Deliri di mezza notte

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Deliri di mezza notte
Deliri di
mezza
notte
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Credo in Dio Padre, in Gesù Cristo suo unico figlio, nella benedetta Vergine Maria, nello
Spirito Santo, in Adamo cadmio, nel nichel cromo, negli ossidi e nel mercurio cromo, nelle
anatre selvatiche e nel crescione, nelle crisi epilettiche, nella peste bubbonica, nel
Dewachan, nelle congiunzioni planetarie, nella scrittura illeggibile e nel lancio dei bastoni,
nelle rivoluzioni, nei tracolli di Borsa, nelle guerre, nei terremoti, nei cicloni, a Kali Yugae
nello hula-hula. Credo. Credo perché non credere significa diventare come piombo, giacere
prono e rigido, inerte per sempre, a marcire…
(da Sexus, Henry Miller)
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PARTE I
I muri trasudano le facce morte dei vivi che abitarono la casa, gli spettri blu
che svolazzano da una camera all’altra fanno fremere le viti delle porte. Echi
lontani e smorzati accompagnano le notti silenziose, senza una sola macchina
per la strada. Sudori freddi si accompagnano a fuggevoli visioni con la coda
dell’occhio di gnomi agonizzanti vestiti con mantelli color grigio topo.
Gli echi trapassano i muri e arrivano al cervello. Il monotono e tedioso
martellare uggioso porta alla follia, la bava alla bocca e la sensazione di
scivolare in una voragine senza fine. Sottili voci sussurrate alle orecchie
annunciano schizofrenia, una schizofrenia sottile che prende a calci l’io
pulsante e lo trasforma in tanti piccoli frammenti, come un bicchiere di vetro
temperato infranto su un marciapiede di cemento. La follia s’insinua dalle
narici del naso e si spande per tutto il corpo. Tutto l’organismo si muove in
nome del nuovo ordinamento dettato dalla follia. Ogni cellula sprizza pazzia,
ogni poro emana odore di vecchio e muffito. Le gocce che cadono dal
rubinetto rotto sembrano scandire il tempo. Il tempo ormai non esiste più e
ogni attimo di per se è solo un lieve graffio scalfito sul cristallo di rocca con il
più duro tra i diamanti, carbonio puro bianchissimo, con solo una goccia di
ruggine per metro cubo.
L’odore di sporco e di chiuso dilaga per la casa, le mosche morte sono ben
distese vicino alle finestre. Le scatole di farmaci scaduti sparse un po’
ovunque neanche si contano. Ogni centimetro di moquettes è occupato da
giornali vecchi di settimane e mesi, lattine vuote di coca cola, briciole di pane
raffermo, sacchetti di nylon, mozziconi di sigaretta, cenere e candele mezze
consumate. Qua e là secchi d’acqua danno alla casa un sintomo di freschezza.
Sul tavolo della cucina un solo lercio e maleodorante piatto, con posate e
bicchieri di carta un po’ sparsi su un angolo del tavolo ed altri ordinati ancora
dentro la confezione, con un dito di polvere sopra. Il fornello trabocca di
medaglie di minestra e fondi di caffè, croste di latte versato e fiammiferi
usati.
Il frigorifero è praticamente deserto, se si escludono due carote nascoste nel
cassetto inferiore, chiuse lì dentro già da settimane. Nella ghiacciaia un
bicchiere di carta pieno fino all’orlo di menta ghiacciata, per preparare rapide
bevande a base di whisky e menta, oppure la variante grappa e menta, tutto
immacolatamente servito ghiacciato, per togliere il corposo gusto del whisky
di prima mattina. Sulle pareti bianche quadri, acquerelli per lo più, con
soggetti assolutamente astratti, insignificanti anche per lo stesso autore.
Qua e là a caso anche qualche quadretto di vetro dipinto, attaccato con colla
ad alta tenuta.
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In tutta la casa aleggia il profumo della morte, si respira in ogni angolo, anche
tra le zampette dei placidi gatti che dormono beati sul divano della sala. La
morte ha corrotto tutto, tutto sembra appena reduce da un
bombardamento, un’incisione molecolare che ha provocato una mutazione a
carattere genetico. Le forme sono irregolari, disturbate, come viste
attraverso uno schermo difettoso. La morte è sovrana e tutti nella casa sono
soggiogati da lei, come tante vecchie vacche incatenate in una stalla. Per
strada è diverso, tutti sono liberi di condurre la propria vita. Dentro la casa
sono tutti come marionette mosse da qualche essere superiore sospeso nel
vuoto a 100 mila chilometri dal suolo. Le bocche si muovono ma non c’è
volontà, le parole escono come un’emorragia straripante, torrenziale e
insignificante. Le risate arrivano, ma non sono spontanee, sono come un
attacco improvviso d’isterismo che esplode senza rigore e fuori tempo, come
ridere dopo due minuti dal racconto di una barzelletta. Il senso dell’umorismo
è chiuso dentro gli scatoloni in soffitta accanto all’intelligenza. Sono tutti
quanti scemi, dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi. Non c’è
speranza di recupero. Sono come statue di sale bloccate in posture oscene,
posture che ricordano gli antichi abitanti di Pompei nell’attimo in cui sono
stati impressionati dalla lava e dai lapilli. I denti ci sono ma sono cariati e marci
fino alla radice, in bocca solo parole colorate che odorano di zolfo e di tombini
dopo una giornata di pioggia.
Il disgelo fa maturare le idee e i frutti, li fa marcire dentro le cassette di legno
e rende le persone, dalla prima all’ultima, assolutamente insopportabili e
sfaticate. Le orecchie sono attente a tutto, ma inutilmente, poiché i suoni
arrivano al cervello e vi rimbonbano dentro, come in una tetra cassa di
risonanza, legnosa e scura.
I rubinetti, in modo disarmonico e snervante, gocciolano in eterno sul fondo
del lavandino amplificando le paranoie che crescono nel letto.
Nel letto i due mondi, il sogno e la realtà, s’incontrano e viaggiano a
braccetto. C’è uno stato mentale, detto catalessi, che mischia i due mondi.
Quando uno prevale sull’altro succede il caos. Le paranoie maturano tra le
lenzuola e danno sfogo a spazi vuoti, da colmare con angosce e malinconia.
Nel letto tutto diventa più complicato e più grande di quanto sia in realtà.
Sotto le coperte il mondo, anche se appena lì fuori per la strada, sembra
lontano anni luce e irraggiungibile. Si ha come l’impressione di essere
intrappolati e liberi in una realtà diversificata costruita soltanto su ricordi e
nient’altro. I sogni residui bussano da un lato e appaiono come fantasmi nella
nebbiosa foschia di gennaio. E dall’altro lato appaiono, nitidi e sicuri, i ricordi
di mille giornate trascorse sotto il sole o coperti dal cemento armato. Il
campanile suona le ore, le due, le tre, le quattro. Il tempo scorre veloce come
sottile sabbia dentro una clessidra. Si odono i rintocchi della pendola della
sala. Poi i ricordi da svegli cedono il passo ai ricordi nei sogni, e allora
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compaiono mille fantasmi informi, con il loro linguaggio incomprensibile e le
loro occhiataccie. Ci si ritrova seduti all’interno di un sogno. Sembra di essere
in un cinema vuoto tra uno spettacolo e l’altro, quando le maschere si dan da
fare per rimuovere le cartacce da sotto i sedili. Poi dal cinema ci si sposta in
un largo piazzale, naturalmente il corpo è libero di volare e di compiere salti di
una lunghezza inaudita. Il terreno scorre sotto ad una velocità pericolosa e ci
si trova, in un balzo, ad una altezza di molte centinaia di metri. All’improvviso
il sogno si smorza sorpreso da una folata di vento o da una porta che sbatte,
oppure semplicemente dalla sferzante sveglia del mattino, che frusta le
orecchie come una spessa verga e riporta tutto e tutti alla realtà.
La realtà, quella cosa in cui tutti vivono ma che nessuno sa spiegare a fondo.
Il mondo accettato e riconosciuto da tutti.
Allora ci si incammina, zaino e attrezzi in spalla, verso il lavoro. Lavoro leggero
o pesante che sia, sempre lavoro insomma. In altre parole quello che
permette alle persone senza fantasia e ingenio di tirare avanti, spingendo la
propria carriola, o piena di carote o colma di concime, che in buon italiano si
chiama merda; oppure merda mischiata a paglia.
Si percorre sempre la stessa strada del lavoro, fatta delle stesse buche e degli
stessi cantieri stradali che avanzano di centimetri ogni giorno, delle stesse
insegne pubblicitarie e degli stessi volti dei pedoni che aspettano l’arrivo di
un pullman che magari non arriverà mai.
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Quando parto da casa la mattina presto, verso le 5 e 20, tutto è silente e
rassegnato. La macchina, parcata nel garage per tutta la notte, riprende a
ronfare con lo stesso regime di sempre e poi pigiando un pulsante si apre il
cancello automatico. I freddi fasci di luce gialla intermittente scacciano le
memorie dei sogni della nottata appena trascorsa. Percorro la breve stradina
privata che collega il mio cortile alla strada e poi sgommo in direzione del
castello. Arrivato allo stop di piazza Carlo Alberto, tolgo il piede
dall’acceleratore e lo poso sul freno. Non perché arriva qualcuno, badate
bene, ma per rispettare lo stop e far felici gli sbirri che sono appostati nei
pressi dell’edicola col loro bravo blocchetto delle multe in una mano e la
paletta nell’altra, e magari con una cicca di canna appena spenta sul fondo
del posacenere nel cruscotto della loro volante.
Dopo piazza Carlo Alberto si affronta il meraviglioso viale alberato che
incornicia, nelle sere d’estate, la visuale che si ha del castello provenendo da
Savigliano. Dopo il viale una sola curva e poi dritti fino alle porte di
Cavallermaggiore. Qui al primo bivio di Cavallermaggiore c’è sempre qualcuno
che devia per il centro del paese e mi costringe a star all’erta ad improvvisi e
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repentini cambi di corsia dell’ultimo momento. Poi una lunga curva a destra e
passo dinnanzi al distributore ERG e poi fino al semaforo, che solitamente è
verde, oppure in procinto di diventarlo. Qui di solito ho un attacco improvviso
di sonno e gli occhi ammiccano paurosamente. Ma poi verso le Cupole tutto
riprende le sembianze di una soporifera veglia, e così rimango fino all’arrivo
veloce nel parcheggio custodito della S.S.G.I.. Da qui in poi le gambe iniziano a
muoversi e a sgranchirsi. Uno sbadiglio e una scorreggia mi accompagnano
fino all’entrata della fabbrica, con lo sbattere di una porta a vetro. Cammino
in un lungo corridoio che conduce alla mensa, agli spogliatoi, ai bagni e infine
ai reparti. Quando apro la porta a vetri che separa il corridoio dai reparti,
iniziano gli sbuffi e gli ansimi di mille rubinetti ad aria e mille valvole
all’unisono, oppure un annuncio grutturale all’altoparlante. Pochi passi e a
destra sorge una sala adibita alle macchinette del caffè, dell’acqua minerale,
delle bibite, dei gelati e delle brioches. A volte svolto in quella direzione e
prendo una bottiglietta d’acqua oppure un tè caldo fumante. Mi incammino
lento ma risoluto verso il mio reparto, il magazzino lastre. Qui incontro il
carrellista del turno precedente, alle prese col carico di qualche collare di
vetro oppure intento a cambiarsi nello spogliatoio annesso al magazzino.
Apro lo zaino, che contiene il vestiario pulito da lavoro, e mi cambio. Gli
indumenti verdi da lavoro profumano sempre di buono, di fresco.
Ricordano i lunedì mattina quando mia madre fa il bucato e la casa profuma
di ammorbidente e polvere per bucato a mano.
Mi vesto di tutto punto, mi attacco la pinza con i guanti pizzicati all’anello
sotto la cinghia e poi prendo dall’armadietto il metro e la penna BIC. Infilo le
scarpe anti infortunio e sono belle che pronto per iniziare il lavoro. Mi siedo
sulla panca appoggiata contro il muro dello spogliatoio e attendo l’arrivo del
carrellista del turno precendente. Sono attimi di solitudine e un riscivolo
lento verso un sopore ormai strappato. Sento la maniglia della porta
muoversi e dinnanzi a me si presenta l’operaio del turno prima. Poche
chiacchere concise tutte rivolte verso il lavoro, i passaggi di consegna e poi
lui si cambia le scarpe e mi lascia. Io prendo le mie bottigliette d’acqua e la pila
a torcia e vado a sistemarle sopra il muletto e poi vado a vedere nelle
comunicazioni per i carrellisti di linea le disposizioni da seguire, ovvero gli
ordini di carico di ciascuna linea. Inizia la giornata tipica di lavoro. Faccio un
giro per il magazzino e controllo l’integrità delle lastre che dovrò caricare nel
turno e poi mi guardo in giro tra le linee per valutare se qualcuna necessita di
vetro.
Se non c’è nulla da caricare vado a sedermi al buio, nell’ufficio e contemplo
con sguardo opaco bolle, registri, timbri, comunicazioni di servizio e i numeri
telefonici dello stabilimento che sono elencati su un foglio appeso alla
finestra davanti alla scrivania. Sbuffi, ansimi, sussulti, vetri che si rompono
con più o meno violenza, e a volte bestemmie urlate dagli operatori delle
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linee, soprattutto della linea che sta in prossimità dell’ufficio, la 3/S. Quando
mi stufo di oziare sulla sedia esco a fare due passi, vado alle macchinette e
prendo un tè caldo. Poi ritorno aggirandomi furtivo per i reparti e poi in
magazzino. Finalmente una linea da caricare. Vado nella zona dei carica
batteria dove sono parcheggiati tutti, o quasi, i muletti. Salgo su uno, sempre
lo stesso, e vado ad agganciare il pacco da caricare sulla linea. La linea da
caricare è la TL 3, il vetro si trova nella lisse C 09. E’ di colore TSA4+ (verde
scuro), spessore 3,15 mm e ha dimensioni di 321 x 170 cm. Aggancio il pacco
di vetro col muletto e poi lo vado a depositare nella zona di carico, sulla
basculante. E’ un’operazione quasi sempre indolore, nel senso che sono poche
le volte in cui alcune lastre subiscono rotture. Dopo il carico compilo la
bolletta: data, linea, turno, ora, eventuali lastre rotte e firma.
Tutto questo meccanismo si ripete come lo sferragliare del pendolo di
Foucolt, da un lato all’altro del padiglione, tracciando segni inpercettibili sulla
sabbia bianca. E’ come liberare contemporaneamente migliaia di biglie di
vetro che sbattono ovunque, contro le pareti, vicino ai piedi delle persone,
sotto le ruote sorde dei muletti. Oppure come il tic tac del pendolo di casa, in
una notte insonne. Gli stessi movimenti, azionando le leve del brandeggio,
della traslazione e del tiro. Tutto procede tranquillo fino al momento in cui,
inevitabilmente, dopo x ore di ronfare placido nel proprio ritmo, succede
l’imprevisto. Carico un collare di vetro e tocco con esso, o con le pale del
muletto, il pacco che sta dietro di quello caricato, e le lastre, 2, 3, 10 o più si
rompono e succede un gran casino. Scendo imprecando dal muletto e vado a
valutare i danni. Inforco gli occhiali protettivi, dopo di che le lastre rotte
finiscono per terra con un abile mossa di una stecca di polistirolo. Questa è
solo la prima parte dell’imprevisto. Poi bisogna togliere le lastre rotte sparse
a terra con scopa e pala da neve, eventualmente bagnando con acqua i
rottami, per evitare di morire di silicosi prima del tempo. Mezz’ora passa nel
peggiore dei modi. Di solito queste spalate di vetro rotto per terra producono
un certo calore nel mio corpo, mi costringono a togliermi la giacchetta di
dosso oppure ad andare ad abbeverarmi alle macchinette. Di solito durante
queste operazioni di pulizia resto solo, nessuno neanche si sogna di venire a
darmi una mano, magari anche solo un aiuto morale o un suggerimento.
Stanno tutti lontani dal lavoro e proseguono inperterriti nei loro. Se per puro
caso mi serve una mano devo arrangiarmi da solo. Vai da uno all’altro e l’uno
ti manda dall’altro e viceversa. Ma poi se hanno loro bisogno di aiuto non ci
pensano due volte a chiedermelo. Lo chiedono come se fosse un obbligo
aiutarli. Ma io non ci faccio caso a questi abili sfruttamenti da parte loro,
tanto devo far passare il tempo e se sono inpegnato in qualche attività, tanto
meglio. Mentre loro, oziosi e fannulloni, si realizzano parlando tra di loro o
compiendo i lavori in tempi esageratamente lunghi, come lumache in stato di
depressione. Hanno una calma e una rilassatezza che da sui nervi, anche a me
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che di solito sono una persona estremamente posata e calma, almeno
secondo il loro parere. Li vedi sempre con le chiappe appoggiate a una porta
oppure intenti a tener in piedi il muro con la schiena, fumando un’eterna
sigaretta che non finisce mai. Oppure sono in giro per il magazzino a
boccheggiare come pesci in buste di plastica, mentre fanno finta di occupare
il tempo in stupidi e inutili lavori, come andare a controllare per l’ennesima
volta un interrutore lasciato acceso oppure di aver chiuso a dovere il proprio
armadietto. L’armadietto va sempre regolarmente chiuso col lucchetto, per
evitare sparizioni inprovvise di camicie o addirittura delle proprie scarpe da
lavoro. Dentro allo spogliatoio ronzano troppi strani e bizzarri individui, che
amano occupare il loro tempo a frugare nella roba altrui. Altri si lavano le
mani più e più volte, fino a consumarsele. Ad ogni piccolo lavoro che
compiono si sentono le mani sporche e bisognose di essere lavate.
Consumano più sapone loro che l’intero esercito austriaco. Quando è ora di
andare a mangiare si tolgono i guanti appesi alla cinghia e si lisciano quei
quattro peli che hanno in testa. Certi si rassegnano e li fanno tagliare
cortissimi, quasi a zero, mentre i più ostinati fanno il riporto anche se ormai
c’è ben poco da riportare. Poi si dirigono verso la mensa con passo affamato,
svelto. Questo è il solo momento in cui si affrettano, quando il bisogno di cibo
rode loro lo stomaco. Le stesse chiacchere nel percorso lavoro-mensa, circa
trecento passi. I presagi futuri, le nostalgie passate, il sogno della pensione e
le nascite di figli prematuri. Sono tutte queste le chiacchere che si scambiano
ogni giorno. Sempre il rimestare dello stesso minestrone, o poco salato
oppure salato all’eccesso. La paura del fallimento della fabbrica, la paura di
rimanere a spasso a 45 anni, con niente alle spalle e senza alcun mestiere
messo da parte. Oppure le solite e ripetute notizie di attualità, quelle, per
dire, che recepisce anche l’ultimo dei sordi attraverso il linguaggio dei segni.
Queste ultime notizie sono girate e rigirate, digerite secondo la ricetta che
mamma televisione ha voluto servirci, insieme al pasto della sera. Al lavoro,
queste notizie vengono raccontate a stralci, omettendo oppure occultando
di propria iniziativa alcuni fatti, così come fanno i tiggi quando scoprono che
la notizia appena uscita dalla bocca del giornalista è un’inconcepibile bufala.
Durante i due sorsi del caffè sento i retroscena delle notizie sentite o lette.
Certi captano tra le righe informazioni che neppure i giornalisti conoscono. E
tutto si conclude con una grassa risata generale, o magari con qualcuno che
in fondo ci crede e se la beve. Quando qualcuno la sta per sparare grossa è
come essere dentro alla televisione con le mosche, un’aria frizzante pervade
lo spogliatoio inpregnato di fumo e scorregge che aderiscono perfettamente
alla supercifie della panca. Si sente anche un odore soffuso di topo marcio,
che matura piano piano come una pera sopra il proprio albero. La cazzata
viene detta e nessuno fa finta di intendere che è soltanto una grossa palla.
Ognuno se ne sta al proprio posto e ride sotto i baffi. Poi una voce si leva:
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“Fate furb piciù” (fatti furbo cazzone) e la tensione si smorza come per
incanto. Quando nessuno sa più che dire, si sta zitti. Tutto tranne andare
fuori a riprendere il lavoro. A volte si unisce anche il capo, si diletta anche lui a
narrare aneddoti e voci di corridoio dei piani alti. Poi qualcuno mosso da un
profondo senso di colpa, che in me è completamente dissolto, si alza e
riprende il lavoro. Magari ha fatto niente dalle 6 fino a quel momento, ma
sente il dovere di alzare le chiappe e fingere di svolgere qualche lavoro.
Oppure si lamenta con lo scemo di turno per i vetri rotti lasciati per terra, lui
che non ha fatto mai nulla in vita sua. Una zecca prolifica bella e buona.
Si narrano episodi riguadanti strani individui che hanno lavorato in fabbrica,
magari quanto io ero ancora in fasce. Come quella del derelitto che
sorvegliava i cessi e concedeva soltanto cinque minuti di tempo al
malcapitato che doveva farsi una cagata in santa pace. Lo stesso vecchio che
una notte venne chiuso nel cesso e lasciato lì per l’intero turno, con lui che
bussava senza posa alla porta e chiedeva di essere liberato. Oppure dei tali
che bevevano come spugne e che si infortunavano spesso e volentieri, come
l’operaio dell’impresa che un giorno, ubriaco come un fagiolo, cadde nella
buca di scarico, proprio nell’attimo in cui stava entrando il TIR. Ma
fortunatamente qualcuno lo vide cadere e urlò all’autista di fermare il
camion. Quando si entra, all’inizio del lungo corridoio che conduce ai reparti, si
legge: “VIETATO INTRODURRE BEVANDE ALCOLICHE”. Bella forza.
Oppure ognuno critica il lavoro dell’altro e viceversa, e i vecchi tendono ad
essere più meschini quando si tratta di sputare sentenze. Ma tanto stanno
per andare in pensione…
Ma basta con tutte queste idiozie sul lavoro. Sono solo attaccamenti morbosi
a qualcosa di puramente inevitabile. Sono solo scuse per non discutere sul
nocciolo della questione. Qual è la questione? Dunque vediamo.
Sono lungo disteso sul letto, mezzo addormentato, nella mia stanza.
Immagino di essere in un sacco a pelo in qualche sottopassaggio pedonale nel
centro di Torino oppure di un’altra grande e fredda città del nord. Immagino
il freddo che penetra dalle fessure del sacco e il rumore monotono dei passi
della gente che mi sfila dinnanzi. Magari qualcuno mi lancia uno sguardo
commiserevole. Magari un altro pensa di potermi derubare, portandomi via
gli ultimi cents che mi rimangono in tasca. E poi dopo aver immaginato tutto
questo ritorno al presente, nel caldo e morbido letto dove sono disteso, al
soffice piumino nel quale sono avvolto. E penso che in fondo ho una vita
troppo facile. Troppo tempo per pensare e rimurginare sulle sciocchezze che
si presentano tutti i giorni. Sono sempre troppo ben nutrito, protetto, sicuro
e al caldo. E qui dall’alto della mia posizione amo sputare sentenze spesso
stupide e inopportune, su questioni che magari neppure riesco a penetrare.
Guardo il mondo da questa posizione comoda, ma il mondo che vedo è solo un
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miraggio. E’ solo follia pura. Tutto è avvolto in carta da imballo e spessi strati
di ovatta, come suonare un pianoforte smorzato. I suoni e i colori sono
sbiaditi come in un quadro di Gauguin. La vita arriva qui moritura. Esala gli
ultimi respiri e poi spira ai miei piedi, come passeri avvolti in una nube tossica.
Il volume è molto basso, oppure son io che non ci sento abbastanza. Il mondo
va troppo in fretta oppure son io che sono troppo lento. Mi sento come chi
aspetta il treno al binario sbagliato. L’occasione passa e lui è girato dall’altra
parte, magari intento a grattarsi.
Bisogna uscire. Svagarsi. Divertirsi. Sembra facile divertirsi quando si è felici.
Quando si è tristi e annoiati la musica cambia. Ci si sente solo pronti a una
cosa: al macello, un macello che ponga fine a tutto questo.
Provo a uscire da solo dal guscio granitico che mi sono autoimposto, ma
ormai è tardi. Le emozioni che provo sono tutt’altro che piacevoli. Mi sento
terribilmente a disagio in ogni situazione, mi sento bene solo qui in casa, al
caldo e al sicuro. Là fuori passo il tempo strettamente neccessario, ovvero
quello per lavorare o per fare compere indispensabili, per il mangime e per le
tasse. Conto il tempo che mi separa da quando dovrò di nuovo
inevitabilmente lasciare casa per recarmi al lavoro, magari di notte, quando
tutti escono per far festa e rallegrarsi. Prendo la macchina e vado a
Savigliano stancamente, lentamente, molto lentamente. Vedo la fila di chi
entra in discoteca, le BMW che svoltano a sinistra piene di ragazzi e ragazze
che se la spassano. Vedo macchine sfrecciare per le città illuminate, con
finestrini appannati e sguardi osceni. Maledico tutto quello che mi si presenta
davanti. Vorrei ammazzarli uno ad uno, come un sicario munito di coltello.
Disprezzo ogni sorta di manifestazione umana, mi fanno schifo. Ogni cosa che
compiono per tirare in quanche modo avanti mi fa vomitare. Io mi dirigo al
lavoro e mi rinchiudo nel mio spazio dove non parlo con nessuno se non per lo
strettissimo necessario.
Quando al lavoro vedo qualcuno avvicinarsi per chiedermi qualche
informazione oppure qualche aiuto, mi sento male, mi viene da nascondermi.
Nessuno parla con me, non quattro chiacchere. Sono io che le rifiuto e mi
chiudo in un mutismo sconcertante. Alcuni, i più espansivi per così dire,
cercano di stabilire un certo dialogo. Ma il mio dialogo si riassume con dei sì e
dei no, e a volte un ciao detto piano. Non so nulla di loro e non me ne frega
niente. Il turno più bello è la notte appunto, quando nessuno mi ronza
attorno. L’unico momento della notte che non amo e quando devo andare a
ritirare il pacco sostitutivo alla mensa. Infatti in questa occasione incontro il
guardiano e gli altri operai che lavorano nel mio turno. Ma io cerco di andare
in un momento in cui non c’è più nessuno, in modo da dover incontrare
soltanto il gurdiano che consegna i pacchi…
Ma sto degenerando. Tra un sogno e l’altro vissuto nella veglia mi abbandono
a fantastiche dormite fatte di stanchezza e overdose di libri. In questo
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momento sto dedicando tutta la mia attenzione alla letture delle opere di
Henry Miller. Ho già divorato ripetutamente Primavera Nera, Tropico del
Cancro, Nexus, Sexus e Plexus, Il mondo del sesso, Big Sur e le arance di
Hieronymus Bosch, Paradiso perduto, un pezzo di Uccello Pazzo, e così via.
Voglio leggerli tutti. Vado nelle biblioteche per cercare i libri di Miller che non
si trovano in cartoleria. Ho anche cercato su internet notizie su di lui, la
biografia, alcune pillole e un brano scritto in inglese tratto da Primavera Nera.
Ho anche trovato informazioni su Anais Nin, foto che la ritraggono più o
meno giovane. Ho notato che la Nin è invecchiata molto bene. Appare più
affascinante in vecchiaia, con la faccia distesa e i capelli raccolti dietro la
nuca.
Naturalmente ho anche trovato foto di Henry Miller, ma tutte lo ritraggono
quando ormai era vecchio. Non riesco a farmi un’idea di com’era nella New
York degli anni 20, quando lui narra le vicende della Crocifissione Rosea. Le
foto che ho scaricato sono tutte posteriori al 1950 almeno. Ho anche trovato
una foto di Mona (June) che la ritrae da giovane, probabilmente nel periodo in
cui era stata sposata con Henry.
Oltre a leggere e guardare la televisione non faccio praticamente nulla. A
parte il lavoro certo. Ma il lavoro non lo tengo neppure in considerazione.
A volte tento di sgranchirmi le dita alla tastiera scrivendo qualche storia
pazza oppure raccontando qualche aneddoto. Ho racchiuso tutti i miei
pensieri in un breve libro che ho intitolato Luce e delirio, che ho già
lungamente e ripetutamente letto e corretto. Sono abbastanza soddisfatto
del risultato che ho ottenuto. Mai credevo di essere in grado di farcire più di
settanta pagine word, scritte in times new roman con carattere quattordici.
A volte i brani sfuggivano letteralemnte dalle mie dita. Ero come rapito da
una vena artistica che mi imponeva di scrivere anche per diverse ore,
ovviamente tutto alla sera tardi oppure in piena notte. Per fortuna la tastiera
non rumoreggia come una vecchia macchina da scrivere, altrimenti avrei
tenuto svegli gli abitanti della mia casa e di quella vicina.
Ora sono qui in attesa di buttare giù altra roba sulla carta, o meglio sui file
word. Ci saranno ricordi, molti ricordi di vari periodi della mia vita. Voglio
riuscire a catturare quelle improvvise reminiscenze che mi avviluppano
improvvisamente e che mi scaraventano in passati remoti. Generalmente
queste reminiscenze non hanno nessun nesso con ciò che stavo al momento
dicendo o facendo. Gli istanti ricordati sembrano come visti attraverso un
potente binocolo e racchiudono gocce di ricordi nitide, mai corrose dalla
coscienza.
Occupo il mio tempo anche dipingendo. Sul genere astratto generalmente.
Apro i colori che foglio dopo foglio scelgo e li metto su un piattino e poi
intingo il pennello nel colore fino a quando si esauriscono. Se il foglio è
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coperto dal colore solo per metà poco male. Afferro un altro tubetto e scrivo
il mio nome in basso a destra.
A volte mentre aspetto asciugare il prodigio, gli scatto alcune foto a distanza
ravvicinata del tipo 2 o 5 pollici e poi le scarico sul computer. Con le
elaborazioni di queste foto ottengo altri quadri, altre opere d’arte sospese
nel vuoto.
Tutto questo mi affascina, anche solo la vista di uno spruzzo di colore mi
eccita e la mente corre a mille su infinite possibilità per esprimere la mia arte.
Il pennello molte volte è guidato dal caso, poche volte dalla ragione. Le
sfumature si evolvono a loro piacimento. E alla fine dell’opera magari non
riconosco ciò che ho fatto. Sono allibito di fronte a certi ghirigori che escono
dal pennello. Molte volte a mente fredda, la mattina dopo, vedo l’opera sul
tavolo, asciutta. In quel momento la giudico e la apprezzo. Se la mia opinione
è positiva allora viene appesa ad una parete, per permettere al mondo di
contemplarla. Il mondo sarebbero mia madre e mio padre, e forse qualche
ignaro visitatore che probabilmente si chiederà “chi è che ha tracciato quegli
sgorbi incomprensibili?” Semplice, guarda la firma! Passano i giorni e i mesi e
lo scarabocchio appeso alla parete diventa talmente famigliare che sembra
essere stato lì da sempre. Sembra parte dell’architettura stessa della casa. E’
così che nasce l’arte, da piccoli passi compiuti nel vuoto, su un pavimento
fatto di zolle molli e senza nessun appiglio. L’arte è un ponte per arrivare alla
gloria, alla maestà, alla bellezza assoluta. Una volta arrivati alla gloria qualsiasi
sterco di topo può essere venduto per milioni di dollari. Una volta aperto il
varco nulla e nessuno riuscirà più nemmeno a pensare di poterlo chiudere.
Allora l’arte espressa in qualsiasi forma splenderà nel cielo eternamente e in
ogni luogo. Anche nelle latrine putride dello stadio dopo una partita di coppa.
Ma c’è un ostacolo che si interpone alla glorificazione, ovvero il tempo. Alcuni,
troppi purtroppo, conobbero la notorietà da morti, quando ormai i soldi non
se li potevano più godere. Altri invece non hanno mai conosciuto la notorietà
e mai la conosceranno. Resterà per sempre in fondo al loro cuore, una fievole
luce che illumina soltanto i bassi anfratti delle loro coscienze. Questi ultimi
sono i veri artisti, quelli che non lo fanno per denaro ma per una passione che
arde e punge le loro viscere. Perché chi raggiunge la notorietà perde la gloria.
A volte sembra di aver vissuto una situazione ancor prima di sperimentarla,
una sorta di chiaroveggenza che solitamente arriva sempre durante una
corsa in auto, dopo una notte in bianco passata a lavorare. E’ in questo tipo di
situazione che si valutano i propri progetti e si prendono le decisioni più
importanti. Come quando si finisce la benzina nel serbatoio ma poi si scopre di
avere la riserva. Ma questa riserva è illimitata. Dopo, quando mi metto a letto
in seguito a queste sedute, fuggo in un sonno privo di sogni e veloce come un
batter d’occhio.
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Questa chiaroveggenza avviene sempre per caso, senza nesso,
involontariamente. E come mettersi in cerca di una parola nel vocabolario e
poi divagare in letture del significato di altre innumerevoli parole. A volte
l’immagine della chiaroveggenza è veloce come un flash accecante. Non si
riesce a capirci nulla se non dopo qualche tempo, quando si vede l’immagine
proiettata dal flash per l’ennesima volta, sempre più ricca di particolari e
pennellate colorate.
A volte sto leggendo o guardando un quadro impressionista - fino a captare
le più minute pennellate - e di colpo la mente scivola in una penombra
subcoscente. Da qualche parte, lontano, milioni di pagine si scrivono sulla
carta eterea. In quegli attimi percorro migliaia di chilometri e vivo all’unisono
diverse vite. Basta ricordare un secondo e poter scrivere un libro intero.
Un momento davvero magico l’ho vissuto il pomeriggio del 18 giugno 2000.
Ero in coda per un trampolino di lancio, verso il mio Altro Io. Meditavo come
una vacca indiana pasciuta e attendevo di essere condotto ai bordi del
trampolino. Un po’ come l’infelice fila di vacche bastonate che attendono il
loro turno al mattatoio. Avevo gli occhi bendati con una bandana verde
chiaro e un panno verdone grande circa dieci centimetri per venti e il sole
picchiava violento. Dopo un’attesa di parecchi minuti sentii una mano
afferrarmi e condurmi verso il trampolino. Una volta arrivato sul bordo sentii
la voce del Nagual che mi sussurrava in un’orecchio di non pensare a nulla e
poi mi chiese, teatralmente quasi, se ero disposto a buttarmi, a lanciarmi in
un salto di più di 30 metri. Io dissi di sì senza esitare, senza più dubitare
minimamente di potermi sfracellare come un gabbiano con le ali tarpate.
Sapevo di farcela e mi tuffai, gridando, aprendo le braccia come un’aquila che
sta spiccando il volo. E in un’attimo tutto si compì. In sottofondo rimbombava
monotono il bongo con un ritmo tribale e io mi ritrovai a bocconi al suolo, con
la faccia piantata dentro un materasso di gommapiuma. Un’altra mano mi
afferrò e mi condusse a sedere su un prato. Ero contento. Contento di essere
ancora vivo ma soprattutto di averlo provato a me stesso.
Una voce disse che mi potevo togliere la bandana dagli occhi e così feci.
Eravamo tutti seduti, io e il gruppo di altri pazzi che avevano intrapreso
questa esperienza, su un prato e il Nagual barbuto ci parlava una lingua
universale e ci diceva che da quel momento in poi avremmo visto il mondo in
un modo diverso, con colori più vivi, con emozioni più amplificate. In effetti
fu così che mi sentii quanto tornai a casa dal seminario. Emozioni vere al
100%. E per di più anche molto intense.
Già durante il viaggio in macchina di ritorno mi sentivo un leone.
Sull’autostrada, per il tratto Mondovì - Carrù che ho percorso, ho rischiato di
sfracellarmi diverse volte. Al casello dell’austostrada di Mondovì ho
affrontato la rampa a una velocità spropositata. Poche centinaia di metri
dopo ho trovato una coda immensa, i soliti polli in rientro dalla gitarella
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domenicale al mare. Io non ho trovato nulla di meglio da fare che sorpassare
tutti quanti fino a quando ho notato un restringimento della carreggiata e
quindi sono rientrato, incastrandomi tra due auto in coda. Ero in trappola, tra
un fiume di auto a velocità non superiore ai 3 Km/h. Cercai nel marsupio una
sigaretta e l’accesi, anche se avevo promesso a me stesso che non avrei più
fumato. Respirai la sigaretta a pieni polmoni, quasi nauseato, quasi… Dopo tre
quarti d’ora di noia suprema sono uscito a Carrù e da qui è iniziata un’odissea
che mi ha portato a spasso per il monregalese, sbagliando strada diverse
volte. Finalmente a Fossano ho ritrovato l’orientamento e sono riuscito a
raggiungere casa. La sera ovviamente sono uscito, pieno di energia com’ero.
Lenciu è passato a prendermi in macchina e abbiamo raggiunto una birreria di
Sommariva Bosco, sempre la stessa di molte situazioni. Avevo il volto rosso
come un peperone per tre giorni di esposizione solare senza alcuna
protezione. Il naso era arrostito e la schiena tendeva ad assomigliare a uno
strato di brace piccante, sicchè prima di uscire coi miei amici ho messo a
mollo nell’acqua fredda una maglietta bianca e l’ho indossata fradicia, per
poter attutire il bruciore.
I giorni successivi a quest’esperienza sono stati molto piacevoli. Al lavoro, la
notte successiva, ero molto più dinamico del solito. Vedevo quelle sottili
tensioni che si formano sullo strato esterno delle lastre di vetro. Ho scoperto
come intervenire su queste microtensioni e modificarle con la semplice
pressione di un dito. Durante quella notte, al lavoro, ho anche sperimentato
la nuova mossa che avevo da poco appreso, ovvero lo spostamento del punto
d’unione. L’ho ripetuta diverse volte e sempre in modo efficace.
E’ una mossa straordinaria, capace di mutare l’umore e lo stato mentale.
Capace di rendermi euforico e allegro. Vale quasi una buona boccata d’aria
respirata in montagna. Vale quasi una vista del sole all’alba o al tramonto. E’
un buon metodo per sovverchiare una situazione. E’da provare, più potente
ed efficace di qualsiasi tipo di droga. E’ del tutto naturale, anche se ha quasi
del miracolistico.
Spiegare le sensazioni che si provano attuando questa mossa è inutile.
Nessuno che non l’abbia sperimentata non potrebbe capire assolutamente di
cosa sto parlando. L’unico modo per scoprirlo è sperimentarlo. Ma questo vale
per tutto, non solo per questa mossa. Tutto quanto sperimentato trascende
dai racconti e dalle spiegazioni. E’ un po’ come uscire da una scuola ed essere
certi di potersi inserire brillantemente in una fabbrica, applicando quello che
si ha studiato in giovinezza. Del tutto impossibile. Ovunque si andrà, lì
useranno inevitabilmente programmi diversi, aggiornati o semplicemente in
contrasto con tutto quello che ci è stato inculcato in testa.
Quindi bando alle ciancie e diamoci dentro con la sperimentazione, in ogni
campo, a 360 gradi sul mondo.
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Cloniamo le pecorelle, poi non paghi proviamo sull’uomo. Realizziamo un super
uomo che supera in brillantezza e in maestosità il proprio creatore. Per molti
anni, in passato, si è concentrata l’attenzione sulla robotica e sulla cibernetica
raggiungendo una macchina intelligente. Ma manca la cosa più importante, lo
spirito. Un fuoco che muove le coscenze e le intenzioni verso canali
differenziati e che è in grado di compiere tutto. Questo “piccolo” particolare
manca e allora la strada della ricerca ha deviato verso un nuovo ramo,
l’ingegneria genetica. Una scienza della quale un tempo si facevano film ma
che da qualche anno è attualità bella e buona. C’è stata Dolly, Copycat e infine
un clone umano. Ma la notizia del clone umano è stata diffusa a basso
volume, come se fosse cosa da tutti i giorni giocare con il DNA e con i vari
C,G,A e T. Quello che non dicono è che il più delle volte si ottengono veri
mostri della mutazione genetica. Capretti con sei zampe, cani senza mascelle,
tartarughe col guscio montato a rovescio e naturalmente anche una serie di
gatti siamesi col pisello orientato dritto verso la loro faccia. Non ci si deve
stupire se un giorno, mezzi addormentati, un cane-gatto ci attraversa la
strada ringhiando e facendo le fusa allo stesso tempo. Non dobbiamo stupirci
se un giorno, andando a pisciare, scopriamo di aver perso l’uccello nel letto,
disseccatosi durante la notte.
Non dobbiamo sturpirci della fiera di cancri, tumori, leucemie galoppanti,
demenze precoci, morbi di Halzaimer, Parkinson, fibrosi spastiche, tossi
canine, incubi e paranoie che passano in sfilata davanti a noi, come la sfilata
di un sarto all’ultimo grido. Non dobbiamo neppure stupirci se i figli si
compreranno al supermarket, per la serie “Ne ha ancora biondi?, No? Allora lo
prendo coi capelli rossi”. Poi la signora ne nota uno in un’angolo. “E quello? Ma
quello ha tre mani?”. “Sì signora, quello è destinato a diventare operaio,
infatti gli abbiamo installato un cervello piccolo e inoltre consuma poco”.
Tutto questo, forse, per raggiungere l’immortalità. Ma quale immortalità?
Moriamo come branchi di tafani a cui spruzzano un potente insetticida. Siamo
sempre più deboli. Vaccini per questo e per quello. Ci sono un mare di allergie
che un tempo neppure si sognavano. Ci sono più medicine che malattie. E
guai mischiare un farmaco per un altro. Si prende una pastiglia sapendo che
farà bene per il pancreas e male per la milza, alzerà la pressione ma farà a
pezzi il cuore. E così si entra in un circolo vizioso di medicine che turano i
buchi di altre medicine, fino a che l’organismo, overdosato, collassa come un
mongolfiera che si sgonfia ad alta quota.
Vacche e insalate geneticamente modificate. Insalata sempre verde, anche se
è marcia come una pera dimenticata sull’albero. Vacche intubate con uno
schermo virtuale piantato davanti agli occhi, con immagini di pascoli verdi e
ruscelli di acqua sorgiva. Invece sono intubate e il cibo passa direttamente al
loro intestino, nel frattempo un abile macellaio vestito da chirurgo o un
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chirungo vestito da macellaio - che è poi la stessa cosa - le pratica un netto
taglio all’altezza della coscia e ne cava una succulente bistecca. Magari quella
vacca al posto degli stinchi ha delle protesi di resina cellulare che le
permettono di star su. Tanto che gliene frega, lei sta immaginando di essere
in piedi in mezzo a un pascolo, circondata da molte sue simili.
Entrate in un Mac a caso sparso per il mondo e mentre gustate il vostro
spesso hamburger condito d’insalata geneticamente modificata chiedetevi
da dove arriva quella carne. Siete all’orto botanico ad osservare la
vegetazione lussureggiante e all’improvviso un’ortensia si alza per andare ad
iscriversi alla maratona. Oppure un maiale munito di pattini a rotelle
promuove se stesso facendo pubblicità ai salumi Beretta.
Strambi tempi, all’insegna dell’innovazione. Cumuli di computer ogni gorno
vengono surcalssati dai loro successori muniti di più mega byte e più giga
hertz. Orde di macchine sempre più ecologiche ma al contempo più care.
Prezzi alle stelle iniziando dalla benzina. Alla televisione ci mostrano il solito
filmato in cui un barile di greggio cammina su dei rulli e si allinea dietro a un
altro barile. E poi l’inevitabile commento sul rincaro della benzina e del
gasolio. Un altro servizio di appendice ci informa gentilmente che è stata
lanciata al salone dell’automobile l’auto ecologica, all’indrogeno; unico
problema: costa il doppio di un’auto normale. Così ognuno pensa che nel suo
piccolo, comprando un’auto che inquina zero, non migliora di certo la salute
del mondo. E poi d’altronde, che vogliamo farne delle migliaia di barili che
ogni giorno si pompano in tutto il mondo? E le fabbriche di auto, con progetti
futuri di veicoli a petrolio, dove se li mettono se prende il sopravvento il
motore ad idrogeno?
E’ fantascienza bella e buona, sognare in un prossimo futuro, le strade
trafficate di auto che tossiscano vapore e che consumino poco. Tutto
questo, forse, si potrà verificare non prima del 2050. Ma siamo sicuri che
allora la civiltà come ora la conosciamo farà ancora parte del mondo, o che
sarà soltanto un arcano ricordo del passato?
Ci sono terroristi in agguato piazzati in ogni dove sparsi per il globo, in barba
ai metal detector e ai dispositivi di sicurezza. Si impossessano di aerei oppure
di semplici autobotti piene di benzina e si lanciano verso palazzi, ponti, teatri
e ogni altro luogo che trabocchi di gente. Più morti provocano meglio
saranno collocati nella loro beatitudine islamica. Secondo le loro credenze
coloro che si sacrificano hanno un posto lassù nel loro paradiso, con a
disposizione un tot di vergini da deflorare.
Chissà a che pensano mentre si sfracellano contro un palazzo. Chissà che ha
in testa il terrorista imbottito di tritolo che entra in una banca e si mette in
fila, poi un attimo dopo boom! Di lui non restano che chiazze rosse e ocra qua
e là sparse per il soffitto e il pavimento. Nella sua mente, quando preme il
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tasto che innesca la bomba, si sente un Dio; crede che col suo sacrificio la sua
terra resterà benedetta.
La cosa certa è che quella terra sarà intrisa nel sangue e nell’odio, almeno
finchè le due fazioni non si renderanno conto di invocare lo stesso Unico Dio.
