicembre che di dicembre poco aveva (Panas)
39 BRUNO MAGNOLFI L’autostrada del sole
41 RENATO PEZZANO Casa del materasso
49 EMILIANO CEVASCO Pezzi di raro broccato (lo schizzo)
57ALESSIO POLLUTRI Carro contro la scala mobile
Prima Edizione
Dicembre 2009