In fondo a me non importa molto delle questioni terrene. L’importante è non
restarci pizzicato in mezzo. In caso di guerra io sono salvo, obiettore di
coscienza a tutti gli effetti. Non so usare armi e non ho intenzione di
imparare. Se venisse qualcuno a chiamarmi per unirmi nella rivolta, lo
manderei tranquillamente a farsi uccidere. Che si ammazzino pure tra di loro,
tanto una fazione o l’altra sono lo stesso. Entrambe sono colpevoli solo per il
fatto di volersi fare la guerra. I soldati semplici si parano il culo e si lavano la
coscienza sostenendo che loro eseguono soltanto gli ordini di un loro
superiore. Ma non è così pultroppo. Ognuno è responsabile delle proprie
azioni. I colpevoli in questi casi sono due o più; chi ordina di far fuoco e chi fa
fuoco fisicamente. Ma questo è tutto tempo sprecato perché ovunque si
andrà si troverà un fanatico disposto a iniziare una guerra, e là dove accade ci
sarà un gregge pronto a seguirlo in tutto e per tutto. Qualcuno, molti
purtroppo, non sanno pure per cosa combattono. Sono solamente spinti da
una sorta di accondiscendenza. Magari assecondano una tradizione di
famiglia. Come quelli che vogliono fare l’alpino a tutti i costi soltanto perché il
loro padre e il loro nonno ha militato in quel corpo. E come si sentono fieri di
indossare quella divisa e quel cappello! Come si commuovono quando sentono
l’inno di Mameli suonato da una banda! Si portano la mano destra sul cuore e
cercano di cantarne le parole, magari stonando, ma cantandole.
Sono gli stessi che poi si trovano ai raduni, commossi e mezzi alticci, mentre
cercano di ricordare le facce dei loro commilitoni del servizio di leva.
Esplorano minuziosamente ogni angolo della caserma, con occhi umidi per poi
incontrare in un angolo, il proprio padre militare. E in quel momento, per
un’attimo, si sentono di nuovo ventenni e impauriti a dover subire le
punizioni. Quando ritornano alla realtà è troppo tardi, le bandierine tricolore
sono sparse a terra, i coscritti sono già andati via e la festa è finita.
Gli unici uomini che vedranno la fine della guerra saranno i morti. Dice il
saggio dall’alto dei monti, osservando le formiche uomo che si fanno la
guerra frenetiche.
Molte volte la guerra si scatena per sciocchezzuole, comunque sempre per
ragioni di territorio o monopolio. Ogni piccolo uomo caga sangue per potersi
ritagliare uno spazio di terra, una casetta dove fare il proprio nido, una
macchina più o meno grande con la quale potersi spostare e un conto in
banca tale da permettergli di dormire la notte. La massa di uomini che
condividono queste semplici e apparentemente buone intenzioni, quando si
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sentono rapiti della propria terra, stuprati della loro casa, quando vedono
assassinare la loro famiglia, allora prendono in mano il fucile e dichiarano
guerra. Si raggruppano e formano un’esercito e tale esercito a sua volta
invade il territorio nemico e stupra, assassina e rapina le città che incortra.
Tutto ciò scatena una reazione a catena che a volte sfocia in guerra
mondiale, mentre altre si traduce in armistizio e tutti tornano a casa con la
coda tra le gambe, come pecore che lasciano rigoli di sangue mestruando
abbondantemente. Quando ci sono vincitori, dovranno avvedersi dell’odio che
i vinti coveranno nel loro cuore. Nulla rende più efficiente un popolo che una
sonora e totale sconfitta. Germania e Giappone sono solo due esempi
concreti di come una nazione può raddrizzarsi e recuperare uno status
magnifico, tutto portato dall’intenzione di farla vedere ai vincitori, in ogni
campo.
Sempre e in ogni luogo vige la regola della causatività. In ogni situazione, mio
malgrado, sono artefice di ciò che vivo. Accade spesso però che non
riconosca questa causatività e mi stupisca di fronte a prove lampanti.
Non è il fatto di crederci o meno, la causatività esiste e coinvolge tutti, anche
i più scettici al riguardo. Solo che questi ultimi danno ad essa il nome di sfiga,
fato, iella e così via, insomma si considerano alla mercè della sorte. Come chi
si ostina a dimostrare, magari anche con metodi empirici o marchingegni
colossali, che Dio non esiste. Il credere o il non credere a Dio è una pura
dissipazione di energia. Chi crede vuole dimostrare la Sua esistenza, e chi non
crede vuole dimostrare che Egli non esiste. In ogni caso essi barano a se
stessi. Credere a qualcosa è uno sforzo notevole che impedisce di vedere.
Vedere Dio è tutt’altra cosa. Vedere Dio è comprendere come l’uomo può
divenirlo. Ogni uomo è un Santo o un Diavolo potenziale. Non il Santo stabilito
dalla chiesa secondo complicate regole, ma il Santo inteso come uomo che
non tradisce le sue aspettative. L’uomo che crede nei suoi sogni e li realizza
ad ogni costo e con ogni mezzo. Il diavolo in questione è invece chi tacita le
voci che si sente dentro per divenire un anello di una lunga catena oppure un
pezzo grosso dell’alta finanza.
Il Santo sovverchia tutte le regole. Non crede in ciò che credono gli altri, ma
in ciò che egli vede. Il Santo sa benissimo che ciò che vede ogni altra persona,
è solo un diverso approccio al mondo. Il Santo sa benissimo che la realtà è
quella stretta fessura in cui vede il mondo. La realtà è un buco di serratura,
oltre la serratura c’è solo una stanza vuota. Chiunque immagina di tutto in
quella stanza vuota, ma essa resterà sempre e solo vuota. Quello che vedono
è solo una loro proiezione, un film visto con un prioettore sofisticato: la
mente.
Il Santo diviene tale quanto giunto alla solita strada che lo porta nel solito
posto, di colpo cammina nel vuoto e respira il vuoto. Se si volta indietro
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rivede i soliti sogni, avvolti in una coltre di nebbia fitta. E quanto giunge nel
vuoto capisce di essere arrivato.
Il vuoto è la meta ambita da molti, dagli zoppi pellegrini che intraprendono la
via con la schiena curva, senza voltarsi e senza incrociare gli sguardi altrui,
come una tartaruga sulla ghiaietta. Camminano e si appoggiano a un solido
bastone di legno. Non si danno pace, neppure la notte, quando si torcono
come piccioni avvelenati. Continuano ad avanzare. Magari per dieci anni
percorrono un solo metro, ma poi improvvisamente, mossi da un
illuminazione, in un attimo macinano chilomentri e chilometri, senza neppure
rendersene conto. Mentre camminano sono consapevoli del fatto che mai
potranno tornare sui propri passi. Guardare avanti e basta è il loro motto.
Ogni sasso, ogni stronzo di cane pestato accidentalmente, è solo una prova
per valutare la loro integrità. Molti cadono come mosche e mai più si rialzano.
Si fossilizzano nella posizione della caduta e nuotano in un turbine di follia. Chi
per caso si rialza poi zoppica vistosamente. Non è però uno zoppicamento
fisico ma spirituale. Chi subisce una caduta poi è lento e cauto nei movimenti,
come un giovane automobilista all’indomani dal primo incidente. Lo zoppo
arranca per la strada, che è sempre in salita, in ogni luogo e tempo, e ci mette
l’anima per riuscire. Molte volte succede che esso perda la parte più
importante, ovvero la fede. Non la fede in qualche guru o in qualche invisibile
divinità, la fede in se stesso. Trovare la fede è un processo lungo e intricato,
ma perderla è molto facile e veloce. Qualche volta lo zoppo ritrova il suo
ritmo e le sue motivazioni. E’ come una tartatuga coriacea che avanza lenta
ma assidua, sotto il sole o sotto la pioggia, con bufera e pioggia. Come un
buon pneumatico Michelin… Lo zoppo quando ritrova la sua strada mai più la
perderà, perché ci sarà sempre e ovunque la gamba rachitica che gli ricorderà
quello che ha passato. Per la serie se non mi uccide mi rende più forte.
Ieri sera ero chiuso in fabbrica a lavorare, dalle 21 e 40 fino a due minuti dopo
le sei di stamattina. Le ore passavano lente come gocce di stalattiti, ogni
minuto faceva sentire i suoi rintocchi nella mia testa. Il rumore monotono
della fabbrica a volte passava in secondo piano, come se fosse stato
smorzato dalla ripetizione e dalla monotonia. Sbuffi, ansimi, rotture
inprovvise e sirene. Annunci grutturali all’altoparlante e qualche vetro rotto
qua e là sparso a terra. Nel cuore della notte il corpo procedeva quasi come
se fosse sotto ipnosi, guidato da potenti e invisibili forze. Il muletto
sfrecciava veloce per le corsie strette del magazzino saturo di vetri di ogni
spessore e colore, nelle curve strette sentivo lo stridere delle ruote e mi
tornava in mente lo stridente rotolamento delle ruote del grosso muletto in
dotazione ai membri del magazzino lastre. Mi pareva ancora di sentire il suo
eco nella notte, tra il ronzio delle ore piccole e i solenni sbadigli. Ogni minuto
mi sentivo più debole e assonnato, crollavo sulla sedia nell’ufficio senza
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neppure aver voglia di aprire il libro che mi stava davanti, Tropico del
Capricorno. Poi all’improvviso le ore hanno iniziato a scorrere a un ritmo più
veloce ed erano già la quattro e venticinque, solo un’ora e mezza alla fine.
Alle cinque e venticinque la produzione vetraria è crollata vertiginosamente e
le macchine sono state tacitate da qualche brava mano assonnata. Le luci si
spegnevano una ad una e tutti i rumori cessavano come per incanto, dopo sei
giorni continuati di produzione incessante.
Ore sei del mattino. Evviva! L’ora è giunta. Ora posso svestire i panni verdi
della Saint Gobain e vestirmi “civilmente”. Tolgo le scarpe anti infortunio e le
ripongo nel loro apposito vano all’interno dell’armadietto e poi lentamente
sistemo i panni verdi sporchi nello zaino, con ombrello e pacco alimentare
della notte precedente. Esco dallo spogliatoio e inizio il rito dello
spegnimento delle luci. In mezzo minuto il magazzino è buio e sonnecchiante,
si sente soltanto il ronzio dei carica batteria dei muletti. Io inizio a camminare
verso la bollatrice e quando sento il beep tiro un sospiro di sollievo. La
macchina umida coi vetri impregnati di rugiada mi aspetta paziente nel
parcheggio. Avviamento e via. Buona notte.
L’unica risposta a questo mondo ordinato e perbenista è la pura e semplice
anarchia. Un tumulto continuo tra diverse fazioni che si incrociano, tanto per
dimostrare di essere contro, anche quando magari non si conosce neppure il
motivo per cui si obbietta. Ma perché obbiettare direte voi? Ma perché
chiederselo? Non serve chiederselo quando tutto intornoa me va in malora
come pesci lasciati troppo sotto il sole. Obbiettare solamente per sentirsi vivi,
per sapere di avere ancora una goccia di energia in un corpo intaccato da
ogni sorta di formazione carcerosa. Obbiettare per non essere portati via
dalla corrente, dal gregge folto fatto di persone che ha accettato le
apparenze e che magari ci marcia anche sopra. E ci sarà sempre qualcuno che
ti guarda male, sia che tu rientri in questa o quell’altra fazione. In ogni campo,
ogni luogo, ogni condizione c’è chi dice “no!, non ci sto!”. E magari ha pure
ragione, uno contro mille, una formica astuta di fronte a un pachiderma in
sovvrappeso. Anarchia formata da una grande A maiuscola cerchiata.
Ricordo quando vidi per la prima volta il simbolo dell’anarchia, spruzzato con
una bomboletta sulla parte bassa di un muro. Mi trovavo a Ravenna, durante
la visita scolastica di una basilica della città, nel lontano ’94, anno delle prime
canne e delle prime ciucche. Notai il simbolo e mi restò impresso, nero su un
muro bianco. Segno che di là loro, gli anarchici, erano passati. Allora non
sapevo neppure che significasse anarchia, pensavo fosse un partito politico,
nientemeno.
Nella mia ignoranza durante quella gita mi spippai una deliziosa canna, offerta
da una ragazza di un altra classe. Ne aveva una scorta nel suo zaino che
bastava per metà gitanti. Ne grattò un pezzetto dal suo malloppo e dopo
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pochi minuti la canna era pronta. Eravamo nella stanza d’albergo a Rimini. A
un certo punto della partita a carte che stavamo giocando, Mirko ed io
andiamo in bagno e spalanchiamo la finestra. Accendo il cannone e tiro
portentose note, e poi Mirko fa altrettanto. La canna è finita e non ce ne
siamo neppure accorti, butto i resti nel cesso e tiro lo sciaquone. Quando
ritorniamo nella camera e ci sediamo sul letto sono fuso perso. Prendo in
mano le carte e fingo di giocare e mentre faccio questo sbircio le carte di
Cisco e mi piscio sotto dal ridere. E Mirko, con le guance rosse, ride e dice a
Lucio: “Guarda Paolo quant’è fuso!”. E lo sono inevitabilmente. In camera c’era
anche una bottiglia o due di vodka, semi ghiacciata, comprata in qualche
spaccio alimentare all’ultim’ora. Ne bevo qualche sorso e poi anche Cisco ne
beve. Inprovvisamente, senza ragioni apparenti, un attimo dopo che ha
bevuto, Cisco ha un’emorragia nasale. Mentre tampona il sangue dice tutto
compiaciuto: “Ho fatto troppo il furbo!”. Secondo lui era per questo che gli
sanguinava il naso, per aver bevuto un innoquo sorso di vodka. Se così fosse
negli anni a venire avrebbe dovuto morire dissanguato, per quanto ne so io.
La camera era una sorta di santuario che visitavano tutti, per via della vodka
offerta gratuitamente. La sera successiva ci portarono in una discoteca di
Rimini, tutta la comitiva. In omaggio col biglietto d’entrata una cassetta con
orrenda musica da discoteca, ma di cinque anni anteriore all’epoca in cui
stavo vivendo. Una sorta di regalo pacco, per la serie per buttarle le diamo a
quel branco di ragazzini inebetiti.
Il metodo di scrittura è cambiato in questi ultimi cinquant’anni. Ora si usa il
computer, mai la macchina da scrivere, tanto celebrata fino agli anni settanta
e ottanta e poi soppiantata da questo delizioso strumento di alta tecnologia
che è il PC. E’ meno rumoroso e lo si puo usare al buio, in quanto lo schermo
illumina la tastiera. Ciò che scrivo può essere stampato dalla stampante a
getto d’inchiostro alla mia destra. La cosa fenomenale del PC è che corregge
da solo gli errori di battitura e ortografia che di tanto in tanto commetto. A
volte è fin troppo precisino, non ammette ripetizioni. E’ quasi peggio che
avere una professoressa di italiano che ti alita sul collo mentre scrivi un tema
striminzito. A volte suggerisce la virgola da me poco usata. Altre volte invece
demolisce una parola da me pensata, magari scervellandomi per cinque
minuti e suggerisce gentilmente l’uso di un altra. L’unico fastidio, che dopo un
po’ passa in sottofondo, è la ventolina di raffreddamento che gira senza
posa. Magari in un prossimo futuro il raffreddamento sarà ad acqua, come
sulle auto.
Un tempo, agli albori della mia carriera letteraria, avevo acquistato a
Savigliano una macchina da scrivere Olivetti beige, portatile. Era una forza,
per quei tempi e per il badget che avevo a disposizione. Tornato a casa dal
negozio iniziai a sgranchirmi le dita con copiature di libri di testo (all’epoca
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frequentavo la scuola media). Poi passai a scrivere una storia che avevo
inventato, una sorta di chiaroveggenza della mia vita futura. La storia aveva
come titolo “Fare il militare” ed era scritta su fogli protocollo a quadretti,
strappati dalla metà di qualche quadernone di scuola. Avevo ricopiato la
storia molte volte, riuscendo ad ottenere una copia senza errori né
cancellature. In breve la storia raccontava le mie vicende dopo aver finito il
corso di studi superiori, all’ITIS. Non c’era specializzazione nel corso di studi,
ero diventato un generico perito tecnico. La storia ha inizio nell’estate
successiva al diploma, con una vacanza in Sardegna con amici, nientemeno
che in bicicletta. Dopo questa breve vacanza post diploma l’arrivo
dell’agognata cartolina militare. E la partenza per una qualche caserma
militare con destinazione inprecisata. E poi una solfa sulle esercitazioni e gli
addestramenti praticati durante il periodo di leva, insomma un rimasuglio dei
racconti di mio padre sulla sua esperienza militare e un pezzo preso in
prestito da un telefilm in voga a quei tempi, Classe di ferro. Ora che ci ripenso
non sono mai riuscito a concluderla quella storia, l’ho interrotta nel bel mezzo
di un’esercitazione. Il racconto incompiuto è stato per diversi anni sul fondo
della scatola di plastica che conteneva la macchina da scrivere.
Successivamente è andato perso.
Poco tempo fa ho cominciato a cercarlo tra i quaderni e i libri di quel periodo,
ma inutilmente.
La stessa sorte è toccata a un breve racconto che scrissi sul Pc questa volta,
immediatamente dopo la morte di mia nonna paterna. La morte della nonna
ci colse tutti di sprovvista. Morì la sera di Natale del 1993, nella vasca da
bagno di casa sua, dove viveva da sola dopo la morte del nonno. Fu mia zia
Caterina che la trovò la mattina di Natale e la notizia arrivò subito a casa mia.
Fu mia madre ad annunciarmelo con un fatalistico: ”Lo sai cosa è successo?”,
con voce rotta dai singhiozzi. Scesi dal letto e mi precipitai di sotto. Dopo un
po’ arrivarono i miei zii e mia zia per annunciarlo ufficialmente a mio padre,
perchè presumevano prendesse la notizia nel modo sbagliato. Questo fatto,
ovvero la cautela usata in quell’occasione mi dà ancora oggi sui nervi, non
riesco proprio a comprendere tanto tatto, per una notizia che alla fin fine si
riassume con una sola frase coincisa.
Comunque dopo la notizia della scomparsa della nonna sono andato a piedi
per la strada che conduce al lago Oasi dei Drolu e mi sono fermato nel punto
dove il canale della Brunotta si incontra con il Maira. Qui ho inizato a
singhiozzare senza posa per qualche minuto e giunto a casa mi sono seduto
davanti al Pc e ho buttato giù i pensieri che avevo in testa. Ricordi, aneddoti e
un mare di altre cose di cui ora non c’è più traccia. Il file è andato perso e ne
sono molto dispiaciuto, è come se avessi perso una parte preziosa di me. Era
uno scritto dove avevo sviscerato i buoni sentimenti e li avevo inpressi sulla
nuda carta.
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Dalla perdita di quel file sulla nonna ho iniziato a salvare i miei scritti sui
dischetti, per avere un riscontro anche in caso in cui cambi computer oppure
se quello attuale prenda un virus letale che intacchi la memoria.
Ora voglio andare indietro con la memoria e far affiorare alla superficie
l’estate del 1995. Era il periodo della festa della Tagliata, una frazione del
paese. Alcuni amici ed io, cinque in tutto, ci siamo messi in viaggio per Torino,
Murazzi. L’intenzione era di comprare un po’ di fumo e fumarcelo in santa
pace in qualche posticino tranquillo. Il conducente dell’auto, Chanel, ha
parcheggiato la macchina in piazza Vittorio e siamo scesi ai Murazzi. La cosa
più facile del mondo era procurarsi un po’ di fumo. C’era addirittura qualcuno
che proponeva la vendita di eroina o acidi. Ma noi volevamo restare sul fumo
e incontrammo un nordafricano, circa al fondo dei Murazzi. Dopo una breve
contrattazione avevamo in mano il fumo che volevamo e così abbiamo
lasciato Torino a tutta birra. Rino seduto davanti, a fianco del conducente,
rollava la canna e noi dietro, Pierino, Sandro ed io, aspettavamo a bocca
aperta di fumare. Finalmente la canna era pronta e Rino l’accese. Poi la passò
al guidatore, Chanel che a sua volta la passò dietro. Di dietro già stavamo
sclerando e finalmente la canna giunge alla mia bocca, contornata da un
grosso portacenere che si doveva tenere sotto lo spinello per non incendiare
i sedili e i tappetini. Un buon fumo, rollato magistralmente. La musica del
Palace risuonava nella grossa cassa di uno stereo di casa disposta
orizzontalmente nel baule e la macchina sfrecciava per la strada che porta a
Caramagna. Prima di tornare a casa siamo passati alla festa della Tagliata, ma
data l’ora (erano circa le 23) era quasi deserta. Da una piccola giostra
proveniva una debole musica. Noi ci siamo seduti sulle panchine della giostra
e poi a qualcuno è venuta sete e allora siamo andati al carrozzone del torrone
Gallo per prendere qualche birra. E poi dopo le birre siamo andati di nuovo ad
imboscarci dietro la festa, in un tratturo dietro a un muro di cinta, e Chanel
ha girato un altro spinello. Poi abbiamo deciso di fare un salto alla birreria dei
Drolu e l’abbiamo trovata abbastanza piena. Ciccio stava cercando di entrare
nella birreria dalla porta scorrevole ma non aveva la forza sufficiente di
aprirla di più di una spanna, così si è girato di traverso ed è entrato sfregando
la camicia ai cardini della porta, attirando gli sguardi su di lui, per mezzo
divertiti e per mezzo seri. Perché con tipi come Ciccio non c’era mai da
scherzare. Potevi trovarti una bottiglia di birra rotta in testa in qualsiasi
momento. Un tossico belle buono, col viso scavato e arso come se fosse
sempre vissuto nel deserto.
Noi ci siamo accomodati ad un tavolo fuori e ci hanno portato dei bei
hamburger sugosi, di quelli che ancora oggi mi viene l’acquolina in bocca a
pensarci. E poi mi hanno portato a casa, e la macchina di Chanel, una vecchia
Golf rosso ossido mezza scassata, ha rombato nella notte. Io prima di entrare
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in casa, come al solito, ho nascosto sigarette ed accendino sotto la tegola
proprio sopra il mio citofono. Mi vedo, ancora oggi come se fosse il presente,
a tastare sotto la tegola per cercare un pacchetto di cicche, magari reso
fradicio da un temporale improvviso.
Turbini e follia. Pungenti suoni provengono da destra e sinistra. Fiati caldi e
aliti freddi sfiorano gambe e braccia di un corpo sconvolto dall’exstasi. E così
che i miei vecchi amici mi raccontarono la loro esperienza di Empoli, quando ci
andarono. Uno aveva in faccia una maschera da saldatore e un altro un buffo
cappello da gnomo. Erano in piedi davanti a una pasticceria quando l’acido
salì. Uno di essi pochi minuti prima era entrato in pasticceria per prendere un
bombolone e poi, quando si girarono di nuovo verso il negozio, lo videro
chiuso. Magari loro erano stati lì davanti per ore pensando che fossero
minuti. Era un’allegra combriccola di pasticcomani, certi assuefatti tanto da
prendere tre o quattro acidi per volta, come se fossero caramelle. Proprio
uno di questi personaggi, uscito dall’adolescenza già da parecchi anni, si
dilettava a fare giochi di memoria con filtrini che aveva preparato e messo in
tasca. Il gioco consisteva nello stabilire, a colpo d’occhio, il numero di filtrini
che lui aveva sul palmo della mano. Anche lui partecipava e sparava un
numero e quasi sempre indovinava. A volte si portava appresso un chiodo a
pressione o una biro, le smontava e cronometrava il tempo che ci
impiegavamo a rimontarle. Altri individui, che eccedevano nell’uso di acidi,
erano impegnati freneticamente in ritmi prodotti con la bocca e battendo le
mani sulle loro cosce. Per minuti o anche ore erano impegnati in queste
attività, che ricordavano vagamente i tic nervosi di un demente.
Seguivano sempre i ritmo della musica a volume a palla, sempre gli stessi ritmi
ascoltati fino alla nausea nelle discoteche progressive.
Una sera ho anch’io preso parte ad un ballo sfrenato nell’allora Ultimo Impero,
mitico ritrovo di tutti gli impasticcati del circondario. Questo enorme locale
era situato ad Airasca, alle porte di Torino. Io e il gruppo siamo partiti in treno
per Torino, già con qualche canna in corpo e altre in procinto di essere
fumate. Nel viaggio in treno c’era già chi pregustava le gioie della serata. Io
battevo i miei cannoni sul vetrino del mio Sector nuovo di zecca, tirato a
lucido come una fuoriserie. E pensavo che brutto sarebbe stato se, nella foga
della serata, avessi rotto il vetrino dell’orologio. Sicuramente avrebbe
rovinato qualsiasi esito della serata, qualsiasi fusione sarebbe passata in men
che non si dica per lasciar posto alla depressione. E la ricerca di una balla
qualsiasi per giustificare la rottura dell’orologio, una volta tornato a casa.
Arrivati a Torino ci aggirammo incauti per le arterie intorno a Porta Nuova,
vedendo qua e là barboni e tossici in cerca di cento lire. Non sapevamo come
raggiungere l’Ultimo Impero e così optammo per la soluzione più costosa, il
taxi. Raffaele nella corsa in taxi conversava amichevolmente con l’autista,
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dimenticandosi di essere fuso perso come tutti quanti noi, seduti dietro. Alla
fine della corsa sganciammo sessanta mila per la corsa, quindici a testa. Una
bella sommetta per me che non avevo lavoro e soldi. Il colosso, chiamato
Ultimo Impero, era di fronte a me e emetteva fasci di luce neutra. Una musica
rimbombante usciva dalle fessure d’entrata che di tanto in tanto si
socchiudevano. C’era un formicolare di gente da tutte le parti, la cassa
imballata di formiche umane fino all’ultimo centimetro. Dopo un po’ di coda
siamo entrati dentro. L’Ultimo era suddiviso in aree enormi, collegate tra loro
da scale e corridoi. A terra i pavimenti si accendevano di luci bianche e
azzurre. A destra e a manca gente intrisa nell’acido e nella cocaina.
Io vado al bar e prendo un bel Jonny Walker, vecchio amico di sempre. Mi
viene servito in un piccolo bicchiere dove non riesce neppure a respirare. E
poi mi butto nella mischia e comincio a ballare. Uno del gruppo ha preso una
pasta cattiva e sta di merda, collassato su un divanetto con gli occhi di fuori,
come dentro a una vertigine tropicale. Io senza acidi e senza paste sto
d’incanto. Il whisky fa il suo dovuto effetto, attutisce la musica e il male alle
ossa. Dopo qualche tempo di balli sfrenati, a controcermi in mezzo alla pista,
quasi come se avessi il ballo di San Vito oppure le cimici che mi mordono il
culo, vado al cesso e trovo il solito spettacolo indecente. Un lavandino saturo
di vomito fino al sifone, con un limone che galleggia disperato. Nel cesso uno
stronzo cacato fuori dalla tazza e qua e là gente con gli occhi di fuori che si
esamina allo specchio, vene gonfie alle tempie e visi pallidi come budini alla
vaniglia. Una vertigine mi assale, devo ancora bere qualcosa, stavolta
qualcosa di leggero, tipo un gin tonic. Arriva l’ora di andarsene. Usciamo e
raggiungiamo la fermata del pullman. Lì ad aspettare troviamo Maurilio, con
una canna che sta per spegnersi, con i soliti capelli lunghi e lo sguardo
allampanato. Arriva il pullman e ci buttiamo sui sedili malconci, alcuni sono
sporchi di vomito, ma non ci faccio quasi caso e mi accomodo in un posto
relativamente pulito vicino al finestrino. Sfrecciamo nella notte, condita con
un cerchio alla testa e poco dopo siamo a Carmagnola, vicino alla stazione ad
attendere un inarrivabile treno per Racconigi. Dopo un’eternità si sentono le
ruote del locomotore stridere, accompagnate dal gran puzzo di freni. E di lì a
poco siamo a Racco, è quasi l’alba e si va a casa, niente colazione non c’è ne
più la forza.
Tutti questi episodi si susseguono come cartoline illustrate incollate ai raggi
di una bici da corsa, facendo un rumore sfarfallante. E’ come la liberazione
simultanea di una decina di piccioni, i quali volano in tutte le direzioni.
Certi ricordi emergono in seguito a lente e meticolose meditazioni, altri mi
aspettano dietro l’angolo, magari dopo una nottata passata a lavorare
oppure a navigare in Internet. Altri ricordi sembrano sbiaditi, anche se magari
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molto più recenti di altri memorizzati alla perfezione, fino al più minuto
dettaglio.
Basta aprire i cassetti e farli uscire. Certi sono coperti da cumuli di polvere,
ma dopo una sufficiente spolverata ritornano fiammati, come una Rolls che
vede la luce dopo decenni di sosta in un granaio.
E con i ricordi compaiono anche vecchi scheletri, appesi ad armadi capienti. Ti
sorridono, anzi ti ghignano addosso e lasciano trasparire tutto quello che
contengono. Attraverso le bianche e lustre ossa si legge un incubo vissuto nel
passato. E’ inutile chiudere gli occhi, l’incubo salta lo stesso fuori e rimbomba
nella mia testa.
Di solito questi incubi compaiono a braccetto con paranoie del presente, per
completare l’opera per così dire. Sono sempre accompagnati, per rafforzarsi
gli uni con gli altri. Quando credi di averli dimenticati, rimossi secondo il gergo
dei dottori della scuola freuidiana, ecco che compaiono più vividi che mai.
Magari sotto mentite spoglie, celati dietro compassione, fratellanza, umanità.
In verità sono solo paura di restare soli ed essere considerati diversi. Queste
paure muovono in 99 per cento delle buone azioni. Ma ovviamente ci sono
anche le eccezioni. Ci sono persone che sono nate martiri e vogliono vivere e
morire come tali. Contente loro …
Ama il prossimo tuo come te stesso è una regola stupenda. Ma chi non si
chiede: “il prossimo mio amerà me?”. Chi mette in pratica questa regola,
magari sapendo di essere il solo e unico a farlo? Molti si chiedono perché un
delinquente meriti di vincere al totocalcio o diventare Presidente del
Consiglio… pochi rispettano il credo o in non credo altrui, vogliono che la loro
religione sia praticata da tutti, nessuno escluso, e considerano primitive
religioni vecchie quanto l’uomo, o forse di più. Chi è che vive senza mettere in
conto tutto questo, andando avanti senza voltarsi e senza guardare in faccia
nessuno? Chi? Nessuno. Chi l’ha fatto è stato inchiodato a dei pezzi di legno a
croce. E tutti gli altri non hanno capito nulla.
Ma ritorniamo alle paranoie che ricompaiono. Sono come una corda, messa in
bella mostra, in una vetrina di una casa dove si è impiccato qualcuno.
All’improvviso uno ha in testa solo quello, lo stesso pensiero martellante,
monolitico che grava sulla giornata come un maglio su una piaga purulenta.
La paranoia fa eco nella testa, è un’eco che tende ad ingigantirsi, a forza di
sbattere sulle pareti spoglie della mente. Poi di colpo si spegne, ma intanto la
mente resta sconquassata, come se in un salotto buono da té fossero passati
un branco di maiali su pattini a rotelle.
A volte mi sento in fuga, come se stessi scappando da un incontro fortuito,
magari tra i corridoi della fabbrica. E’ una corsa snervante verso la macchina e
poi a casa a rinchiudermi nella mia tana, la mia stanza. Da qui osservo il
mondo e non ne faccio assolutamente parte. Sono il guardone che si apposta
dalla finestra e che magari conta le macchine che passano. Sono l’ascoltatore
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che vede il telegiornale e con molto distacco cogita le notizie nella propria
testa. Il mio sogno è un mondo deserto, un po’ come dopo una ipotetica
guerra atomica dove tutto è stato raso al suolo. Oppure in un’isola deserta,
mai mappata da nessun cartografo sclerotico, mai conquistata da nessuna
nave pre e post Colombiana. Nell’isola solo lo stretto necessario. Cibo, anche
solo vegetale, e un bel paesaggio da contemplare. E alla fine della vita
l’accesso a un portale telematico dove poter scaricare tutte le riflessioni
scritte in lunghi anni di solitudine. Una divulgazione dell’opera di un pazzo
misantropo che non ha spiccicato parola con nessuno da quarant’anni. Questa
notizia rimbalzerebbe su tutti i giornali, internet per prima. Sicuramente
l’articolo inizierebbe così: “Nell’era dell’informatica e della telecomunicazione
di massa un uomo ha deciso di chiudere con la società e vivere in mezzo alla
natura…” e via dicendo e poi alcuni stralci sull’attività poetica e prosaica.
Niente fila ai supermercati, niente tasse, pieni di benzina, ritiro dello stipendio
e della pensione. Una sorta di spiegazione sul fatto che 2000 anni di
progresso non sono serviti a nulla. Un modo per spiegare che l’uomo delle
caverne e delle foreste era molto migliore di noi, sotto ogni aspetto. Non si
perniciava nelle comodità e negli hobbies. Faceva solo lo stretto necessario
per garantirsi la sopravvivenza. Un modo per far capire al mondo che la
modernizzazione ha portato soltanto a una restrizione della massa celebrale.
E il più intelligente tra tutti noi ha il merito, niente meno, di aver posato le
basi teoriche per la realizzazione della bomba atomica! E tutti gli altri idioti?
Dove sono andati a finire i filosofi dei tempi antichi, Aristostele, Platone e
Socrate a cui fecero bere cicuta. Dove sono finite le loro menti, le loro
illuminazioni? Oggi per essere un genio devi inventare una macchina a
propulsione idrica oppure debellare chissa quale malattia. Ma se spari solo
sentenze dall’alto della tua laurea in filosofia ormai non sei più nulla. Che
mondo, ma è questo un mondo che non dà più ragione ai filosofi ma che si
accontenta del parere degli scienziati? Ma sono impazziti tutti… Dove sono
andati a finire i saggi barbuti in veste bianca, gli illuminati, i maestri esoterici?
Ci sono solo più maghi e maghetti, streghe e fattucchiere. E’ finito il tempo
delle fate e dei folletti, questo è il tempo dell’oroscopo e della lettura delle
carte in TV. Basta accendere una televisione locale a caso e ti imbatti in una
signora di mezz’età che legge placidamente le carte, oppure uno
pseudomaghetto finocchio che dà i numeri al lotto come se fosse miglio per
piccioni. Questi individui non hanno colpe, la loro unica colpa è vivere in un
mondo permeato dalla stupidità. Gli annunci sono esileranti, oroscopi
dettagliati, pozioni d’amore e di fortuna, amuleti e pietre energetiche. Tutto
consegnato per posta con imballaggio anonimo, in modo che il portinaio o la
tua vicina di casa non ti possano ridere dietro quando ricevi il pacco… bel
pacco, con annessi e connessi. Dentro al pacco una pietra, un botticino di
acqua colorata o semplicemente niente, tanto che differenza fa?… Magari ci
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sono degli speranzosi che con la pietra al collo si sentono degli eroi o dei
Rodolfo Valentino. Si spargono il collo di acqua colorata e credono di attirare
tutte le tope del pianeta, come un Fonzie ma senza lo schiocco delle dita.
Poveri illusi. A volte però funziona, ma non è la pozione che fa effetto, è la
fiducia in loro stessi che cresce, supportata dalla presenza di questa o di
quella pietra magica. E’ la loro volontà che la fa da padrona. E maghi e
maghetti lo sanno, sono consapevoli che basta dare una scossa, accendere la
scintilla che permette poi al malcapitato di compiere ciò che vuole nel
migliore dei modi. E’ tutta questione di volontà. La volontà non si vende a
buon mercato in qualche bazar, la volontà o c’è l’hai o non c’è l’hai. E’ inutile
poi prendersela con l’amuleto o la fattucchiera, accusandoli che non hanno
causato il dovuto effetto. Devono prendersela con se stessi, infatti chi è
causa del proprio mal pianga se stesso. Ed è vero, al cento per cento dei casi.
Siamo noi che ci procuriamo il male, che esso sia sfortuna, problemi sul
lavoro, cancro, cefalea, ernia al disco o qualsiasi altra situazione che spezzi
l’equilibrio e ci scaraventi nella cerchia dove dolore e fatica di vivere la fanno
da padroni. Sembra follia pensare questo, concepire che noi siamo gli artefici
di tutto, sembra una presa per il culo, ma non è così, è la sacrosanta verità.
Siamo noi che deteniamo il potere per cambiare la nostra vita. Ma attenzione,
abbiamo anche il potere di distruggerla. Se si è pessimisti è come aver già la
propria fossa scavata per metà. L’ottimismo paga. Prima di tutto perché
l’ottimista vede tutto rosa anche dove c’è solo merda, merda puzzolente. E’
felice, felice anche di vivere una situazione tragica, perché egli sa che ne
uscirà presto o tardi e passerà ad un piano più elevato.
Quando un comune mortale sente parlare di potere guarda sempre con
sospetto, ma in ogni caso, sotto sotto ci crede, magari anche solo a livello
inconscio. Il punto è che in uno spettacolo di magia c’è sempre chi sostiene di
conoscere il trucco, anche se il mago fa di tutto per celarlo e renderlo
irriconoscibile. A volte ci sono magie così sorprendenti che qualcuno crede di
aver a che fare con un Mago e non con un mago. Ma il più delle volte l’effetto
più sostanziale è quello televisivo. La cosa che rende il trucco più
spettacoloso è la teatralità, la messa in scena incantatoria per così dire. Ma in
ogni caso la spiegazione esiste, che essa sia razionale o meno.
Tutto si spiega, anche se quello che vediamo trascende da ogni regola
naturale. Il miracolo è presto spiegato: è un fenomeno che inverte o
neutralizza le solite regole naturali. E’ solo questo il miracolo, ogni altra
spiegazione è superstizione. Ma il punto è per quale motivo avvengono i
miracoli? Come risposta a una preghiera? No di certo dato che le campane a
morto si sentono ogni giorno, a volte ancora più frequentemente di un
tempo. Il miracolo avviene tramite un intenzione. Un’intenzione assoluta.
Senza paranoie nè sensi di colpa, senza alcuna controindicazione. Di colpo
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qualcosa accade, la ruota ricomincia a girare dopo anni di sosta, le persone si
alzano dai loro letti di malati. Gesù ha detto al paralitico: “la tua fede ti ha
guarito (salvato/redento/cambiato)”. Il suddetto paralico ha creduto
profondamente alle parole del Cristo ed è potuto alzarsi e camminare. La
fede muove le montagne dice ancora Gesù, e infatti tutto dipende
dall’intenzione, dall’Intento. Che bel mondo sarebbe un mondo in cui tutti
condividessero la fede nel proprio intento, dove tutti credessero di essere gli
unici responsabili delle loro vite. Se così fosse, forse non ci sarebbero più
guerre, ma certamente non ci sarebbero azioni inutili. Alcora meglio se
nessuno avesse la presunzione assurda di giudicare. Il giudizio, che come si sa,
ha delle attenuanti chiamate circostanze, conto in banca e parentado. La
legge sarebbe uguale per tutti se non ci fosse. E’ questa la grande verità
racchiusa in uno scrigno perlato, ma quando uno si accinge ad aprire lo
scrigno ci trova dentro nient’altro che cenere, il resto delle pergamene dove
era scritta, a caratteri cubitali, la grande verità, la non legge, l’illegalità,
l’anarchia è andata perduta. Questa verità è destinata a rimanere celata nelle
menti degli spiriti liberi. Là fuori, la gente comune, chi crede fermamente
nelle parole di Lauvoiser, non è pronta a questo vangelo di libertà assoluta.
Sono solo pronti a considerarsi uguali gli uni agli altri, e guai a chi accetta o
permette alcuna discriminazione. Là fuori sono pronti a morire per i principi di
ugualianza. La storia è la prova lampante di come la gente lotta per
raggiungere un piano comune a tutti, o almeno alla maggioranza. Le
minoranze vengono soppresse a colpi di macete e ascia. Le minoranze non
hanno voce in capitolo, sono sommerse dalla valanga di tutti quei rintronati
uomini della media borghesia che sanno solo usare le mani e poco il cervello,
che votano a seconda dell’umore per quella o questa fazione, che non
ammettono critiche e ammonizioni e che si spingono al limite della follia ogni
qual volta la normale prassi non viene rispettata.
Lo scorrere delle parole è un po’ come una sonata di Chopin, musica da
pianoforte, poco impegnativa ma molto coinvolgente. Le note rimbalzano per
la stanza e contro le pareti, ogni sfumatura è catturata e memorizzata. Ogni
minuta nota viene usata come colonna sonora per lunghe e tetre giornate di
lavoro, oppure nello svago come diversivo per far fluttuare spontaneamente
la mente dentro canali poco conosciuti o addirittura inesplorati. Debussy è un
altro paio di maniche, con la sua musica ci si può addormentare e
sicuramente i sogni saranno lieti e gentili come le sue note. E’ l’artista della
magia e dell’incantesimo, proietta l’ascoltatore in un mondo di fate e
campanellini multisuono. Poi ci sono quelle musiche tetre da ascoltare solo
nei giorni di pioggia, sorprendendosi a guardare dalla finestra le pozzanghere
tintillate dalle gocce d’acqua. Queste musiche tetre possono essere un’ottima
colonna sonora per un suicidio suburbano, magari consumato ai bordi di una
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chiavica oppure nel sottopassaggio della metropolitana. C’è tutto
l’armamentario insomma, tanto che nessuno avrebbe più bisogno di
comporre musica da film. Sono tutte disposte bene in vista nei campionari e
scritte negli spartiti. Portano la firma di nomi illustri e classici: Beethoven,
Mozart, Chopin, Verdi, Rossini, Vivaldi. I musicisti attuali hanno solo da
imparare, devono fare l’orecchio a musicalità antiche e piene di emozione.
Ogni nota è scritta sulla pelle di sognatori davanti a un pianoforte a coda o
semplicemente uno spartano clavicembalo.
Musicalità è quello che occorre alle mie parole. Devo armonizzare le frasi,
anche se poi magari il senso profondo non sussiste. Devo giocare con le
parole come fa il pianista con le sue amate note. Le frasi devono respirare,
galleggiare in un mare etereo che dà sonnolenza. Non ci devono essere
appesantimenti che stroncano, anche solo per un’attimo, lo stato subconscio
del lettore.
Devo trovare una mola per poter ravvivare le parole che voglio usare, perché
esse colgano il segno, esprimino quello che intendo, con una certa
approsimazione si intende.
E tutto lì davanti ai miei occhi, basta solo afferrarlo e trasportarlo sulla carta.
Un’opera colossale, enciclopedica, ecco la chiamerò così: l’enciclopedia della
mia vita. Sembra una barzelletta ma è quello che farò. Mi basta raccogliere i
pensieri e meditare su che mossa fare. Sono come lo scacchista cogitabondo
davanti alla sua scacchiera personale, alle prese con una partita contro l’altro
se stesso. Sono alle prese con una mossa difficile, capace forse di ribaltare
tutto l’ordinamento precostituito, o magari solo sufficente per fare un po’
d’aria.
La rivoluzione è nell’aria, si respira ovunque, sulle piazze, attraverso la TV e
nelle pagine dei giornali. Ma ciò che più salta agli occhi sono i fatti. Il mondo
freme, come una bottiglia di champagne agitata per bene, basta una lieve
pressione del pollice sul tappo e … Ma io non racconterò la rivoluzione, anche
perchè la sto vivendo. Forse tornerò sull’argomento tra trentanni. Per ora
voglio solo parlare di me stesso e nessun altro. Mi basta per riempire i buchi di
tempo libero e le notti insonni. Mi basta per far ruotare tutto il mio mondo
attorno alla mia creazione. Scalpita, nitrisce, si dibatte, vuole uscire. A volte
mi chiedo come ho fatto a credere di poter diventare uno scrittore. A volte
mi sembra di non aver più nulla da dire, di essere come una bottiglia di whisky
scolata dalla bocca dell’ultimo degli ubriaconi. Poi all’improvviso accendo il
computer e mi impalo davanti alla tastiera e le dita si muovono frenetiche,
come dieci formiche ipercinetiche.
Sono impeccabile, rasato di fresco e con un buon vestito pulito addosso. E’ il
giovedì mattina due dicembre 1999. Devo essere alla Saint Gobain per le otto
spaccate, è il mio primo giorno di lavoro. Arrivo davanti ai cancelli ben cinque
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minuti prima, l’orologio della delta bianca segna le 7:55. Lascio la macchina nel
parcheggio interno e mi dirigo verso la portineria. Appena entrato mi dicono
di aspettare l’arrivo del capo del personale. Attendo. Siedo su un sedia di
plastica accanto alla bollatrice. Arrivano le otto e trenta e io sono ancora in
attesa. Arriva una telefonata alla portineria e il guardiano di turno mi dice
che posso incamminarmi verso l’ufficio del personale. Trovo il capo del
personale che mi attende e dopo un breve discorsetto di pochi secondi mi
spedisce al magazzino generale, dove mi daranno i vestiti. Vado e trovo
l’addetto impaziente e il suo vice che non sa dove sbattere la testa, ma dopo
qualche minuto sono nello spogliatoio in procinto di cambiarmi. Come già
sospettavo i pantaloni sono troppo corti alle caviglie e larghi in vita, ho
bisogno di una cintura per tenerli su. Ritorno su dal capo del personale e mi
viene data una valigetta con il materiale informativo sull’azienda e alcuni
accenni sulla sicurezza. Dò un rapido sguardo al tutto e poi mi appassiono a
un libretto sulla sicurezza, leggendolo dalla prima all’ultima pagina. Guardo
l’ora, sono già quasi le nove e trenta e nessuno si fa vivo per portarmi al
reparto. Dopo poco finalmente arriva il signor Parizia, abbigliato con una
giacchetta azzurra. Molto cordialmente mi da il benvenuto e mi conduce al
magazzino lastre.
La prima tappa della visita del magazzino si concentra all’interno dell’ufficio.
Qui mi accomodo su una sedia e mi vengono impartite le prime nozioni.
Innanzitutto i colori dei vetri: PLX, TSANX, TSA3+ e via dicendo. Poi mi dice
chiaro e tondo che devo rivolgermi a lui e agli altri membri del magazzino con
il tu, e questo un po’ mi ravviva. Mi dice che i turni di lavoro nel magazzino
sono due, uno dalle 8 alle 16 e l’altro dalle 12 alle 20, mentre i turni di
caricamento delle linee sono tre. Mi imforma, come già ero a conoscenza, che
io dovrò coprire il turno detto week-end, ovvero il sabato dalle sei del
mattino alle diciotto e la domenica dalle diciotto alle sei del lunedì mattina, e
poi un rientro settimanale, che si accorderà in base alle esigenze degli altri
membri del magazzino. Chiariti questi particolari, usciamo dall’ufficio e
andiamo nel magazzino A, la prima fila, dove verso la A 24 incontriamo
Domenico e Renato, alle prese col carrello TANSINI, Parizia mi presenta.
Faccio un altro rapido giro in compagnia di Domenico dove mi spiega la
differenza tra i vrac e i cadre (cadre perdue) e mi illustra le varie file dove è
stivato il materiale. Dopo questo breve giro andiamo di nuovo in ufficio e mi
siedo di nuovo alla solita sedia e osservo le operazioni che Domenico svolge al
Pc. Lui mi illustra a grandi linee come funziona il programma del carico e poco
dopo ritorna Parizia e illustra a Domenico il programma di arrivo del
materiale, di lì fino al gennaio successivo. Quando Parizia se ne va Domenico
mi dice, un po’ seccato: “siamo appena all’inizio di dicembre e lui mi parla già di
gennaio!” Poi esco nel magazzino e osservo lo scarico di un camion con il
Tansini. Non ricordo ma probabilmente chi manovrava il Tansini era Renato.
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Ricordo che una lastra è rimasta sul camion rotta, divisa a metà e Parizia, di
fianco a me, mi ha detto scherzosamente: “Quella la scarichiamo dopo”. Dopo
ho aiutato Renato nello scarico di un camion di cadre, ho perfino schiodato
alcuni pezzi di legno dal pavimento del rimorchio. Giunta l’ora della colazione
io credevo già fosse l’ora di pranzo. All’ora di pranzo ho chiesto a Domenico in
prestito un buono mensa e Renato mi ha spiegato come compilarlo. In mensa
ci siamo accomodati ad un tavolo verso il davanti, sul lato dell’uscita. Non
ricordo che ho mangiato ma ho apprezzato la cucina. Quando siamo ritornati
in magazzino sono salito sul muletto e ho iniziato a manovrarlo per le corsie.
Mentre guidavo il muletto mi è scoppiato un gran mal di testa, tanto da
costringermi a fermare il muletto dentro una lisse di carico e aspettare che si
chetasse. Dopo qualche minuto ho ripreso il controllo e ho acceso una
sigaretta e me la sono fumata pacificamente, sul muletto. Poi l’ho appoggiata
ad un foro, sul pianale del carrello, e la sigaretta è passata di sotto, nel vano
batteria. Mi sono allarmato e ho subito alzato il coperchio delle batterie e per
fortuna la cicca era lì, allungata su una batteria unta. Nell’alzare il coperchio
delle batterie, ho avvertito di nuovo il mal di testa. Sentivo un fitto dolore al
cervelletto e in più un po’ di torcicollo. Dopo le ultime due ore di sofferenze la
giornata è terminata. Erano già le quattro e mezza passate quando ho
chiesto l’ora a Mario, un altro operaio del magazzino. Io dovevo uscire proprio
alle quattro e trenta e così mi sono affrettato a raggiungere gli spogliatoi e
poi la Delta, parcata nel parcheggio al di fuori della tettoia.
Ma ora basta con questi ovvi vaneggiamenti, arriviamo al sodo. Ora vi
presento il nuovo mondo, la nuova Babele edificata sui rottami putridi e
inutilizzabili delle vecchie città spossate dagli attentati e dagli olocausti
nucleari. Il nuovo mondo giace in fondo alla vecchia realtà. Per ora è solo
visibile in sogno, è come un incubo lieto che non si riesce a scrollarsi di mente.
E’ solo un’immagine residua di una realtà che un tempo era presente in tutti i
nostri cuori. Poi Adamo ha colto la mela… ci sono stati millenni bui in attesa di
qualcuno che ci dicesse che non avevamo nessuna colpa, il peccato originale
solo una nostra fantasia castrante. E’ giunto l’uomo che ci ha dimostrato
tutto questo con le parole, ma soprattutto con le azioni, miracoli insomma.
Ma noi non l’abbiamo capito. Abbiamo deciso di punirlo come ribelle. Il popolo
che l’ha crocifisso ancora oggi porta con se l’indegnità di aver ucciso il Figlio
di Dio. Da millenni subisce soprusi, olocausti, stermini di massa. E Lui non è
stato capito. Ha insegnato il perdono e gli uomini, tutti, hanno esteso ad
nauseam il vangelo del giudizio, dell’espiazione, dell’inquisizione. Ancora oggi
esistono tribunali, avvocati, giudici, parte civile, dopo duemila anni dalla
nascita dell’unico Dio che si è imposto di esser uomo. La lezione è stata
spiegata ma non è stata capita. Siamo ancora al livello di quei barbari
precristiani che lapidavano i condannati. Ora si usano altre tecniche, magari
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meno cruente, ma è sempre la vita che si toglie. Il nuovo mondo è ancora
seppellito da tutto ciò, celato dai pregiudizi e dalle finzioni, dalle false
speranze e dalle premonizioni. Il nuovo mondo è per ora solo una fievole
fiaccola alimentata dalla fede, ma non ci sono mantici che la attizzano, è
opaca e debole. La fede in cosa? La fede in qualcosa per tirare avanti. Tanto
Dio si cela dietro ogni cosa, che essa sia importante o secondaria. D'altronde
l’importanza è dettata dal giudizio del singolo e quindi, sul piano spirituale,
ogni cosa è importante quanto un’altra.
Mi è stato suggerito in sogno il titolo di questo libro, ma l’ho dimenticato.
Questo significa che ora seguirà una lunga digressione, in groppa alla follia e
alle frasi apparentemente prive di senso. Il titolo del libro è racchiuso in un
sogno, una gemma inchavardata in uno scrigno di argento massiccio. Le
chiavi dello scrigno sono state fuse per produrre delle posate, il vetro in cui
mangiate oggi potrà essere la bottiglia di whisky che vi scolerete fino
all’ultima goccia domani, oppure lo schermo del televisore che guarderete
fino a perdere gli occhi. Il sogno racchiude tutto compreso il titolo del libro.
Niente inganni, un sonno lieve che può essere spezzato anche da una sonora
scorreggia di lumaca. Pomeriggio sonnolento e niente titoli per questo libro.
Per ora solo lo spiegamento di idee e parole, nulla di più. Afa e follia, spiriti
affini e nostalgia di quel che si è stati. Nel libro ci metto tutto questo e poi
ancora altro. Follia concentrica, megalomania, illusione di essere perfetti e
soli. Lo carico di ogni sorta di fantasticheria, sia reale che impossibile. Questo
libro dice tutto quello che vuoi sapere sul mondo, anche se non ne parla
minimamente. E’ questo il punto forte del libro: il mondo non esiste. E’ come
unire tutti i puntini dall’uno al cinquanta e scoprire di aver creato solo un
altro mostro picassiano. Ogni sfumatura di mondo ha il suo tocco da artista.
Ognuno lo vede come meglio crede. Chissà come lo vedi tu, che sei intento a
sbirciare i segreti nascosti di questa realtà. Un tocco, una lieve pennellata e il
quadro è completo. Ora basta appenderlo e attendere la cancrena che ci
immobilizza tutti. Ognuno cristallizzato nella propria postura preferita, chi
intento a cacare e chi a leggere stupidaggini dentro a libri bianchi. Ma il titolo
non c’è, è ancora chiuso in un sogno ermetico con le porte antisfondamento.
Il titolo è il vestito del libro, meglio metterlo alla fine quando si sono delineati
tutti i contorni. Quando si sono scolpite tutte le forme, con millimetrica
precisione. Allora il titolo compare in bella mostra e cerca di presentare il
libro. Dal titolo si può intuire il contenuto del libro. E’ un’insegna che attira
l’avido lettore da quella parte.
Molla i tuoi soldi e compra centocinquanta pagine di sciocchezze. Parlane al
meglio al tuo miglior amico, o magari regalagli il libro per il suo compleanno.
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Vivo apparentemente in sogno. E’ come una bolla d’aria che mi ermetizza dal
mondo esterno. Nella bolla giungono solo fievoli voci, opportunamente
censurate dalla mia mente. Ogni suono che proviene dal mondo è come una
musica cacofonica senza alcun cenno di armonia. Provo a registrare la
trasmissione, ma è inutile, i suoni sono sempre gli stessi. E’ quasi incredibile
che tutto quello che mi sta dinnanzi sia falso. Tutto è così piacevole al tatto e
invece sono solo un mare di spettacoli pirotecnici, adibiti a stupire la mente e
a chetare le voci che provengono dalla coscienza. Cerco di dire tutto ciò
misurando le parole come un giudice, soppesando la loro impressione che
desterà nelle menti. Cerco anche di essere semplice e comprensibile, anche se
sono consapevole del fatto che a volte esprimo dei concetti astrusi che
vengono digeriti solo dopo aver ingollato due pastiglie per il mal di testa.
Molte situazioni le vivo in sogno. Tutto reale fino all’ultimo puntino ma
trasportato su un altro piano, il piano astrale. In sogno sembra quasi di poter
scegliere gli eventi ma non è affatto così. E più come sedersi in un cinema
multisala, in una sala a caso, dimenticandosi di leggere il titolo del film.
All’improvviso si entra nel sogno e si agisce. Ma in realtà non è azione, è una
visione in cui noi siamo al margine. A volte quello che si vede è talmente
assurdo e farneticante che si scopre di star sognando. E in quel momento
qualcosa si spezza. Piano piano si regredisce da un piano di coscienza all’altro
fino a svegliarsi. Questa regressione in termini di tempo è instantanea, un
flash bianco e ci si ritrova in un letto bollente coi sudori, o magari intenti a
fissare la sveglia che da cinque minuti buoni stava suonando all’impazzata.
D'altronde io vivo in sogno e lo so, ma quanti ne sono consapevoli?
La maggioranza crede di vivere la propria vita allegramente e gioiosamente,
invece è solo tutto un film mal riuscito nella loro testa. Si compiacciono della
promozione, dei voti alti del figlio a scuola, della nuova conquista affettiva,
della fuoriserie parcata fuori dal bar. La maggior parte della loro vita la
passano così, a compiacersi. A darsi da soli pacche sulle spalle. Come se quello
che stanno facendo sia sempre giusto e sufficiente a salvare il mondo. Magari
lo salvano il mondo, il loro mondo che si sono costruiti e che è talmente
fragile che basta una parola per mandarlo in briciole, come una lastra di vetro
sottile che picchia contro uno spigolo di ferro.
Innanzitutto vogliono essere amati. Per l’uomo è più importante essere
amato che amare di per se. Questo lo fa sentire utile o almeno vivo nei
pensieri di qualcun altro. Molti credono che per essere vivi bisogna essere
ricordati da qualcuno, dopo morti. E in parte condivido questa credenza.
Un altro detto dice che un popolo che si estingue è come una finestra sul
mondo che si chiude. Ma è anche vero che basta la morte di un singolo uomo
per chiudere definitivamente una finestrella sul mondo. D’accordo che ci
saranno nuove finestre dei nascituri che si apriranno ma quelle chiuse
resteranno chiuse per sempre, inchiavardate, curandosi di perdere la chiave.
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Certe finestre sono più grandi di altre, alcune certo non sono neppure visibili,
ma ogni singola finestra emette una debole luce. La totalità di esse non sarà
mai il mondo. Un po’ come pretendere di dare la vita a un uomo morto
soltanto ripristinando le esatte temperature corporee in un cadavere
d’obitorio, già munito del suo bravo cartellino appeso all’alluce.
Ma ogni finestra è un modo di concepire il mondo. Ma che mondo? Un mondo
immerso nel terrorismo e nelle guerre di religione, nell’attesa dell’anticristo e
di una terza guerra mondiale? I capi di stato giocano a fare i padreterni
dall’alto dei loro vertici mentre quaggiù sono polemizzati e odiati. Ogni
mattino nelle caserme d’Italia si alza la bandiera e si canta l’inno di Mameli. Io
se fossi coinvolto in questa pagliacciata marcherei visita ogni mattina,
presentandomi trasandato, con le scarpe slacciate, la bava alla bocca, un
bottone mancante, la barba lunga di tre giorni, gli occhi incrostati, i capelli
troppo lunghi o troppo corti, il cappello al rovescio e nel bel mezzo dell’alza
bandiera andrei al palo dove è issato il tricolore e ci piscerei contro, a mo’ di
un cane. Altro che nazionalismo, altro che democrazia, altro che repubblica,
tutte stronzate. Solo simpatici idealismi espressi sulla carta, ma poi? Nella
realtà non esiste la democrazia. Immunità parlamentare, tangenti , bustarelle.
La scritta umoristica dei tribunali: la legge è uguale per tutti, ma dove è
uguale per tutti? nelle loro fantasie supercivili magari.
Saltando di palo in frasca, ricordando le parole di un lontano professore delle
medie o giù di lì. Il libro diverge in strane argomentazioni, prive di testo, tanto
per ammazzare le afose serate di luglio. Fuori solo un cane che abbaia
lontano, il fischio dell’arbitro del vicino campo da calcio, il ronfare di mio
padre nell’altra stanza. E poi ancora i rumori della strada, moto a tutta
velocità che sfrecciano nella notte, lasciando scie di fari e gas di scarico. Lo
scroscio lieve del fiume in prossimità del ponte e ancora le risa sconclusionate
di giovani in bicicletta.
Tutto ciò è abbracciato da una follia sottile, il continuo, nauseante e deleterio
ripetersi di qualcosa nel cervello, come il correre metodico e ripetuto di un
criceto su e giù per la gabbia, e poi al quinto passaggio una rapida sosta per
annusare l’aria e gli occhi che gli si illuminano debolmente di una fiamma
azzurra, e poi di nuovo il su e giù frenetico. Fino alla morte o un colpo di fucile
alla testa, basta scegliere. Sottili vocine insinuose che attraversano l’etere
malsano dell’aria e giungono al cervello scosso come una città nell’attimo
dopo il terremoto. Il mondo ha molto da offrire ma devo saper tendere la
mano, la mano del cieco che magari prende 5 cent oppure un pezzo di merda
di cane. Basta scegliere. Tendere la mano e rischiare di venire scottati oppure
preservarla e serbarla in guanti spessi lontano da tutti e da tutto, intatta e
vergine come un foglio bianco, senza rughe ne calli.
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Mi è venuto ora in mente un sogno strano che ho fatto mesi e mesi fa, forse
anche anni fa. Un attimo fa era come se fossi aggrappato alle pareti del
sogno, era come se fossi in quella strada sterrata, di fianco a me tavoli per il
picnic, macchine, vasi di fiori con gerani rossissimi, ma nessuno in vista,
neppure un uomo, solo tutte quelle cose abbandonate a se stesse. Poi il
sogno svanisce e ne entra in gioco un altro. E’ una sosta in una sorta di
autogrill autostradale. Dentro l’autogrill vedo il mio vecchio amico Cisco tra le
corsie. Io sono alla cassa e sto per imbustare la roba appena comprata.
Scappo dall’autogrill per non incappare in Cisco o peggio ancora in Luca anche
lui dentro. Poi il sogno mi traferisce in una sorta di parco giochi-museo-disco
pub, è un luogo molteplice che varia come il colore di una barretta di uranio.
Tutto poi si affievolisce come una candela smorzata e il sogno cessa, uno
strappo di coscienza mi riconduce in questa solida realtà fatta di marmo,
legno e vetrocemento.
Ai lati della strada puttane vicino a pneumatici che bruciano oppure camion
parcheggiati in seconda e terza fila con le tendine delle cuccette tirate… e poi
oltre ancora puttane bianche, nere, mulatte, che gridano prezzi ai passanti e
offrono prestazioni di ogni tipo. Basta avere un manico dritto e un po’ di soldi
da buttare. A volte prezzi comitiva, due per trentamila, oppure uno solo a
cinquantamila che vuol fare un ditalino alla puttana. Come mettere il dito
nella fogna di Calcutta. Dentro di lei sono già passati tori, cavalli, castori,
marmotte e pitoni interi, bianchi, neri e cinesi con l’arnese piccolo.
Domani sarà domani, ma oggi è eterno. Oggi si sta scrivendo la storia, come
ogni giorno del resto, un piccolo mattoncino è stato posato e cosparso di
calce pronta.
Quest’oggi io sto scrivendo e questo mi basta. Fuori, alla pioggia, possono
succede guerre e incesti, quarantene e cancrene collettive, ad ogni modo io
devo sgravarmi delle mie regolari pagine battute al computer. E’ notte, come
la maggior parte delle volte in cui scrivo. C’è una pace intorno a me quasi
snervante. Ma l’importante innanzitutto è essere in pace interiormente. Fuori
possono esserci rumori assordanti ma se si è in pace con se stessi si è già
avantaggiati. In pace con se stessi significa più o meno fregarsene di tutto il
resto. Sembra egoistico, ma è tutto qui il succo del discorso. E’ inutile cercare
di salvare il mondo, se noi stessi siamo in alto mare. Salviamo noi stessi.
Cerchiamo il salvagente che ci permetta di ritornare a riva o sulla scialuppa di
salvataggio. Non ci sono salvagenti sufficenti? Allora bisogna affrettarsi per
non rimanere a mani vuote. E qualcuno andrà a fondo. Meglio loro no?
Continua il volo pindarico della mente, come un aeroplano di carta che
percorra una spirale in un pozzo senza fondo. Si tende l’orecchio per
percepire l’attimo in cui l’aeroplanino toccherà l’acqua ma qualcosa ci distrae.
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Magari solo una limpida sciocchezza. E poi ci si butta apresso all’aeroplanino
nel pozzo e si scopre che non esiste il pozzo né tanto meno l’acqua. E’ solo un
sogno, un sogno colorato di grigio e di azzurro. Poi una volta svegli si potrà
afferrare un foglio F4 con i colori a tempera e riprodurre la sensazione del
sogno. Una volta asciutto l’acquerello prenderà la piega della realtà e non
rappresenterà il sogno ma solo un’immagine sbiadita. Con il tempo e con il
sole progredirà lo sbiadimento. Magari l’acquerello sarà appeso ad una parete
e scorgendolo, ogni tanto, si avrà l’impressione di aver catturato un sogno.
Scorgere il sogno è l’aspirazione di molti ma catturarlo è tutt’altra cosa. Per
catturare un sogno bisogna avere un retino infallibile. Certi poveri illusi
passano la vita ad inseguire un talento, ma poi alla fine sul letto di morte,
scoprono di aver fatto fiasco, di non averlo raggiunto. Altri, ancora peggio, si
trovano nel sogno sbagliato, con tutto da rifare. Io non voglio fare la fine né
degli uni né degli altri. Voglio inseguire il sogno giusto e saltargli in groppa. Il
mio sogno mi sta aspettando dietro l’angolo, già da diversi anni. Basta
prendere carta e penna e darci dentro, se si ha qualcosa da dire. Se nulla è
chiaro allora è meglio svuotare la mente e prendere la tastiera in mano
picchiando duro come un pugile. Per dare il massimo bisogna scrivere veloci
come una mitraglia, non bisogna dare il tempo alla mente di ragionare. Non
occorre pensare ma solo ricordare. Tutto è già scritto su un altro piano, basta
solo trasferirlo in questo piano, sotto forma di versi, parole e pensieri. Solo
questo occorre fare. E’ semplice se ci si trova davanti alla tastiera al
momento propizio, quando le dita formicolano e la testa scoppia per quanto
è satura di parole. Questo è uno dei momenti in cui sono alla tastiera ma
vorrei essere da un’altra parte, e allora ci vado…
Guardandosi attorno, a spasso per il mondo, ci si accorge come pochi uomini
guidino intere generazioni di persone. Un solo uomo o pochi uomini passano
alla storia e con essi diventa indelebile il loro punto di vista. In seguito, chi
vuole immergersi in un passato remoto o meno, deve sottostare al punto di
vista che questi uomini hanno impresso, nel corso del loro cammino nel
mondo. La paura più grande è di imprimere sulla terra soltanto il solco del mio
culo, nell’atto di essere trascinato nella tomba. Solo un inutile e comico solco
sulla sabbia bagnata dalla brina o da un temporale. Non voglio finire così,
anomino presso una moltitudine di anonimi. Zeri assoluti che percorrono per
lungo e per largo questa terra benedetta di Dio e mai si fermano per
riflettere, o per buttar giù qualche verso. Il risultato è che alla fine della loro
vita non hanno nulla tra le mani, solo cenere e polvere, sabbia e disperazione.
Vorrei lasciare al mondo almeno un paio di libri. Non pretendo la pefezione né
la glorificazione di massa, solo la forza di proseguire in questo lento
apprendistato per diventare scrittore. Perché scrittore non si nasce ma si
diventa, come ha bel compreso Miller nel suo lungo cammino verso la
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maturità letteraria. Diamoci sotto con gli avverbi, i sostantivi, gli articoli e i
verbi. Verbi sempre nuovi, con sensi e controsensi.
Dicevo che solo pochi uomini hanno la meglio sugli altri e imprimono il loro
punto di vista sulla loro generazioni. Le altre fievoli voci, dei loro
contemporanei, si spengono con le loro vite e non si tramanda mai il loro
punto di vista. I veri scrittori sono coloro che riescono a eternare il loro
testamento alle generazioni future, sotto forma di libri e poesie.
Il passato storico che è impresso nei libri di storia ha come portavoce gli
storici del tempo, con le loro opinioni e le loro credenze. La storia è scritta ma
quello che la deturpa è la matita con cui viene scritta, o meglio, chi impugna
la matita e la muove. Anche se lo storico si prefissa l’obbligo di non giudicare
ciò che sta raccontando, come un buon giornalista dovrebbe sempre fare,
nelle sue parole si sente il suo fiato che appanna il senso e la visione globale
della storia. La storia dovrebbe essere scritta gomito a gomito tra vinti e
vincitori, partigiani e fascisti, per poter dare una visione d’insieme, un senso
che trascende da ogni ideologia politica o religiosa. Se leggete un libro di
storia americana sarà ovvio che verranno dedicate molte pagine per
glorificare le azioni del suo esercito. Se invece ne leggete uno russo, magari
verrà sottolineato come questo paese, in qualche occasione, ha avuto la
meglio sugli americani. Ma è anche vero che se si mettessero insieme più voci
provenienti da diverse fazioni, il risultato sarebbe uno sgorbio incoerente.
Quindi se leggete un libro di storia, per prima cosa guardate chi l’ha scritto.
Molti dubbi vi saranno chiariti.
Eccomi di nuovo qui alla tastiera senza nessuna idea in testa. E pensare che
solo pochi minuti fa, o erano giorni, non ricordo, avevo la mente in
fibrillazione, pulsante. Ogni angolo delle case che osservavo durante una
passeggiata mi ispiravano cumuli di idee sopra idee. Proprio mentre stavo
cogitando idee sopra idee mi è dispaciuto non essere comodo seduto alla
tastiera, per scaricare ogni frase e periodo che aleggiava sul mio capo. Ora
sono qui, sterile come un mulo, in attesa che un’ispirazione mi balzi addosso e
mandi le dita in fibrillazione. Ho l’impressione di aver già detto tutto. Eppure
ho un bagaglio di ricordi e di opinioni non indifferente. Il vero succo di ciò che
intendo dire non l’ho ancora espresso. Rimane intrappolato in qualche
androne subconscio, nascosto. L’ispirazione massima l’ho provata quando ho
scritto le prime righe del libro che precede quest’ultimo. Ero esattamente qui
dove sono adesso, seduto su una sedia bianca di plastica. Erano i primi giorni
di luglio e stavo ascoltando il disco Acthung babies degli U2. La canzone era
Zoo station. Ho aperto un file vuoto del word e ho iniziato a scrivere di getto
una breve poesia. In quel momento tutto mi era chiaro. Sapevo esattamente
come iniziare il libro, senza risentimenti. Poi nel corso della stesura del testo
mi sono accorto che il nocciolo non sussisteva. Era impalpabile per il semplice
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motivo che io l’avevo dimenticato. Ma poco importava perché mi sono fatto
trascinare da altre correnti, dettate dal momento e dai fatti che accadevano
nel mondo. Così tutto è filato liscio fino alla parola fine. Ma il senso generale
del libro è rimasto fuori, chiuso a chiave. E ora mi andrebbe di sviscerarlo.
Questo senso di cui parlo era una sorta di entusiasmo a percorrere la vita.
Una sorta di spinta verso una pacifica convivenza tra tutti i miei stati
d’animo.
Vorrei prendere tutti i miei ego sparsi per la coscienza e schakerarli per
ottenere un individuo perfetto, finito in ogni dettaglio. Mi sento come un
quadro lasciato a metà sopra il treppiede, magari raffigurante soltanto un
barattolo e una bottiglia, con il fondo bianco, non pennellato. Vorrei mettere
in riga tutti i miei io scalpitanti e ispezionarli come fa il sergente la mattina
coi suoi soldati.
La faccenda dei soldati e del sergente è fonte dei film americani, in quanto io
non sono mai stato militare, se si escludono i fatidici tre giorni di visita.
Eravamo tutti in fila, in mutande, su una passatoia per essere pesati e
misurati in altezza e torace. Qualcuno non ce la faceva a star in piedi e si era
appoggiato al muro. In quel momento è passato un altezzoso maresciallo dei
carabinieri. L’ha visto appoggiato e gli ha urlato in faccia: “Non ti appoggiare!
Oggi sei un militare!”. Sbirciando per le caserme di tutta Italia li vedi questi
cosiddetti militari, appoggiati a un palo intenti a fumare una sigaretta o a
contare i secondi che mancano al congedo. Ma in quei tre giorni dovevamo
essere tutti ordinati in fila, senza appoggiarsi al muro. Forse era anche scritto
sul muro “NON APPOGGIARSI”. Per il resto della nostra vita potevamo essere
ladri, truffatori, sicari, netturbini, operai o avvocati, ma in quelle giornate
nebbiose d’inverno eravamo tutti uguali. O meglio loro ci volevano tutti
uguali, incolonnati e rasati a puntino, senza tatuaggi e senza orecchini al naso
o infilati nei lobi delle orecchie. Era tutto un manicomio lì dentro. Il test
attitudinale era una serie di domande a cui si doveva rispondere con un vero
o un falso, come per esempio “Ti piacciono le riviste di meccanica?” - virile
secondo loro - oppure “Ti piacciono i fiori?” - effemminato sempre secondo
loro. Dopo il test, se avevi sgarrato qualche domanda, venivi mandato dallo
pscicologo. Descrivo la scena. Entri in una stanza e ti viene detto di sederti su
una sedia, ad un metro o più dalla cattedra dove siede lo strizzacervelli. Se
per caso ti viene in mente di avvicinarti con la sedia, il castiga matti ti
ammonisce e ti dice di riportare la sedia oltre la riga segnata a terra. Forse ha
paura per una tua reazione improvvisa, come il saltargli addosso e gonfiargli
la faccia come un pallone. Chissà? Poi inizia con una serie di domande: hai la
ragazza?, esci con gli amici?, dove andate?, etc… e finalmente ti liquida
stringendoti la mano. C’è da chiedersi se una persona così, che ha sempre ha
che fare quarantotto settimane all’anno con ogni sorta di adolescenti
diciotenni di tutte le parrocchie e di tutti i gradini sociali, se non sia pazzo
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furioso a sentire sempre i soliti discorsi, gli stessi si e no in risposta a
domande sempre uguali. Le facce delle persone cambiano ovviamente, ma la
loro mentalità è sempre la stessa. E lui, lo psicologo di turno, se li sciroppa
ogni giorno. Qualcuno, a volte, nella pausa sigaretta, va al cesso e si fa saltare
le tempie, destra o sinistra a seconda dei destri o dei mancini.
Qualche aspirante soldato, come mi va di chiamarli, a volte si presenta fuori
dalla caserma, la fossa dei leoni nientemeno, con una mezza canna in bocca
spenta, per ritirare il congedo, in seguito al riscontro di ogni genere di
infermità. Altri pregano ogni genere di divinità o colonnello di essere
riformati e se ne stanno ad attendere la propria sorte seduti su una sedia di
plastica. L’attesa è lunga e forse dopo tre giorni ti dicono che devi ritornare
l’anno dopo per essere rivisitato. E poi l’anno dopo, in seguito a analisi
mediche e test vecchi cinquant’anni e più, comunicano che si è stati presi, di
terza magari, ma si è stati presi. E così ci si incammina verso casa con la
consapevolezza che un giorno o l’altro arriverà la sospirata cartolina verde,
con attaccato i biglietti ferroviari con bollata sopra la destinazione.
Era una mattina verso mezzogiorno quando arrivò la mia cartolina. La
destinazione era sospetta, Torino, ministero dei beni culturali, palazzo
Chiablese. Io tempo addietro avevo fatto domanda per convertire la “pena” in
servizio civile, specificando di voler prestar servizio presso il castello di
Racconigi. In seguito alla domanda, quando già era arrivata la cartolina, mi ero
informato presso il castello di Racconigi e mi era stato confermato che
avevano il mio nominativo per un’imminente entrata in servizio. Mirko, un mio
vecchio compagno di scuola, era stato arruolato anch’esso lo stesso giorno, il
4 giugno. La mattina del suddetto giorno ci avviammo verso la stazione di
Raccongi e prendemmo un treno diretto a Torino P.N.. Alla stazione di
Racconigi incontrammo due universitari nostri conoscenti e in loro
compagnia affrontammo il viaggio in treno. A Porta Nuova ci separammo.
Mirko ed io andammo verso piazza Castello, dove dietro il Palazzo Reale si
trova Palazzo Chiablese. Entrammo e fummo ricevuti da un altro obiettore
che ci disse che da quello stesso giorno avremmo preso servizio in quel
palazzo. Che ne sapeva lui che noi saremmo tornati a Racconigi in un paio
d’ore? Lui voleva fare il saputello ed era convinto di ciò che diceva.
Attendemmo per un po’ alla porta di un ufficio e poi ci fecero entrare. Un
borioso burocrate prese i nostri dati anagrafici e le nostre carte d’identità e
ci confermò quello che noi sapevamo già da un pezzo. Ovvero che avremmo
dovuto tornare a Racconigi e prendere servizio al castello a partire da quello
stesso giorno. E noi, contenti come due pulci con la pancia piena, tornammo
di filato a Racconigi e suonammo al citofono della portineria del castello.
Eravamo attesi e ci presentammo ai custodi. Dopo qualche tempo arrivò
anche la direttrice del castello e si fecero le presentazioni. Verso le due ci
mettemmo d’accordo per i turni. Gli obiettori avevano due turni di sei ore,
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uno dalle otto alle quattordici e l’altro dalle quattordici alle venti. Io sarei
ritornato alle quattordici e Marco alle otto.
Il pomeriggio del giorno dopo, insieme a un altro obiettore di nome Lucio,
iniziai a perlustrare per lungo e per largo tutti i piani del castello. Verso le
cinque andammo a prendere una bibita al bar di fronte alla biglietteria del
castello. Il lavoro da fare era poco. La mattina si doveva aprire tutte le
finestre del castello e la sera, nell’altro turno, richiuderle. Poi c’erano una
serie di lavori accessori come l’accompagnare persone invalide lungo le
scalinate del castello oppure aprire i portoni per permettere l’accesso alle
ditte esterne che operavano all’interno del parco.
In inverno il lavoro aumentava dato che le guide turistiche che
accompagnavano le visite nel castello erano assenti. Si doveva accompagnare
i visitatori nel percorso di visita e pronunciare qualche parola per descrivere
la stanza oppure citare qualche nome degli illustri sconosciuti - per me - che
avevano affrescato quella parete oppure dipinto quel paesaggio. Al termine
della visita a volte qualche buon’anima si permetteva di allungare un mancia,
più o meno appetitosa. Quella più consistente mi venne data da una coppia di
anziani con la loro figlia che alla fine del giro, vicino alla porta d’uscita,
mollarono cinquanta mila delle vecchie lire.
Un pomeriggio, nei primi tempi che prestavo servizio, mi sono perso nel parco
insieme a circa quaranta persone tra accompagnatori e bambini. Li ho fatto
fare un giro lunghissimo, a tratti anche rinfrescato dalla pioggia, senza che
vedessero nulla di caratteristico. Niente grotta del Merlino, niente casetta
russa, niente ghiacciaia, niente laghetto e darsena, soltanto stradine
polverose e il muretto di recinzione. Alla fine di quello sciagurato giro mi
sentivo una cacca, volevo sprofondare nella terra dalla vergogna. Gli
accompagnatori sono stati comprensivi e non hanno esposto nessun reclamo
in biglietteria. In seguito a quella brutta esperienza mi sono informato sul
percorso che si doveva effettuare e girando con la bicicletta ho imparato
molte stradine nascoste. Dopo il lungo inverno al castello è arrivata la
primavera e con essa le prime guide turistiche. E così il lavoro è di nuovo
scemato. Passavo le giornate a zonzo per il castello al seguito delle ragazze
delle pulizie. E poi finalmente al due aprile è arrivato il congedo. Mirko ed io
abbiamo dato un piccolo ricevimento a base di pasticcini, salatini e bottiglie di
spumante, per festeggiare l’avvenimento. Ricordo che dopo la festicciola ero
abbastanza bevuto e ho dovuto accompagnare in macchina con Mirko alcuni
visitatori che avevano in programma la visita alle Verne. Tutto lo spumante
che avevo in pancia gorgogliava e la Delta bianca sfrecciava rasente agli
alberi del parco. Dopo quest’ultimo accompagnamento il servizio di leva è
terminato. Abbiamo salutato custodi e tutti gli altri personaggi che
ruotavano intorno al castello. Alle otto di sera del due aprile la naja è finita.
Dieci mesi di vacanza, anche se rubati dallo stato a tutti quei giovani come me
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che hanno dovuto fare la naja, con una paga giornaliera inferiore alle sei mila
lire, ovvero i soldi per un pacchetto di Marlboro e un paio di gomme da
masticare. Un’anno rubato, proprio così. Un ritardo di un’anno per iniziare a
lavorare o una pausa forzata in mezzo agli studi. Per fortuna che le leve
attuali possono decidere di arruolarsi, dato che è diventato volontario e non
più (ahi me!) obbligatorio. L’unico vantaggio di questi dieci mesi è che ho
avuto un bagaglio culturale che rimarrà per sempre con me. Se fossi stato
arruolato tra le fila alpine che avrei ottenuto? Un bagaglio certo, ma fatto di
zaini, borracce, gavette e armi.
E ora torniamo a parlare di un perfetto niente, descritto da me con
proverbiale precisione. Un’ po’ come entrare in un bar e intrattenenrsi con un
amicone per un paio d’ore raccontando la propria vita, e poi sorprendersi
mentre gli si raccontano tutte cose insignificanti, senza nessun peso. E
proprio così, non vi sto a dire proprio nulla, è soltanto una musica che vi
inculco nelle orecchie, una musica che vi aiuta, forse a passare il tempo.
Sicuramente non dovrete analizzare e parafrasare questi scritti, non sarà
necessario. E’ tutto nero su bianco, ovvio e irrilevante.
Mi affascina il poter riempire intere pagine di un perfetto niente. Ricordi
magari, ma ricordi che riguardano me e nessun’ altro, e che quindi
interessano nessuno se non il sottoscritto. Ma i ricordi sono pochi, quello di
cui voglio abbondare sono i voli mentali che riescano a demolire e riedificare
una realtà, senza avere la necessità di giudicarla.
Quanti saranno coloro che tutte le notti, tenacemente, si siedono alla tastiera
e buttano giù i loro pensieri? Quante ore passate così, tra il sudore o in una
stanza fredda, con gli occhi stanchi e le mani indolenzite. Tutti quanti a
esprimere qualcosa che va al di là della normale giornata di lavoro. Questo è
tutto straordinario, le ore non si contano, perché se a qualcuno venisse in
mente di contarle sarebbe un pazzo.
Quando si tratta di arte non esistono tempi, non ci sono minuti e ore,
soltanto attimi di pura follia dove un romanzo intero si delinea e rimane
impresso nella mente dello scrittore. Poi durante il giorno queste lunghe
sedute alla tastiera ritornano a galla sotto forma di sbadigli e sottili mal di
testa. Dopo una mezza notte, passata fino alle 3 o giù di lì a mitragliare con la
tastiera, al mezzogiorno del giorno dopo ci si sente come stracci calpestati da
una folla, assonnati e stanchi come se la mattina, al lavoro, si fosse trascinato
un bue di 300 Kg per la coda. E invece le mattine dopo le sedute alla tastiera
passano leggiadre senza intoppi, si cerca di fare il meno possibile, ovvero
quasi nulla. Si va per inerzia come si suol dire. A mezzogiorno, seduto a tavola
per mangiare, non vedo l’ora di essere a casa a riposare le ossa. La tastiera è lì
a due passi dal letto che mi attende paziente. La tastiera sa perfettamente
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che dopo il consueto riposino mi intrappolerà di nuovo e mi farà cacare il
sangue a forza di assorbire nomi, avverbi, verbi e sostantivi. Tutto questo si
ripete ogni giorno, ogni giorno è santificato in nome di una paginetta scritta
oppure dieci, quando mi sento in forma. E’ quasi come adempire a un compito
a casa dato da potenze invisibili, per tracciare il mio destino e seguire la mia
strada. A volte tutto è annebbiato e sono confuso, non so da che parte
cominciare perché c’è troppo da dire e altre volte non so proprio che dire e
allora fisso la pagine bianca con disgusto. Mi irrita sprecare tempo prezioso
fissando pagine bianche quando potrei essere al lavoro, magari nel bel mezzo
di un periodo riuscito bene. Quando scrivo mi sento felice. E’ bello anche solo
sentire il lieve solletico delle dita che premono i tasti. E’ bello anche solo
sapere di poter scrivere in fretta, in modo da carpire l’idea e mutarla subito in
parola, e poi in bit. Riesco a scrivere più velocemente di quanto potrei farlo a
mano, con una matita. Ma le volte che sono costretto a usare carta e penna
utilizzo la buona e vecchia penna stilografica, una scrittura rapida che non
stanca la mano.
Dicevo che lo scrivere mi rende felice. Quando scrivo è come se un mondo
intero si delineasse davanti a me. Io non devo far altro che descriverlo,
magari strizzando un po’ gli occhi. Il tempo durante lo scrivere scorre veloce.
E’ un’attività frenetica, che quasi rende fradici di sudore, ma forse perché ora
è estate.
***-----------------------------E’ un momento delicato, in cui un solo goccio d’acqua ha il potere di far
straripare una diga. E’ delicato dicevo, ma la verità è che io mi sento delicato.
Sono in equilibrio sopra un sottile filo, basta un passetto falso e mi gioco
tutto. Una sola cosa innanzitutto, ovvero la vita. Non la vita qualunque o
intesa come vita fisofofica, quella che sprecano poeti e scrittori a
descriverla… no, la mia vita, la vita di un’uomo in crisi. In giapponese la stessa
parola che significa crisi vuol anche dire opportunità. Buffo no, meglio ancora
sconcertante. E’ così semplice che sembra una truffa, un bluff. E’ come
quanto qualcuno di pone una domanda facilissima e tu, nella mente, ti chiedi,
si va be ma dov’è il trucco? E’ invece non c’è nessun trucco. Nella malattia uno
si rintana profondamente nel proprio io. E’ come un letargo forzato. Niente
più contatti con il mondo, solo lo stretto necessario. La persona più vicina in
questi particolari momenti è se stessi, e nessun’altro. Certo in questi
momenti mia madre mi sostiene come può con amorevoli cure. Più medito e
più comprendo dove possa trovare aiuto, un’aiuto vero, radicato, costituito
su solide basi. Questo aiuto non è in medicine, cure o altro ma nella fiducia in
me stesso. E’ il riuscire a sopportare la malattia in un primo tempo e poi
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scacciarla prendendola a calci in culo in un secondo. Niente piagnisteri, solo
una netta intenzione ad uscire al più presto da questa scomoda situazione.
Laggiù in un’angolo i fantasmi si fanno sentire con tutta la loro voce, fanno
voce grossa al mio cospetto, che sono debole. Si annidano di notte dentro di
me e non mi lasciano dormire. Sono cattivi presagi e malinconie galoppanti,
paranoie circolari e sensi di colpa inesistenti. Bussano alla mia porta e si
presentano sotto maschere immonde. Ma sotto la maschera c’è soltanto
nebbia che si dissolve.
La postazione per scrivere è molto semplice. Un pc che ronza, una sedia su cui
posare il culo, una luce soffusa che rimbalza contro la parete per permettere
di vedere chiaramente i caratteri della tastiera. A volte accompagno le mie
sedute alla tastiera con un libro d’arte aperto alla tal pagina, dove è
rappresentato un ritratto che mi ha particolarmente colpito. Questa sera il
ritratto è di John Marin, il cui titolo è: Isole del Maine (The art book,
Mondadori). E’ bello a volte deliziare la vista con ritratti dipinti decenni fa. A
volte vado in cerca di libri d’arte su cui sono impresse meravigliose
riproduzioni di quadri famosi o meno. Nella biblioteca di Racconigi ho trovato
un libro dedicato a un pittore, mio concittadino, il maestro Carlo Sismonda. Il
maestro Sismonda ama imprimere la tela con colori vivaci e gioiosi, le sue
rappresentazioni sono pseudo realiste. Amo moltissimo l’uso che fa della
pittura. Anchio a volte tento di emularlo con stitici acquerelli che partorisco
in momenti di noia o di pioggia.
Da quando mi sono allacciato a Internet ho potuto scaricare centinaia se non
migliaia di opere artistiche di impressionisti, futuristi quali Monet, Manet,
Caleibotte, Toulouse-Loutrec, Cesanne, Pissarro, Matisse, Marinetti, Gaugin,
Van Gogh, Sisley, Degas e moltissimi altri di cui ora non ho ricordo. E’ molto
bello far scorrere sul computer le immagini di queste opere d’arte per
prenderne spunto come fonte di meditazione.
Un suono ripetuto può portare alla follia, o sfiorarla almeno. A volte si sente il
suono anche se non proviene dalla realtà. Diventa tutta finzione e
allucinazione. Paranoia e depressione acuta. Fitte lancinanti alla bocca dello
stomaco che spingono a cercare e trangugiare la prima Tavor che si trova.
Che sia quella da 1 o da 2,5 mg non importa. Basta poter scivolare in un sonno
pacifico per un paio d’ore e risvegliarsi poi con un diffuso senso di
stordimento unito a un capogiro che falsa la vista. Ma almeno quando ci si
sveglia, non ci si trova in bocca all’ansia, si è tranquilli. La sola domanda
diventa: ma quando passerà l’effetto? Quando ripiomberò nella paranoia e
nell’angoscia? Si attende silenti e indifesi un’altra fitta. Una fitta forte forse,
che ti spinge a decidere di porre fine a tutto ciò. Ma poi di colpo tutto passa e
ci si aggrappa di nuovo a un filo di vita, lieve come la tela di un ragno. Un filo
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che per poco si spezza, magari solo un brutto ricordo oppure la triste
consapevolezza che l’angoscia è lì in agguato, come un gatto, dietro l’angolo.
A volte si è talmente scorati che si perdono tutte le forze residue e si inizia a
piangere, un pianto straziante, senza lacrime perché avere le lacrime sarebbe
già qualcosa, un gradino più alto verso la pace dei sensi. Si chiede e si implora
la solita Tavor, la solita pasticca che toglie l’angoscia ma lascia il vuoto
assoluto, l’apatia, la noia. Ed ecco che un’anima benevola, una persona che
soffre dello stesso male, si fa avanti e offre la pastiglia, accompagnata da un
sorso di tè freddo. E di colpo si ripiomba nel torpore, nel sonno senza sogni.
Anzi no. I sogni compaiono ma sono molto confusi e trasfigurati. Ne ricordo
uno in particolare. Sono in chiesa, alla Madonna delle Grazie, seduto sul bordo
di un banco di mezzo, verso il ritratto dell’Arcangelo Gabriele che scaccia un
demone nell’inferno. Seduto davanti a me c’è un mio vecchio compagno delle
medie, Antonio e dietro di me un altro compagno della stessa classe, Daniele.
Io, come ho già detto, sto nel mezzo e non oso rivolgere la parola, nè al’uno
nè all’altro, ma addirittura voglio lasciare il posto a sedere per fuggire dalla
situazione. Un’imbarazzo mi blocca e quando incrocio lo sguardo di Antonio,
con il suo sorrisetto amichevole, mi blocco del tutto e sprofondo in un tetro
disagio. Il sogno è tutto lì o meglio è questa la parte che ricordo. Una volta
svegli dopo un “sonno al Tavor” tutto diventa indifferente. La televisione
ronza nella stanza ma non viene seguita. Lo sguardo è altrove, nel vuoto,
lontano anni luce come i pensieri che affiorano alla mente. Ora sono qui a
ricordare questi incubi lanciananti, pregando che mai più si ripetano, mai più li
debba subire sulla pelle e nell’animo. Sono in balia di forze potentissime,
l’ansia ha un potere che non mi lascia scelta, devo seguire le sue strette spire
e patire. Ma a volte, quando sono talmente incazzato che vorrei uscire fuori
dal corpo e scappare via verso il nulla, allora una forza amica mi prende per
mano e mi sussurra chiaro e tondo all’orecchio che tutto questo che sto
vivendo è pura immaginazione, solo un prodotto della mia consapevolezza.
Allora mi convinco, magari anche solo per un secondo, che io sono il padrone
della situazione, che posso sconfiggere la guerra, la fatale guerra contro
l’ansia. E l’angoscia sparisce, e mi sento appeso agli spilli, basta un niente,
anche solo un battito di ciglia per infrangere l’incanto.
All’improvviso, presso le vie inpervie di un santuario di montagna, ritrovo la
fede. La fede in Dio. Ricomincio a pregare, assorto seduto a un banco, Ave
Marie su Ave Marie, per parecchi minuti forse mezz’ora. E ad ogni recitazione
di una nuova Ave Maria mi sento meglio, mi sento risollevarmi, un atroce peso
si sgrava dalla mia infiammata bocca dello stomaco. E sopraggiunge una
sensazione meravigliosa, di beatitudine, pensare che un’attimo prima ero
entrato in chiesa disperato, spossato e stufo di lottare ogni secondo. Stufo di
dover guadagnare lentamente ogni attimo, portando avanti un corpo
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stremato e angosciato. Poi finalmente l’incanto, il rinfrancamento. Mi alzo dal
banco come un’uomo nuovo, liberato. Poi dopo un’ora ricomincia lo strazio. La
stessa angoscia che pare raddoppiata. E allora ricomincio a trascinarmi
inerme, barcollando, per i viottoli e le stradine erbose lungo il santuario. Sono
di nuovo perso. Prima di tornare a casa raggiungiamo, io e i miei genitori,
l’aeroporto di Caselle, vicino a Torino per vedere il decollo e l’atterraggio di
alcuni aerei. Io mi sento più che mai abbacchiato e spossato, stremato come
se dovessi portare su di me il peso di tutto il mondo. Per raggiungere la pista
di decollo abbiamo attraversato una vasta galleria dove, sulla destra, si
trovano delle grandi porte girevoli per entrare in banca. Queste porte, che
tramite fotocellula rigavano quando mi avvicinavo troppo, sembravano le
ruote di un traghetto per gli inferi. Ho attraversato questa galleria quasi in
apnea. Mi sono meravigliato a vedere la curiosità negli occhi di mio padre
mentre contemplava l’aeroplano atterrare. In me non c’è alcun sprizzo di
interesse, apatia assoluta. Chiuso a tutto. Al ritorno a casa non ne ho più
voluto sapere di nulla, mi sono rinchiuso in camera e mi son turato le orecchie
per non sentire nulla. Poco dopo, ho chiesto supplicando una pasticca per
dormire. Sarei riuscito a dormire anche naturalmente dato che ero
stanchissimo, ma c’era l’ansia che mi attanaglaiva. E così ho ingerito la Tavor e
ho aspettato il dovuto effetto. E’ passata una mezz’ora circa e finalmente ho
sentito sopraggiungere lo stordimento e poi all’improvviso la calma, la pace.
Ho aspettato nel letto avvinghiato l’arrivo di madre che mi ha portato la
camomilla e poi, dopo averle detto qualche parola e averla assicurata di star
meglio, sono sprofondato in un sonno artificiale.
Stamane è arrivata la cura. Mio padre mi ha procurato delle fiale contro lo
stress, ricostituenti, da prendere una prima di pranzo e l’altra prima di cena.
Alla sera, a detta del dottore, devo ingollare una Tavor per dormire. Intendo
seguire rispettosamente la cura, voglio uscire da questa situazione al più
presto con l’aiuto di tutto ciò che mi può far star bene. Spero vivamente di
combattere questo brutto demone che mi assilla per tornare a una vita
normale, serena, in salute.
PARTE II
Voglio catturare le immagini che mi sono passate davanti agli occhi ieri sera,
quando in sella alla bici di mia madre correvo a tutta birra verso
Cavallerleone, per smaltire l’ansia e fuggire dal mondo infernale che mi sono
creato. Immagini sfocate, come un Monet visto al rovescio, con il cielo sotto e
i campi di biondo grano sopra. La strada appena asfaltata faceva da cornice a
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questi miraggi sfocati, ero come in un’estasi repentina che poteva durare un
attimo o un’eternità. Premevo sicuro sui pedali e la bici viaggiava a velocità
sostenuta, le gambe mi dolevano un po’ all’inizio ma ci ho fatto il callo, la bici
sembrava mossa da forze impercettibili, forze che mi trascinavano avanti,
lontano. Ma a pochi passi da Cavallerleone ero sfibrato. Ho deciso di sostare
davanti al capannone del consorzio agrario. Sono stato lì in silenzio, nella pace
della campagna quando non ci sono lavori in corso. Niente semina, niente
mietitura, solo il vocio dei passeri e il gracchiare di una vecchia rana di sotto
nel torrente. Poche macchine sono passate, chi a velocità folle in corsa verso
chissà dove, chi lento e pacato come per godere e respirare il paesaggio,
fatto d’odori e fragranze sempre diverse. Sono stato in sosta per cinque
minuti, il tempo di una sigaretta e poi ero di nuovo in strada. Un libro mi si
dettava in testa, parole su parole, con tempi e avverbi appropriati, in una
successione frenetica, tanto che alcune parole non riuscivo neppure a
percepirle. Ad un tratto il dettato è finito, ero quasi a Racconigi, questa volta
felice e saziato, come se lo sforzo fisico di pedalare mi avesse mondato d’ogni
dolore e angoscia. Sono arrivato a casa e le idee che mi erano frullate in testa
erano già tutte sparite. Mi chiedo come mai quando sono alla tastiera non mi
vengono mai idee simili. Devo portarmi in giro un piccolo registratore, per
incidere a poco a poco tutti i pensieri, banali e non, che mi frullano per il
cervello. Il cervello, quell’ammasso di segatura grigia e color avana che
coordina le funzioni vitali. Ora sono qui a registrare tutto questo, ma ormai
tutto è fuggito, e per sempre. Tutto si è volatilizzato, come cenere al vento.
Sono qui in balia di trappole infernali e mi chiedo quando potrò fermare le
dita e concedermi un riposo. Ma le dita si rifiutano di obbedire, un dettato
continua nella mia testa. A due passi da casa la festa del paese impazza, con
le sfilate in passerella e i baracconi del tiro a bersaglio. Nulla di questo fa per
me. Preferisco la clausura qui dentro, in un mondo ovattato e sterile, come
una camera operatoria. Al buio con la luce che filtra timida dalle gelosia. E la
follia che incalza.
Sogni al creosoto, apoteosi generate dal cloroformio, queste e altre idee
stavano alla base delle riflessioni avvenute durante il giro in bici. Di soppiatto
a volte focalizzavo l’immagine delle punte del granturco o di uno stormo
d’uccelli in rotta verso un posto per dormire o per morire. La strada scivolava
via come liquefatta dai miei pensieri. Era come una colata attiva di un
vulcano, ancora odorava di catrame. Nessuna luce, a parte la luna ad un
quarto che scrutava maniaca la terra e i suoi abitanti, senza giudizio, senza
sentenze.
Mi chiedo cosa faccia di un libro un grande libro, quale sia la scintilla che
bisogna innescare per dare il tocco da maestro, la filigrana per così dire. Dov’
è la grandiosità delle opere semplici? Dei racconti di tutti i giorni, scritti
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magari già mezzi assonnati, dopo una giornata passata per trovare un modo
per mangiare e ritagliarsi una fetta di felicità. Oppure saranno gli svolazzi, le
parole complicate, i verbi rari, gli aggettivi calzanti o le parole impronunciabili
che fanno grande un libro? Chissà forse è questo o un miscuglio di questo e di
quello o forse è l’alchimia che lo scrittore riesce a trovare quando descrive un
fatto o un personaggio. Forse occorre calarsi nella parte e assumere le
sembianze dei propri personaggi o meglio scrivere aneddoti autobiografici,
magari avendo l’accortezza di cambiare il nome a tutti gli altri personaggi e
tenere il nome originale solo per se stessi, il sottoscritto, che firmerà col
sangue e col sudore queste pagine scritte al crepuscolo.
Giungo alla conclusione dichiarando che non scriverò mai di personaggi
immaginari, ma tutti ispirati al mio personaggio, alla mia vita, alle mie azioni.
Per ognuno di loro troverete una goccia di me, una sottile sfumatura o un
modo di ragionare che porteranno inevitabilmente a me. D'altronde com’è
possibile scrivere di qualcuno senza contaminare la descrizione con le proprie
idee e le proprie convinzioni? Ognuno tira l’acqua al proprio mulino, è una
frase fatta ma calza a pennello e questo è ciò che a me interessa.
Ma torniamo alla pedalata in bicicletta. Voi direte raccontaci altre cose, parla
di sesso, droga, musica. No! Io voglio parlare ancora e fino alla nausea di
questa benedetta passeggiata in bicicletta. Perché? Ma perché è in quel
frangente che mi è di nuovo scoccata una scintilla per creare qualcosa. E’ da
quel momento che il libro ha ricominciato a germogliare. E’ successo tutto
nella lunga curva che collega Racconigi a Cavallerleone. Il quel luogo il
baricentro del sè si è spostato ed ha fatto sbocciare questi succosi frutti,
queste pagine scritte, che prima erano solo idee sospese nel cielo e che ora
diventano fatti, tratti d’inchiostro su carta Xerox. Questa è la via, la via che
ho scelto di percorrere, la via dello scrittore, del poeta pazzo che rincorre i
suoi ideali, dell’artista squattrinato che deve anche lavorare di giorno perché
l’arte non ti sfama, almeno ai primordi. Io non sono ai primordi, sono un girino
che sguazza in un maestoso stagno in balia delle correnti. Ma mi tengo a galla,
ed è questo che conta. Continuerei a scrivere anche se tutti mi dicessero che
sono enormi fesserie, questa mania dello scrivere. Poeti e scrittori famosi e
anonimi sono tutti là nelle loro tombe per sostenermi e condurmi verso la mia
strada. Ma non ho bisogno di un gregge da seguire. Trovo la mia strada e la
percorro da solo. L’arte rende soli. Le idee vengono dal buio e dal silenzio, non
a party affollati o in coda alle biglietterie per un treno per l’infinito. Al
principio si è soli, concentrati sulle proprie opere, attorniati dai propri scritti a
partorire nuove idee, idee sopra idee.
Nella solitudine tutto diventa assoluto. Ogni idea la più grande, ogni pensiero
il più sublime. Dopo occorre uscire nella realtà e fare i conti con il mondo.
Molte volte si torna a casa umiliati e offesi e ci si lecca le ferite dolenti.
L’importante è uscire, avere il coraggio di esporre la propria opera alla critica,
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pur sapendo che sarà spietata nel giudicare il lavoro di un novellino che
intende soppiantare tutti i canoni della letteratura e della pittura. Uno che
vuole creare una nuova forma di pittura basata sull’ispirazione momentanea
e sulla percezione di un mondo interiore. E per ora rimango in solitudine a
creare portenti e opere d’arte assolute e fantastiche, acquerelli creati dalla
sfumatura graduale dei colori che amo, il giallo canarino, il rosso carminio, il
viola e il blu di prussia, il verde brillante e l’immancabile bianco complice
d’ogni tipo di sfumatura. A volte nei quadri traspare la rabbia, a volte la gioia
o lo stupore. Sono tutti qui, appesi alle pareti della stanza, in attesa d’essere
esposti in gallerie e musei… se mi verrà il coraggio di mostrarli a qualcuno e
supererò la paura di essere rifiutato. Per ora creo, modello le mie opere,
plasmandole a mio piacimento, come creta umida nelle mani dello scultore. Gli
scritti non li conto nemmeno più, quelli pazzi di notte al lavoro e quelli
frenetici a casa verso le otto e mezzo di sera nell’attesa di partire per la
notte. Quelli lunatici, scritti quando sono giù di corda e quelli ribelli quando mi
sento un padreterno. Tutti questi scritti si fondono in un solo e unico blocco
di fogli, sparsi per la scrivania, in attesa di essere trasferiti sul computer.
Sono tutti qui, compresi quelli che ancora transitano nell’aria, planano e
aspettano l’ispirazione per uscire fuori. Non importa se l’ispirazione sia una
giornata storta o un bicchiere di vino bevuto a stomaco vuoto, basta che
escano alla luce come neonati accecati dal sole e dalla realtà che li si para
innanzi.
Il personaggio principale sono sempre io, con le mie ansie, le mie angosce, i
mie isterismi e le nevrosi, le ispirazioni e le glorie. Il passato è gravido di fatti
che devono essere raccontati. Il futuro è incerto, impalpabile, insomma
inesistente. Nel passato sono racchiusi i personaggi che ho conosciuto, con le
loro idiosincrasie, le loro noie, la loro follia e la loro ingenuità. Tutti questi
personaggi giacciono in fondo al mio cuore ed hanno tutti, dal primo
all’ultimo, il mio profondo affetto, che siano dei grandi o dei piccoli, degli
ignoranti o dei dotti. Non importa, sono tutti indifferentemente simili l’uno
all’altro. Tutti parte della mia vita. Mi basta chiudere gli occhi per cogliere i
loro sguardi, i loro visi ora corrucciati ora sorridenti. Descriverli tutti sarebbe
impossibile, ma voglio dare degli assaggi per così dire, per renderli parte di
una storia, la mia storia.
Ora ritorno inevitabilmente, come un paranoico, alla pedalata verso
Cavallerleone. N’avrete piene le scatole di questa pedalata ma è il primo
approccio con la realtà di tutti i giorni, dopo molti giorni di clausura dentro il
mio mondo. Ero senza calzini e sentivo la brezza scivolare sulle caviglie, il
cuore batteva a ritmo accelerato e la notte stava in agguato, dietro l’angolo
in attesa di scendere su tutte le cose. Ad ogni secondo, impercettibilmente,
l'affievolirsi della luce produceva colori sempre nuovi nel cielo. Ogni
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millimetro quadrato di cielo era pennellato di colori diversi, che per riprodurre
occorrerebbe un arsenale completo di blu, azzurri, celesti, indaco e viola. Ma
non era mia intenzione riprodurre il cielo di quella serata, almeno non in quel
momento. Ho già tentato l’impresa con un cielo albeggiante, visto al ritorno
dal turno di notte, verso maggio, e il risultato è stato un po’ deludente. Certo
il quadro ottenuto è belloccio ma non rende l’idea del cielo che vidi quella
mattina. Quindi più niente riproduzioni di cieli, meglio usare una scadente
fotocamera, si ottengono risultati migliori. Quello che m’interessava in quella
sera era godere al massimo della situazione, respirare più aria possibile e
immagazzinare più tratti di panorama che la mente mi consentiva.
Una nuova settimana mi attende dietro l’angolo, lavoro e svago. Il venerdì o il
sabato dovrei andare coi miei genitori al mare, per il week end, in una
pensioncina dove si mangia solo pesce. Una prelibatezza per me, il pesce, ne
mangerei a tonnellate, soprattutto soffritto. Un bel fine settimana si
prospetta. Solo mangiare, dormire e passeggiare per il lungo mare arioso,
sperando di non trovare pioggia, anche se non guasta un bel paesaggio
marino benedetto dalle gocce d’acqua. Il lunedì e martedì successivo ho preso
ferie per riposarmi un po’ e anche per evitare il primo turno in fabbrica, che
odio con tutto il cuore. Quelle assurde levatacce alle cinque di mattina
proprio non le digerisco. Ma non ci posso far nulla, a volte mi tocca. Mi sveglio
e mezzo assonnato mi avvio verso il lavoro, con gli occhi lappolosi e le mani
intorpidite, la carie sui denti e il cerume alle orecchie. Vado, più
addormentato che desto, al lavoro. Passo tra i reparti come uno zombie in
putrefazione e arrivato nello spogliatoio collasso sulla panca e lascio passare
cinque minuti per raccogliere le idee. Chi smonta dal turno della notte è solito
chiacchierare un po’ con me, ma sono poche le parole che colgo nitide, chiare.
M’immagino ancora sotto alle coperte, al calduccio, nella tranquillità della mia
stanza alle sei del mattino, con al massimo il sottofondo di un cane che latra.
Ed ora sto per partire per fare la notte. Non so perché ma sono eccitato,
contento di andare a lavorare. Mi aspettano otto ore di lavoro intervallato
dalla lettura di uno dei mattoni classici di Miller: Sexus. Un colosso di oltre
settecento pagine che mi terrà sveglio meglio di tre caffè. Qualche fumatina
a zonzo per i reparti tra una macchinetta dei caffè e il ronzare sordo dei
forni.
Ora sto scrivendo le ultime frasi, con un sottofondo quieto, la colonna sonora
di Milion Dollar Hotel, un film che ho visto al cinema un paio d’anni fa e rivisto
l’altra estate in videocassetta. E’ un film strano, stravolgente. Come se
vissuto in un’epoca ipotetica fatta di fantasmi e follie consumate nelle
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tiepide stanze del Milion Dollar Hotel, un covo di pazzi, derelitti, diseredati,
monomaniaci e aspiranti suicidi. La storia sembra narrata da uno speaker con
la voce profonda, che ti mette a tuo agio sulla poltrona e t’inchioda come se
fossi legato con spesse corde. Tutto il film ruota su un suicidio che sarà fatto
sembrare omicidio, lo scemo di turno è accusato e allora si ammazza a sua
volta, placidamente, con un sorriso sulle labbra. Mentre si butta dal tetto
dell’hotel esce la sua musa, la donna che ha amato e mai posseduto, vestita
da fata con lustrini e laccetti. Tutto questo incorniciato con tetri quadri di
catrame che sono scambiati per opere d’arte di un naif degli anni novanta.
Anche le musiche che accompagnano il film sono ovattate, molte trombe
smorzate, molta nostalgia di un tempo che è stato e che non sarà mai più. La
storia rimane impressa come una cicatrice sulla pelle. Guardando le sequenze
a volte ci si chiede se vale la pena di lottare tanto per un tozzo di pane e un
bicchiere d’acqua distillata. Ci si chiede se ha senso continuare ad andare
avanti, nonostante tutto. Poi la passione, la propria aspirazione prevale e si
guarda avanti, duri come rocce, scacciando ogni sofferenza. Si stringono i
denti e si affrontano gli orrendi mostri che attraversano la strada, pugnale
alla mano, e ghigno beffardo di chi non vuole dare scampo.
Mi sento come in incubazione, sono un feto che cresce dentro il suo utero.
Sono il seme che germoglia e che darà i suoi frutti. Sono la promessa di un
domani migliore. Sono la speranza per tutti coloro che come me hanno deciso
di scrivere. Scrivere non per diventare famosi o per dimostrare qualcosa al
mondo, ma per scaricarmi il chiavicume che ribolle dentro, come un calderone
incandescente dove sono racchiusi tutti gli incubi e tutti gli angeli della mia
vita, mescolati e ribollenti. Ogni pagina è un mestolata tolta e portata alla
luce, per essere divorato e azzannato dai critici e dai giornalisti. Germoglio e
maturo, ogni pagina è iniettata di sangue e da una goccia di spirito, lo spirito
libero che mi anima e mi sostiene nel mondo. Questo corpo è solo una modo
per mostrarsi al mondo e nient’altro. E’ il mezzo che abbiamo per apparire
sotto una forma percepibile agli altri. Lo spirito è la porta che sta dietro ogni
cosa, è la fiamma che alimenta il bracere immenso dell’universo.
In ogni mente un intero universo ruota libero e indipendente. Ogni persona è
un mondo, un mondo che nasce e che vive, che matura e prolifica. Ogni
persona è un modo unico e assoluto di percepire il mondo. Ognuno ha il suo
concetto di Dio e di tempo. Dio l’assoluto e il tempo l’eternità, l’infinito e la
ruggine. Quando parlo di tempo ho in mente la ruggine, immense ringhiere di
ferro corrose fino all’anima dalla ruggine.
Io maturo, alimentato dallo spirito e dal sole, come una lucertola sopra un
sasso rovente nell’afa di agosto. E ora al lavoro. Il lavoro che mi permette di
stare in piedi e mi lascia il tempo ad esercitarmi con la scrittura.
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La domanda eterna è: “Ma che ci sarà mai da dire al mondo che non sia già
stato detto?” e “Chi sono mai io per prendere in mano una penna e delineare i
confini del mio mondo?” e altre eterni quesiti che mi rimbalzano nel cervello.
Tutte domande che vengono nell’oscurità, in notti insonni prive di suoni e di
colori. Il buio totale percepito attraverso una fitta maglia nera. Così buio che
anche la faccia nascosta della luna pare più luminosa. Bene, sono qui che
butto giù parole, fregandomene di ciò che accade all’esterno. Fuori c’è la
guerra, le malattie, morte, cancro e AIDS. I corpi sono rosi da tutte le nevrosi
e tutti i tumori maligni presenti nell’aria. Ma io sono qui immune, in un
ambiente sterile e ovattato. Da una stretta crepa in un angolo del muro cerco
di sbirciare il mondo. Quello che vedo è solo follia, forse è uno specchio che si
riflette. Forse il mondo è solo una psicosi collettiva, dettata dalle religioni e
dalle scienze finora studiate. Sbircio qua e là e vedo scampoli di esistenze
umane travolte dalla disperazione. Vedo uomini che si trascinano per le
strade come fantocci telecomandati, zombie che sopravvivono come una
piantina grassa lasciata davanti al davanzale. Sono tutti incolonnati, in fila per
uno, a marciare verso le loro ossessioni, le loro smanie di potere, le loro
nevrosi e le proprie ambizioni. In ogni buca qualcuno inciampa e si frantuma
come un vaso di coccio e gli altri indifferenti li passano sopra schiacciando i
cocci con i piedi calzati di mocassini n° 39, blu scuro. Giunti alla meta
rimangono immoti e si chiedono chi li ha spinti a percorrere tanta strada. Ma
il quesito cade nel vuoto e con esso i loro corpi precipitano in un abisso senza
fine, dove ore, minuti e secondi rappresentano solo granelli di sabbia in una
clessidra inceppata dove la sabbia celeste non cade più, intrappolata nel collo
della clessidra. Tutti sono in marcia, è la società che lo impone, grida avanti!
andiamo a conquistare la terra che ci appartiene, andiamo a difendere uno
stato alleato. I caduti non si contano neppure, sono soltanto numeri, numeri
con tanto di matricola e posizione gerarchica. Una distesa di croci bianche su
un prato verde appena falciato. La guerra è nell’aria e gli arditi vogliono
diventare eroi ma saranno soltanto caduti. Stelle cadute da una vita che gli
apparteneva e che hanno voluto sacrificare per i burocrati. I loffi generali
muovono le pedine nella stanza dei bottoni. Che raccapricciante follia è la
guerra!
Ho un foglio bianco davanti agli occhi, ciò che ho scritto prima non importa.
Non m’interessa se non ci sarà coerenza con ciò che dirò ora. Ogni giorno
bisogna iniziare con un foglio bianco e bruciare tutti i ponti dietro di se. Il
passato è passato, anche se costellato da vividi ricordi è sempre un tempo
morto. Quello che m’interessa è il presente. Il presente non ha tempo, il
tichettio dell’orologio è solo un illusione per farci portare al polso orologi e
cipolle e adeguarci a un a società oppressa dal tempo. In realtà il tempo è solo
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una finzione che noi percepiamo attraverso l’invecchiamento. Ma
l’invecchiamento è un’evoluzione verso qualcosa di diverso.
Immaginate un mondo senza orari, orologi, tabelloni delle partenze e degli
arrivi, senza un’ora di pranzo e di cena. Senza una sveglia che ronzi ogni
mattina con lo stesso monotono suono snervante, che strappa i sogni come
radici poco profonde e ci riporta alla realtà. Sarebbe un caos inimmaginabile,
ma sarebbe anche maledettamente bello. Uno si sveglia e comincia la sua
giornata. Non ci sono orologi e quando ha fame inizia a mangiare, se ha sonno
va a dormire e se vuole far tardi può far tardi finchè vuole, dato che non
potrà mai arrivare in ritardo. Solo il presente, unico e tangibile. Tutti
saremmo più liberi e disorganizzati, ognuno vagherebbe per il suo mondo
immaginario impostando dentro di se un proprio timer. Perché adeguarsi ai
tempi consigliati dagli antichi, all’ora solare e legale, alle partenze scritte in
grassetto sui tabelloni degli orari ferroviari? Ci sarebbero treni che passano e
persone che salgono e scendono e altri un po’ più in là che si buttano sotto.
Ma è tutto nella norma, c’è chi non sopporta più il mondo e se ne va senza
neanche un biglietto di auguri o di spiegazione. C’è anche chi resiste e avanza,
facendosi scudo dei cadaveri che cadono ogni giorno sulla strada. C’è infine
chi preferisce farsi portare dalla corrente e si gode la vita anche se la sua vita
è costellata da merda e disperazione. L’allegro riesce a vedere la bellezza
anche nei putridi cunicoli delle fogne, magari ci scrive anche una poesia,
esaltando gli odori e i colori cupi. Contrariamente il pessimista vede tutto
nero anche se davanti a se c’è una parete bianca, vede il brutto anche in un
tramonto filtrato da un bosco di abeti. Vede la miseria anche nel suo conto in
banca plurimilionario.
L’allegria è uno stato d’animo precario ma si può sorridere anche quando non
c’è nulla da ridere. Basta avere la scintilla che arde nel cuore, più è vivida la
scintilla più la persona sarà lieta, anche agli aspetti funesti della sua breve
vita. Anche la morte può essere presa con il sorriso sulla bocca, come uno
sciroppo amaro che impasta la lingua. Tanto in un modo o nell’altro, un giorno
occorre affrontarla.
Qui dentro, chiuso in me stesso, sono un Dio. Ma la fuori divento invisibile, una
macchiolina scura sull’asfalto del mondo. Divento un qualsiasi nessuno che si
trascina al lavoro per campare e che cerca di farsi piacere la vita che si è
costruito intorno. Là fuori i sogni svaniscono come castelli di sabbia dopo una
mareggiata. Là fuori ci si può soltanto perdere. Ci si mischia tra la folla
incolore e si fa parte della folla. Nessuno spicca sugli altri, tutti piccoli
sonnambuli che credono di vivere ma che invece sognano. Sognano un
mondo migliore, una macchina più grande, un lavoro più redditizio. Si
trascinano portando dietro se la loro bara, già con inciso a lettere scarlatte
l’ora esatta della loro morte. Tutto già stabilito ai primi vagiti, al primo
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contatto con la luce. Sono tutti quanti vestiti a festa la domenica a messa e il
lunedì sono al lavoro in qualche fabbrica o in qualche ufficio. Vivono di stenti
e finiscono nella loro bara col vestito migliore, ben stirato e inamidato.
Qualche lacrima, a volte pagata o simulata e via verso il Creatore. Siamo luce e
torneremo luce ma il povero prete langarolo ammonisce dal suo altare
dicendo: “Sei cenere e cenere ritornerai!”. Ma allora tutti questi sport e
questo fitness serve solo per mantenerci in forma per i vermi? No, è
necessario per soffocare la mente con strane e inutili attività. Anche il lavoro
può occupare la mente. Ci tiene buoni buoni, come cuccioli che hanno
ricevuto il biscottino. Il fare serve essenzialmente per ammazzare il tempo.
Altrimenti il cervello si mette in moto e scivola in pieghe ermetiche negli
archetipi profondi della coscienza e a volte fa germinare strane idee in testa.
Idee strambe, incomunicabili agli altri, non per vergogna ma perché non si
possono trasformare in parola. Idee sospese come in un limbo di acciaio e
cemento, chiuse a chiave dietro la più robusta porta antisfondamento.
Queste idee sono come larve che aspettano la propria pappa e ingrassano a
spese della persona, a volte, annientandola, facendosi padrone della sua
coscienza e della sua felicità. Si cerca quindi un’attività da svolgere, anche
inutile magari, ma vitale per tacitare il cervello. La mente urla, impreca e si
affanna per emergere e essere ascoltata. La passione può tacitare la mente,
può bypassare il cervello per arrivare subito alla meta. Il cervello è niente di
più che un pesante ostacolo, un macigno che nemmeno una montagna o un
terremoto possono smuovere. Ma la passione può, la passione fa arrivare
dritti alla meta.
Sangue giovane vogliamo! Per essere spalmato lungo le trincee e per i campi
di battaglia dalla striscia di Gaza all’Afghanistan. Sangue giovane e acerbo,
innocente. Ti mettono in mano un fucile con il caricatore e devi far fuoco su
tutto ciò che si muove. Negli addestramenti si ha a che fare con fantocci di
paglia e fucili che sparano pillole macchianti. Sul fronte la morte aleggia su
tutti, su coloro che giacciono coperti di calce viva nelle fosse comuni e nella
mente dei vivi che hanno fatto fuoco. “Era un ordine del superiore” è la
spiegazione che sbattono nelle loro coscienze. Ma chi ha premuto il grilletto
sono stati loro. I generali contano le perdite e ci fanno grafici. Arrivano alla
Corte Suprema con un fascio di carte da distribuire e iniziano con le loro
statistiche “oggi abbiamo perso 230 uomini”, “domani possiamo perderne
soltanto 100”. E via dicendo. I valorosi si fanno avanti e mettono a
repentaglio la loro vita ma tra di loro ci anche molti sparuti goffi, che sanno a
mala pena tenere in mano il fucile senza farlo cadere. Io stimo molto di più
questi ultimi, quelli che tra l’uccidere e il venire uccisi preferiscono morire. Ma
chi bisogna ringraziare per queste stragi? I governi, la Patria oppure l’orgoglio
dei burocrati? La guerra è sempre male anche se lo scopo è riportare la pace.
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Per riportare la pace bisognerebbe accontentarsi delle spiegazioni e delle
discussioni, le armi dovrebbero essere lasciate da parte e rese innocue.
Dovrebbe svolgersi tutto a tavolino come se si giocasse a Risiko, ma è una
supposizione fantastica. C’è sempre la testa calda che salta fuori e scatena il
putiferio, il mulo che punta i piedi e non vuole ragionare.
La pace mentale, il vuoto. E’ questa la condizione migliore che permette di
scrivere sgravandosi il fegato come si dice. La tastiera è qui di fronte a me
pronta a venire digitata, i file del computer sono pronti per ricevere i bit delle
parole che via via snocciolo, una dopo l’altra, come perle di un rosario recitato
nella mente. E’ notte, altra condizione ideale e non ci sono rumori assordanti
che possano deviare la concentrazione. Basta mirare un bersaglio e fare
fuoco. L’opera è in creazione, cresce dentro di me come un cancro maligno,
sottopelle, che rode e vuole sgusciare fuori. Ma questo cancro è arte, anche
se certa arte può sembrare agli occhi scettici l’opera di un pazzo, un pazzo
furioso imbavagliato che con contorsioni facciali sorprendenti riesca a
dettare a un registratore posto di fianco a lui un’impressione sul mondo.
L’arte è soltanto questo: un’impressione sul mondo, come acchiappare al volo
una mosca ronzante e sentirsela camminare nella mano. Quando uno si mette
a creare cerca spunti dalla natura, copia di sana pianta composizioni e
emanazioni che provengono dal mondo vegetale, animale e minerale. La vera
arte, quella grandiosa e divina, è quella che può essere capita anche da un
bambino. Non occorrono parole sofisticate e concetti astrusi, meglio dice ciò
che s’intende con la stessa semplicità della maestra che spiega la lezione agli
alunni il primo giorno di scuola, alla prima elementare. Se si scivola in
astrattismi e contorsioni mentali spesso non si è capiti e la propria arte
rischia di diventare solo alla mercè di pochi eletti. La sua diffusione diventa
molto improbabile. Un bel dipinto, un paesaggio diciamo, può essere
apprezzato da tutti. E’ per questo che i pittori in genere acquistano più
notorietà dei loro colleghi scrittori, perché essi sono più immediati, un colpo
d’occhio e si capisce tutto. Con lo scrittore invece bisogna soffermarsi sulla
sua opera, correndo magari il rischio di non capirla o peggio annoiarsi. Ho
scelto un compito arduo, ma anche perché non avevo scelta. Non sono mai
stato portato per la pittura, a parte quei pochi acquerelli astratti che ogni
tanto mi diverto a dipingere. Al più mi diverto con i colori, li mischio assieme e
valuto gli effetti. Per conto mio sono splendidi capolavori, perché io ero lì
presente quando l’acquerello prendeva vita. Ma una volta asciutto il ritratto
si contrae e perde la vivacità che aveva durante la sua esecuzione. La pittura
è per me soltanto un blando passatempo. Mi accontento di ammirare da
lontano le opere dei grandi. Gli impressionisti sono il gruppo che ammiro
maggiormente.
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Quindi non mi resta che scrivere, scrivere e ancora scrivere. Per ora sto solo
sgranchendo le dita per divenire padrone dell’ortografia e cercare di ampliare
il mio ristretto vocabolario. Di solito sono molto vago quando cerco di
spiegare qualcosa, sono solito girarci attorno con frasi pompose ma non
riuscire mai a centrare a pieno l’obiettivo. Vorrei essere più esplicito a volte,
non lasciarmi coinvolgere dalle diramazioni che spesso la mente mi suggerisce
mentre sto sviluppando l’argomento principale. Rileggendomi è come
percorrere un lungo corridoio costellato di porte, entrando in una porta si
scopre che c’è un altro corridoio con altre porte e così via e poi, per tornare
indietro sui propri passi, occorre fare uno sforzo mnemonico non
indifferente. Spesso esco dal seminato, non con intenzione, sbadatamente,
per non tornare mai più al percorso principale, cosicchè l’opera diventa come
un labirinto in cui uno non può che perdersi. Alla faccia della semplicità.
Mi alleno, cerco di sviluppare frasi coerenti che non si annullino o non si
ripetano. Mi sento come un principiante che sta imparando ad andare in sella
alla propria bicicletta. Prima alla bicicletta si applicano le rotelline e tutto fila
liscio. Un bel giorno le rotelline vengono tolte e il genitore ti sostiene mentre
tu pelali, temendo ogni attimo di perdere l’equilibrio. Il momento in cui parti
da solo in bicicletta e pedali senza cadere per almeno dieci metri, allora
raggiungi un traguardo importante. Non tanto per l’avere imparato ad
andare in bici, ma poiché acquisti fiducia in te stesso. Un po’ quello che prova
il passerotto la prima volta che spicca il volo. E’ una sensazione fantastica.
Dopo quest’esperienza si vorrebbe andare in bici giorno e notte, soltanto per
dimostrare al mondo di avercela fatta. Poi dopo qualche anno la bicicletta è
lasciata in garage e subentrano altre passioni, altri pensieri. Ma nessuno
scorda la prima volta che ha pedalato da solo sulla sua piccola biciclettina,
come nessun passero scorda il suo primo volo. E’ il ricordo che permette di
ripetere l’esperienza per sempre, quante volte si desidera.
Nell’ambito della scrittura è come se avessi ancora le rotelline. Non mi
azzardo neanche di toglierle, lo so che è ancora troppo presto. Non farei altro
che cadere sul lastricato e escoriarmi ginocchia e gomiti. Pedalo felice anche
se lo so che questo non è pedalare, ma più simile all’andare sul triciclo. Scaldo
il motore per la partenza. Bruuumm, bruuumm.
I sonniferi di adesso hanno l’effetto delle pasticche per la tosse. Sono quasi
esilarato. Nella mente mi frullano idee illuminate, le dita sembrano
incandescenti, brillanti di luce propria. Questa è la lucidità letteraria che sto
cercando. Una tranquillità che mi faccia cacare pagine su pagine come se
fossero stampate da un copiativa ad alta velocità. Oggi non è successo
niente, come ieri e ieri l’altro. Ma la differenza dei giorni si può notare dai
cumuli delle foglie per la strada e dalla diversa tonalità delle foglie che ancora
stanno appiccicate sugli alberi. Si nutrono dell’ultima linfa prima di essere
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spazzate via e trasformate in terra e polvere. L’autunno dà alle strade
alberate una tonalità malinconica che si fonde bene con la perpetua foschia
in ogni panorama. Sembra di vivere in un quadro di Sisley, ma questo non è un
quadro, è quello che tutti definiscono realtà. L’odore delle foglie morte in
putrefazione si sente nell’aria. La macchina nel suo lento procedere calpesta
centinaia di foglie e si sprigiona un’aroma inconfondibile. L’odore dell’autunno
è questo, insieme a quello delle caldarroste che arrostiscono in padella, fuori
in ogni cortile di ogni casa animata. I santi, con la consueta visita ai cimiteri,
sono alle porte. L’odore di quei giorni nebbiosi è a base di caldarroste o di
qualche forte eau de toilette che qualche ardita signora ha ecceduto a
spruzzarsi.
I giorni di visita ai cimiteri sono quasi un rito tribale. Come ogni rito tribale
conservano gli stessi tempi e le stesse azioni. Anche le facce incontrate per i
viottoli sono le stesse. Sempre avvolte nel medesimo impermeabile dell’anno
prima. Gli stessi discorsi veloci e a stralci perché il tempo corre e i cimiteri da
visitare sono molti. I defunti non ti sgridano se arrivi in ritardo, ma basta una
piccola coda e il cimitero chiude le sue porte e si permea in una nebbia che
cala con la notte.
Ricordo questi giorni nella mia infanzia. Avveniva la consueta recita del
rosario, detto da mia nonna, e noi facevamo eco con ora pronobis, ripetuto
all’infinito, fino al termine delle preghiere. Poi dopo il rosario ulteriori
preghiere alla memoria di uno e dell’altro morto della famiglia. Un Pater et
Ave Maria per…. Dopo il rosario si toglievano da sopra il termosifone una
manciata di caldarroste, avanzate dai giri pomeridiani e le si mangiava in
compagnia, bagnate da una bottiglia di aranciata. Finito il rosario si poteva
riaccendere la televisione. Ricordo con animazione che in quei giorni
trasmettevano sempre qualche vecchio film tipo “Don Camillo” oppure
“L’albero degli zoccoli”, tutti rigorosamente in bianco e nero. Anche perché in
quei giorni, in cui i morti aleggiavano nei nostri pensieri, era impensabile
guardare un film nuovo in tecnicolor. Il bianco e nero si intonava
perfettamente con l’atmosfera lugubre che si destava negli animi, anche dei
più frivoli. La notte dei morti non si doveva uscire, assolutamente. Era
consacrata a loro, ai morti. Mia nonna raccontava aneddoti o leggende di
coloro che per strada avevano incontrato dei defunti a zonzo oppure che
erano stati svegliati nel cuore della notte e avevano visto, nitida, l’immagina
di un famigliare scomparso. Anche le masche avevano la loro parte nei
racconti della madre di mia mamma. Le masche, dette anche meschie, sono i
fantasmi secondo la tradizione piemontese. Quando qualcuno, soprattutto le
persone anziane, sentono dei rumori sospetti dicono spesso “Ma ci sono le
masche?”. Mi sembra di rivivere queste scene lugubri che si tenevano nella
cucina dei nonni. Il nonno e mio padre seduti accanto a me sul divano, mia
nonna seduta al tavolo con il rosario spalancato davanti e mia madre seduta
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accanto al divano su una sedia. Sempre la stessa disposizione. A volte poteva
succedere che dopo il rosario si tiravano fuori le carte e si iniziava una partita
a tresette, che spesso durava poco dato che la notte avanzava e io l’indomani
dovevo essere a scuola, fresco e volenteroso come un minatore alsaziano.
Sono in vena di reminiscenze. Spesso i ricordi che popolano la mia mente sono
molto tristi e amari. Come quello legato alla morte di mia nonna Rita. Era da
poco passata l’Epifania, una domenica mattina. Sento un trambusto di sotto e
poco dopo mia madre sale le scale e me lo annuncia: “Nonna è morta!” Io ero
ancora intorpidito dal sonno ma ho subito capito quello che mia madre mi
aveva appena comunicato. Un brivido mi ha assalito per tutto il corpo, come
se fossi stato scaraventato in un ambiente asssolutamente freddo. Tremavo
letteralmente. Sono sceso dal letto e mi sono vestito velocemente. Sceso di
sotto, nella stanza dove giaceva il corpo di nonna Rita, sono entrato. Accanto
al letto c’era il becchino che si era già precipitato a casa per dare avvio al
rituale funebre. La nonna giaceva con gli occhi chiusi, coperta con un
lenzuolo. L’ho fissata per pochi intensi minuti e in quegli attimi la mia mente
ha iniziato a viaggiare rapidamente, una lunga trafila di ricordi. In quello
stesso posto era anche morto il nonno, marito di nonna Rita. L’avevo trovato
io cadavere, un pomeriggio di otto anni fa. Dopo questa rapida fuga nel
mondo dei ricordi ho lasciato la stanza e sono scoppiato in lacrime. Sono
tornato a letto e ho seguitato a singhiozzare per un po’ e poi ho preso sonno.
Un sonno tormentato. A pranzo, quando sono sceso, il mio volto era lo
specchio di quello di mia madre, entrambi mesti e pensierosi, gli occhi fissi
davanti a un piatto che faticava ad andare giù. La mia ultima nonna se n’era
appena andata. Sono felice di averla filmata con la mia telecamera, così
insieme ai ricordi possiedo dei filmini in cui lei parlava e gesticolava, in una
sera di poche settimane prima della sua morte. A volte rivedo quei filmini e il
suo ricordo ritorna vivo nella mia mente. La cara vecchia nonna Rita. Era la
nonna di tutti. Tutti la chiamavano nonna Rita, anche se in realtà l’unico
nipote ero io. Spesso salivo nella sua stanza, dove lei mangiava e dormiva. Mi
intratteneva con racconti della sua fanciullezza e della sua vita legati al suo
paese natale, Cavour, dove è vissuta fino a quando non ha sposato il nonno.
Dalla morte del nonno si era intristita, diceva che non riusciva più ridere e
infatti l’ho vista sorridere poche volte. Era una persona che sapeva come
farsi voler bene, sempre generosa e garbata con tutti, nel modo senile di
tranquillità e lentezza. Nonostante gli anni era ancora molto attiva,
rammendava per ore e ore, seduta vicino alla finestra, calzini e magliette
della famiglia con una pazienza infinita. Quando finiva il lavoro di rammendo
tirava fuori dal cassetto il rosario e lo recitava religiosamente, ogni giorno,
pregando per questo e per quello. A volte, quando ero più piccolo, recitavo
con lei il rosario, poi crescendo ho perso l’abitudine. Spesso scendeva ancora
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in giardino a controllare la crescita degli ortaggi e ha zappettare l’erba che
cresceva assidua nella ghiaia del vialetto d’ingresso. Non si fermava mai, era
sempre dedita a qualche attività. Ho molti ricordi che la riguardano, tutti
gioiosi e sereni, garbata fino in fondo, buona non per necessità o ipocrisia, ma
come modello di vita. Cara nonna Rita questo capitolo lo dedico a te e alla
pazienza che mi hai dimostrato, quando da piccolo mi accudivi quando i miei
genitori uscivano. Un saluto e un abbraccio.
Serata ventosa. La luna ammicca attraverso una fessura del tetto, come un
pirata con tanto di occhio bendato. E’ una luna solitaria questa sera. Le stelle
sono occultate dalla foschia e dalle nubi autunnali, cariche di vapore acqueo e
smog soffocante. In lontananza si sente un ritmo tribale scandito con un
bongo. Probabilmente attorno al cerchio tribale è stato acceso un falò e
tremule ombre accompagnano il ritmo come spiriti avvolti dalle tenebre. E’
un ritmo che fa pensare a una sana canna fumata in cerchio. Una canna che
gira tra il gruppo. I componenti della tribù si modellano a nuove sensazioni
sensoriali e a nuove visioni. Chi scandisce il ritmo al bongo è saturo di alcool
fino al collo, comune whysky a buon mercato con un goccio di acqua ragia
per intensificare le allucinazioni. I fumi dell’alcool si fondono con quelli della
marjuana e scavano a fondo, nelle menti scomposte e cogitabonde. Un senso
di vuoto mentale delizia i componenti del gruppo. Sono saturi di poesia. Se
prendessero in mano una penna e si mettessero a scrivere di certo
verrebbero fuori parole fantastiche, eccezionalmente vere. Le parole
assumerebbero un significato tangibile. Con la penna riuscirebbero a
trascrivere le loro sensazioni, punto per punto, per arrivare a una visione del
mondo dettata dalla comune esperienza tribale. Io potrei essere la in mezzo,
a recitare poesie scritte nell’aria, improvvisando versi ispirati dall’alcool.
Potrei incantarli con parole articolate o con rumuri grutturali provenienti
dall’esofago, simili a quelli dello sciamano quando impartisce l’iniziazione ai
neofiti. Nella vita i componenti del gruppo possono essere avvocati,
ingegneri, operai o spazzini notturni a riposo. Ma all’interno del gruppo
cadono i titoli notarili e quelli nobiliari. Ognuno è chiamato col suo nome di
battesimo di fuoco. Ognuno è un elemento di una catena umana. La forza del
gruppo è l’anello più debole della catena. Basta una lieve cricca e l’armonia va
a farsi benedire. Loro si sentono uniti, spinti da un ritmo che forse giungerà
alle loro orecchie in modo diverso, a seconda di come percepiscono il mondo.
Alla fine della seduta ci si raccoglie in pace con se stessi e si chiacchera delle
proprie esperienze. Ognuno cerca di trovare le parole, in fondo ai cassetti,
per narrare ciò che ha appena vissuto. Alcuni apriranno la bocca ma usciranno
solo grugniti, altri invece terranno una piccola conferenza, incantati essi
stessi di come possono disporre di una parlantina sciolta. Il silenzioso del
gruppo farà sue tutte le riflessioni e constaterà l’energia del gruppo, fatta di
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sogni e passione. Basta una scintilla di passione per sopravvivere tutta la vita
a un piano rialzato. Ammiro molto chi ha dentro di sé il fuoco della passione
che arde perpetuo. Hanno gli occhi brillanti e lo sguardo di coloro che sono
disposti a tutto per perpetrare il proprio scopo. Io potrei essere là,
presentandomi come uno sciamano dei sensi o come l’ultimo dei discepoli,
non farebbe differenza. Sarei accolto comunque e vestito di un abito
semplice, quasi monacale. Invece sono qui a fantasticare su ciò che là
potrebbe succedere. Laggiù il presente vige perpetuo, come pietra di
paragane. Mancano poche ore alla ripresa della settimana ma la tribù sembra
non rendersene conto. Sfruttano i minuti, anzi i secondi, come gocce di
nettare colato da un’ampolla divina. Si divertono innanzitutto, pazzamente.
Sono un solo e grande animale che irradia la sua energia circolare. Sono
candele accese dalla passione e dalla determinazione. Qualcuno potrà
sostenere che sono soltanto un branco di fusi persi perdi tempo, ma sono
qualcosa in più, sono un gruppo che guarda il mondo attraverso la stessa
nottola. E ne sono abbagliati. Ogni sguardo alla serratura provoca vertigine e
emozioni profonde, emozioni che partono dall’ultimo coggige e arrivano a
quella matassa di materia pulsante e pensante qual è il cervello.
Il ritmo continua imperterrito. La danza delle ombre prosegue ininterrotta.
Neppure un temporale potrebbe fermarli. Proseguiranno ancora fino a tarda
notte e domattina avranno le occhiaie di un pagliaccio, ma ne sarà valsa la
pena. Avranno qualcosa in più, la convinzione anzi la sicurezza di appartenere
a un gruppo, sapere di essere capiti anche solo con lo sguardo o con un cenno
del capo. Sapranno che nel mondo ci sono persone come loro, riunite attorno
allo stessò falò, che perpetuano un rito vecchio di millenni, nato la prima
notte in cui l’uomo ha alzato gli occhi alla luna e a cercato di balzargli
addosso.
L’altro capitolo è passato come una pisciata controvento, dopo ore di
cammino in un terreno sterile dove sarebbe sacrilego anche solo perdere un
goccio di bava. Una pisciata liberatoria al Lexotan, una sorta di anestetico
celebrale per ovattare i sensi come il migliore cotone a buon mercato.
Una musica incerta, sconosciuta alla mia mente, riempe la stanza con i suoi
echi. E’ come un vortice concentrico che risucchia le note e le riporta fuori
dall’altra parte con un cambio di registro improvviso, che farebbe accigliare il
direttore d’orchestra del paese. Mi perdo nelle note, come se stessi vagando
da solo lungo stretti corridoi percorsi da rigoli di acqua piovana e da topi
muschiati dall’aspetto feroce. Mi sento come imbevuto da uno strano elisir
della lucidità e dalla sonnolenza. Lucidità & sonnolenza che si fondono in un
equilibrio che può essere spezzato da un collasso imminente o da una crisi
isterica di prim’ordine.
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Ora la musica è cambiata. Strepita dolce la marcia turca di Mozart, con i suoi
deliziosi assoli di piano che la rendono cullante e riposante. Mi sembra di
essere il direttore d’orchestra e impartire ordini a strani musicisti barbuti,
idioti con il flauto traverso e psicopatici muniti di piatti assordanti. Una
allegra combriccola che fa un baccano infernale sotto le mie direttive.
All’improvviso si insinua Chopin nell’etere, con i suoi lunghi assoli spassosi al
piano, che delizia non solo l’orecchio ma anche il palato. Fa ricordare con
nostalgia alcune tragice fini di film realisti. Film in bianco e nero, dove
anonimi sconosciuti recitano le loro parti con maestria. Sono questi i film più
belli. Anche solo vedendoli per pochi minuti si prova una profonda nostalgia.
Sono veri, storie che potrebbero venire dalle strade e dalle case dell’epoca,
girate con bravura da Rossellini. L’ultimo che ho visto, prioiettato una notte in
Tv è “Umberto D.”, una storia semplice con un uomo con un cane. Un uomo in
pensione, un tempo con una carica autorevole e dopo quasi povero, derelitto
e costretto a prendere in affitto un buco da una donna senza cuore. Verso la
fine tenta anche il suicidio. E’ plateale e memorabile la scena di Umberto con il
cane in braccio, in mezzo ai binari. Al sopraggiungere del treno il cane inizia a
guaire e disperare e Umberto fa un passo indietro e il convoglio li sfiora. Poi
attraversano i binari e si vede Umberto che gioca nel parco col suo amato
cane. Un film che fa venire le lacrime agli occhi, quando Umberto trova per
strada l’indifferenza dei suoi vecchi amici che lo vedono intento a chiedere
l’elemosina, lui e il cane, col cane col suo cappello in bocca. Nessuno lo aiuta,
solo una povera cameriera incinta mostra di volergli bene. Umberto D. è un
film memorabile che non ha nulla da invidiare a quei grovigli fantascentifici
che sono le opere cinematografiche di oggi.
Un film attuale che ha destato in me una profonda commozione è “Va dove ti
porta il cuore” tratto da un libro di Susanna Tamaro. Al termine della
proiezione sono scoppiato in lacrime e ho inforcato i RayBan per mettere in
salvo la mia virilità. Un film commovente che narra la storia di una donna che
ha tradito il marito durante una cura termale a Salsomaggiore. Incontra un
medico e se ne innamora. I due dopo l’avventura a Salsommaggiore
continuano a rivedersi in modici albergucci. Poi lui muore in un incidente
d’auto e lei non lo viene a sapere. Semplicemente non risponde più alle sue
lettere e lei crede che lui non lo ami più. Nasce una figlia, il cui padre è
l’amante perduto. La storia continua con un altro incidente in cui la figlia
muore in un incidente e la donna ormai anziana, interpretata da Virna Lisi
nella senilità e da Margherita Bui nella giovinezza, accudisce la nipote. La
nipote scopre un diario, una sorta di libro di memorie che la nonna le ha
voluto scrivere. La donna muore e la nipote legge questo diario in cui è
raccontato il suo amore per il medico. Le ultime parole, quelle che mi hanno
portato alle lacrime, sono “Va!, Va dove di porta il cuore”.
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Sono qui, mezzo inebetito, a godere dello svolgersi veloce del libro. Un libro
minestrone, fatto di episodi e di racconti senza una continuità. La continuità
unica è il filo della memoria che ogni volta, quando mi pongo davanti alla
tastiera, si svolge e polarizza le dita in questa o in quella direzione. Le cose da
dire sono tante, troppe, cumuli di fatti e occasioni perse e mai più ritrovate
oppure la descrizione minuziosa di un paesaggio che mi hanno
profondamente colpito. Tutto questo sul sottile filo della memoria, talmente
sottile e minuto che cederebbe anche solo al passaggio di un piccolo ragno.
Se si spezza il filo addio libro e con esso tutti i ricordi che sono permeati. Mi
comporto come se stessi ancora svolgendo le pagine di un preludio, dove
spiego come e perché mi è venuta la folle idea di intraprendere la stesura di
un libro. Ma ci sarà davvero bisogno di un nuovo libro che si impolveri sugli
scaffali delle cartolerie o che venga regalato e mai letto, confinato in fondo a
un cassetto o come ferma carte su una scrivania colma di documenti? So per
certo che poca gente ormai ha la passione della lettura. Preferiscono i film, la
musica o al limite una rivista scandalistica. Certuni messi davanti a un libro, a
un mattone di 700 pagine diciamo, restano come immobilizzati. Sanno già per
certo che non riusciranno mai a terminarlo. La gente vuole roba centrifugata
e facilmente digeribile, in modo da non sovvraccaricare troppo quel
dispositivo che gli serve per separar le orecchie. Un buon libro mette in moto
l’immaginazione. Si può dare un volto e un’andamento ai personaggi. Spesso i
personaggi prendono forma da persone che si conoscono. Al tal personaggio,
come nel caso di MacGregor nella Crocifissione Rosea di Miller, io do il volto di
un mio vecchio compagno delle superiori. Miller stesso non riesco a
immaginarlo giovane. Ho di lui soltanto foto che lo ritraggono anziano. Anche
a lui ho dato il volto di un mio amico, così per semplificare e poter costruire
un film nella mia testa a mano a mano che proseguo nella lettura del libro.
Mona, se dovesse essere interpretata, la farei recitare da una delle ragazze
del Grande Fratello II, Tati. Ho visto una foto di Mona, che in realtà si chiama
June, e ho trovato una notevole somiglianza con questa Tati. Mi piacerebbe
molto girare un film tratto dalla Crocifissione Rosea ma senza dubbio sarebbe
vietato ai minori di 38 anni, visto le innumerevoli scene erotiche che si
susseguono nel libro. Inoltre andrebbe ridotto enormemente altrimenti il film
avrebbe la durata di dieci giorni almeno. Bisgnorebbe prendere un’accetta e
mozzare via i passi meno significativi. Sarebbe un’impresa ardua. Almeno si
potesse chiedere consiglio all’autore, ma ahime, è morto da più di vent’anni e
senza dubbio starà ridendo e sarà felice di constatare che a distanza di
quarant’anni dalla pubblicazione della sua opera ci siano ancora lettori che lo
apprezzano. I suoi libri sono libri per ogni tempo. Sembrano attuali. In realtà
quello che racconta potrebbe accadere ai giorni nostri. Quello che dice
riguardo al sesso è quanto mai attuale. Non so quanti apprezzano la sua
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opera ma molti storcono il naso quando dico che sono appassionato dei suoi
libri. Forse li reputano troppo spinti oppure non vogliono passare per
sporcaccioni. Ma ogni volta che ne leggo uno apprezzo con gioia ogni singolo
passo. E’ anche comico alla sua maniera, una comicità grottesca ma senza
dubbio divertente. Nella Crocifissione rosea fa un ritratto di se nel periodo in
cui è vissuto a New York, una città lontana anni luce da quella attuale. Una
città impregnata dal proibizionismo e dove un semplice adulterio veniva
portato in tribunale. Miller è molto bravo a descrivere la sua New York, anche
se diceva di odiarla. Fa un ritratto del Bronx che resta inciso nella mente.
Descrive le persone con una padronanza letteraria impeccabile. Con due o tre
pennellate delinea una persona, un po come fanno i paesaggisti quando
disegnano un’uomo, due o tre pennallate magistrali che formano un’uomo
visto in lontananza. Se guardi da vicino sono solo grovigli di colore ma visto
nell’insieme l’uomo sembra proprio un’uomo, che arranca su una stradina
sterrata con i suoi attrezzi da contadino posati sulla spalla.
E’ proprio come immaginavo. Il mondo di oggi non è più il mondo che ho
conosciuto in fanciullezza. Si pensa a volte che sia il mondo a cambiare ma in
realtà siamo noi a mutare, continuamente. Ma per riflesso vediamo un mondo
sempre diverso, mutato alla radice. Il mio mondo è completamente mutilato.
Guardo fuori delle finestra e non vedo nulla, ci sono solo chiazze di realtà
residue che se ne andranno dopo una breve colazione. Quello che ieri mi era
passato davanti è sepolto nella polvere, la cenere copre ogni profilo e ogni
corpo. La polvere si disperde nel vento e il vento fugge da un continente
all’altro a velocità pazzesche, sibilanti e cacofoniche. In piedi, alla finestra,
contemplando i sibili del vento, sembra di ascoltare le tremule voci morte
delle ombre. Ogni soffio diventa presagio o portento. Non importa se l’unica
certezza sia una follia senza scampo, ci si appiglia comunque a qualcosa
cercando di farla divenire pietra di paragone. Se poi la pietra si sbriciola si può
tentare un’altra volta, a patto di non essere già stati rinchiusi in un istituto di
igiene mentale. Quando penso a un manicomio lo immagino con un lungo
porticato interno, tappezzato di finestre di vetro multicolore, con individui in
vestaglia lunga e capelli corti che passeggiano senza posa, fino a frustarsi le
scarpe e i piedi. Ognuno col suo ritmo e i suoi tick. La mia visione di manicomio
è questa. Non importa se i manicomi sono stati chiusi, il loro ricordo, i letti
con le cinture, gli sguardi allucinati di certi pazzi da dietro le grate di ferro,
ravvivano il ricordo di queste case di cura. Tick e dolci litanie sceme cantate
con una serietà sorprendente. I veri pazzi non sono mai stati là dentro. I veri
pazzi sono stati coloro che credevano in ciò che facevano, ma che di punto in
bianco non l’hanno più fatto. Hanno gettato la spugna, sono diventati
manichini senza anima e senza intenti, soltanto dediti a rifocillare la macchina
e andare al lavoro, per un’anno, dieci anni, tent’anni fino alla pensione o alla
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galera, fino al manicomio o l’ospizio. Nei loro occhi appannati non c’è ragione,
c’è soltanto tanta paura, un’angoscia che sale dalla punta delle unghie dei
piedi e li percuote fino alla punte dei capelli. Un’angoscia che li tiene desti nel
sonno e non se ne va. Come una rogna che più si gratta più sprofonda nella
pelle, fino a pungere le vene. E quando le vene sono punte comincia la follia,
la pazzia incurabile che può solo portare morte. I pazzi sono come lampadine
accese che di punto in bianco sono bruciate. Anime perse, perse nella loro
follia, dei loro disagi e nella loro infinita paura del mondo. Sono le persone che
non vogliono più affrontarlo, il mondo. Si rinchiudono dentro una spessa
scorza, come quella delle testuggini. Al minimo pericolo si estraneano dal
mondo e la follia avanza. A volte diventano barboni, derelitti che mendicano
un 5 cents alla fermata del tram, oppure che raccattano cicche sui
marciapiedi. Non vogliono l’aiuto di nessuno ormai. Nessuno è tanto
persuasivo da infrangere la spessa barriera che si sono creati. Non hanno più
amici, solo conoscenti con cui scambiano parole necessarie, di cui non
possono fare a meno. Sono soltanto spinti dagli istinti animali, mangiare,
scopare, dormire. In più si portano dietro l’angoscia, pura follia umana, scoria
di una mente ragionevole. Sono spacciati, condannati in un carcere duro che li
lega e li avvince nelle sue mortali sbarre. Sono i disperati, le vittime di un
mondo popolato dalla compostezza e dall’ordine pubblico, dalla sanità, dalla
santità e dal buon senso. Nelle loro persone si accumulano strati di inferni
caleidoscopici, inferni sempre più tenaci e letali. Sono soffocati dalla loro
stessa mente, vinti dal loro stesso corpo. Hanno perso la padronanza del
corpo, tutto è dettato secondo un farmaco. Uno per dormire, uno per stare
sveglio, uno per scacciare il panico e uno per stare allegri. Ma non bastano
mai questi farmaci, li inghiottono con leggerezza e aspetano tranquilli
l’effetto. In quei pochi momenti in cui il farmaco agisce sono in pace. Ma
sanno che presto o poi tutto tornerà come prima, si sveglieranno e sarà di
nuovo mattina, una mattina come tante, quando dovranno trascinare la loro
carcassa fuori dal letto per andare a svolgere i compiti che li sono stati
assegnati. Non hanno più volontà, sono come bambocci pieni di riso, che
sorridono sempre quando in realtà vorrebbero urlare, gridare, nitrire. Ma
ormai sono troppo deboli per protestare. Sono muli ben domati, cagnolini ben
ammaestrati.
Questa sera due xanas prese a stomaco vuoto hanno avuto l’effetto di un
eccitante. Forse è solo un sintomo passeggiero. Magari tra poche ore o solo
qualche manciata di minuti precipiterò in un sonno plumbeo, quel sonno
senza sogni come quello di un micino la prima notte dopo essere nato. Per
ora mi sento fresco ed eccitato, pronto a macinare chilomentri verso i
percorsi intricati della mia mente. E’ sabato e sono qui a casa, chiuso a
fantasticare nel mio mondo interiore. Fuori è nebbia e delirio, psicosi e febbre
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da discoteca. Qui è tutto tranquillo, tutto tace a parte il fragore smorzato del
vicino fume. Sono in una condizione mentale eccezionale, mi sembra di
galleggiare nell’etere come una piuma d’oca. Le parole scorrono, certune
sono troppo veloci per essere afferrate e messe sulla carta. Altre giungono
sulla carta distorte, storpiate dal loro significato e dal loro intento originale.
Basterebbe chiudere gli occhi per scrivere un libro a una velocità pazzesca,
ma solo poche frasi verrebbero alla luce dalla profondità ermetica del cuore.
Mi basterebbero poche parole per ricamarci sopra un romanzo o un poema.
Un tomo colossale nato dall’unione di due monosillabi. Galleggio nell’etere ma
non ne sono intaccato. Vivo in un’universo parallelo dove l’inconscio la fa da
padrone. Tra un sogno e l’altro sprazzi di realtà si presentano come macchie
nere sopra una carta da parati gialla. Forme sinuose e spigoli acuti si
delineano come disegni dettati dalla pura inconscenza. Figure poliedriche
prive di aree e di perimetri calcolabili, linee rette che partono da un foglio e
attraversano tutto l’universo a una velocità tale che non esiste penna per
tracciarle. Pure e semplici fantasticherie plasmate nella notte e ritoccate con
abili pennellate durante il giorno. Rime baciate o libere, a seconda dei casi,
significati complessi oppure astratti, vale a dire assenza di un senso. Pioggia
di parole ininterrotte, emoraggie letterarie che divampano come gayser caldi
dai fianchi di un vulcano assopito. Fumi sulfurei, inebrianti e esilaranti, gocce
di pura follia che vaporizzano sulle pareti del midollo e scendono fino al
coccige. Per ultimo un’orgasmo prolungato e la letargia del sonno.
Pausa sigaretta e poi al lavoro. Oggi ho radunato i miei scritti e ho scoperto
che ho ho scritto un solo unico libro. Gli altri sono abbozzi, sono solo inizi mai
conclusi. Eppure mi do da fare. Scrivo regolarmente ogni giorno come se
andassi di corpo. Molti libri sono ancora nell’aria, allo stato etereo pronti per
essere portati sulla carta. A volte manca il tempo o la voglia, oppure la cosa
più importante, l’ispirazione. Ho solo 24 anni, lo so, ma questa non è una
scusa. Dovrei produrre di più. Ma c’è il lavoro ordinario, quello da operaio che
assorbe tempo. Quando ho uno spazio libero magari mi va di dormire o di
ascoltare musica, bighellonare senza concludere nulla. Mi sento in letargo, un
torpore che mi priva di tempo. Dovrei inchiodarmi alla sedia davanti alla
tastiera e costringermi a snocciolare frasi su frasi ma anche questa non è una
soluzione. Quando sono costretto a fare qualcosa perdo l’interesse e i risultati
sono deludenti. Il tempo corre e a volte non riesco ad afferrarlo. Vorrei
fermarlo nei momenti di ispirazione e mettermi a scrivere ininterrottamente.
Non importa se ciò che scrivo sia banale o irrilevante, il solo puro atto dello
scrivere mi porta felicità. Quando scrivo divento un’altra persona, non il Paolo
conosciuto da me e dagli altri, ma un’individuo impersonale che cerca di
descrivere un fatto senza metterci giudizio. Il giudizio ammazza la
letteratura. E’ un sicario spietato che mozza le frasi nel bel mezzo, mettendo
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nella mia mente il seme del dubbio, il dubbio di chi crede che ciò che sta
facendo siano tutte cazzate. Ma quali cazzate? Ho letto molti libri e ho visto
molte cazzate scritte in essi. Anch’io posso permettermi di caricare i miei
scritti con qualche strato di semplici cazzate, tanto per ammazzare il tempo e
trovare la strada verso un concetto più profondo che ha volte fatica a
riemergere. Sono avanti coi capitoli ma mi sembra sempre che il libro non
abbia avuto ancora inizio. Che sia solo in stato embrionale, una crisalide in
attesa della trasformazione nel suo essere perfetto, completo e definitivo.
Parlo a vanvera, mi tengo leggero per stimolare sonnolenza e torpore nel
lettore. Questo sarà un libro della buona notte, iniziato per scherzo a metà
settembre e senza una fine visibile. E’ molto difficile concludere un libro.
Sembra sempre di aver omesso qualcosa, un passo, un pensiero, una
riflessione. Sembra sempre che la parola fine sia una condanna al libro stesso.
Con la parola fine il libro muore e a volte si vorrebbe che il libro si svolgesse
all’infinito, per continuare a narrare episodi su episodi senza perdere la verve.
Spendo molte parole inutili ma è nella mia natura gonfiare una parola
trasformandola in capitolo. Se fossi riassuntivo mi fermerei al titolo e lascerei
tutte le pagine bianche, senza numerazione e annoterei in un poscritto in
fondo all’ultima pagina “inventatevelo da voi il libro, io vi ho dato il titolo e voi
svolgetelo”. Un po’ come facevano i prof a scuola per il tema in classe. Mai
una volta ciò che scrivevo li andava a genio. Sollevavano sempre qualche
obiezione e di solito il voto non superavo mai il 6 e ½ . Come riderebbero se
sapessero che ora mi sto improvvisando scrittore! Si spancerebbero dalle risa.
In quanto alla materia in cui eccellevo, la meccanica, l’ho semplicemente
scordata. Gli anni delle superiori sono avvolti da una coltre di nebbia. Nebbia
di hascish e marijauna, vapori di alcool etilico mischiati con birra stantia.
Quante canne durante gli intervalli, quante bottiglie di vino scolate alla goccia
alle feste di classe a casa di qualche compagno. Una sera,durante una di
queste cene, in un ristorante langarolo, sono crollato davanti alla cassa
mentre cercavo di saldare il conto. Ero ciucco come un marinaio in licenza
premio, fortuna che non avevo la macchina, nuotavo nell’alcool come un feto
morto in una boccia di vetro. Tutta nebbia, nebbia a banchi che ha cancellato
per sempre quei lunghi anni, tascinandoli nell’oblio. Solo ricordi a sprazzi ma
spesso legati a fatti privi di significato.
Una sferzata di vento mi ha iniettato nel sangue l’ispirazione per nuove
parole. Che cos è un libro se non un groviglio di parole, lettere, sillabe, puntini
di sospensione… La notte impazza là fuori, la nebbia scende lenta su tutte le
cose come il sonno lieve cullati da un letto caldo e morbido, in una
temperatura ideale, 37°, come in un utero ben riscaldato. Non ricordo più la
morbidezza e il calore dell’utero, ma ricordo i primi vagiti, i primi passi
barcollanti, il lungo contare gli scalini piano dopo piano imparando i numeri e
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il loro ∞. I numeri sono infiniti quindi non servono a nulla, non ci si può fidare
in qualcosa che dura in eterno, per noi che malattia e vecchiaia ci spazzano
via come foglie secchie in autunno. Intorno a noi tutto sembra eterno, l’acqua
da pioggia diventa vapore e poi di nuovo pioggia o neve, e noi crepiamo,
basta un piccolo virus microscopico per soverchiare l’ordine sottile del nostro
organismo. Basta una piccola pressione di una vena e parte un’embolo, più
veloce di un concorde. Siamo esseri mortali, delicati come fili di ragnatela,
anche se a volte ci par di essere assoluti padri eterni. Il Padre Eterno – quello
vero - se la sta ridendo guardando dalla terrazza del suo creato tutto ciò che
gli uomini si inventano per sbarcare il lunario o semplicemente dare un senso
alla loro vita. Se la ride sotto la barba bianca come neve e pensa agli isterismi
collettivi e alle code nevrotiche. Pensa alle furberie di certuni e gli sgambetti
fatti ad altri, per impedirli di prendere l’ultima fetta di torta.
Ognuno pensa per se, l’altruismo nasce nell’agiatezza. Per primo viene l’istinto
di conservazione.
Tutto è tranquillo. Un sonno lieve mi culla e mi ispira parole ovattate come il
passo cauto di un gatto tra le tegole di un tetto spiovente. Sembra di sentire
intere legioni di addormentati, nei loro letti, compressi in un sogno che li
rassicura. Sono tutti addormentati e sereni, ormai le ultime pecore hanno
saltato la staccionata e gli ultimi insonni hanno chiuso finalmente gli occhi,
morti al mondo. Nel sonno sembra di tornare nell’utero, soprattutto nella
stagione fredda quando i letti sono guarniti di soffici e caldi piumoni. La
posizione è anche la medesima, incurvati, con il respiro lento, il cuore che
batte piano come il tichettio di un’orologio svizzero. Nel sonno i fantasmi si
fanno vivi come esattori delle tasse, ma basta un cenno per scacciarli e
cambiare scena. I sogni si susseguono a velocità folle. Ci sono delle notti,
feconde per così dire, che riesco a raccimorale una quantità di sogni che
riempirebbero un libro. E’ sempre mia intenzione annotarli una volta sveglio,
ma non ne ho mai la voglia o il tempo. Sarebbe bello descriverli e rileggerli,
sarebbe come fare una fotocopia all’inconscio e renderla imperitura. Meglio
ancora sarebbe servirsi di un registratore, per narrare il sogno appena
l’occhio si apre. In quel momento a tentoni potrei cercare il registratore,
pigiare REC e iniziare un monologo. E poi magari trasferire sulla carta i
monologhi, fedelmente, senza tralasciare o aggiungere nulla. Forse un giorno,
possibilmente di pioggia, andrò in un iperstore e comprerò un piccolo
registratorino e la mattina dopo darò avvio al racconto dei sogni. Il libro potrà
essere intitolato subconscio, oppure sogni spatolati. Chissà forse un gorno
inizierò davvero questo progetto, senza saltare una mattina, regolare come
le tasse, e compilerò questo voluminoso libro che in teoria potrebbe protrarsi
fino alla mia morte, o meglio fino alla notte prima. Come ultimo sogno forse
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la consapevolezza tagliente di aver vissuto tutta la vita in un sogno, in un
alito di vento spirato subito dopo un brusco temporale.
Mi immagino nel letto di morte, agonizzante. Gli ultimi cinque minuti. La
sigaretta del condannato. Trovarsi nella consapevolezza della fine imminente.
E’ da molto che ipotizzo come potranno essere questi ultimi cinque minuti. Li
immagino come un suono di campanello che annuncia qualcosa, un treno
verso la morte e l’infinito congiunti insieme mediante una tenace colla a base
di amore e consapevolezza. Minuti che possono sembrare ore. Si cerca di
fermare il tempo ma non ci sono pulsanti, è tutto inutile, il ticchettio
logorroico non si arresta, neppure un secondo ogni 290.503 anni. Passano gli
attimi, la gola è secca, il fiato si fa corto. E poi un leggero stordimento fa
perdere la vista per un’attimo. Un secondo dopo sei dall’altra parte e
contempli il tuo corpo esamine disteso sul letto con tutti i cari parenti che si
riuniscono attorno alla salma, chi spinto dal pianto e chi, più venale, si chiede
quanti soldi questo vecchio mi avrà lasciato?
Mi lascio tutto dietro, il lavoro, le vacanze, le discussioni animate con gli amici
a proposito di fatti insignificanti. Mi lascio dietro il disagio del mutismo
inveterato. Mentre avanzo tutto ciò mi cade dalle mani come sabbia rosa, e
guai a chi la raccoglie. Perirebbe nell’istante in cui un granello di sabbia si posa
sulla sua mano. E’ roba mia, mia immondizia che ho deciso di buttare.
Chiavichume irriciclabile, alla faccia dei verdi e delle petroliere che riversano
negli oceani tonnellate di petrolio. Poco male, tanto ci saranno volontari
pronti a rinunciare alle vacanze invernali pur di andare a ripulire pinguini e
gabbiani appiccicati nel bitume. A ogni problema una soluzione. Una sola? No
molte soluzioni. Basta vedere il problema con una nuova lente. Più si va a
fondo e più si scopre che si ha a che fare con un pugno di mosche.
Io sono qui a scrivere libri e di là parlano di guerra santa e olocausti nucleari. I
premier dei vari stati leader si incontrano sempre, come amici al bar e iniziano
a discutere. Il rispetto in questi casi si valuta dalla potenza militare
disponibile a chi decide di alzare la voce. Duecentocinquantamila uomini sono
sciocchezze se si pensa che basta una comune arma di distruzione di massa
per azzerrarli. Alla faccia di avvertimenti e spionaggi dell’ultim’ora. Anche il
piccolo e indifeso, come si è constatato il ben noto 11 settembre, può far
traballare una superpotenza. Il topolino che squittendo spaventa l’elefante e
lo fa scappare a gambe levate.
Il paesello in questione ha una buona arma a sua disposizione, i Kamikaze.
Basta un po di tritolo e una scuola va in fumo con scolari e bidelli.
Un tale entra in un fast food con una giacca pomposa, ordina due hamburger
e una Coca e nell’istante in cui sta per avviarsi al tavolino, nella calca del
mezzogiorno in qualunque città mondiale, preme un pulsantino attaccato alla
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sua giacca e si fa esplodere. Molto semplice e pulito. Il colpevole non
confesserà nulla e allora i media se la prendono con un’individuo fantomatico,
quasi irreale, nella sua barba lunga sale e pepe e il suo turbante. E’ lui il capo
dell’organizzazione, va bene, ma ognuno dei kamikaze ha agito secondo la
propria coscienza. Coscienza lavata e stirata a puntino nelle scuole di
addestramento. L’istruttore, vestito da Kamikaze per una dimostrazione dice:
“Attenzione ragazzi che ve lo faccio vedere una sola volta!”.
Serata ideale per scrivere. Oppure per leggere su una panchina sotto una
pensilina di una stazione di Parigi, una qualsiasi, non importa. Assorti nella
lettura di un capitolo del Tropico del Cancro, mentre una puttana in calze
rosse cerca di farmi avances indecenti. Il fiato le puzza di Fernet Branca, con
la scusa di scaldarsi contro il freddo è visibilmente ubriaca. E‘ anche zoppa,
come un leone con una scheggia di legno nella zampa. Io a tratti contemplo la
pioggia fine che cade e a volte punto gli occhi sulla puttana. La sento che
tenta di leggere le parole scritte sul libro. Ma non capisce nulla perché il libro
è scritto in italiano e lei una puttana francese. Mi racconta che un tempo
aveva ambizioni da ballerina e si esibisce anche in una spaccata, lì sul
marciapiede del metrò e nel farlo si strappa una calza all’altezza del polpaccio.
A me non interessa, non desta nessun entusiasmo. Lei vorrebbe trascinarmi
su, nell’albergo della stazione per guadagnarsi i soldi per un pasto. Continua a
proporsi e a lagnarsi per l’affitto da pagare e le bollette del telefono che
stanno per scadere. Finalmente il capitolo finisce e mi alzo. Passa un treno
sferragliante, ci salgo e lei mi segue. Ci sediamo su una vettura e di lì a poco
passa un venditore di liquori mignon. Ne prendo due e me li scolo in cinque
minuti. Sento il suo sguardo su di me. Alla stazione dopo scendo e lei rimane
seduta. Il treno riparte e mi butto sotto la pioggia che nel frattempo è
aumentata.
Strani sogni faccio la notte, pensare che a Parigi non ci sono mai stato. Ma col
corpo astrale ci sono sovente, vago come un fantasma dannato per le sue vie
come dentro quadri di Renoir e Degas. A volte sento anche l’odore di Parigi,
un giorno o l’altro ci devo andare, in carne ed ossa per perdermi per le sue
vie, magari con una dose di Fernet nelle budella. Ovviamente con un taccuino
sempre a portata di mano e una matita ben affilata nella tasca
dell’impermeabile, per le emergenze creative. Un tubetto di Aspirina nell’altra
tasca per i postumi delle sbornie. Parigi è solo distante sette o ottocento
chilometri da casa mia. Basterebbero un po’ di ore di treno e un portafoglio
gonfio di Euro.
Stamattina è passata come un sogno. Un sogno come se dormissi in una
stanza in cui c’è una tanica di cherosene aperta. Quando ormai ero desto era
ora di uscire, pressappoco le due del pomeriggio. Mentre mi avviavo alla
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macchina sono stato investito da un’acquazzone che mi ha fatto accelerare il
passo. Dopo il lavoro sono andato a Fossano, alla mia vecchia scuola per
ritirare alcuni documenti che avevano dimenticato di rilasciarmi.
Erano anni ormai, esattamente cinque, che non entravo in quella scuola.
Pressappoco è rimasta intatta come nella mia memoria. Gli unici cambiamenti
sono i distributori automatici di panini che all’epoca non c’erano. Ho preso un
caffè macchiato alla macchinetta e poi sono ritornato nella pioggia, a bordo
della mia fedele Y. Il viaggio di ritorno è stato un’ininterrotto acquazzone e
arrivato a casa non ero neanche stanco. Mi sono trattenuto una mezz’oretta
a conversare con mia madre del più e del meno, delle solite cose e poi sono
salito in camera per immergermi al computer. Un pomeriggio tranquillo,
rilassato all’ennesima potenza. Ora sono calmo e in pace con me stesso. Mi
sento sollevato come dopo essersi svegliati da un brutto incubo durato anche
troppo. La voglia di scrivere mi sale alla gola. E’ come una frenesia che mi
pervade e mi fa stare bene. Magari le cose che scrivo sono solo assurde
banalità ma poco importa, la cosa interessante è sentirsi felici di ciò che si fa
in ogni attimo, ad ogni respiro. E’ così che mi sento ora. Le dita si muovono
frenetiche, trovano i tasti meccanicamente, a una velocità impressionante.
Se dovessi scrivere a mano quello che invece batto al computer ci
impiegherei il doppio del tempo o forse più, inoltre mi risparmio i crampi al
polso e alle dita. Pensare che la tastiera, ho letto un giorno, è stata concepita
in modo che fosse difficoltoso trovare i tasti. Invece in men che non si dica i
tasti sono a portata di mano e si può scrivere senza guardarli, in una stanza
buia. E’ una bella soddisfazione, come avere il fucile carico appeso a una
spalla. Magari non c’è nulla a cui sparare ma sai che c’è l’hai. La tastiera è un
buon mezzo di espressione. E’ un ponte tra la mente e la realtà.
Eccomi al secondo lavoro. Non retribuito per ora, lavorando assiduamente
per 0 £ pari a 0 € al mese. Questo secondo lavoro ha il beneficio di rodere
prezioso tempo libero che non saprei come ammazzare e allora ci do dentro a
scrivere. Apro la pagina del documendo word e butto giù pezzi, sensazioni,
ansie, ricordi, aneddoti e pensieri che mi sono venuti nell’arco della giornata,
magari mentre ero in auto o sul muletto, con 2700 Kg di vetro in lastre carico
davanti, tutte intatte, miracolosamente intatte.
E’ proprio un simpatico secondo lavoro. Interessante e rilassante. Sotto ogni
punto di vista. Di solito quando mi metto a scrivere è perché non sono
asserragliato da ansie particolari. Un goccio di vita mi basta per ubriacarmi. A
volte ne bevo sorsate generose e in quei casi mi ritrovo ubriaco e frenetico.
Altre volte sono talmente spossato e stanco che riesco a scrivere solo poche
righe, dopo di che le rileggo e le cancello scoprendo di aver scritto qualcosa di
assolutamente insignificante, ancora più insignificante di quello che sto
scrivendo ora. Quelle volte, quando non produco nulla, mi corico con l’amaro
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in bocca, con ancora il malloppo piantato all’altezza della bocca dello stomaco
come un grosso rospo insipido che non si riesce a digerire, neppure con un
manico di scopa e uno stura lavandini all’acido muriatico. Quelle volte dormo
in apnea per non essere asfissiato dal tanfo dei miei pensieri.
Il mattino mi sveglio, sento la bocca impastata come se avessi mangiato una
scarpa vecchia dieci anni. Vado allo specchio a guardarmi gli occhi,
solitamente due strette fessure dove a malapena passano le pupille e mi
sorprendo a sorridermi allo specchio, come un’ubriacone che torna a casa la
notte tardi e posa la dentiera in un bicchiere di vetro. Piscio e poi
frettolosamente mi vesto, di solito leggero, anche quando fuori inpazza la
neve o ci sono 13 gradi sotto zero. Sto leggero ad ogni stagione e non
indosso mai la maglietta della salute, mi fa venire lo schifo solo a scriverne.
Scendo le scale e metto una sigaretta in bocca, spenta. Raggiungo la
macchina, come a tentoni, come se mi muovessi in una stanza buia, tocco gli
oggetti che mi circondano come un cieco senza cane e poi finalmente riesco
a trovare la macchina e infilo la chiave nel nottolino dell’avviamento. Metto in
moto e vado. Se non succedono imprevisti, come l’abbattere la cancellata di
casa o uscire fuori strada in un campo di mais, percorro la strada che mi
porta al lavoro in circa 15 minuti. Ho affrontato quella strada in ogni
condizione climatica, con la pioggia, coi temporali, con la strada intasata di
neve, con un gelo che impediva anche solo di pensare di superare i 50 Km/h. Il
clima ideale per viaggiare è il grigio nuvoloso senza pioggia. Il sole si smorza e
non si è costretti a condizionare l’auto.
Studio l’impressionismo francese. Renoir, Manet, Monet, Cezanne. Tutti grandi
nomi pomposi che hanno alle spalle decine, centinaia di opere sparse in tutto
il mondo. Renoir, l’artista che trasmetteva gioia ad ogni pennellata, Cezanne,
il maestro dei toni caldi, Monet, il puntilioso che riproduceva fedelmente
tutto quello che vedeva. Manet, il capo del gruppo. Degas, che dipingeva
ballerine in ogni posa. Ogni quadro che si contempla è una finestra
sull’ottocento francese, la seconda metà del secolo. Sembra di respirare le
atmosfere dei caffè, l’aroma dell’assenzio, le prostitute annoiate
abbandonate ai tavolini dei bar, i paesaggi ariosi lungo la Senna, le marine, le
rue Parigine ritratte in ogni occasione, imbardate a festa o in un giorno
anonimo. Pochi uomini hanno dato l’avvio a una rivoluzione stilistica. Il
concetto di arte è per sempre mutato. E’ una gioia scorrere le pagine di un
libro impressionista per ammirare le stampe, ci si può quasi permettere di
prendere una lente e osservare ogni singola pennellata. E nel frattempo
leggere gli aneddoti raccontati con bravura dall’autore del libro. Si scoprono
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le personalità dei vari maestri. Il loro egocentrismo, le loro paure, la non
sempre agiatezza finanziaria.
Morte e trasfigurazione. Una pioggierellina fine cade dal cielo. Sembra che si
insinui ovunque come garza tra le pieghe del cervello. E’ quasi sedativa.
Concilia il sonno, come un valium. E’ mezzanotte e sento il rintoccare del
campanile, è come se lo percepissi in sogno, smorzato. E’ il venti e rotti di
novembre, le giornate sono corte e pesanti, piene di nebbia e di foglie morte
ai bordi delle strade. Gli alberi del viale hanno preso una tonalità pittoresca
che sembra mutare di giorno in giorno, ora in ora. E’ come vivere in un quadro
e respirare l’odore di foglie morte e di nebbia. Tutto scivola via come acqua
nei rigagnoli, la realtà si dissolve e non ne rimane traccia.
Finalmente ha smesso di piovere. Fino a quanto durerà? Sembra di vivere in
un limbo o in una vasca con acqua stagnante vicino a uno scarico, turato dalla
muffa. Stessi odori, stessi paesaggi. Le foglie cadono a raffica sulla strada,
anche alle 5 e 39 di mattina, quando tramortito passo per il viale. Sembra
ancora di sentire l’eco della pioggia. I rigagnoli e i fiumi sono saturi di acqua
marroncino, c’è sempre il solito passante che getta uno sguardo al fiume,
tanto per tranquillizzarsi. Non importa se sono solo le sette e mezzo di
mattina, il solito passante si munisce di stivali e ombrello e affronta il fango
come un lagunare. Magari poi quando arriva sul ponte perde la memoria per
un’attimo ed estrae meccanicamente il cellulare dalla tasca. Che cosa fa?
Telefona alla moglie per tranquillizzarla. E la moglie dall’altro capo del
telefono: “Mi hai svegliata solo per dirmi che il Maira non è in piena?” “Va a
farti fott…”, insomma quella che si dice una telefonata romantica, lui
esagitato, lei completamente indifferente, come un tronco in putrefazione.
A che scopo tutto questo? Forse per delineare un disegno più ampio o
semplicemente per esercitarsi nello scrivere. Sei solo all’inizio ragazzo, solo
all’inizio. Questo è solo un feto che deve maturare nel suo utero. Questo è
uno stadio di incubazione artificiale.
L’artificio erano le medicine di plastica, i soliti Tavor, Xanas e qualche golata di
Lexotan, tanto per tirare avanti. Poi un bel giorno mi sono accorto di essere
strafatto, camminavo sulle nuvole. Mi sentivo passeggiare sulla sabbia anche
se stavo camminando sull’asfalto. E allora ho detto stop. Astinenza. Ed ora mi
sento meglio. L’ansia mi assale per qualche minuto al giorno ma non ci do
peso. Ma sul serio. Non come ad agosto che pedalando per la solita strada
cercavo di inculcarmi in testa che andava tutto bene. Tutto bene un corno.
Ero sull’orlo del precipizio o forse già a metà strada giù nel baratro. E intanto
continuavo a ripetermi che andava tutto bene, e ogni bene che pronunciava,
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scivolavo un po’ più in basso, come se il terreno sotto di me fosse viscido e in
pendenza, come dentro una grotta o in un brutto incubo, un sogno del cazzo
che non riesci a toglierti di dosso, come un pirania che ti attenaglia e non ti
lascia più. Allora è arrivato il dottore della scuola freudiana, con una cesta
carica di psicofarmaci, primario nientemeno. Per qualche mese ho alimentato
i miei sogni a base di pasticche. Una pastigia per ogni situazione: una per
dormire, una per stare allegro, una per andare regolare di stomaco. Ma
nessuna davvero mi faceva sorridere. Servivano soltanto per sfocare la
realtà, come un grumo di catarro su un teleobbiettivo da cinque mila euro.
Per sfocare erano eccelenti. Mi facevano dormire come un pupo, e una volta
desto con un piede ancora nel regno di Morfeo, direttamente tra le sue
braccia. E un’angoscia che mi sentivo crescere, come una musichetta che
aumenta sempre di volume fino a spaccarti le orecchie. Insieme all’angoscia
arrivava l’altra palata di psicofarmaci, quelli per il sorriso, sorriso a denti
traballanti, un ghigno più che un riso, esibito anche quando non c’è nulla di cui
ridere. Sbalzi di umore, come una donna in menopausa ma con limiti molto più
ampi, ai confini dell’estasi e del pianto. O forse si può anche piangere di gioia
e ridere nella disperazione? Forse. Una risposta che mette d’accordo tutti e
nessuno. E le pagine scorrono.
Erano giorni, dall’interruzione brusca della cura che non scrivevo più. Dovevo
ambientarmi nella nuova situazione, nuotare di nuovo in modo sciolto nella
lucidità come la ricordavo prima della cura. E ora le medicine stanno
marcendo sul comodino, scatole quasi integre, quasi. E il suicidio fa capolino
come un buffo ometto con un cappello coi campanellini, scuro in volto,
segnato dalle droghe e dagli alcolici, il volto scavato come quello di Mike
Jagger degli Stones. Si propone come scelta unica e si fissa una data ipotetica
per attuarlo. Ma sono sicuro che troverò qualche scusa per non presentarmi
all’appuntamento. E che cazzo. In fondo posso ancora riemergere da questo
mare di merda, o forse sono sotto il mare di merda dove la merda sedimenta
e forma distese di concime sciolto.
Riemergo dalla merda e prendo una boccata d’aria e una di sigarette. Quante
sigarette ho fumato sul balcone la sera tardi o in piena notte, seduto sul
pavimento umido a fissare il cancello grigio e il lampioncino mesto della casa
del vicino. Come se osservassi tutto attraverso un sogno, un’alito di realtà
circoscritta nel mio cervello. Quanti pensieri e quante volte sono tornato a
letto coi polmoni dolenti e in cerca di un sorso d’acqua e una pisciata. E
magari con una nuova paranoia germogliata in testa. Allora di nuovo a
rigirarmi nel letto come un cavallo schiumante, cercando di mettere in fila
tutta le paranoie per poi spazzarle con un raffica di mitra. E le ore passavano
via come pisciate calde e magari un’altra sigaretta fumata al buio nel bagno,
o di nuovo fuori, avvolto nella solita tuta dell’Adidas, come una sorta di divisa,
un’uniforme con la quale mi trascino per il mondo come un cane paralizzato
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alle zampe posteriori. Silenzio e rubinetti rotti che gocciolano tutta la notte.
Silenzio e contemplazione, una contemplazione forzata incatenato nel letto
come un vitello davanti alla sua mangiatoia. Egli non lo sa ma quando gli verrà
tolta la catena sarà il giorno in cui verrà condotto al mattatoio. Anchi’io mi
sentivo così, pronto soltanto per la morte, non un solo sintomo di vita in
tutto il mio io, non un solo lieve sospiro di vita. Un fiore senza petali e
passione. Un fiore maledetto, condannato all’oblio. Semplici parole che mi
fanno riversare fiumi di sudore. Altro che sette camicie, per scrivere un solo
libro si devono sudare settanta camicie anche solo per partorire un’aborto o
un mezzo libro che non riesce a raggiungere una fine. E’ sempre difficile
trovare le parole per concludere, sembra sempre di aver tralasciato qualcosa
nella penna, e la parola fine sembra una tomba che non lascia più spazio a
nulla, nemmeno per un p.s. striminzito appuntato a piè di pagina come
un’ultimo grido di aiuto prima di inabissarsi nell’oceano. Ma prima o poi la
parola fine arriva, magari un mattino freddo d’inverno dopo una notte
passata a battermi con l’altro me stesso, in un turno di lavoro che sembrava
interminabile, una di quelle notti che sembra che rendi l’anima a Dio per un
boccone di pane che tral’altro ti va pure di traverso. E’ in una notte come
questa che si può ottenere il coraggio per scrivere la parola fine, senza
riserve. E magari scrivendo fine in calce si butta l’occhio sul numero delle
pagine scritte e ci si lascia prendere dalla frenesia e il giorno dopo, appena
sveglio, buttando gli occhi sulle ultime righe scritte, mi rendo conto che tutto
è ancora incerto e poco definito. Allora si passa alla fase numero due della
stesura di un libro, la rilettura, dove ci si prende la libertà di apportare alcune
correzioni, e se ci si lascia prendere la mano sembra che non sia mai
abbastanza, per correggerlo si impiegano mesi e mesi e oltre tutto non si
produce nulla, si ricama, si ricama sopra ciò che si è già scritto e si torniscono
i pensieri più puri in autentiche stronzate. Il punto più critico è quando si deve
cancellare qualche frase o un capitolo intero, scritto magari in un momento
di vacanza del cervello.
Dopo mesi e mesi il libro è pronto, cioè pronto per essere stampato dalla
propria stampante per un’ulteriore rilettura con penna rossa, a luci spente.
Questa fase la prendo un po’ come cercare di immaginare di star leggendo
l’opera di un altro. Le pagine scorrono e ci si accorge che ci sono molti segni
rossi, in quasi tutte le pagine. Che barba, penso, altre correzioni sintomo di
totale insicurezza. Poi finalmente il libro sembra completo, corretto e riletto
a puntino e allora lo si può lasciare a marcire in un cassetto. Se son rose
fioriranno, se è merda servirà come concime per altre rose.
Passeggiare. Passeggiare per trovare un’ispirazione. Non osservando la realtà
ma macinando strada, passo dopo passo, piede destro e piede sinistro fino a
consumare le scarpe e il cervello. Ad un tratto una fugace ispirazione brilla
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nel cielo. Ma non è un cielo reale, è di pura cartapesta e la pioggia è di
coriandoli di carta. Mi guardo allo specchio, uno specchio finto ovviamente, e
mi vedo. Anchio sono di carta e colla. Tutto si sgretola come fango secco ai
bordi delle scarpe. Il mondo vacilla e cade in un’abisso. Alla fine rimane solo un
pianto strozzato e poi anche esso cessa, come se qualcuno avesse sparato su
chi piangeva, per farlo smettere. Smetti cazzo, smetti, sono i pensieri che
sono passati per la testa al cecchino. E ora si è pentito di quello che ha fatto e
ha puntato il fucile su di sé e ha fatto fuoco… solita fine per una vita segnata
dagli eccessi. Un colpo che eccheggia nel vuoto, ma chi spara non sente il
colpo, solo una porta che si spalanca. Egli non fa in tempo ad entrare, la porta
si dissolve come un sogno all’aprirsi degli occhi. Chiazze di realtà nuotano
indelebili ma non c’è alcun nesso, i pezzi del puzzle non combaciano o sono
mancanti. Uno impiega tutta la vita per cercarli e solo alla fine scopre che non
erano nella scatola, il puzzle da cento in realtà aveva solo novantanove
tasselli, manca proprio la bocca del ritratto, almeno non potrà sputare
sentenze o dire cazzate. E’ un bene per lui non avere la bocca, sarà un saggio.
Un saggio che con lo sguardo attira l’attenzione e con un gesto scatena una
sommossa. Se non avesse avuto il naso sarebbe stato pazzesco. Ve lo
immaginate un mondo senza odore? Che resta del vino e del formaggio senza
l’odore? Solo un surrogato. Che resta del caffè se gli togli il suo profumo? Che
resta dei fiori senza la loro essenza? Solo la bellezza. Ma la bellezza non è
l’essenza del fiore, è solo un’immagine sbiadita lasciata a marcire nel fondo
della vasca di una fontana.
Ma cos’è tutta questa voglia di scrivere? Un prurito? Una mania? Forse una
consolazione verso qualcosa di più concreto, tangibille. Forse è la volontà di
costruire. Costruire qualcosa di solido, qualcosa che non può essere spazzato
dalla prima folata di vento, come la casa di paglia nella storia dei tre
porcellini… Qualcosa da palpare e accarezzare, un libro da annusare prima di
leggere, per sentirne l’odore. Se avete letto un libro vecchio sapete di cosa
parlo. L’odore di vecchio si avverte ad ogni respiro e poi quando ti sei
abituato all’odore, il libro è finito. E allora non resta altro che tornare alla
biblioteca per riprenderlo a nolo, per averlo ancora sotto mano e rileggere i
passi più interessanti, finche non li si conosce a memoria come le proprie
tasche. Questi passi possono destare risate o pianti, a seconda dell’umore.
Passi memorabili che andrebbero sottolineati con inchiostro indelebile, per
segnalare al futuro lettore che sono memorabili, assolutamente memorabili.
Oppure trascriverli su un foglio sgualcito e portarseli con se, come delle
buone scarpe da passeggio. In seguito scrivere un libro sulle citazioni
memorabili raccolte nell’arco di una vita. Un altro libro aggiunto all’elenco di
quelli scritti da quando a un uomo è venuto il pallino di trascrivere i suoi
pensieri trasformandoli in lettere, monosillabi, parole e frasi. Capoversi e
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capitoli. Da allora il flusso non si è più fermato. L’emoraggia continua e
pervade il mondo con la sua corrente. Un marasma di lingue e dialetti, gerghi
o semplici grugniti della strada, tutto per esprimersi e fissare il proprio
pensiero, sfuggente di per se in qualcosa di cristallino e lampante come può
essere la scrittura. Nessun tramandare a voce, è troppo deleterio. Ognuno
rischia di metterci un po’ di suo, come nel telefono senza fili… Che bella
analogia, presa direttamente dalle elementari. Non servono gli studi per
diventare un buon scrittore, al massimo può essere utile sguazzare al meglio
nella grammatica e nell’ortografia, tutto il resto sono semplici sciocchezze.
Sciocchezze che richiedono anni di tempo per essere digerite. Per essere
espulse serve una grande padronanza di se. Si rischia di rimanere intrappolati
nelle regole scolastiche per tutta la vita. Ciò che con tanto amore e senso del
dovere i poveri professori, vittime del sistema, ti inculcano in tenera età è
niente di più o di meno di un marchio a fuoco. Un marchio a fuoco che
trasforma la tua carne in qualcosa di identificabile alla prima occhiata. Diventi
un prodotto o uno scarto della società, sei pronto per tuffarti in un mondo
del lavoro fatto di domande e di richieste. Secondo la scuola ciò che viene
insegnato è assolutamente indispensabile. Anche il teorema secondo cui c’è
una sola retta parallela a quella tracciata che passa in un dato punto P. Il
fatto è decidere se essere d’accorto o meno con questa teoria. Tutto il resto
viene di conseguenza. Si è schiavi di una scielta, non viene lasciata alcuna
possibilità di divergere il proprio pensiero in qualcosa di parallelo o superiore
a ciò che si è ammesso con tanta leggerezza. Questo teorema, insieme a tutti
gli altri, vadano pure a farsi fottere, insieme alla radice quadrata e al
logaritmo a base dieci. Al posto della matematica dovrebbero istituire un
corso di pattinaggio su pattini in linea, e un altro, al posto del latino e del
greco, sullo studio delle oscillazioni del pendolo visto attraverso un buco di
serratura in un mare in burrasca. Al posto della religione un corso di yoga
oppure un’approfondimento sulle religioni del mondo, coi loro dogmi e
superstizioni. Letture dai vangeli apocrifi e meditazioni guidate. La scuola coi
suoi programmi è sempre l’ultima ruota del carro, anzi quella di scorta, che
quando fori scopri essere sgonfia o semplicemente mancante.
Ed ora iniziano le danze. Ballo d’inverno, con un breve rinfresco fatto di
caviale e minestrone con trippa – un buon abbinamento no? – e poi alici stese
su fette di pane integrale inburrato e un goccio di vino Barolo del ’94 o giù di
lì. E chi avesse ancora fame potrebbe trovare appetitosi dei piccoli panini
pepati, ma non esagerate perché altrimenti vi faranno dar di stomaco. Inizia il
ballo. Lo apre un vecchio con barba bianca bardato in frac e con dei mocassini
lucidi come la testa d’avorio di un lebbroso. Dalla sua parlata si capisce che è
langarolo e che gli piace bere. Se ammiccate gli occhi riuscirete ad
intravedere la scimmia che ha sulla spalla sinistra, un mostro orrendo che gli
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suggerisce nelle orecchie parole oscene scritte col vetriolo, ancora fumanti.
Divaga da un’argomento all’altro, sembra non ricordi più perché ha in mano
un microfono e si trovi ben vestito innanzi a gente del suo stesso lignaggio.
Molti dei presenti cercano di tener dentro il fiato che puzza di alcol con
mentine e con sigari cubani potenti. Ma il cerchio alla testa rimane come un
timbro sulle loro teste invermate e bollite al punto giusto. Invece di piedi
hanno squallidi moncherini e invece di capelli cotone idrofilo tinto di giallo e
beige. Sembra che questi individui stiano per schizzare via dal loro corpo, la
luna o forse il vestito riesce a tenerli insieme, ma quando saranno a casa, al
tepore e si spoglieranno andranno in pezzi come calici di cristallo infranti.
Molti sbadigliano vistosamente. L’oratore, il vecchio ubriaco in frac, è uscito
non soltanto dal seminato ma anche dal campo. Sta parlando di Dio, e pensare
che avrebbe soltanto dovuto dire cose del tipo: “Sono felice che vi troviate
qui stassera, il ballo sta per cominciare e poi, Ines mi concedi il primo ballo?” e
Ines avrebbe dovuto alzarsi dal suo posto, magari aiutata da una gru e
mettersi in equilibrio sulle sue gambe di pianoforte per immaginare di ballare
col vecchio, ognuno col viso scostato per non soffocarsi a vicenda col fiato
greve d’alcol, uno di Fernet, l’altra di Jonny Walker. Invece il vecchio divaga.
Parla or ora di rincarnazione. Poi all’improvviso crepitano i cembali, un gong
fa gong dal fondo dell’orchestra e il vecchio viene messo a tacere, con un
bicchiere di Jin in una mano e una fetta di mango dall’altra. E iniziano le
danze.
Ho ritrovato la gioia delle piccole cose. Mi è tornato l’hobby della fotografia.
Per essere attrezzato a dovere mi sono procurato una fotocamera Sony da
500 euro. Piccole foto diventano gioielli plasmati al computer, ottimizzati e
stampati in piccolo formato su fogli di carta semplice. I gatti sono diventati
dei modelli eccezionali. Stanno in posa quanto una super top model. Quando
scatta il flash rimangono abbagliati, ma non ne sono spaventati. Sembra
piuttosto che cadano in una vertigine e restino pensierosi per qualche
secondo. Intanto la foto entra nella memoria della macchina digitale e può
essere vista, ingrandita e molte altre cose. Quella macchina è una caterva di
bottoni, pulsanti, freccette, levette, prese jack e prese scart, tutto
compattato nella dimensione di una kodak di trent’anni fa. Il fotografo ormai
lo andrò a trovare solo più in occasione del rifacimento della carta d’identità
o forse neanche allora. Ci sono box che fanno foto a modico prezzo, ma devi
aver la fortuna che esca la tua foto e non quella di uno sconosciuto. Come mi
è successo una sera di sabato di molti anni fa, quando avevo fatto una foto di
gruppo insieme a Franco, Cisco, Augusto e Gianni. Eravamo alla stazione di
Savigliano nell’atrio e stavamo aspettando che la macchinetta automatica
per le fototessere sputasse fuori la foto, quando ad un tratto si sente un
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lieve fruscio e le foto tessere cadono nella vaschetta. Le afferro e esclamo:
“Ma questo chi cazzo è?”. Sembrava un mezzo scemo, un pazzo lunatico uscito
dalla sua tana per esporsi ad una macchina fotografica. Poteva essere
chiunque. La foto oltretutto era macchiata in più punti. Ora che ci ripenso
sembrava proprio un pazzo. Un matto impressionato al posto di cinque. Non
che noi fossimo completamente lucidi quando avevamo fatto la foto. Anzi già
il desiderio di ammucchiarsi in cinque in una cabina più piccola di un metro
cubo, facendo facce e occhi assatanati, beh, questo era sintomo del fatto che
avevamo bevuto qualche bicchiere di troppo. Infatti il più delle volte eravamo
di ritorno da una mangiata in pizzeria, quasi sempre alla Serenella, dove io
ordinavo sempre penne all’arabbiata e vino Arneis. Una bottiglia solo per me
più un’altra bottiglia di vino nero bevuta insieme agli altri tre (Franco,
Augusto e Cisco). Dopo questo abituale rito ci spingevamo a piedi verso il
boowling, per fare qualche partita ai videogiochi o alla carambola. Magari ci
stava bene un’altra birra media corretta con vodka alla pesca. Quando finiva
la serata si doveva ritornare alla stazione ad aspettare un treno che era
troppo in anticipi o terribilmente in ritardo. Quante corse nella via che arriva
alla stazione quando lontani circa mezzo chilometro, vedevamo arrivare il
treno che avremmo dovuto prendere. Molte volte arrivavo al binario
sconvolto e stramazzavo a terra, mentre sentivo lo sbuffo delle porte del
treno che si aprivano. Oppure quando eravamo in largo anticipo,
camminavamo tranquilli come Pasque e io spesso mi mettevo a cantare a
squarciagola, sempre qualche canzone dei Nirvana. A volte si univano a noi,
nelle nostre serate, altri individui. Ma in genere io preferivo la solita
contenuta combriccola formata da tre o quattro persone. Niente folle, niente
tavolate da qui al fondo del paese, solo pochi amici intimi e una bottiglia di
vino pronta per essere svuotata. Mi faceva sentire chic ordinare vino Arneis.
Potevo benissimo chiedere della Barbera o del Nebbiolo ma non sarebbe stata
la stessa cosa. L’Arneis lo trovavo più completo, più appagante e inoltre
all’epoca disprezzavo i vini neri, preferivo birra e vini bianchi, al limite qualche
golata di rosè di tanto in tanto.
Ma tornando alla fotografia… ora mi sono di nuovo immerso in questo hobby.
Avere in dotazione una macchina seria ed efficiente dà molte soddisfazioni.
Non occorre essere fotografo pare, basta schiacchiare il pulsante dello
scatto, la macchina fa tutto da se: si regola la luce, il tempo di esposizione,
mette a fuoco l’obbiettivo e corregge eventuali tremori trasmessi dalla mano
del fotografo. Una volta scattate le foto necessarie posso correre a casa,
dove mi attende il Pc già acceso, già inserito nel programma di visualizzazione
delle foto. A volte mi sbizzarisco con i fotomontaggi, le inquadrature
particolari, i colori attenuati, la luce aumentata, oppure l’utilizzo del bianco e
nero per risparmiare cartucce e fare un tuffo nel passato.
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Delirio, ho nella mente soltanto delirio. Delirio e follia. Questo è il seguito del
primo libro, soltanto più farcito di paranoie e illusioni. Durante la stesura del
primo libro pensavo di essere uno scrittore. Ora non lo penso più, lo vivo.
Sono uno scrittore non tanto per fama o successo ma per il semplice motivo
che esercito l’attività dello scrivere. Lo faccio con passione oltre tutto. Molte
volte sono influenzato da ciò che vedo o ciò che leggo. Altre volte sputo in
faccia alla realtà e mi ricamo un mondo tutto mio, pour moi, fatto su misura
per me, impenetrabile ad altre persone. Assolutamente inaccessibile a
chiunque. E in questo mondo sguazzo a volontà come un delfino giocoso. Mi
alleno per riuscire a trasferire il mio pensiero sulla carta, attimo per attimo.
Cerco sempre di servirmi delle parole più appropriate, magari senza saperne
talvolta il giusto significato. Semplicemente mi siedo davanti al computer e
vuoto il secchio. Molte cose rimangono sospese nell’aria, non scritte,
conservate tacitamente dagli spiriti che abitano l’etere. Le sciocchezze
vengono sempre tutte a galla come grossi stronzi di una cena generosa. E ciò
che è profondo si trasforma in pensieri astrusi, scritti senza valutare la loro
coerenza o la loro comunicabilità. Quando rileggo questi passaggi rimango
abbacinato dalla grandezza di certe periodi. Significano qualcosa, almeno per
me. Ma per gli altri? Per l’ipotetico lettore che si cimenta nella lettura di
queste pagine? Che possono significare per gli altri? Per ora non ci penso.
Sono lontano dal credere che quello che scrivo verrà un giorno inpilato in
libreria o nei mercatini a metà prezzo.
Sarebbe squallido far finire la propria opera in questi mercatini. Magari hai
speso una vita per scrivere l’opera d’arte che credevi un capolavoro e viene
venduta per cinque euro o meno a gente che non ti ha mai sentito nominare.
Venduta per il solo motivo che costa poco e il titolo sembra interessante.
Meglio non pubblicare i propri libri se si sapesse di finire in questi mercatini. E’
un fallimento, fallimento costato un sacco di bei soldoni. Fondi di magazzino
impilati in tutta fretta in bancarelle precarie e trasportati di mercato in
mercato, fiera in fiera fino a venire portati al macero… che fine orrenda per il
lavoro di una vita, le sudate di notti in bianco passate alla tastiera a
dissanguarsi e girare intorno a un’idea astrusa. Certo non si nasce un Proust o
un London così dal niente. Anche loro senza dubbio avranno avuto la vita
difficile e avranno saltato qualche pasto di tanto in tanto. Ma la voglia di
scrivere non li ha mai abbandonati, anche nella disgrazia, nella disperazione.
Questo impulso è come una candela accesa per illuminare la strada anche se
molte volte si deve procedere con gambe di legno o sedie a rotelle,
arrancando e bestemmiando come scaricatori di sterco.
Scrivere per togliersi il veleno dal corpo e dalla mente. Essere coscienti del
fatto che più si scrive e più il veleno invade l’organismo. Una fonte
inesauribile di siero velenoso che trasuda da tutti i pori e tutti i buchi del
corpo, un fluido malefico che ha bisogno di essere scaricato e eliminato per
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sempre. I non scrittori, i lettori intendo, non sanno questi particolari. Pensano
che l’atto dello scrivere sia sereno e rilassato. Pensano che uno si sieda alla
tastiera e inizi a battere come colpito da un’ascesso al cervello. Hanno una
visione dello scrittore molto romantica, lo immaginano come un buffo
individuo con gli occhi penetranti a cui non sfugge nulla, con un tacquino
sempre in tasca e una matita appuntita. Non sanno che a volte occorrono
mesi per buttare giù poche parole, non sanno che qualunque scrittore è un
fallito potenziale, in balia di editori e leggi del copyright. Ai lettori piace
aprire il libro, uno a caso, magari solo per ammazzare il tempo e leggere fino
a farsi venire male agli occhi.
Il lettore è uno spettatore passivo ma per diventare scrittori bisogna
innanzitutto essere lettori. Leggendo ci si appassiona a un genere e si cerca di
imitarlo. Si va a scuola con i classici della letteratura. Non importa che sia
italiana, russa, inglese o chicchessia. Tanto il concetto di fondo lo esprimono
meravigliosamente allo stesso modo. Lo scrittore cerca di trasmettere le
proprie esperienze magari facendo parlare attraverso di lui personaggi
inventati. C’è sempre una punta di scrittore in tutti i personaggi, le sue
idiosincrasie, i suoi amori, le sue passioni, a volte traspirano dal personaggio di
cui sta scrivendo.
Mi piacciono molto gli scrittori che hanno un loro stile personale, facilmente
riconoscibile. Odio invece quelli che si nascondono dietro la penna, dietro la
paura di utilizzare “io” come soggetto, disposto piuttosto a far parlare cani,
alberi o montagne.
La giornata è volata via come una pisciata calda contro un cassone di legno.
Ricordo in modo nitido un sogno che ho fatto stamattina. All’inizio del sogno
ero alla guida di una macchinina telecomandata. Andava molto veloce e io ero
costretto a seguirla di corsa col radiocomando per poterla direzionare. Ad un
certo punto, dietro una curva, sono scivolato dalla strada, che era in
pendenza, e sono rimasto sospeso nel vuoto aggrappato a un alberello poco
robusto. Mentre afferravo saldamente l’alberello mi sono chiesto se le radici
avrebbero retto. Finito di chiedermelo ho sentito le radici perdere aderenza
dal suolo e sono precipitato nel vuoto. Mentre cadevo pensavo: “Allora sto
proprio morendo?”, non saprei dire se ero contento o scioccato di questo.
Dopo questo sogno sono stato catapultato in un altro sogno. Questo molto
più strano per primo. Ero all’interno di un cimitero tedesco e stavo
osservando la tomba della famiglia Miller, cioè della famiglia di Henry Miller. Mi
sembra anche di aver visto i genitori di Miller, in piedi accanto alla tomba.
Sembra che siano lì soltanto per accertarsi che tutti i fiori siano in ordine, le
lapidi ben lustrate con pelle di camoscio e le scritte placcate d’ottone belle
lucide. Ci sono alcuni posti vuoti nella tomba. I genitori hanno già scelto quale
sarà il loro posto e quello dei loro figli. Nessuna preghiera esce dalle loro
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labbra, muti come talpe scrutano le tombe vicine come sciacalli
probabilmente confrontandole alla loro. Un po’ come succede in tutto il
mondo nell’occasione dell’Ognissanti. Qualunque parente incontri per quei
viottoli ghiaiosi circondati da piccoli pini, è un motivo per complimentarsi per
i fiori scelti. Alcuni non vanno neppure a pregare i morti, si limitano ad
osservare i vivi nutrendo per loro un sottile odio, una specie di invidia
repressa. I rosari vengono recitati frettolosamente, sembrano non
sopportare un po’ di brezza nebbiosa anche se sono avvolti in costosi e caldi
giacconi e scarpe comode e morbide con cui potrebbero girare i cimiteri di
mezza provincia. Basta un’attimo di sosta in più ad una tomba e si sentono
assiderare e cominciano a lamentarsi del freddo. Sempre gli stessi discorsi
“Quest’anno il freddo è arrivato prima, o sbaglio?”, “Sì, fa un freddo che non ti
dico, stamattina quando mi sono alzato alle sette c’erano solo 3 gradi”. E
infatti una prerogativa di questi individui, ovvero coloro che fanno parte
della macchina della società, è che si svegliano sempre presto anche quando
non è necessario, quando potrebbero dormire comodamente fino alle 10. Si
alzano dal letto con la barba da fare e iniziano a vagare per casa come
sonnanbuli, fumando sigarette e bevendo caffè. Quando io mi sveglio, per
caso, per andare un’attimo al bagno, sento sempre questo atroce odore di
caffè misto a scorregge e fumo di sigaretta che mi tocca lo stomaco. Non mi
sognerei mai di bere caffè appena sveglio, sarebbe causa certa di un’acidità di
stomaco che si protenderebbe per tutta la mattina fino all’ora di pranzo
almeno.
Ora riprendo il sogno. Mi sono trovato in una chiesa, accanto a me seduto al
banco il matto Thompson, mio collega di lavoro. Non so il motivo ma dopo
pochi minuti, il matto Thompson si alza dal banco e va a rubare l’elemosina
dalla questua. Sembra che lo faccia con naturalezza come se prendesse delle
noccioline da una ciotola. Pare che lo faccia senza ombra di peccato,
innocentemente come sotto l’ordine di un suo diretto superiore. Il prete
sull’altare, che nel frattempo recitava la messa, si mette a criticare il suo
comportamento e io ribatto con frasi provocanti e blasfeme. Il prete si fa
rosso in volto come se avesse ingoiato una manciata di paprike e inizia a
gridare contro di noi, ci indica la porta, ci vuole cacciar via. Io non faccio una
piega, mi godo la scena come uno spettatore in un teatro affollato. Quel
matto di Thompson sembra un po’ intimorito, il suo sguardo è di chi si sente
fuori posto. Io gli do di gomito e gli dico di rilassarsi, di godersi la messa.
Mentre gli dico ciò mi accorgo che si è di nuovo alzato in piedi e si dirige verso
la questua per agguantare gli ultimi cent rimasti. Mentre torna al banco con
le mani unite a coppa per contenere il malloppo, inciampa in un asse incrinato
e tutte le monete cadono per terra. Ormai il prete ha il volto di tutti i colori,
non sa più a che santo raccomandare la sua calma. Vuole chiamare la polizia
nientemeno. E allora noi svelti come lepri ce la battiamo. Ci infiliamo dentro al
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drappo che sta davanti alla porta d’uscita e ci troviamo all’aria aperta.
Thompson è imbronciato perché ha perso tutti i soldi rubati e vuole tentare il
colpo in un’altra chiesa, ma io lo raffreddo e insieme ci incamminiamo lungo la
strada. Poi tutto scivola via, come acqua dalla vasca dopo aver tolto il tappo.
Il sogno si interrompe, ma non sono sicuro se sia venuto prima del primo che
ho raccontato oppure quest’ultimo. Ma l’immagine più impressa che mi è
rimasta è il matto Thompson nell’atto di alleggerire la questua forse
indossando un paio di guanti arancio, nel modo più naturale del mondo
esente da colpa di qualsiasi specie. Un sogno bizzarro. Con una vena quasi
comica, esilerante.
Da dove escano i sogni proprio non lo so. A volte nascono da fatti o scene
vissute nello stato di veglia, altre volte sono prolungamenti di questa realtà
come per completare un’azione non svolta o una frase mai pronunciata, per
questo o quel motivo. Altre volte i sogni sembrano privi di nesso con la realtà,
sembrano venire da una ricca anfora piena di fantasia. La creatività durante il
sogno è al suo culmine. Molte volte i sogni si ripetono, spesso sogno di volare
anche solo a mezzo metro da terra, come una falena in esplorazione. O di
spiccare salti sensazionali per raggiungere tetti di palazzi o cavi del telefono.
Molte delle volte che sogno di volare non sono cosciente di stare sognando,
mi sembra tutto naturale come se volare fosse un’azione che compio ogni
giorno, e con una certa destrezza oltretutto.
Dopo questi sogni di volo, solo quando mi sveglio mi rendo conto che tutto
era soltanto un’allucinazione. Quasi mi sembra di poter volare anche nella vita
reale. Mi rimangono impressi questi balzi in avanti in cui mi sollevo da terra e
lievito per metri e metri. Quando torno alla realtà c’è la schiacciante gravità
che mi costringe a terra. Invece nel mondo dei sogni non c’è peso, non fame,
morte, dolore e malattia. Soltanto attimi di follia circolare dove ognuno può
compiere tutto ciò che vuole o almeno ciò che il sogno lo spinge di fare.
A volte dopo un sonno prolungato sembra di aver dormito secoli. Si fa fatica
a riconnersi con la realtà, il corpo sembra lievitare ancora, come una piuma
d’oca colpita da sottili zefiri di vento. I primi momenti dopo il sonno sono una
sorta di interludio. Non sono né carne né pesce. Briciole di sogno sono ancora
ammucchiate sul mio cuscino e la realtà inizia a pulsare, come un’essere
millenario appena riportato in vita da una scarica elettrica. Ci sono giorni che
vorrei passarli interamente nel letto a dormire. Ma verso le tre o le quattro
del pomeriggio, ovviamente, non c’è più verso di riprendere sonno. Accendo
la tv in cerca di qualcosa di decente che di solito è appena terminato oppure
inizia di lì a due ore. Allora non mi resta che accendere il computer e
collegarmi a internet.
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Una brezza fredda arriva da nord. Un vento che viene nientemeno che dalla
Russia. Con se porta il pensiero di Dostoieski e gli altri pazzi russi del XIX
secolo. E’ rilassante leggere un romanzo di Dostoieski tipo L’idiota. Ti lascia la
pace dentro, la serenità. Le atmosfere sono cotonate come se si guardasse
un paesaggio attraverso una spessa lastra di vetro. Devo rileggerlo una volta
o l’altra, possibilmente di notte, durante un turno di lavoro.
La brezza fredda irrigidisce tutto, cuori e sapori.
Oggi sono stato in una mostra di quadri. Ho visto vari Matisse, Canaletto, un
Manet e un Renoir, due Picasso nel suo periodo blu. Sono uscito dalla mostra
più alto di mezzo centimetro, culturalmente parlando. Non avevo mai visto
un Renoir dal vivo, solo sui libri. E’ tutta un’altra cosa osservare i dipinti dal
vero. SI vede il tocco della pennellata e la tridimensionalità dell’opera.
Sarebbe bello scrivere come quando si parla, cuore a cuore, con qualcuno.
Immortalare una telefonata senza essere consci di star a fare letteratura.
Prendere una semplice telefonata di cellulare e farne un libro. Un impasto di
sì, no e forse, e poi ci vediamo domani o stassera. Oppure registrare la
conversazione che si fa con qualcuno in attesa di essere collegati con
l’interno giusto, del tipo: “Si allora facciamo così… pronto sì è la segreteria
della scuola? Bene vorrei…” e via di questo passo. Semplici squarci di vita
fotografati da una mano esperta. Una sorta di realismo letterario. Per
stimolare grasse risate o sonori sbadigli ai futuri lettori. Come sarebbe un
libro tutto pieno di tratti di telefonate? Meglio metterci dentro qualcos’altro
per impedire, almeno, che qualcuno si tagli le vene leggendo il libro seduto sul
cesso e cosa più importante che non butti il libro nel water prima di tirare
l’acqua. Sarebbe soltanto uno spreco di inchiostro e di notti insonni. Meglio se
l’ipotetico lettore, che legga al cesso mentre svuota le budella, finita la
lettura del libro lo appoggi alla vaschetta accanto alla carta igienica, per dare
modo a qualcun altro di ammazzare il tempo in bagno leggendo qualcosa. Che
frasi, un libro interminabile letto soltanto nei momenti di evacuazione
corporea. I dissenterici lo leggeranno più in fretta, gli stitici non arriveranno
mai di più in là della prima frase, o la seconda. Dovrebbero fornire i cessi
pubblici, come quelli di bar e ristoranti, di un semplice libro appoggiato alla
vaschetta del cesso, rifoderato e ripulito ad ogni incidente, legato a una
catenella per impedire l’accidentale caduta nello sciaquone. Invece di fissare il
soffitto i frequentatori del WC potrebbero dilettare le proprie menti con la
lettura di semplici sciocchezze, non più impegnative del movimento
intestinale in atto. Meglio se con una copertina logora, le pagine semi
divorate dai topi e ingiallite fino a assumere una tonalità quasi nocciola.
Dovrebbero battezzarli libri per WC. L’ideale sarebbe sistemare una piccola
libreria a fianco del water con una scelta accurata tra i libri più easy in
circolazione, tra essi immancabile, un libro di barzellette sconce.
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Deliri, deliri e ancora deliri. Questa stagione sembra solo buona per scatenare
deliri. E pensare che le idee più deliranti vengono in momenti di lucidità quasi
perfetta. Come se la coscienza che giri come un’orologio svizzero volesse
prendersi delle piccole libertà inventando trovate a dir poco raccapriccianti.
Come ques’ultima storia dei libri nei bagni pubbici. Cazzate, enormi cazzate. La
gente non lo troverebbe di proprio gusto. Da quei raffinati che sono
userebbero senz’altro il libro per nettarsi il culo, anche se di carta igienica ce
ne fosse a sufficienza per nettare i deretani di un’intera famiglia di
pachidermi colpita da dissenteria. Un libro messo in WC potrebbe sembrare
un’offesa contro l’autore e il paese da cui proviene. No, No. Meglio metterci in
cesso qualche bravo fumetto porno, tanto i suoi autori non si
offenderebbero, anzi forse anche loro creano le loro vignette seduti su una
tazza del cesso. Tanto il tempo ammazzato in cesso è tutto sprecato. Non
vale il tempo trascorso in passeggiate o in gite in auto. Gli odori del WC sono
tutti quanti fetidi e orrendi, da quello del piscio rancido a quello della lacca
per capelli che aleggia a mezz’aria come un fantasma nella nebbia. Meglio
aprire le finestre. Aprite le finestre per Dio! Qui non si respira. Nessuno mi
sente? Non mi sentite branco di buoni a nulla? Aprite le finestre, uscite dalle
vostre case che sanno di morte e putrefazione. Uscite e andate a spasso. Se
non avete testa ancora meglio, in quel caso il buon Dio vi avrà fornito di
buone gambe con cui potrete correre come il vento, ma dove correrete non
lo saprete. Per sapere basta rivolgersi ai filosofi, quelli credono di saper dare
una risposta a tutto, credono che ogni azione racchiuda un intenzione o un
desiderio, o magari un’odio represso. Andate dal filosofo e chiedetegli
compitamente: “Ma tu chi sei?”, se non risponderà entro pochi attimi potete
alzarvi dalla vostra sedia e lasciarlo solo con la propria follia. Magari parla
poco, questo filosofo, e forse nella sua mente non sono racchiuse le perle che
uno pensa. Solo segatura, segatura impregnata d’acqua. Se volete le perle
andate a cercarle nel suo cuore. Se sostiene di non aver cuore o di essere un
uomo che non crede ai sentimenti, beh allora quello non è un filosofo ma solo
un fallito. Un pezzo di merda nemmeno tanto ben riuscito. I filosofi
vorrebbero governare il mondo, ma come possono se sono chiusi nel loro, di
mondo? Come possono distinguere il bene dal male se non riescono neppure
a distinguire lo spirito dalla mente? La carne dall’anima?
L’importante è capire la vita e cercare di viverla attraverso i sogni, fuori dalla
realtà ordinaria. E’ una barba la realtà ordinaria, come un film triste visto
decine di volte e che magari riesce ancora a strapparti qualche lacrima.
Creare, edificare una realtà solida come la roccia, talmente solida che si
riproduce anche dopo la morte. Una realtà assoluta, senza paragoni, senza
dubbi. Un solo panorama bianco, lindo, più vuoto dello spazio cosmico, in un
punto in cui la stella o il corpuscolo più vicino distano migliaia di parsec. Un
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vuoto impalpabile che può essere popolato da ogni sorta di creazione. Una
creazione come quella che Dio fece quando inventò l’universo. Creato senza
l’utilizzo di argilla o cemento. Intenzioni pure che agli occhi dei profani
potranno solo essere mostri, gioia incommensurabile che può essere vista
come un’orrore raccapricciante.
Raccapricciante scoprirsi soli la notte dopo il Natale, persi in un viottolo della
città malfamata con i postumi della sbornia e il cervello vuoto come tutte le
bottiglie scolate. Scoprirsi soli e non capiti da nessuno. Nessun tentativo di
chiedere aiuto, sarebbe inutile, il linguaggio dei passanti è remoto e
incomprensibile. Allora arranco per le strade da solo, in cerca di una
macchinetta per le sigarette. Finalmente la trovo e poi scopro di non aver
d’accendere. Ora ho un bel pacchetto di Marlboro light e niente accendino. Mi
dirigo verso la chiesa. Mi toccherà aspettare almeno un’ora, quando finisce la
messa, per servirmi dell’accendino dell’auto. La messa è scivolata via come
olio bollente, le parole del prete erano semplici e insignificanti, era come il
contemplare le paranoie dissociate di uno schizofrenico. I presenti alla
cerimonia facevano uno sforzo erculeo per non far notare troppo i sintomi
da dopo sbornia, grugnivano, si grattavano il naso, scalpitavano e
sbadigliavano, tossendo via tutto il vapore d’alcool che aleggiava nelle loro
teste. Ora la messa è finita e mi trovo a tavola per mangiare gli avanzi del
pranzo di Natale. DI vino bianco non ne è rimasto un goccio, solo acqua
naturale e frizzante a seconda dei gusti e alla fine del pasto un buon caffè
nero per tenersi svegli. Dopo la cena sono stato bloccato per giocare una
partita a Scarabeo con mia madre, il sonno già era pesante negli occhi di mio
padre che però si ostinava a leggere un libro che mia madre gli aveva
consigliato. Dopo la partita a scarabeo una fetta o due di panettone delizioso
e poi alcune partite a scala quaranta, per non annoiarsi guardando la
televisione. Poi la camomilla della fine della serata e io salgo in camera mia e
prendo un libro da leggere, Tropico del Cancro, tanto per tenermi allegro e
poi qualche pagina dall’inciclopedia dell’ Impressionismo. Mi sono messo a
dormire ma ho schiumato e mi sono rigirato fno alle 3 e 30 almeno.
Finalmente è giunto il sonno. Ho riaperto gli occhi che erano le 11 e 30
passate.
La pace nel mondo. Dov’è? Il mondo è permeato nella guerra. Le grandi
potenze minacciano guerra. Si parla di bomba nuclueare, lo spauracchio delle
super potenze. Una sola bomba fa saltare un’intera metropoli, in pochi
secondi tutto fonde e si fa cenere, poi radiazioni e malattie a distanza di
decenni. La minaccia è gravosa. Il mondo freme, un sussulto prolungato dall’
Iraq agli Stati Uniti d’America. Colonne di soldati armati con carrarmati e
contraeree non servono a un tubo. Armi chimiche, nucleari, distruttrici di
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massa la fanno da padrona. E’ un fremito prolungato. La pace è una lontana
stella sempre più fievole, ammiccante. Quaggiù è la guerra e che Dio ci
scampi.
La notte morbida arriva a falciare tutti i sogni dei miliardi di persone che
stanno distese prone o di lato a russare come sorci ubriachi. Ognuno con un
russare diverso, cacofonico e fastidioso, ognuno nel suo indugiare nell’inalare
la polvere di sogno e nuotare in un incubo che continuerà anche una volta
svegli. Un incubo incessante, dove nomi e date sono come sussurrate
fievolmente nell’orecchio, mentre lo stanco giorno partorisce i suoi aborti e
suoi successi. Più aborti che successi, senno che gusto ci sarebbe? Aborti su
aborti e qua e là, a casaccio, un successo. Niente strette di mano, niente
congratulazioni. Un calcio in culo e ritorni più sconosciuto di prima, coi vestiti
sgualciti e la barba di una settimana che reclama di esser rasata. Un piccolo
successo impresso su fogli d’oro e d’argento e poi risme di spazzatura scritte
fine fine. Una vita passata ad inseguire un colpo di fortuna, qualche riga di
complimento in qualche testata locale e poi l’oblio più assoluto. Uno su un
milione riesce a far sentire il suo grido, gli altri 999.999 muoiono sconosciuti,
senza un barlume di fama. Arte su arte, accatastata l’una sull’altra e niente,
neanche un cane che si degni di alzare la gambetta e pisciarci sopra. Solo
un’occhio, dietro di te, che osserva e tace, il muto santo pazzo che si
rinchiude in mezzo alle montagne e dice basta alla vita moderna. A che serve
scrivere tanto? A volte me lo chiedo e non c’è risposta, solo vuoto, vuoto
assoluto. Editori, critici e artisti falliti tutti fuori da una chiesa a chiedere
l’elemosina e solo una possibilità, cazzo, una sola possibilità per far vedere di
che pasta sono fatti. Ma nulla, le possibilità sono inesistenti, solo noia e oblio e
una sensazione di schifo che parte dalla bocca dello stomaco.
Mi sembra di galleggiare sugli psicofarmaci. Sono a mollo in un sogno
fantastico fatto di silenzio e contemplazione. Poi all’improvviso un urlo invoca
la rivolta. E tutti i registri vengono mutati, le note discordanti si intonano a
meraviglia e le vecchie canzoni son soltanto più suoni grutturali senza
armonia. Tutto il mondo appare capovolto da cima a fondo come un calzino
puzzolente. Si aprono le porte, anzi si infrangono i cardini, le porte crollano
come cartapesta, senbrano avere la consistenza del polistirolo. E poi di nuovo
tutto tace. Una rivoluzione interiore è appena passata, ha lasciato tutti i
canoni inversi e i contatti innestati secondo una nuova logica. La vita è
cambiata anche se, visto dal di fuori, appaio immutato. C’è ancora lo specchio
che mi fissa davanti a me e il computer e le lunghe file di cd musicali accalcati
in varie parti della stanza. Alle pareti sempre gli stessi ritratti onirici
rappresentanti mondi morti e mai esistiti. L’orologio troneggia sul comodino
in legno massiccio appoggiato a un lato della camera, non lontano dal tavolo
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del Pc. Insomma tutto di fuori è lo stesso. Anche la mia espressione è
immutata, ancora l’occhio più piccolo dell’altro che sembra ammiccare e i
soliti capelli a spazzola che fanno tanto giovane, anche quando giovani non si
è più. La giovinezza bisogna cercarsela dentro, è un cassetto nascosto
occultato dalle enormi enciclopedie degli animali e degli Impressionisti. La
giovinezza scalpita, vuole uscire, vuole farsi sentire, esprimersi. Vuol poter
gridare con tutto il fiato che ha, anche se è seppellita dagli incubi, dalle
paranoie, dalla semipazzia e dalla voglia di farla finita con tutti, mondo
compreso. La giovinezza è occultata da medicine e psicofarmaci, dal senso di
responsabilità inculcato da qualche bravo educatore, con un’amore tale che
sembra impossibile che si tratti di un crimine, omicidio belle e buono.
L’educazione uccide il fanciullo che è in noi, la scuola è come il tarpar le ali a
un povero uccello che vuol volare via, verso sud. Dopo l’educazione scolastica
occorre sapersi diseducare, dal principio alla fine, per poter espellere il veleno
iniettato in tanti anni dietro ai banchi. Convinzioni su convinzioni che si
accumulano per formare la realtà, un castello fortificato ma che può essere
distrutto, basta buttarci una bomba nei suoi meandri e tutto l’edificio crolla
in pezzi. Basta una fottuta testa di cazzo che decida di far saltare il buco del
culo del castello. In seguito quando raccoglieranno le macerie non sapranno
più a che santo schedario votarsi, dopo l’esplosione (quella interiore) ogni
ordine o schedario è inutile e vano, una grossa perdita di tempo.
Un altro anno, altri sogni irrealizzati e gettati al vento. Da ovest si leva una
brezza che spazza via tutta la nebbia e il chiavicume che ci si porta dentro.
Nebbia e desolazione, luci espanse e sfumate come quadri a pastello. In ogni
dove la stessa storia, la stessa macabra desolazione. In ogni luogo paura e
delirio. Follia pura. In ogni posto manifesti annunciano l’avvento di una nuova
guerra, nuove pestilenze, nuove malattie sempre più tenaci e difficili da
combattere. Aids, cancro e leucemie di ogni specie, sempre lo stesso strazio,
nelle corsie di ospedali e nei manicomi serrati e inchiavardati spettri eterei
lievitano nella loro follia e respirano il male che esce dal loro intimo.
Nonostante tutto si tira avanti, nonostante il cancro e asportazione di organi,
diarree e emicranie, mal di denti e pruriti spastici, esami clinici e lastre ai raggi
X, TAC e sedute in camere iperbariche, nonostante tutto questo si tira avanti,
ognuno col suo macigno, ognuno a combattere contro i propri spettri, i
propri demoni che lo rodono dentro.
C’è chi non ne ha abbastanza e decide di dichiarare guerra, ad ogni costo,
senza condizioni, solo per dimostrare di essere la nazione più potente al
mondo. Il paese delle libertà, della libera circolazione di armi e della pena di
morte. Il paese dove le stragi ad arma da fuoco all’ordine del giorno. Che
paese, sognato da tutti come la chimera irrangiungibile da ogni altra nazione
della Terra.
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Sono pronto alla carneficina, seguita alla Tv con il resoconto minuto della CNN
sulle vittorie ottenute dagli americani. Zero perdite, sempre. Questi americani
quando si tratta di tenere un segreto sono peggio dei russi. Vi ricordate la
strage di Ustica? Mai assenti sui loro plotoni e se ci sono perdite sono sempre
minime. Come se non bastasse il vento di guerra, c’è sempre qualche
petroliera che vomita qualche milione di litri di petrolio giù nel mare, per
distrazione o incompetenza oppure soltanto cattiva manutenzione. Il mondo
è sempre più inquinato, si respira con le mascherine se davvero c’è ancora
aria da respirare. Emissioni di gas nocive sono all’ordine del giorno. Alcune non
vengono neppure dichiarate, altre sono ordinaria routine. Che bel mondo,
come un barile di merda in cui galleggia un barattolo di miele. Si continua a
produrre motori a benzina e diesel, testate nucleari, nuove armi chimiche,
nuovi dispositivi di distruzione di massa, nuovi aerei lanciamissili sempre più
potenti. Non più mortai e moschetti. Bombe atomiche e batteriologiche.
Abbiamo fatto un bel passo avanti… semprè più verso la rovina. Sono passati
gli egizi, i greci e i romani. Passeranno anche gli americani. Rimaranno per
sempre nella storia per aver sterminato il bufalo e l’indiano e per aver
lanciato la prima bomba atomica. Dimenticavo, sono anche andati sulla Luna,
ma per quanto ne so potrebbe essere stata soltanto una farsa. Anche se ci
fossero realmente andati sulla luna? Che cambiamento è avvenuto dal ‘69 ai
giorni nostri? La luna resta ancora ficcata nel cielo e continua a girare intorno
alla Terra e l’orma, quella orma lasciata dall’astronauta sbarcato sul satellite
Luna, ormai è stata spazzata via dal vento. Gli americani verranno ricordati
come un popolo distruttivo, tipo i vandali, come gli unni, come i barbari che
saccheggiavano i villaggi, stuprando, bruciando e rubando tutto quello che gli
si parava innanzi. Un giorno un bimbo nell’età scolare leggerà sul suo libro la
storia degli americani e gli verrà il disgusto, come sarà disgustato dalle storie
dei fascisti e specialmente dei nazisti. Un solo unico groviglio di barbari per
l’ipotetico bambino del 2500 che leggerà la storia. Ma la domanda è: riuscirà a
leggerla? Ci sarà ancora l’uomo a governare e distruggere il suo pianeta, a
sputare nel proprio piatto? Oppure prenderanno il sopravvento altre specie,
altri animali o addirittura qualche essere vegetale? Quelli che potrebbero
avere la meglio sono i batteri, i più incancellabili esseri viventi presenti nel
ventaglio dell’esistenza. Ma una guerra nucleare cancellerebbe tutto, la
nostra Terra diverrebbe morta come la luna, cosparsa dei vecchi dinosauri
umani, edifici squarciati e disabitati, fattorie senza mucche e senza campi
coltivati, un’unica grande nube che oscura il Sole e una temperatura da far
rabbrividire. Intanto continuano le emissioni e tutto il resto. E’ un po’ come
fumare una sigaretta, sai che ti nuoce ma la fumi lo stesso. Qui le proprorzioni
sono più vaste, è la Terra intera che va in fumo come un cerino che
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lentamente si consuma e poi si spegne. Nessun battito di cuore, nessun
respiro, nessun rumore tranne quello dei tuoni e dei vulcani. Nulla. Solo la
nebbia e i detriti di una civiltà evoluta. Evoluta e strozzatasi con le sue stesse
mani.
Sapete cos’è il vuoto? Questo. Io sono il vuoto. La mia mente è vuota. Nessuna
idea. Eppure mi ostino a scrivere il vuoto anche quando l’unica cosa da fare
sarebbe andare a dormire. Il vuoto. E’ come se un alacre spazzino avesse
ramazzato tutti i pensieri e le idee che avevo in mente. Sono qui seduto sulla
sedia, alla solita ora, vale a dire mezzanotte, cercando di descrivere questa
situazione. Oltretutto sono leggermente assonnato, uno di quei sonni che si
manifestano col pungere degli occhi e la vista annebbiata. Eppure voglio
stare sveglio e costringermi a scrivere. Sono un mulo ecco che cosa sono. Un
mulo senza un briciolo di orgoglio e di amor proprio. Arranco per la vita, come
se avessi una gamba rachitica, come Ciccio a spasso per Racconigi con la sua
faccia scavata e l’AIDS che lo divora giorno dopo giorno. Ciccio da solo con la
sua tossicodipendenza. Solo con i suoi piccoli espedienti per procurarsi i soldi
per la roba. Solo con i suoi mesi di carcere dopo un furto andato male. Solo
con la sua morte imminente. Pensare che visto in giro del paese, se non fosse
per la faccia scavatissima, passerebbe come un normale signor Rossi in
maniche di camicia che passeggia allegro per il mercato. Non dà l’impressione
di essere immerso nell’eroina fino al collo. Eppure i buchi ci sono, ma son ben
nascosti dalle camicie che indossa anche nei mesi più caldi. Ciccio è quasi
un’antieroe, l’uomo che ha affidato la sua vita all’eroina. E l’eroina l’ha
ripagato. Gli ha dato l’AIDS, la fama di ladro e di terrore delle vecchiette che
incrocia per la sua strada. Gli ha negato un posto di lavoro e il rispetto degli
altri. Chi può sapere il motivo per cui ha cominciato a farsi? Nemmeno lui
forse. Magari per noia o per disperazione, per curiosità o per qualche delirio
personale. La roba gli dava gioia, felicità, ovattamento, come una sorta di
sordina tra lui e il mondo. Velluto spalmato tra le pieghe del suo cervello. Ha
trovato un modo per staccare la spina, per estrainarsi dalle realtà rapito da
una sorta di estasi narcotica dove il suo io onirico viaggia nello spazio
intersiderale e sguazza da un’universo parallelo all’altro, passando tra le
strette intercapedini che collegano i vari universi tra loro. E’ il mago del
sogno, il Morfeo che porta i tossici avvolti in un bozzolo su una gondola in un
giorno assolato. Lenti colorate ai loro occhi e niente cervello. Solo una spessa
coltre di fumo che si sviluppa dai loro voli pindarici. A volte la gondola
sobbalza ma loro non sentono nulla, in verità non vedono neppure. I loro
occhi sono turati con colla e striscioline di carta. Ciccio è il gondoliere che
arranca col suo remo a spasso per le vie acquose di un’universo parallelo. Gli
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resta solo l’illusione di vivere il benessere, nell’istante in cui si spara in vena
una dose di eroina mischiata a calce, farina o qualsiasi altra sostanza
giallognola con cui il suo spacciatore l’ha tagliata. Ciccio vola sulle nostre
teste, anche di giorno, anche in piena veglia, anche quando parla coi compari
fuori dal bar, con un cicchetto nel serbatoio e una sigaretta tra le dita
tremanti. Vola perennemente, i suoi piedi non hanno mai più toccato terra e
mai più la toccheranno, a parte il giorno in cui la terra raccoglierà le sue
spoglie.
Voglio le indicazioni necessarie per diventare ricco. Ma non voglio sforzarmi,
non lavorare, non spezzarmi la schiena perché tanto non serve a niente. Solo
tendere la mano e sentire sul palmo posarsi un’assegno circolare di un
miliardo di € intestato a me. Mi basta poco, solo un misero e pezzente
miliardo di € per vivere comodamente per tutta la vita, breve o lunga che sia.
Non mi sembra di chiedere la luna, un miliardo di euro è una cifra ragionevole.
Un saldo per i diritti d’autore, per il copyright dei miei scritti. Poi potrebbero
vendere tutti i milioni di copie che vogliono, io non chiederei più nulla agli
editori, solo un misero miliardo di euro… vi sembra troppo? Allora mezzo
miliardo va bene lo stesso, ma badate che quando sarà finito verrò a chiedere
l’altro mezzo. Con questo ipotetico miliardo o mezzo miliardo che sia non
perderei la testa. Certo cambierei casa e macchina, mi farei costruire una
baita in alta montagna, con una sorta di centrale termica che la alimenta di
luce, gas, acqua e un collegamento telefonico per accedere a internet. I
rifornimenti potrebbero arrivare in elicottero, io non mi muoverei più di là,
continuerei a scrivere come ho sempre fatto, giorno dopo giorno, traendo
spunto dal vuoto e dai notiziari televisivi. Di tanto in tanto tornerei giù, per
mostrare il culo ai fedeli, per così dire, per fare una passeggiata nel mondo
tanto per non scordarlo completamente. E poi di nuovo su, sulle montagne,
pazzo misantropo che parla con marmotte e camosci, che scrive libri su libri in
una comoda stanza riscaldata in mezzo alle nevi perenni. Nessun contatto
non nessuno, a parte chi mi porta i viveri a cui dovrei firmare la bolla di
consegna. Contatti virtuali attraverso internet, amicizie virtuali, amici di chat
delineati secondo l’immaginazione. Quando torno nel mondo presento un
libro o al limite faccio visita ai parenti. Sono sicuro che nulla del mondo potrà
mancarmi lassù in mezzo alle montagne. Il mondo tenetevelo pure. A me
basta la solitudine e un miliardo di euro…
Non si nasce scrittori. Lo si diventa. Forse spinti dalle letture di altri scrittori
affascinanti o spinti dalla voglia di comunicare qualcosa. Io per esempio
durante la carriera scolastica mai avrei immaginato che avrei accarezzato
quest’idea. Andavo bene nelle materie tecniche, nella matematica, ma odiavo
la letteratura e la storia. Le trovavo enormi perdite di tempo. Poi ho iniziato a
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leggere. Il libro che mi ha dato una spinta è stato “Sulla strada” del mitico
Jack. Dopo questa lettura ho cercato tutti gli altri libri di Kerouac, dal
Viaggiatore Solitario al Dottor Sax, I Vagabondi del Dharma, Visioni di Cody,
Satori a Parigi e Il libro dei sogni. Uno più fantastico dell’altro. Ricordo ancora
vivamente che mi immergevo nella lettura di questi libri seduto in macchina,
solitamente nel viale della stazione ferroviaria del paese. Stavo ore intere lì
seduto e leggevo. Tra una pagina e l’altra magari ingollavo qualche salatino o
un pezzo di focaccia fumante. All’epoca avevo una 106 verde che in centro al
cruscotto aveva un portaoggetti dove entrava benissimo un libro. Andavo a
saccheggiare le biblioteche in cerca di libri, visto che quella del paese era
poco fornita. Solitamente andavo a Fossano, alla biblioteca nel castello degli
Acaja. Uno dopo l’altro li ho letti tutti e poi non pago abbastanza li ho riletti.
Tra una lettura e l’altra, per caso, è spuntato anche Henry Miller. Il primo libro
che ho letto di Miller è stato “Tropico del cancro”, seguito subito dopo da
“Primavera Nera”. Gli ambienti in cui leggevo questi libri erano diversi da quelli
di Keruoak. Ho divorato Primavera Nera seduto su una panchina in un parco di
Savigliano, in uno di quei giorni tiepidi di mezza primavera, quando sei spinto
quasi meccanicamente a uscire fuori e fare una passeggiata. Io saltavo in
macchina e andavo alla ricerca di un posto tranquillo per leggere e mi
accomodavo su comode panchine e passavo così i pomeriggi sonnolenti. Libro
dopo libro è maturata in me la voglia di scrivere, come un piccolo seme che
sta nascosto in un granaio ma che poi per strane ragioni si trova nella terra e
germoglia. Germogliavo, anche se in quel periodo, parlo del 96 – 97, scrivevo
molte poesie ma pochi racconti in prosa. Non mi era ancora balenata in
mente l’idea che scrivendo in prosa avrei avuto più spazio e più libertà.
Addirittura cercavo di rimare i versi delle poesie, ma molto presto mi son reso
conto che era molto difficile rimare e io invece esigevo briglia sciolta.
L’emoraggia letteraria è avvenuta soltanto nel 2001, a luglio precisamente,
quando ho inziato la stesura di “Luce e delirio”. Prima di allora avevo già
scritto qualcosa, tipo una breve storia della mia vita e una specie di “Diario di
un cannato”, ma il resto erano solo poesie. Poesie stupende, a parer mio.
Ancora oggi quando le rileggo penso di aver creato versi memorabili,
immortali, urli adolescenziali per così dire. Con la scrittura è arrivata una
maturità, una pacatezza e una tranquillità tipica dello scrittore che sa che ha
molta carta da macchiare per poter sviscerare a fondo l’idea che ha impressa
in mente. Invece con le poesie era un “tutto & subito”, poche parole
significative dove si doveva esprimere al meglio un concetto. I puntini puntini
rimanevano tali, cadevano nell’oblio, non c’era il tempo per spiegarli, tutto
doveva svolgersi nell’arco di una paginetta tipo una ventina di righe ognuna
composta da tre o quattro parole. Oggi mi fa semplicemente ridere questa
ristrettezza, dato che dispongo di carta su carta, idee sopra idee tutte
quante spiegate al dettaglio e magari rispiegate mutando la curvatura della
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lente. Oggi mi sento più libero. Leggo ancora moltissimo e ciò che leggo, come
sempre, influisce molto su ciò che scrivo.
Se leggo uno scrittore il suo stile si ripercuote sulla mia scrittura, cerco di
imitarlo, anche se grossolanamente. Per essere spontaneo dovrei essere a
digiuno di libri per almeno due mesi. Le parole che leggo rimbalzano come
palline da ping pong nella mia testa e rimangono intrappolate nelle pieghe del
cervello per settimane. Le frasi altisonanti si scolpiscono nella memoria e lì
risiedono per un tempo indefinito come rinchiuse in un limbo. Poi
all’improvviso, durante la giornata, quelle frasi ritornano a galla e la mente le
scandisce come echi che rimbalzino sulla parete rocciosa del Monviso. Ciò che
leggo durante la notte, ho notato, mi rimane più impresso. Forse perché in
quello stato di semiveglia, la memoria è più attiva o semplicemente più
dinamica. La notte leggo determinati passi che poi durante il giorno, magari
dopo una settimana, ritornano vividi come un’acquerello a tinte accese. A
volte, seduto comodamente sulla sedia all’interno dell’ufficio del magazzino
lastre, mi faccio delle grosse risate per passi che via via leggo, non riesco a
smettere di ridere. Quasi mi vergogno e penso che se qualcuno, casualmente,
si presentasse da me con un qualsiasi pretesto, mi scambierebbe per un
pazzo, un pazzo furioso. Ma continuo a ridere. Tanto poi in realtà non viene
mai nessuno, sono rari queste comparse improvvise, e il più delle volte chi
arriva mi trova assorto nella lettura tanto che ho uno scossone, come dopo
essere usciti da una trance, impiego qualche secondo per riconnettermi nella
realtà ordinaria e realizzare che sono al lavoro, vestito da lavoro e pagato per
lavorare. Passati questi due o tre secondi faccio mente locale e focalizzo
l’attenzione su ciò che l’interlocutore mi sta dicendo. Molte volte quando
vengono a cercarmi sono grane. Magari hanno trovato delle righe sui vetri e
vogliono farmi cambiare i pacchi oppure c’è un collare di vetro mezzo rotto
da sostituire immediatamente. Insomma piccoli fastidi che mi strappano dalla
lettura e mi rubano forse un quarto d’ora oppure un’ora. Svolgo il lavoro che
devo fare frettolosamente e poi mi immergo nuovamente nella lettura. La
notte si piscia via velocemente o lentamente, a seconda della qualità del libro
che sto leggendo. Ma io mi premunisco e cerco sempre di scegliere letture di
alta qualità, per essere certo di non annoiarmi di più leggendo che a star
seduto a braccia conserte a contemplare l’infinito e gli sbuffi, le rotture
improvvise, le sirene e gli annunci all’altoparlante.
Un giorno solare della primavera del 1997 stavo seduto sulla mia vecchia 106
nei pressi della assicurazione INA di Racconigi, intento a leggere un brano di
non so quale libro. All’improvviso alzo gli occhi e incrocio lo sguardo di una
ragazza. Uno sguardo fugace, lesto come la scarica improvvisa di un fulmine.
In un’instante l’ho amata e lasciata. Tutto è avvenuto in quel istante e poi
l’attimo è morto e con esso tutto quello che lo riguardava. Occhi grigio
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azzurro intensi, viso dolce, capelli lunghi sotto le spalle e un nasino grazioso,
alla francese. Poi è passata avanti ed è finito tutto, coito interructus. Sono
riemerso dal sogno e ho deciso di scriverci una poesia. Non su di lei, non su di
me. Ma su qualcosa che trascende da me e da lei. L’attimo. L’attimo fuggente
in cui il mio sguardo ha colto il suo. L’attimo è tutto, racchiude un mondo
infinito e eterno fatto di determinate emozioni scritte col vetriolo, fatto di
sensazioni tangibili, palpabili come statue di gesso in un museo sonnolento.
Ho scritto una poesia, una delle ultime forse che ho scritto, forse la più bella
che io abbia mai creato. Nelle altre c’erano solo fatti, solo spiegazioni, solo
ricordi. Questa racchiudeva tutto, racchiudeva un solo attimo. Ho poi in
seguito rivisto questa ragazza alla cassa di un supermercato, ma non è più
scattato nulla, la scintilla si è innescata e spenta in quell’attimo della
primavera del 1997.
Sguardo
Ero nel parco seduto su una panchina
assorto nei miei pensieri esistenziali
davo sguardi vacui ad un libro
e respiravo l'acre aroma degli alberi cinguettanti
Ho sentito uno smorzato rumore di passi
che ha infranto la mia meditazione
ho visto gli occhi di una ragazza
grigi come le nuvole di un temporale estivo
Per un'attimo la sua anima
si è abbracciata alla mia
per un attimo ho sentito
un brivido che mi trafiggeva il cuore
La ragazza si è allontanata
forse anch'essa scossa da un fulmine
ho continuato a guardarla stupefatto
il suo sguardo intenso è rimasto inciso nel mio cuore
Voglio poter riuscire ancora a imprimere un attimo, come si fa scattanto una
fotografia ad una scena vissuta. Voglio saper descrivere l’attimo sotto tutte
le sue forme, voglio riuscire a prendere un’attimo a caso nella mia vita e
saperci scrivere un libro intero, emozioni, descrizioni, sensazioni, stati
d’animo, pensieri, dubbi Sarebbe una cosa fantastica riuscire a parlare così
tanto di un solo attimo, per eternarlo, per rendere tangibile questo ammasso
di granelli di sabbia. Un’attimo è solo un paio di granelli di sabbia che
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scendono dalla clessidra e si mischiano con gli altri granelli che hanno a loro
volta costituito altri istanti. Tempo: devo abolire questa parola dal mio
vocabolario perché il tempo non esiste, è solo - per così dire - un’illusione
ottica creata dalla morte. Se non ci fosse morte sarebbe inutile parlare di
tempo. Chi ha un’eternità davanti a se non sta a guardare lo scorrere del
tempo, perché nell’attimo che si concepisce di aver un’eternità davanti a se si
realizza che il tempo non esiste. Ma l’uomo ama scandire la propria vita
secondo ore, minuti, secondi, anni, stagioni, semetri, lustri, e più chi ne ha più
ne metta. L’uomo vuole sempre avere un’orologio al polso per potersi
adeguare alla società che si è creato, dove la puntualità è la prima regola per
mantanere un posto di lavoro, dove arrivando in tempo si prendono treni ed
aerei, dove contando i minuti si scopre quanto si è venuti vecchi. Se si toglie il
tempo anche la vecchiaia non ha più definizione. Il tempo che hai a
disposizione è lo stesso che tu abbia 20 anni o 120, sempre un’eternità ti
aspetta e attende, attende che tu la concepisca. Le menti ristrette degli
uomini non riescono neppure a concepire l’eternità o l’infinito. Non in termini
concreti. L’infinito come l’eterno non sono tangibili, ma si possono facilmente
immaginare. Io immagino l’infinito come un universo con una falla su un
fianco. Trovi i confini dell’universo? Bene, ma ci resterà sempre la falla da
dove puoi uscire e immergerti in un altro universo, a sua volta fallato. Questo
è per me l’infinito. L’eternità è come una giornata che non passa mai, quando
anche sulle bocche dei più educati esplodono inprecazioni, l’eternità è una
pendola che si ferma e non riparte più.
Oggi sono stato in bilblioteca alla ricerca degli ultimi libri Milleriani che non ho
ancora letto. Ne ho trovato uno intitolato “Il meglio” e ho iniziato a sfogliarlo.
Ho letto dei brani tratti da “Max e i fagociti bianchi” e “Domenica dopo la
guerra”. Molto interessanti enbrambi. Ora andrò alla ricerca di questi libri per
acquistarli, facendo venire pazze le cartolaie di mezzo paese. In ogni modo li
voglio trovare anche solo per appoggiarli allo scaffale della libreria, insieme
agli altri. Oggi un nuovo libro è germogliato in me, ma non ho tempo e spazio
sufficiente per dare retta a queste aspirazioni e metterle sulla carta. Ho
materiale con cui lavorare anni, ma che dico anni, decenni. Basta una
riflessione, una frase pronunciata da un qualsiasi nessuno a spasso in questo
verde mondo di Dio, e bam, inizia la creazione. Il processo creativo è
lampante, estemporaneo, anche se ci vogliono mesi per tracciare sulla carta
l’evoluzione della creazione. L’ispirazione dura un’attimo, il tempo di
accendensi una sigaretta e tutto è già stabilito, ma su altri piani, piani eterei,
basta un scricchiolio per catapultarsi di nuovo in questo mondo. Ogni tanto
mi fermo e mi metto alla tastiera tanto per non dover abusare troppo della
mia memoria. Scrivo sempre di cose recenti, immediate, anche se a volte mi
abbandono nel passato e ci sguazzo per un po’. Ho scoperto che posso
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orientare la mia attenzione in più direzioni. Mentre leggo un buon libro posso
guardare con la coda dell’occhio i passanti, soprattutto se essi emanano una
squisita fragranza femminile. Oltre a sbirciare, per così dire, posso anche
mettermi a pensare, pormi un problema che a fine lettura avrà una soluzione,
servita su un bel vassoio d’argento da un maggiordomo in tenuta
impeccabile. Diversi piani di concentrazione. Una concentrazione prioritaria al
libro che leggo e altre concentrazioni accessorie ai passanti e ai miei
problemi. Tutto in una sola mente palpitante e sveglia come una rosa appena
sbocciata.
Non riesco a dormire, forse per i troppi caffè ingollati durante il giorno. Così
mi sono messo alla tastiera per buttare giù qualcosa. Stamattina al lavoro le
ore sono passate in un lampo. Un sole accecante batteva contro le vetrate
della fabbrica e mi faceva stringere gli occhi. Poi le due sono arrivate e io non
ho fatto altro che aspettare l’operaio che mi doveva dare il cambio. Solita
strada del ritorno e poi a casa seduto alla scrivania a pasticciare un po’ al
computer. Oggi pomeriggio, sul tardi, sono andato con mio padre in un
negozio di abbigliamento sportivo ma non ho trovato nulla che mi attirasse.
Così ci siamo limitati a comprare un po’ di cibo, tutto ciò che mia madre
quando fa la spesa non comprerebbe mai, vale a dire gongorzola, nutella,
lamette da barba, insalata di mare e qualcos’altro. Ho anche comprato un
deodorante antifumo per l’auto per scacciare un po’ quel fetido odore di
tabacco che stagna dentro e non se va.
Cerco la tastiera come un sonnambulo. Pigio sui tasti a casaccio come se
sparassi pallottole in aria con l’intenzione di trafiggere il vuoto. Ormai non
credo più a nulla. Da un lato ci sono i pacifisti con le loro bandiere con i colori
dell’arcobaleno. Dall’altro c’è mister George Bush con la sua faccia grigia, tetra
di chi non vuole sentire ragioni, fisso sui propri intenti come un
monomaniaco. Hanno torto entrambi. La soluzione è una totale apatia verso
la guerra e la pace. Guerra e pace sono soltanto due forze parallele e
contrarie che conducono a nulla. C’è pace tra due guerre e guerra tra due
periodi di pace. E con ciò? Lo spauracchio della guerra è sempre presente
come una rognosa carogna sulla spalla di un misantropo. In fondo al cuore
anche il più tenace pacifista ha un fondo di violenza. C’è la pace violenta, per
fare pace ci vuole la guerra e per la fare la guerra occorre un periodo di pace.
A che scopo tramare la pace se per ottenerla ci vuole un conflitto? In fondo
la guerra è scatenata da due cose soltanto. I soldi e la terra. I confini sono
stati guadagnati con battaglie e massacri sanguinosi. Se non ci fossero
confini e denaro non servirebbe alcuna guerra. Se non ci fossero religioni e
dogmi non ci sarebbero distinzioni. Se la pelle degli uomini fosse dello stesso
colore non ci sarebbero razzismi. Invece il nero continua a chiamare il bianco
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sporco bianco e il bianco a definire il nero sporco negro. Perché Dio ci ha dato
pelle diversa? Perché sono nate più religioni, che anche se professano lo
stesso Dio hanno punti discordanti? Si dovrebbe unificare tutto quanto ma
questo scatenerebbe altre guerre e allora sarebbe ancora peggio di adesso. In
ogni posto, in ogni luogo ci sono state diverse fazioni, fascisti e partigiani,
russi e americani, mujaidin e talebani. Dove sorge un nucleo ecco che si crea
un’immediata scissione. Anche la chiesa di Cristo si è per più volte scissa in
diverse dottrine, ortodossi, protestanti e cattolici. La cosa sbalorditiva è che
ognuno di questi scismi crede di essere dalla parte della ragione, crede di
detenere l’assolutà verità, la supremazia. Ma nessuno è mai nel torto e
nessuno nella piena ragione, anche se l’orgoglio ci spinge a credere il
contrario. La domanda è: da che parte stare? La risposta è incerta. Meglio
essere neutrali, lasciare che i più forti si scannino senza pietà, senza muovere
un dito in soccorso di uno o dell’altro. Ogni volta che ti fai un amico ecco che
spunta dall’altra parte un nemico. Ed è quindi meglio non allacciare nessun
legame. Neutrali fino alla fine.
Ora voglio tornare con la memoria al periodo delle prime canne. Il mio amico
Giancarlo mi aveva invitato per una settimana nel suo alloggio in montagna
ad Entracque. Io ho subito afferrato al volo l’occasione e mi sono lasciato
dietro la noia e l’afa di Racconigi a luglio. Siamo partiti su una vecchia Ritmo
guidata da suo padre alla volta di Entracque. Io stavo seduto accanto a suo
padre e Giancarlo rannicchiato alla belle meglio tra i bagagli. Dopo un’ora circa
siamo arrivati a destinazione e abbiamo sistemato i bagagli nell’alloggio. Poi
siamo scesi al bar vicino a casa sua e mi ha presentato ai suoi amici della
montagna, ovvero altri giovani come lui che trascorrevano le vacanze in quel
di Entracque. Era un bella combriccola allegra. In ogni momento si presentava
un nuovo conoscente e allora scattavano di nuovo le presentazioni. La sera
stessa ci siamo rincontrati nello stesso bar e poi siamo saliti, a piedi, in una
sorta di birreria in cui era installato nel sotterraneo un Jo box che martellava
sempre vecchi motivi o nuove tendenze discotecare. Dopo aver bevuto una
coca cola corretta a rum, o qualcosa di simile, siamo usciti dal locale,
Giancarlo, il suo amico Karma e alcuni altri. Ci siamo accomodati su un
muretto nascosti agli occhi della strada. Questo Karma ha preso una
bottiglietta di birra vuota e l’ha rotta alla base del collo. Poi ha scaldato il
fumo e lo ha mischiato al tabacco di una marlboro offerta dal sottoscritto e
ha ficcato questo impasto nel collo della bottiglia. Ha poi acceso la cannabottiglia e l’ha fatta girare. Quando è stato il mio turno ho respirato potenti
boccate. Non sentivo nulla, nessun stordimento, niente. Gli altri invece erano
visibilmente più allegri, più gioviali. Dopo la canna ci siamo abbandonati alla
grappa, bevuta a garganella, sempre seduti sul medesimo muretto. Giancarlo
ha bevuto alla grande e al ritorno a casa era ubriaco come un camionista
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all’ora di pranzo. Parlava, imprecava contro gli indifesi cani che gli si paravano
innanzi. Io ero abbastanza tranquillo, mi limitavo a guardare divertito tutti i
gesti e i grugniti che emetteva il mio amico. Quella sera ero stato iniziato alla
cannabis e di lì a una settimana avrei fumato in tutte le maniere possibili,
sempre accompagnandomi con della birra o superalcolici comprati a modico
prezzo in una bottega poco distante da dove alloggiavamo. Il giorno dopo
l’amico di Giancarlo mi ha reclamato i soldi per il fumo. Io il giorno prima gli
avevo versato diecimila lire e pensavo, ingenuamente, che a questo prezzo
avrei fumato per tutta la settimana. Non avevo idea di quanto costasse il
fumo. Non lo avevo ancora neppure visto dato che la sera prima era buio ed
era stato preparato tutto rapidamente, nella luce fioca, con solo i bagliori
intermittenti degli accendini che scaldavano il fumo. Non avevo neppure idea
da dove provenisse questo benedetto fumo. Qualcuno me ne aveva parlato e
diceva che era una scoria tratta nella lavorazione per ottenere la cocaina. Io
avevo un’idea romantica del fumo, pensavo fosse un prodotto chimico, come
l’LSD. Penso che in tutta quella settimana non lo abbia mai visto. Di solito si
fumava sempre di notte e io non ero in grado, ovviamente, di rollare cannoni.
Sentivo soltanto il suo odore quando veniva scaldato per essere sbriciolato. Il
sabato sera gli amici di Giancarlo avevano organizzato una grigliata in riva al
fiume Gesso, un luogo isolato lontano dal paese. Un’idea molto semplice: un
falò, la carne alla brace e un mucchio di birre in buste di nylon, e ovviamente
le solite canne che giravano vorticosamente. Tutti fumavano tranne uno, il
solito astemio della sitazione, figlio di un colonnello. Quest’ultimo raccontava
storie di ragazzi che dopo aver fumato troppo avevano delle visioni,
supermostri nientemeno. Qualcun altro rideva alle sue storie, forse più per la
fusione che per la sua comicità. Io me ne stavo immobile, completamente
panato a fissare i ceppi che scoppiettavano nel fuoco del falò. Forse è stata la
prima sera in cui il fumo ha avuto effetto su di me. Karma si burlava di me,
dava di gomito al suo vicino di posto e gli diceva che ero fuso e immobile.
Le giornate trascorrevano veloci al solito bar vicino all’alloggio a giocare ai
videogames. Ricordo un gioco western in cui un pistolero doveva fare
tabularasa su tutto ciò che incontrava e schivare a sua volta i colpi degli altri.
Ho giocato molto a questo gioco e ho speso anche parecchio, dato che ero
poco bravo. Il jo box impazzava, dalle quattro in poi. la canzone più gettonata
era quella delle Four No Blond di cui non ricordo il titolo. A volte la sera
andavamo in un disco bar, il Capolinea, dove si radunava tutto il gruppo. Io e
Giancarlo non avevamo ancora 16 anni, età rischiesta per entrare in quel
discobar e allora abbiamo falsificato il codice fiscale, muniti di colla e
forbicine anticipando di un’anno la nostra data di nascita. Con il documento
contraffatto siamo riusciti ad entrare. Comunque il locale non era un granchè
ma era l’unico degno di nota del paese. Ovviamente a volte svolgevamo
anche i compiti. Io avevo portato con me i compiti delle vacanze di geografia,
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Giancarlo doveva studiare per riparare alcune materie a settembre. Il tempo
per i compiti era sempre molto sacrificato per una scusa o per l’altra. Bastava
un’amico che per caso passava all’alloggio e i compiti venivano messi da parte
e si usciva a spasso per il paese.
Quando son tornato dalla montagna ero alquanto frastornato, come se avessi
viaggiato su un treno per quaranta ore di fila senza chiudere occhio. Ma ne
era valsa la pena. E’ stato un bel divertimento. E dopo il soggiorno ad
Entracque son tornato a casa con un nuovo vizio. Un vizio che negli anni a
venire ho coltivato in ogni maniera possibile. Ho fumato per quanto sia
umanamente possibile. In tutte le pose, con ogni arnese, con ogni variante.
Cannoni, galeoni, carciofi, baffi o elicotteri, game over, ceelom, soffietti,
secchi. Ho fumato molto haschish, poca marja. Non per una mia decisione ma
perché gli spacciatori avevano più di questo che di quella. Niente Olanda,
niente coffee-shop. Amsterdam era qui, nelle cantine claustrofobiche nel
centro del paese, nelle mansarde, negli alloggi in montagna, sulle spiagge al
mare, sui moli, nei parcheggi delle discoteche, nel bagno di casa mia, a scuola
nei cessi, sotto i banchi furtivamente mentre il prof. spiegava un teorema di
Euclide o un verso di Leopardi. Sui treni in rotta verso chissà dove, in
macchina con la luce di cortesia sempre accesa. I più abili riuscivano a girare
una canna mentre guidavano ma erano davvero dei fuori classe. E non si
scomponevano neppure se lo scemo di turno, per fare il filtrino, gli faceva a
pezzi la tessera di un circolo…
Comunque non mi sono spinto più in là. Qualcuno sostiene che l’hascish sia il
ponte che porta all’eroina. Tutte stronzate. Una cosa è farsi una canna e
tutta un’altra farsi un buco in un braccio. Io comunque non ci ho mai neppure
pensato, a parte una volta con un mio amico che per sfotterci a vicenda ci
eravamo promessi che in vacanza ci saremmo fatti una spada. Ovviamente
solo tutte cazzate che avevamo inventati per canzonarci a vicenda. Io
quell’anno non sono neppure andato in vacanza!
Alcuni anni dopo dalle prime esperienze con il fumo, nell’estate del ’95, la
situazione mi era decisamente sfuggita di mano. Un sabato di giugno ci siamo
messi in viaggio per il mare, destinazione Alassio. La giornata è passata nel
solito modo noto ovvero rollando cannoni a tutto andare. Avevamo portato
un bel ciocco di fumo e potevamo permetterci di strafare. Se per caso finiva
si poteva facilmente trovare qualucuno che lo spacciava. La sera di quel
sabato siamo andati a ballare ai Pozzi di Loano e poi a tarda notte ci siamo
accampati sulle panchine davanti alla stazione del paese. Il mattino presto,
verso le sei o giù di lì hanno aperto l’accesso alla sala d’aspetto e allora ci
siamo accampati dentro, stendendo i sacco a pelo sul pavimento. Mentre me
ne stavo sdraiato supino su quel duro pavimento avevo un’idea fissa che mi
frullava in testa. Mollare tutti senza dire niente e tornare silenziosamente a
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casa. E così ho fatto. Sono uscito sul binario e sono salito sul primo treno per
Savona, con fumo e zaino in spalla. Alla fermata prima di Savona mi sono
pentito e sono sceso. Ma poi ho di nuovo cambiato idea e sono di nuovo salito
sul treno successivo. Alle sette o sette e mezzo ero alla stazione di Savona
per informarmi del primo treno diretto dalle parti di Torino. Il primo treno
utile partiva di lì a un’ora. Ho cominciato a esplorare la stazione alla ricerca di
un giornalino porno a fumetti. Non l’ho trovato e allora, dato che avevo
tempo da bruciare, sono uscito dalla stazione e ho scoperto un’edicola dove
ho scovato un fumetto porno. Mi è rimasta impressa una grottesca immagine
dei dintorni della stazione di Savona, forse dovuto allo stato d’animo in cui mi
trovavo. Ero a pezzi, stavo crollando piano piano. Era come trovarsi in un
vecchio sogno in bianco e nero popolato da acute angosce e mostri di ogni
specie, era come un vuoto d’aria in mezzo ai torace, un’apnea ininterrotta,
dove sei consapevole del fatto che è troppo tardi per tornare sui tuoi passi.
Tornato alla stazione sono salito sul treno e sono tornato a casa. Ero seduto
da solo in una cabina da sei posti, me ne stavo quieto a leggere il fumetto
porno con un’erezione permanente. Quando è arrivato il controllore, per
pudore ho nascosto il giornaletto sotto il culo prima di esibire il biglietto. Una
volta a casa sono stato sottoposto al terzo grado, domande del tipo: “Come
mai sei tornato così presto?”,” Perché hai gli occhi così rossi?”. Io avevo
soltanto voglia di andare a farmi una bella dormita in un letto comodo. E così
ho fatto fino a pomeriggio inoltrato. Dopo cena sono andato da Enrico e ci
siamo recati alla stazione per aspettare gli altri, quelli che avevo
abbandonato a Loano. Ovviamente erano incolleriti con me, non tanto perché
ero scappato ma perché avevo con me il fumo e loro erano stati per tutto il
giorno a bocca asciutta. Ho ridato il fumo, quello che volevano, ed è partito
un altro terzo grado: “Perché sei scappato?” Io questa volta avevo le risposte
pronte. “Perché la nonna stava male e sono dovuto tornare a casa
rapidamente”. “Perché non ci hai avvisati prima di partire?” Ma la domanda
sottointesa era “Perché ti sei portato via il fumo?”. “Ma perché lo avete
lasciato custodire a me, cari ragazzi. Ho rischiato per voi di farmi beccare con
parecchi grammi di fumo in tasca. Potevate tenerlo voi, no?” Ovviamente
tutte risposte immaginate, riposte in un cassetto della mia mente ma che
non riuscivano a venire a galla. Le parole si rifiutavano di venir fuori,
vomitavo monosillabi come un idiota. Non riuscivo neppure a snocciolare una
scusa lontanamente plausibile. Mi sentivo una merda, nient’altro che un pezzo
di merda. E allora feci quel che faccio ancora oggi in situazioni imbarazzanti:
salutai tutti e me ne andai. Ero e sono tutt’oggi stupito dal raptus che mi ha
portato a scappare a casa quella mattina presto, tra discussioni di ferrovieri
del turno di notte. Uno di essi mi chiese per quale motivo partivo dal mare la
domenica, e per giunta ad un’ora così infelice come possono essere le sei. Io
risposi, anche solennemente del resto, che mia nonna era stata colto da un
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malore e che io gli sarei voluto star vicino qualora morisse. Tutte stronzate
naturalmente, la nonna era viva e vegeta e godeva di ottima salute per
giunta. Questa balla che raccontai al ferroviere era solo una scusa per
buttarmi un po’ di fumo negli occhi sulla verità della situazione, ovvero per
nascondere il raptus che era scattato nella mia testa. La situazione mi stava
sfuggendo di mano. Ero infelice, profondamente triste, anche se me la ridevo
spesso. Ma il mio riso era sforzato, solidale. Non me lo sentivo dentro ma era
solo un modo come un altro per sentirmi unito al gruppo. Magari qualcuno
diceva una battuta su chiccessia e tutti scoppiavano a ridere. Io compreso. Mi
sbellicavo. Ma soltanto per far uscire la canna dall’organismo, per smaltirla
per così dire. E’ una regola comune. Se vuoi smaltire una grossa sbornia devi
vomitare e per smaltire una canna risate, risate a crepapelle. Anche se le
risate di qualcuno sono a denti traballanti, quel genere di riso che quando
cessa ti lascia nello sconforto. Triste e mesto mi trascinavo insieme al gruppo,
che dopo quella mia fuga mi guardava con un altro occhio, o almeno così
sembrava a me. Erano come più indulgenti. Si preoccupavano se fumavo
troppo. Dicevano che le canne mi avevano leso il cervello. Comunque ripresi
ben presto a fumare, peggio di prima se voglio essere sincero. Una sera in
cantina, quella celebre cantina del fumo che ci vedeva radunati attorno a una
conversazione facile e una serie di cannoni pronti all’uso e altri in fase di
rollamento, in una di quelle tipiche sere mi spinsi oltre come quando al
ristorante chiedi il bis di tutto, anche per i cavoli che ti fanno schifo. E quella
sera fumai l’impossibile, tirando note profonde ad ogni canna, carciofo o
ceeloom che mi veniva passato da ogni direzione. Alla fine della seduta mi
mancò l’aria, ero più frastornato di un micino appena nato. Mi sentii
letteralmente male e decisi di tornare a casa. Sulla via di casa ebbi quasi delle
visioni. Mi misi a letto e sprofondai in una sorta di sogno all’oppio. La mattina
successiva avevo anche un po’ di febbre. Avevo raggiunto la secchia, ovvero
quando fai il passo più lungo della gamba. Tutto ciò mi fece riflettere. Era
tempo di smettere naturamente. E così feci.
Ai primi dell’anno del 1996 la finii con le canne. Non per scelta ma per
necessità, ero arrivato al punto che non riuscivo più ad articolare una frase
correttamente o a ricordare un passo letto da un libro un secondo prima. Era
ora di tagliare i ponti con il fumo e tutto l’apparato costruito attorno ad esso.
Smisi di vedere gli amici che fumavamo e ne incontrai degli altri, più tranquilli,
che consideravano trasgressione bere una bottiglia di vino in tre. Cominciai
ad ubriacarmi, ogni sabato. Non in modo devastante, no, una bottiglia di
Arneis durante la cena in pizzeria e basta. Era quello che mi ci voleva per
strare arzillo, per così dire. Niente più canne, niente più gente che cercava di
vendermi LSD o chicche, niente più serate in discoteca che terminavano con
un cerchio alla testa.
100
Quando tornavo a casa, all’alba, dopo aver nascosto il pacchetto di sigaretta
sotto una tegola del muretto, entravo piano piano senza neppure respirare
per non destare mia madre dal suo sonno. Mi sistemavo alla bella meglio sul
divano al piano inferiore e rimanevo lì rigido come un baccalà. Se mia madre
non sentiva nulla potevo farle bere la storia di essere tornato alle 3 o alle 3 e
mezzo massimo, invece delle solite sette, quando già il sole cominciava a
pennellare di colore tutte le cose.
Le serate coi nuovi amici si concludevano presto, all’una al massimo. E sempre
in una situazione mentale normalmente accettata. A volte affittavamo un
film e lo vedevamo in cucina, magari ammazzando la fame con qualche
patatina e bottiglie di coca cola. In discoteca ci andavamo raramente e quelle
poche volte ne rimanevamo delusi. Io ho sempre avuto un cattivo rapporto
con le sale da ballo, forse per il fatto che non sopporto la musica suonata ad
alto volume o forse per un altro motivo. Un pomeriggio di una domenica
qualunque del ‘94 o ‘95 un mio amico mi presentò una ragazza e andammo a
sederci sui divanetti. Mi raccontò un po’ di lei, faceva il meccanico se non
ricordo male. Dopo queste poche parole lei si aspettò di certo che mi
mettessi a limonarla. Ma io nulla, rimasi immobile come uno stoccafisso e non
parlavo neanche più. Lei attese per un po’ e poi, vista la situazione, mi disse di
tornare dai miei amici. E così ho fatto. E dà allora, da quella solenne figura da
fesso, ho cominciato a odiare le discoteche.
Nel periodo del dopo canne la mente si rilassava. Godeva della calma e della
tranquillità alla quale la cullavo ogni sera. Il motto era non trasgredire. In
nessun caso. Ma ben presto un componente del nuovo gruppo, Cisco, iniziò a
prendere pasticche prima di andare in disco, una, due, tre volte. Era sempre
più allucinato anche dopo che l’effetto era cessato. Il giorno dopo era
conciato da sbattere via, come un relitto umano galvanizzato da scariche
elettriche.
Quando decidevamo di uscire dalla discoteca, dovevamo andare a cercare
Cisco chissà dove. Novantanove volte su cento era piantato davanti a un
altoparlante con un sottile rigolo di bava alla bocca, con gli occhi chiusi e le
vene delle tempie gonfie come le radici degli alberi che alzano l’asfalto.
Arrivati vicino a lui lo si chiamava, lo si scuoteva ma era imbambolato, perso
in un mondo ovattato, psichedelico. Finalmente riportato in macchina si
abbandonava in sconvolgenti e insensati soliloqui del tipo: “Quel tipo ha fatto
troppo il furbo mi è passato vicino e mi ha lanciato uno sguardio storto, c’era
un pezzo di fica vicino all cassa l’hai vista?, da domani mi faccio crescere la
barba due spumini ai lati del mento, andiamo a farci un boccone a Murello?” e
via di questo passo finchè veniva lasciato davanti a casa sua schiumante
come un cavallo del pony express a fine corsa.
Aveva anche iniziato a frequentare dei nuovi amici, tutti quanti accomunati
dall’amore per le pasticche e i rave. Bastava una chicca e si trasformava, era
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una versione moderna e psicotica allo stile del dottor Jackyl e il signor Hyde.
La domenica affermava che la settimana entrante o quella successiva
l’avrebbe fatta finita. Ma non la faceva finita, anzi andò alla ricerca dell’LSD
ma fortunatamente gli rifilarono soltanto un pezzo di giornale, forse uno
strappo della Stampa in cui veniva annunciato qualche rave party. La
situazione per lui era diventata insostenibile. E allora io, da ex tossico, ex
ribelle cannaiolo, ho ritenuto opportuno avvertire la madre di Cisco circa le
sue abitudini. In seguito per un po’ mi ha guardato storto, ma ne ha
guadagnato in salute. Ha ricominciato il solito ciclo del bevo & non bevo.
Come una scena ripetuta un milione di volte. In sostanza all’inizio del mese si
prendeva una serie di ciucche formidabili, magari per tre sabati di fila. Poi al
quarto sabato diceva basta, annunciava solennemente a tutti che aveva dato
un taglio agli alcolici. Infatti per due o tre settimane non toccava un goccio di
alcool, neppure una birra semi alcolica, niente. E poi un bel giorno,
solitamente di sabato, entrava in un bar con me e insieme ci sbronzavamo
come se niente fosse. Nessuno aveva il coraggio di fargli notare che aveva
appena infranto la sua solenne promessa. Di solito il bar scelto per la sbronza
era il Savoia. L’ora era quella di punta del mercato del sabato, le quattro o
quattro e mezzo. Si iniziava con l’ordinare un Cuba Libre e poi si raddoppiava
la dose per una inaspettata arsura. Poi a corto di idee si consultava il menù o
il barista e si ordinava qualcos’altro. Alla fine del pomeriggio uscivamo dal bar
barcollanti e ci avviavamo per le vie del mercato per cercare di smaltire la
sbornia. A volte entravamo per sbaglio, o forse per forza maggiore, in un
supermercato e le gambe ci guidavano meccanicamente al reparto degli
alcolici. Si sceglieva con cura la bottiglia con un contorno di patatine fritte o
crakers e si continuava così il bagordo fino all’ora di cena. A volte neppure
tornavamo a casa per cena. Passavamo il tempo sulle panchine con la
bottiglia in mano a ridere e chiacchierare o a comporre poesie mentali di un
libro che in un futuro prossimo avremmo pubblicato insieme. Poi magari, nel
bel mezzo di una conversazione al lato di una strada, qualcuno interrompeva
le nostre risate e ammoniva Cisco: “Ma non avevi smesso di bere?” e Cisco
inventava su due piedi una scusa che si reggeva in piedi come un uomo che
ha subito l’amputazione di entrambe le gambe. Si continuava spensierati a
bere e a ridere finchè, quasi come in sogno, ci si trovava seduti ad un tavolo
di pizzeria con una birra corretta a vodka davanti al naso e un piatto fumante
di penne all’arrabbiata. Le serate finivano con un gran cerchio alla testa
oppure una rapida vomitata dietro un cassonetto della nettezza urbana. Era
raro che in quelle situazioni andassimo a ballare. Molte volte preferivamo
rintanarci a casa di qualcuno a vedere un film.
Questo mi ricorda un periodo anteriore a quello che sto raccontando, quando
Cisco ed io, all’epoca delle canne andavamo a casa mia a fumare e a guardare i
film da fusi. Quando eravamo assaliti dalla fame chimica ci sbranavamo mezza
102
cucina. Questo di solito succedeva dopo una serata trascorsa con gli altri
componenti del gruppo. Il resto del gruppo andava a nanna e io tiravo fuori
canne & filtrini e Cisco si univa a me. Sono stato io che gli ho fatto assaggiare
la prima canna e in seguito lui mi è venuto in soccorso quando sentivo, a mia
volta, la necessità di fumare. Quante fumate insieme, quante storie malate
vissute sul filo dell’angoscia e della macchina intasata di fumo denso, tutto
incorniciato con lattine di birra comprate alla tabaccheria del Peso. Era quasi
sempre Cisco che prendeva la macchina in queste occasioni, la solita vecchia
mitica Panda rossa scassata con le cimici sotto i sedili che mordevano come
mosche assassine. I soliti posti all’ombra dalla città, le birre che piano piano
scendevano nei nostri serbatoi fino a renderci brilli e poi ciucchi. Un tranquillo
cullarsi per le vie del paese con la macchina a bassa velocità e i finestrini
abbassati. Quando il resto del gruppo usciva, dopo cena, neppure si
immaginava tutti i gesti che noi nel frattempo avevamo fatto, i discorsi semi
seri da brilli, le sottili paranoie snocciolate all’ombra di qualche platano fiorito.
Quando gli altri uscivano noi eravamo su un’altra lunghezza d’onda. Se si
andava al bar a prendere una birra, per noi due era soltanto un’altra birra in
più da versare nel serbatoio. Molte volte una birretta piccola riusciva a darci il
colpo di grazia, era come la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Il
trucco è che noi giocavamo la carta dello “stomaco vuoto”. Non mangiavamo
nulla, semmai il cibo arrivava in un secondo tempo in birreria, magari alle dieci
ed oltre. Il cibo diventava solo un’accessorio. Quando sei brillo non pensi più al
cibo. Pensi soltanto il modo per restare brillo, senza sbilanciarsi troppo nel
baratro dell’ubriacatura. Un sottile filo che ti può far precipitare dal
benessere alla nausea e al vomito. E’ difficile stare a quota brillo senza
sbilanciamenti. Magari stai parlando a qualcuno e ti accorgi di tornare
lentamente lucido oppure senti che di lì a poco andrai al cesso a dare di
stomaco. In alcune occasioni riuscivamo ad ottenere quest’equilibrio. In quei
casi si giocava a carambola alla grande. Si rideva se si vinceva, si rideva se si
perdeva. L’importante era avere a portata di mano qualcosa da bere, magari
una bottiglia di spumante turata dopo una vincita miracolosa. Anche nel
migliore dei casi il mattino dopo lo si salutava con un cerchio alla testa.
Scendevo per il pranzo e mi veniva messo davanti agli occhi il solito piatto di
panzerotti al burro e salvia. Ma non avevo un briciolo di appetito e allora ne
mangiavo tre o quattro e poi passavo al secondo. Secondo solito: arrosto di
vitello su cui era spalmato una salsa a base di carote, pomodori e altri
ingredienti segreti. Se andava di lusso c’era anche il dolce, Tiramisù. Dopo
pranzo di nuovo a letto accompagnato da una compressa di Aspirina sciolta in
una tazzina da caffè. Ma il mal di testa non passava mai. Diventava come il
ritornello della domenica pomeriggio. Verso sera, quando già imbruniva,
uscivo dal letto come una larva e mi incontravo con gli altri. C’era sempre
qualche componente del gruppo che dava buca, vuoi per una partita
103
importante di serie A o per qualche gara di Formula uno. Il più delle volte si
finiva le domeniche in qualche pizzeria, solitamente La Tortuga, con un menù
sobrio senza alcuna traccia di alcool. I più arditi osavano prendere un
Sansimone a fine pasto. Ma a me toccava lo stomaco anche solo vedendoli
mandarlo giù a piccoli sorsi. Il lunedì mattina ci si sentiva sempre delle merde.
Quando andavo a scuola mi chiudevo nel mio banco in una sorta di torpore
paleozoico, cercando di ottenere la concentrazione adeguata per seguire la
lezione. Da quando ho iniziato a lavorare il lunedì è stato meno duro, per il
fatto che facendo i turni poteva succedere di dover lavorare il pomeriggio,
quindi potevo dormire fino a mezzogiorno. Ma se dovevo alzarmi alle 5 del
mattino erano cavoli amari. In quei casi le giornate iniziavano sempre e solo
con gli odori fetidi della notte prima, entrando negli spogliatoi si avvertiva
l’odore delle sigarette spente male e si era accompagnati a braccetto da
sottili mal di testa. Tra i reparti si incrociavano musi lunghi e mutismi
sconvolgenti. Modi bruschi o malumori prodotti unicamente per il lunedì
mattina. Fortunatamente il lunedì mattina era molto breve dato che la
maggior parte del turno ero in uno stato comatoso in cui le ore volano e si
fanno i soliti gesti meccanici come in sogno. Era un prolungato sbadiglio
contornato da qualche sonora scorreggia. Dopo pranzo, la fine del turno
arrivava veloce e si poteva tornarsene a casa per proseguire il sonno beato
che continuava ininterrotto fino all’ora di cena.
Quasi sempre quando ci si sveglia al mattino si promette e se stessi che la
sera si andrà a dormire più presto, ma la sera arriva e il sonno tarda ad
arrivare. E così la mattina seguente è punto a capo. Ci si trascina nella
settimana in stato sempre più comatoso. Grazie a Dio le mie settimane sono
spezzate, non mi devo mai alzare per più di due giorni consecutivi alle 5 del
mattino. Credo che se così fosse non c’è la farei. Credo che al giovedì rimarrei
inpantanato nel letto, gemendo e cacandomi addosso come una testuggine
rovesciata. Me le godo le mattine di sonno, prolungo il sonno fino al suono
della sirena (mezzogiorno) e finalmente mi trascino a tavola con gli occhi
lappolosi e lo sguardo assente. Carico la macchina. Ho sempre un’appetito
formidabile anche se mi sono svegliato da appena cinque minuti. Vado al
lavoro alle 13 e 30 fresco come una rosa. Finito il turno, alle 22, posso stare
sveglio fino all’ora che mi pare. Farei il secondo turno a vita. E’ un turno caldo,
senza brusche escursioni termiche. E’ un po’ come tornare nell’utero e cullarsi
nel liquido amniotico. Dopo il secondo turno arriva la notte, coi suoi cerchi alla
testa e la gola secca. La notte con i suoi sbadigli prolungati e le sonnolenze
improvvise che ti fanno chiudere gli occhi, nel timore di cadere in letargo e
svegliarsi magari dopo un paio d’ore e aver da caricare tutte le macchine a
velocità supersonica.
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Mi sono dato una scadenza. Devo finire il libro entro settembre. Perché
secondo la mia concezione un libro deve maturare nel corso di un solo anno.
Tanto poi con la correzione che seguirà mi spingerò fino alla fine dell’anno.
Quando avrò apportato la parola fine mi verrà il prurito di rileggere tutte le
cazzate che mi sono venute in mente. Settembre è tra sei mesi circa, quindi
all’incirca sono a metà libro. Ma bisogna vedere se avrò l’ispirazione
necessaria per scrivere altre pagine. Anche le stronzate hanno bisogno di
ispirazione. Anzi, per concepire una stronzata bisogna essere particolarmente
ispirati, altrimenti non si troverebbe il coraggio per trascriverla.
Comunque ora voglio parlare delle mie vacanze, le vacanze di agosto che ho
organizzato nella mia mente. Destinazione: Europa. La prima tappa sarà senza
dubbio Parigi. Sicuramente andrò in macchina e ovviamente da solo. Parigi mi
ha da sempre attratto. Voglio lasciarmi oziare per un po’ nelle sue vie, come
una foglia morta cullata dal fiume. Qualche ciucca e molti vagabondaggi. Le
mete ambite sono essenzialmente il cimitero degli artisti, il Louvre,
Montparnasse, Montmartre, la tour Effeil. So poche parole di francese ma coi
soldi si va dappertutto anche senza aprir bocca. Basta aprire il portafogli per
questo e per quello e attendere che qualcuno ti porga su un vassoio
d’argento quello che hai appena comprato.
Dopo Parigi vorrei spingermi fino a Londra ma può darsi che rimanga
impergolato nelle maglie di Parigi per tutta la durata delle ferie, ovvero due
settimane. Mi porterò dietro la macchina digitale per immortalare i
monumenti e un notes per improvvise ispirazioni. Se Parigi è riuscita ad
ispirare Miller può darsi che ci riesca anche con me. In ogni caso qualche
bottiglia di vine ordinaire aiuta. Arriverò a casa dopo questa vacanza e
finalmente avrò il coraggio e la forza di finire il libro. Forse ne inizierò subito
un altro. Ma non devo neppure pensare ad un altro libro quando non so
neppure come finirò questo. Sono a un punto morto. Non so più che pesci
pigliare.
Cambiare aria mi farà bene. Soldi ne ho a sufficienza per permettermi una
stanza di hotel e due succulenti pasti al giorno, più gli extra che deciderò di
concedermi. Non mi resta che studiare sulla cartina l’itinerario ottimale da
percorrere, in modo da visitare durante il viaggio altre città francesi. Devo
aspettare l’arrivo delle ferie, oggi è il 22 marzo, le ferie iniziano
presumibilmente sul finire di luglio quindi su per giù devo attendere altri
quattro bei mesi. Ho tutto il tempo per prepararmi spiritualmente al viaggio e
informarmi su eventuali luogi da visitare.
Cercando nella memoria dei pc ho trovato altri progetti passati per
raggiungere Parigi, mappe, itinerari, proposte di alcuni hotel. Sono convinto
che questo progetto di viaggio mi frulli in testa da molto più tempo di quello
che pensavo. Forse è tutto nato una sera al bar Poldo seduti ai tavoli
sonnecchiosi. I miei vecchi amici erano appena rientrati dal capodanno a
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Parigi e ne stavano parlando spassionatamente. Ricordo che parlarono di
ragazze in vetrina, grosse mangiate e l’arrivo del capodanno sugli champs
elisee. Uno di loro mi confessò che Bettino, vedendosi correre incontro una
bella figliola propensa a baciarlo, si limitò ad abbracciarla come si fa con
un’orsacchiotto di peluche dopo uno spaventoso incubo. Molto meglio
abbracciare un pezzo di figliola e metterglielo dentro anche, perché il
guerriero è sempre dritto e pronto per far dischiudere le piccole labbra
umidicce e calde di lei, attraversando il pelo della micia e arrivando a meta.
Ma sto uscendo dal seminato. Quello che voglio dire è che probabilmente il
desiderio di andare a Parigi è nato da allora. E’ stato sopito per una decina di
anni, sotto cumuli di paure e di cenere. Ora è ritornato a galla. Adesso quando
ormai ho trovato la mia solitudine. Un viaggio solitario, infelice se volete, ma
pur sempre un viaggio che mi schiarirà le idee e mi farà conoscere posti
nuovi. Magari non tornerò più indietro, magari anche a costo di diventare un
barbone, un’alcolizzato, un derelitto. Se sentirò che quello è il posto per me,
per la una nuova vita che in questo momento ha bisogna di una svolta, allora
ci resterò a costo di andare a lavorare in un fast food dietro ai fornelli, con
davanti a me uno stupido direttore di fast food che mi abbaia contro parole
che non riesco ancora a comprendere. Forse la mia vita è là e io non l’ho mai
neppur sospettato. Vorse là troverò me stesso e riuscirò a dare una svolta
anche al mio scrivere. Niente più paranoie. Solo più vegetare in qualche parco
spaparanzato in qualche panchina a contare la gente che passa, e perché no,
cercare di aprire un dialogo, nuovi amici, un nuovo lavoro per tenermi a galla,
passando le notti tra bagordi e l’evolversi dei libri che aleggiano in aria e che
non riesco ancora a semplificare sulla carta. Magari questo soggiorno più o
meno prolungato potrà passare in buona parte in uno stato pseudo alcolico,
come guardare attraverso la serratura il mondo e all’improvviso veder
crollare l’intera porta.
PARTE III
Sembra che passo l’intera vita ad aspettare. Ma aspettare cosa? Aspettare il
pranzo, l’inizio del turno, aspettare per dover caricare le linee in fabbrica,
aspettare la fine del turno, aspettare il programma preferito in TV, aspettare
di prendere sonno nel letto quando mi giro e rigiro schiumando come un
cavallo da corsa. Aspettare il turno in fila alla posta per pagare la solita multa
o qualche tassa sulla casa, aspettare lo stipendio il 27 tanto per avere altri
soldi in più da ammucchiare insieme al gruzzolo. Aspettare e aspettare,
magari anche aspettare di aspettare. Attendere il momento in cui inizia
l’attesa di qualcosa, tipo il Natale, quando si aspetta con nostalgia tutti i lenti
preparativi per mettere in moto la macchina natalizia. Anche adesso sto
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aspettando, aspetto l’ora per uscire e quando sarò in giro attenderò l’ora per
tornare a casa.
Come al solito sono qui a dedicarmi al mio lavoretto senza utili. Un lavoretto
che mi impegna lunghe notti insonni e che mi incoraggia a tirare avanti, in
ogni caso, qualsiasi calamità si abbatta sulla mia vita, che siano morti
premature, minacce di licenziamento, schizofrenia, emorroidi, malattie
sessuali, paranoia, minaccia di meningiti, polmoniti galoppanti, terremoti
improvvisi che ti fanno sussultare dal letto. Come il terremoto di stamattina
che mi ha colto nel sonno come un’infarto. Erano le 11 e 30 circa e sento il
letto ondeggiare , credo che sia mio padre che mi stia svegliando per dirmi
che il pranzo è pronto. Apro gli occhi e non vedo nessuno nella mia camera.
Strano penso, forse l’ho sognato o forse sono diventato pazzo. A pranzo la
televisione annuncia il terremoto che si è fatto sentire in tutto il nord ovest
del paese. Ma questo non significa che io non sia pazzo. Il terremoto era reale
ma è tutto ciò che sta intorno che è fasullo, la vita, la realtà, gli specchi
deformanti, le bolle di sapone, le spirali di fumo, tutto assolutamente irreale.
C’è chi disperatamente si aggrappa a questa realtà con tutte le sue forze, per
confermare la sua esistenza, la sua palpabilità. Io non ci credo più. Non credo
più al mondo, alle sue leggi fasulle, alla materia e all’antimateria, ai leptoni e ai
neutroni sterili, alle cellule fotovoltaiche e alla disfatta. Non ci credo più e mi
va bene così, vivo nell’assoluta incredulità verso tutto e tutti. Affronto il
mondo senza falze speranze, senza curiosità, senza il minimo interesse come
un pendolare che dopo quarant’anni dello stesso tragitto guardi fuori dal
finestrino. Gli stessi edifici coperti di fuliggine, i ponti ferroviari, le case
cantoniere, le nuove fabbriche e quelle andate in malora, gli interminabili fili
della luce e lo stesso sole che ammicca dietro una montagna, pronto a
sorgere. Non mi spaventa questa visione del mondo, è come vedere una
fotografia sbiadita attraverso un vetro smerigliato e non cercare neppure
per un’istante di fissare lo sguardo su un particolare, sarebbe inutile. Torpore
e sonnolenza, così affronto il mondo, trascinandomi dietro i rimasugli di
vecchi sogni e nuovi inganni. Portandomi a braccietto le paranoie martellanti
e continuando a camminare diritto per la mia strada, senza alcun timore di
essere attirato da qualcosa. Dritto fino alla meta e e poi il ritorno, giù negli
abissi, sentendo in sottofondo una smielata cantilena che mi fa chiudere gli
occhi e assopire per qualche breve attimo.
Dormire ho dormito. E’ora di muoversi, di scoprire il mondo, Parigi
innanzitutto, oppure Roma dove vive una mia amica, una donna sensibile che
ho conosciuto per caso in una room di internet. So con certezza che ogni
parola che sto scrivendo adesso passerà alla storia, questo libro sarà un best
seller o forse di più… uno scarto di magazzino. Sarebbe bello poter riscrivere
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una nuova bibbia. Non semplici appendici, un libro nuovo che parta dal
vangelo dello Spirito Santo. Dovrei chiedere un’appuntamento a Gesù Cristo e
farmi raccontare la sua storia, minuto per minuto, da quando è risorto ai
giorni nostri. La sua vita sulla Terra è saputa e risaputa, anche se concili e
ortodossi hanno voluto metterci lo zampino e omettere certe parti. Io vorrei
scrivere la vita di Gesù dopo la resurrezione, dove è andato, che ha fatto.
“Dove hai bazzicato in questi ultimi 1970, Signore? Che hai fatto, dove sei
apparso. C’è chi dice che eri inciso nel vetro della sua porta di casa o chi ti ha
trovato tatuato sul suo braccio senza esser andato da un tatuatore. Ma tu
puoi essere ovunque vero? Dimmi come si fa ad essere ovunque. Mi
piacerebbe essere al lavoro e nel contempo a spasso per qualche rue parigina.
Insegnami il vangelo, il tuo vangelo, non quelli scritti sulla bibbia dai tuoi
biografi illustri. Insegnami a pregare, insegnami a piangere, insegnami a
pentirmi e a perdonare. Insegnami come si vive onestamente, insegnami quali
sono i miei sbagli.”
Pensate che bello sarebbe avere un Maestro spirituale come Gesù Cristo,
come nei film di don Camillo dove Lui gli parla dall’alto della sua croce e a
volte lo deride, lo sgrida, lo ammonisce. Avere Gesù al mio fianco sarebbe
come parlare con la propria coscienza. Ancora meglio, dato che la mia
coscienza potrebbe essere malata, e lo è. Almeno credo. Come sarebbe bello
sentirlo predicare alle masse attraverso la musica, in una lingua universale
dello spirito comprensibile anche dall’ultimo dei somari. Sentirlo snocciolare
parabole e interrogare a caso qualcuno, per poi guidarlo per la retta via.
Averlo seduto accanto ad una cena tra amici, brindando con vino e illustrando
i segreti per condurre una vita immacolata. Gli chiederei il segreto della
felicità, il senso del dolore, il significato della vita, Gli chiederei come ottenere
tutto secondo le proprie aspirazioni. Gli chiederei come poter realizzare il
sogno di una vita, senza tralasciarne nessuna parte. Gli chiederei che cosa c’è
al di là della soglia della morte, Gli chiederei come ha fatto a tornare indietro,
come ha potuto risorgere splendente ed eterno, dalla nuda opacità della
tomba, come è riuscito ad uscire dall’oblio. Gli chiederei che ha provato
quando per la prima volta, da bambino presumo, ha capito di essere l’Eletto.
Gli chiederei se si è sentito oppresso da questa parte che era stata scelta per
Lui, come ha potuto realizzare tutto ciò che per Lui era destino e nient’altro.
Come ha potuto abbracciare il destino per adempiere ad ogni compito che gli
era stato prefissato. Gli chiederei che si prova a sapersi un Dio, e lui senz’altro,
di rimando mi chiederebbe che si prova a sentirsi un uomo. Ebbene non saprei
rispondergli.
Mi guarderei attorno e penserei a chi mi sta intorno. Sono forse uomini quelli
che si chiudono in cellette box 3 per 3 con una scrivania, un vasetto con una
piantina grassa, un computer ronzante e un telefono sempre incollato
all’orecchio buono. Sono forse uomini quelli che la mattina si stivano in
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minuscole scatole di lamiera con le ruote e affrontano il traffico e i semafori?
C’è un solo poeta tra loro? E se c’è alzi la mano così posso sputargli in faccia.
C’è un solo santo tra loro, un solo martire?
Nelle aziende ogni pennellata data è stata sindacalmente pagata, ogni azione
riceve compenso, nulla viene fatto con entusiasmo e senso del dovere. Il
succo del lavoro è ottenere la paga il 27 e nulla più. Non occorre attaccarsi al
lavoro, non occorre scaldarsi tanto perchè la paga è sempre quella e chi
sbaglia viene scozzonato. Quindi meno fai e meno corri il rischio di sbagliare.
Il ventisette è il giorno più bello, sono tutti più lieti, sembra quasi che dai loro
volti cuoiati sprizzi un po’ di entusiasmo. Ma è solo apparenza. Quando
torneranno a casa saranno davvero felici, quando riusciranno ad appoggiare il
loro arnese sul culo della loro donna, quando raseranno il praticello con
l’ultimo modello di tosaerba, quando riusciranno a racimolare i soldi per
comprare un’auto più bella, più tecnologicamente avanzata. Ogni cosa che
vedono alla tv è il nec plus ultra di cui la loro vita è sprovvista. Non ne hanno
mai a sufficienza. Hanno tutto e non abbastanza, e questo è un male
perecchio comune, quasi un male intimo che si insinua nei loro corpi e li fa
comportare come bambini piagnucolosi che indicano una vetrina col dito e
guardano l’oggetto del loro desiderio. Pensano: “Cazzo, quando sarò grande
comprerò tutto quello che voglio perché avrò i soldi per farlo”. Poi una volta
cresciuti arrivano le prime bollette, prima soltanto quella del telefono, poi
spinti da un desiderio di autosufficienza, si trasferiranno in una casa nuova,
lontano dalla famiglia e allora arriveranno a braccetto affitto, luce e
riscaldamento. Bisogna pur mangiare, bisogna vestirsi perché la pubblica
decenza lo obbliga, bisogna anche svagarsi ogni tanto e si andrà in vacanza. I
soldi per i sogni sono sempre di meno, non ci si può permettere follie
superiori a una cena al mare con gli amici, al massimo un cellulare nuovo. Gli
stipendi si sciolgono come neve al sole e c’è chi boccheggia come un pesce
dentro una busta della spesa per arrivare a fine mese con qualcosa sotto i
denti. E allora spuntano le rate o le soluzioni compri ora e paghi nel 2004 o
cose simili. Così ogni mese si deve mettere da parte un gruzzoletto per quel
duemilaquattro che verrà, e state sicuri che verrà. Forse quando avrete
finalmente pagato, il desiderio per lungo tempo sospirato sarà già stato
chiuso in un cassetto con un dito di polvere sopra.
Ieri sono andato in giro con la mia bici da corsa. Era una bellissima giornata,
assolata al punto giusto, senza il caldo cocente che arriverà tra breve, ai
primordi dell’estate. Pedalavo lentamente, senza strafare, senza farmi venire
il fiatone e ogni tanto tracannavo qualche goccio d’acqua dalla borraccia
attaccata al telaio. Sentivo una leggere brezza che mi accarezzava le orecchie
e ad ogni pedalata tastavo la nuova strada che mi si parava innanzi. Spesso mi
109
concedevo qualche sosta. Arrivato a Murello ho fermato la bici sulla piazzetta
di faccia allo stop e mi sono rilassato su una panchina, fumando una sigaretta
e sentendo gorgheggiare l’acqua semi stagnante della fontana. Dopo dieci
minuti di sosta ho ripreso il viaggio e mi sono spinto fino al cimitero del
paese. Ho dato un rapido sguardo sonnolento alle tombe e ho osservato i
muratori alle prese con gli scavi per costruire nuovi sepolcri. Sempre più
morti, sempre più tragedie, guerre, genocidi, catastrofi, incidenti stradali. I
piccoli cimiteri non bastano più, bisogna ampliarli per fare spazio ad altre
salme, altra morte, altri nati morti, altri giovani suicidi, altri vecchi venerandi
passati a miglior vita. La campana a morto rintocca con maggior frequenza, la
bandiera è sempre a mezz’asta, la fascia a lutto è visibile alle giacche di tutte
le migliori famiglie, e anche alle maniche delle peggiori se per questo.
Nessuno viene risparmiato, non c’è cura, bisogna farsene una ragione alla
morte. Sei felice, magari stai mangiando un gelato alla crema o scopando una
strafiga e boom, ti ritrovi dall’altra parte senza aver il tempo di dire AH!
Con con questi pensieri sono uscito dal cimitero – per ora posso permettermi
di entrare e poi uscire, usando le gambe – e ho inforcato la bicicletta con
destinazione Villanova Solaro. Il sole lentamente scendeva giù in braccio
all’orizzonte e allungava la mia ombra che scorreva fedele accanto a me,
sull’asfalto tiepido. A metà strada tra i due paesi c’è la cascina che ha visto i
natali di mio padre chiamata Cascina Grossa, ex proprietà della famiglia degli
artisti Calandra. Ora è semi abbandonata ma se si osserva ammiccando
leggermente gli occhi, si può analizzare la vita che brulicava in questa cascina
fino agli anni ‘70. Si può udire il rombo dei trattori, le mucche gemere nella
nebbia, il baccano della mungitrice elettrica, il pigolare di pulcini, il cip cip
ininterrotto di passeri e pettirossi, le rondini allegre che sfrecciano pazze
rasente ai muri e ai fili del telefono. Si può ancora respirare l’odore aromatico
del fieno così ricco di nostalgia e di melanconia. Sì può sentire ancora il puzzo
di letame che fuma lento nei campi. Si può scorgere i contadini indaffararsi
nei loro lavori, con l’eterno berretto Raggio di Sole in testa e un mezzo sigaro
toscano che sporge su un bordo del labbro. Tutto questo visto attraverso
l’ammiccare furtivo dei miei occhi mentre passo accanto alla cascina. Poi un
lungo rettilineo interrotto da una stretta curva e finalmente il cartello
“Villanova Solaro”. Sulla destra il cimitero, dove riposano gran parte delle
persone che ho scorto poco prima, con l’ammiccare degli occhi, alla Cascina
Grossa.
Sono entrato al cimitero per visitare la tomba di famiglia e poi in successione
tutte le altre tombe, in una lenta camminata per riprendere fiato dopo la
pedalata. Dopo questa sosta sono ritornato a Murello dove ho comprato un
pezzo di focaccia e sono andato a mangiarla vicino ai muri della ex meccanica
Subalpina. Poi dritto fino a casa arrancando sui pedali, per sfogare le ultime
energie. Premevo sui pedali e sentivo una lieve fitta ai muscoli dei femori. In
110
pochi minuti ero alle porte di Racconigi. Sono andato in paese a comprare il
pane e poi sono tornato a casa, un po’ stanco e sono andato a sedermi sul
divano della cucina.
Giornate così liete, in questi ultimi tempi, si possono contare sulle dita di una
mano. Le altre rasentano l’inferno. Cerco di dormire il più possibile per
estrainarmi dal mondo, per godere di qualche ora di oblio prima di mettermi
in moto per andare a lavorare o a mangiare. Queste ore di oblio sono per me
dei veri toccasana, mi permettono di staccare la spina, rilassarmi e riposarmi.
Magari tra i sogni sfocati della notte mi vengono in mente strane idee, idee
pazzesche che mai potrebbero venire ad una mente lucida. Dopo una di
queste notti pazze mi sveglio e comincio a torcermi nel letto come
un’anguilla, per cercare di cogliere l’idea onirica appena avuta. Il più delle
volte tali idee sono già andate in fumo, insieme alla mattinata. Infatti non mi
sveglio mai prima di mezzogiorno. Anche perché la sera vado a letto molto
tardi, le 2 o le 3. Le serate le passo al computer a scrivere o a sentire musica,
oppure navigando in internet alla scoperta di notizie o fotografie degli
uomini morti che amo attraverso la letteratura. Trovo le informazioni
necessarie e le scarico sul Word e poi le leggo avidamente, parola per parola,
senza tralasciare una sola riga. In rete ho anche trovato una quindicina di
racconti di Charles Bukowski, che sto iniziando ad apprezzare solo ora. A volte
parto con la macchina verso la biblioteca di Fossano, andando in cerca dei libri
di Chinaski. Quando ne scovo uno interessante mi siedo su una poltroncina,
vicino ad una finestra che dà sul cortile del castello, dove è ospitata la
biblioteca e mi metto a leggere avidamente queste storielle, per ore ed ore.
Verso le sei del pomeriggio lascio la biblioteca e vado a fare due compere al
Bennet, di solito compro il necessario per ingollarmi una buona cena, Salmone
affumicato sott’olio, qualche salsa strana piccante con le tortillas, salsa di
tonno in scatola e perché no, un libro da leggere. Il reparto libreria del Bennet
e uno dei primi che visito, do uno sguardo panoramico a tutti i libri presenti e
a volte ne trovo uno che mi interessa. Quelle volte quando torno in macchina
non resisto a tornare a casa prima di aver dato uno sguardo alle prime
pagine, magari accompagnando la lettura con un panino a prosciutto o un
pacchetto di tortillas con la salsa piccante. Di solito queste gite alla
bibblioteca fossanese hanno sempre questo itinerario. E’ come se lo facessi
automaticamente, queste gite sono un modo come un altro per passare un
pomeriggio in tranquillità. A volte mi piace rileggere Miller in altre edizioni e
allora vago per gli scaffali in cerca di edizioni vecchie . Con mio stupore ho
notato che certe parole variano dall’edizione che posseggo a casa. Questo mi
lascia perplesso e mi spinge quasi a imparare l’inglese per leggere le sue opere
in lingua originale. Così sarei libero di interpretare l’opera senza servirmi di un
traduttore, che dall’alto della sua padronanza dell’inglese magari a volte
111
prende degli abbagli. Ma non ho voglia di imparare l’inglese, richiederebbe
troppo sforzo mentale e un’applicazione costante, cose che io non ho
nessuna intenzione di affrontare.
Comunque dopo queste gite alla biblioteca mi sento sollevato, sono quasi più
allegro. A volte mi sorprendo a spiare le conversazioni telefoniche di ragazze
a zonzo per gli scaffali, cerco di immaginare che cosa le sta dicendo
l’interlocutore. Un modo come un altro per prendere una pausa da una
lettura. Vorrei possederla a casa una bibblioteca come quella fossanese,
potrei consultare tutti i libri che vorrei senza uscire, sicuramente in questo
modo leggerei in continuazione, magari anche mentre mangio. A che serve
tutto questo leggere? Semplice! Per acquisire una padronanza linguistica
fuori dal comune, imparando dieci modi per dire la stessa cosa, senza cadere
nella ripetizione oppure imparare a conoscere parole nuove mai sentite
prima, per poterle incastrare in una frase.
Oggi è stata una giornata puramente psichedelica. Sono stato svegliato alle
11 e 20 che per me significa alto tradimento, nel senso che un’artista segue
degli orari pazzi e non può permettersi di alzarsi prima di mezzogiorno. Oggi
era un giorno particolare, Pasquetta, e i miei volevano andare a mangiare con
me un pranzo in una locanda di Melle. Così volente o nolente sono uscito
gemebondo dal letto, come una larva strappata all’improvviso al suo
nutrimento, e mi sono messo nelle condizioni necessarie per poter uscire.
Sono andato in bagno e ho fatto una generosa pisciata e poi mi sono lavato i
denti, non per la mia igiene dentale ma per togliermi un gusto vomitevole che
mi assillava dalla notte prima, quando mi ero messo a letto.
Ho radunato gli occhiali da sole e la fotocamera, per poter eventualmente
scattare qualche foto in montagna, e sono salito quasi tramortito in
macchina, che già da qualche minuto stava ronfando in cortile, con mio padre
dentro l’abitacolo che inpreceva e grugniva per quale motivo ci stavamo
mettendo tanto, io e mia madre, a sistemarci. Finalmente eravamo tutti in
auto e mia madre” Ho dimenticato la borsa dentro casa” e così è tornata
dentro e la partenza è ancora stata ritardata di qualche minuto. Verso
mezzogiorno stavamo varcando la soglia del cancello di casa. In circa
mezz’oretta siamo arrivati a destinazione, Melle, dove ci attendeva alla
Locanda della Posta una buona sbaffata. Le prospettive non son state
tradite, 5 antipasti quasi tutti a base di formaggi del posto, poi le tagliatelle
alla bagna cauda e lo spezzatino di cinghiale con verdura grigliata mista. A
completare l’opera ci ha pensato una meringa con panna. E ancora caffè e
ammazza caffè. Finalmente era ora di pagare il conto, molto modesto, 60
Euro tout comprix. Siamo risaliti in macchina e abbiamo raggiunto un posto
tranquillo per poter dormire. Ci siamo assopiti per un po’.
112
Dopo una buona mezz’ora siamo scesi dall’auto ed abbiamo iniziato ad
esplorare gli intorni del posto in cui avevamo sostato, ovvero una peschiera,
dove si possono prendere pesci appuntando margherite agli ami delle canne,
talmente è la concentrazione di pesci in questo vivaio. Tra vari ozi abbiamo
anche trovato un mio collega di lavoro con la sua ragazza, e mio padre ha
iniziato a raccontare a quel perfetto sconosciuto, per lui, la storia della sua
vita. Dopo mezz’ora di racconti li abbiamo lasciati, salutandoci tutti
cordialmente e siamo risaliti in macchina per andare a Sampeyre, dove
abbiamo mangiato un gelato e girovagato per le sue viuzze. Sono entrato in
un’edicola per comprare una ricarica TiM da 25, dato che dovevo inviare un
sms alla mia amica di Roma ma non avevo più un centesimo nella mia scheda.
Abbiamo poi lasciato il paese e siamo rincasati. Durante il tragitto verso casa
ho scattato qualche istantanea al paesaggio che mi si parava di fianco, oltre il
finestrino. Arrivato a casa ho scaricato le foto scattate e ho stampato la vista
che mi sembrava migliore e ne ho fatto un’acquerello. Sono stato assorto
nell’esecuzione di quel paesaggio per quasi un’ora e alla fine dell’opera ero
pienamente soddisfatto del risultato. Quindi l’ho firmato in basso a destra
con la mia solita firma, P. Spertino, e ho continuato a contemplarlo finche si è
asciugato.
Sono due giorni ormai che mi sbizzarrisco a creare acquerelli, ieri ho fatto un
vaso di fiori con accanto un’inaffiatoio. Stassera ho scoperto che sono più
portato per i paesaggi.
Catalessi. Pillole carartiche per il mal di denti. Nausea e narcolessia. Vago
come un disperato in sogno per le viuzze strette di un paesello montano. Non
un’anima viva, non un cane, non un cenno di esistenza in ogni direzione volgo
lo sguardo. Ammiccando leggermente posso scorgere l’ombra del sogno che
mi porto appresso. E’ come uno spirito selvaggio che mi cammina accanto, a
braccetto. Posso confidarmi oppure semplicemente parlarci. Ho indosso una
giacca logora verde militare e la barba incolta. Mi trascino con passo
traballante e mi meraviglio ad ogni particolare che scorgo. Ogni tratto di
paesaggio evoca estasi e follia. E’ l’ora del tramonto, il buio cade come
fuliggine per il paesello e i grilli cominciano a cantare le loro monotone nenie.
I passeri sugli alberi chiamano la notte, un picchio rannicchiato nel proprio
nido dentro la corteccia di un’albero lancia l’ulitimo richiamo alla sua
innamorata.
Finalmente arrivo nei pressi di un bar salumeria, di fronte a una grande vasca
usata un tempo per lavare i panni. Ordino un gran panino al salame
abbondantemente farcito e una lattina di coca cola. Siedo su un bordo della
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vasca e mangio la mia povera cena. Comincia a far freddo, mi stringo nel
giubbotto logoro. So già che la notte la passerò all’addiaccio e allora entro di
nuovo nel bar salumeria e compro una ricca bottiglia di Jack Daniels. Uscito
dal bar penso che quasi quasi costava meno pagarsi un’albergo. Ma il Jack mi
farà compagnia per diverse notti, non mi tradirà mai, a meno che gemebondo
e barcollante non lo versi sbadatamente a terra. Trovo una panchina coperta
da una pensilina, la fermata di un’autobus probabilmente, mi accomodo sul
mio letto e comincio e mandar giù generosi sorsi di Jack. Mi sento ubriacare a
poco a poco. Colgo il campanile in lontananza rintoccare le ore, sempre più
attutito, come se nelle orecchie avessi dei tappi antirumore, o forse è solo
cerume? La notte passa, sento il fuoco che mi brucia le viscere e un ronzio
alla testa. Forse ho esagerato con il whisky, se ne andata mezza bottiglia.
Allora la ritiro nello zaino per non essere tentato a berne dell’altro. La testa
mi gira, vedo sfocato e doppio e improvvisamente perdo i sensi. Mi risveglio
improvvisamente al suono di una risata. Apro gli occhi, due strette fessure, e
vedo davanti a me un gruppo di escursionisti con pantaloncini corti e
scarponi da trekking. Probabilmente sono in partenza. Io invece non vado da
nessuna parte, non ne ho la forza. Mi sento tutte le ossa rotte, forse per via
di quella dannata panchina dura che ho scelto come letto. Avrei dovuto
stendermi su un prato a costo di svegliarmi fradicio di rugiada. Butto
un’occhio verso il bar, è già aperto. Entro e ordino un caffè, prendo in mano
la tazzina e vado verso la finestra, senza farmi notare lo correggo col whisky,
una correzione generosa, la tazzina quasi trabocca. Butto giù. Sento lo
stomaco in subbuglio. E’ la fame, ma purtroppo ho solo i soldi sufficenti per
pagare il caffè, 80 centesimi esatti. Esco dal bar con lo stomaco vuoto e mi
metto in viaggio. Arrivo fino alla strada statale e butto il dito per un
passaggio. Non passa neanche un cane e quei pochi sparuti che mi passano
davanti vanno nella direzione opposta alla mia. Allora comincio a scendere a
valle a piedi, mi guardo i piedi, ho due scarpe logore che non servirebbero
neppure come fermaporta. Ho i piedi che bruciano per i calli, esamino i calzini
e vedo enormi buchi in entrambi. Vedo arrivare da lontano un macinino
guidato da un preticello imberbe. Butto il dito e vedo la macchina frenare.
“Dove vai figliolo? Io sto andando a Cuneo”. “Perfetto” rispondo io e salgo su.
Durante il viaggio non apro bocca, continuo a guardare timidamente il
paesaggio attraverso il finestrino. Non oso aprire bocca perché ad ogni parola
potrei sbadatamente insultare ciò in cui lui crede. A Cuneo il preticello mi
molla davanti alla stazione dei treni. Ringrazio e scendo. Mi trovo nell’atrio
della stazione. I crampi da fame sono peggiorati. Ora ho quasi delle visioni. Mi
pare di avere cinquanta euro da spendere nel portafogli. Controllo ma
sfortunatamente è vuoto, neppure un centesimo. Solo un dollaro sgualcito
che mi porto appresso da quando ero piccolo, come porta fortuna. Che
fortuna mi ha portato. Sono qui nell’atrio della stazione con la fame arretrata
114
e nessun soldo per il biglietto. Tanto vale uscire all’aria aperta e respirare
liberamente, seduto vicino alla fontana, nel parco in mezzo alla piazza. Mi
accomodo su una panchina e tiro fuori dallo zaino la bottiglia di Jack. E’
ancora metà, contando che sono a stomaco vuoto basterà un sorso a
stendermi. Bevo un goccio e dopo cinque minuti mi sento già ubriaco. Respiro
a pieni polmoni e mi viene voglia di fumare, ma figurarsi se ho una sigaretta.
Mi alzo in piedi e con passo malfermo faccio un giro per la piazza in cerca di
una cicca. Ne vedo una mezzo fumata, vicino al cestino della spazzatura. La
raccolgo a muso duro. E’ la mia marca, una Marlboro light. Faccio tre o
quattro boccate e me le godo al massimo. Sono quasi esilerato da questa
mezza cicca. Faccio un altro sorso e vado a spasso per dare uno sguardo alle
vetrine. Mi fermo davanti al negozio di un macellaio e vedo un pollo spiumato
appeso a un gancio. Sono quasi tentato a sfondare il vetro con un pugno e
strappare il pollo dal gancio. Ma poi penso che non varebbe la pena. Continuo
nel mio cammino sotto i portici. Nell’aria si sente il profumo di cibo
proveniente da un ristorante. Decido di tentare il colpo. Entro nel locale e mi
siedo a un tavolo. Il posto brulica di gente, giovani coppiette con belle
speranze e vecchie coppie che litigano tutto il tempo. Arriva la lista dei vini.
Perché non prendere un buon litrozzo di vino? Ordino un caro barbaresco,
talmente caro che non riesco neppure a pronunciarne il prezzo. Per primo
scelgo gnocchi alla bava e secondo arrosto con contorno di patate. Dopo aver
finito di masticare e ingerire l’ultima patatina fritta mi sento pieno come un
favo. Mi scappa anche da pisciare. Mentre vado verso il cesso mi chiedo come
farò a pagare il pranzo. Entro in bagno e trovo la soluzione ai miei problemi.
C’è una finestra che dà su un cortile interno. Piscio comodamente, mi lavo le
mani unte e esco dalla finestra. Attraverso una bassa cancellata di ferro e mi
trovo in strada, sul marciapiede di una stradina laterale. Me la batto. Cerco di
spingermi il più lontano possibile dai paraggi del ristorante e cerco di
memorizzare la via per tenermi per sempre lontano.
Finalmente una bella mangiata. Mi servirebbe solo una sigaretta. Fermo un
giovanotto sparuto, corredato di zaino, che sta fumando e gliene chiedo una.
Un minuto dopo sto deliziandomi un buona cicca. E’ ora di lasciare il paese.
Non so ancora dove andrò ma so per certo che non voglio passare la notte a
Cuneo. Troppo provinciale per i miei gusti. Voglio andare a Torino e arrivarci
per la sera. Esco a piedi dalla città e comincio a buttare dito. Prendo solo
brevi passaggi. Faccio Cuneo – Centallo con un rappresentante di articoli
sportivi, poi Centallo – Genola con una pettinatrice di Savigliano che sta
andando al Bennet. Arrivato davanti al Bennet penso che sia inutile entrarci
visto il volume del mio portafogli. Rubare neanche a parlarne, non voglio
avere grane e poi per ora non sento il morso della fame, sono ancora sazio
per la bella mangiata fatta a Cuneo. Cammino fino al ciglio della strada e
butto dito. SI ferma un camionista che deve andare a Carmagnola. Perfetto
115
penso, una trentina di chilometri in una volta sola. Salgo su in cabina. Appena
appoggio la testa al sedile mi addormento, uno di quei sonni fanciulleschi,
sodi. Mi sveglio e sento il camionista che mi scuote e mi informa che siamo a
Carmagnola. Mi lascia nei pressi della stazione dei treni e allora istintivamente
entro nell’atrio della stazione. Vedo sull’orario delle partenze che c’è un treno
per Torino P.N. che passerà pochi minuti dopo. Decido di prenderlo senza
biglietto. Tra me penso “Nel peggiore dei casi mi nasconderò nei cessi di un
vagone”. E così faccio. Mi faccio tutto il viaggio seduto sulla tazza del cesso. A
volte sento la maniglia girare, ma io ho messo il cricchetto. A Torino bello
bello esco dal cesso e scendo in stazione. Finalmente sono a Torino. Passeggio
allegro per l’ampio atrio della stazione e incrocio una faccia amica. E’ un
vecchio amico conosciuto dieci anni fa, di nome Carlo. Brevemente gli spiego
la mia situazione e andiamo in un ristorante. Mi vuole offrire una cena come si
deve e mi comunica che è molto felice di rivedermi. Io penso “Meno male che
sei felice, a me basta che mi scuci un pasto e magari anche qualche euro”.
Così siamo a tavola a pasteggiare con vino e mangiare carne cruda all’albese.
Il vino è micidiale e io sono stanchissimo, a ogni modo mi stordisce dopo soli
tre bicchieri. Continuo a bere, voglio sentirmi ubriaco e allegro. Usciamo
all’aria aperta e mi porta in un night club vicino alla stazione. Magre fanciulle
si contorcono come anguille intorno al palo. Carlo comincia ad ordinare per
me cocktails dai nomi inpronunciabili. Io gradisco. Ho una sigaretta tra le dita
di una mano e un bicchiere di non so che nell’altra. Mi sento sempre più
euforico. Chiudo gli occhi per un’istante e quando li riapro mi trovo solo
seduto ad una panchina, nelle vicinanze del night club. Mi frugo in tasca e
sento un biglietto di banca. Lo tiro fuori, è un 50. Magico, mi ha lasciato 50
euro. Che amico, penso. E pensare che io volevo soltanto scroccarlo. Non
posso neppure ringraziarlo. Ad ogni modo ora posso permettermi qualche
pasto per tirare avanti. Pensando questo mi riaddormento su quella stessa
panchina.
Tutto questo è stato un magnifico sogno. O forse una premonizione sul mio
futuro. Una premonizione che mi vede mendicante, senza soldi e senza casa,
in giro per le città con la barba incolta e i vestiti lisi e sgualciti. Forse è solo la
peggiore delle ipotesi. Se fallisco diventerò un barbone, penso. Se non sfondo
come scrittore e perdo il lavoro divento un mendicante. Che triste
prospettiva. Eppure mi sento già fallito, ogni giorno di più. Mi sentivo già un
fallito in fasce. Mi son sempre sentito uno che fa le cose per ridere, senza
prendersi sul serio. Uno che valuta i complimenti solo come un modo per
avere un contentino e non rompere i coglioni. Sono sempre stato ostico agli
apprezzamenti. Mi sembrano sempre e solo prese per il culo. Non riesco a
cambiare. Non riesco mai a pensare che la persona che si complimenta con
me lo faccia perché ne senta una vera necessità. Forse perché io prima di
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tutti non credo in me stesso, non credo di avere capacità. Infatti non ho il
coraggio di far vedere a nessuno i miei scritti. Forse perché in ogni caso
quello che diranno mi lascerà perplesso. Se dicessero che fanno schifo ci
crederei subito, ma se dichiarassero che sono straordinari penserei subito di
essere preso per il naso. Eppure devo trovare il coraggio di mostrare questa
roba a qualcuno.
Riporto ora una conversiazione avuta in chat con una tossica di nome Betty
(come la canzone). Il suo nick era eroina. E dopo le dovute presentazioni mi ha
chiesto a bruciapelo “Ma tu ti fai?” Ed io “No”. Poi però le ho messo una pulce
nell’orecchio dicendole “Pero mi piacerebbe provare”. “E’ da molto che ti
buchi, tu?”, “No, da appena un’anno”. Io avrei voluto dirle cazzo un’anno è
un’eternità. “Ma ti fa tutti i giorni?” le ho chiesto, e lei “Naaaaa”. Poi butta giù
la comunicazione, del tipo l’utente ha abbandonato la chat. Dopo circa venti
minuti rispunta l’icona EROINA. Mi dice “Scusa ma ho dei problemi col modem”.
“Ok” ho detto io. E poi mi dice che ogni goccia che esce dalla siringa provoca
una sensazione 100.000 volte più intensa di un normale orgasmo. E tra l’altro
oltre ad aversi fatto una peretta, come mi ha comunicato, si è pure gingillata
un po’ con se stessa ed è venuta. Poi ad un certo punto la sento dire “Sono
gonfia” e io non capendo “Cioè?”, e lei “Ho messo troppa roba e poca acqua
nella siringa” e poi tace. Dopo alcuni minuti arriva un nuovo messaggio, “Ora
esco fuori col gatto, ciao”.
A sentire questo io mi chiedo quante ragazze così, che per scherzo o per altro
abbiano iniziato a bucarsi, girino sperdute per i giardinetti di un parco,
fermandosi magari a contemplare una visione subitanea. Oppure il gatto salta
giù dalle loro braccia e scappa per il parco e loro si ritrovano gonfie di eroina
fino ai capelli a rincorrere un gatto che magari neppure esiste se non nelle
loro fantasie narcotiche. Quante saranno ogni notte che cercano di far
passare l’effetto e se ne vanno nei prati, e magari la mattina dopo le trovano
congelate, senza nessun gatto abbracciato? Non so quale sia lo stimolo che
spinga per la prima volta a farsi una pera. Forse fuggono da qualcosa, io le ho
chiesto da che stava fuggendo e lei non ha risposto, muta, forse non
rispondeva perché stava già preparandosi la peretta per la notte, la
camomilla proveniente dalle campagne dell’Afghanistan o da un posto simile.
Poi è uscita di casa con quel suo gatto posticcio, parlandogli come se fosse
un’amico. Dopo il gatto inizia veramente a parlare, una parlata felina fatta di
miiiii, miao, meu, miu, fino a che la malcapitata si presenta di sua spontanea
volontà in qualche clinica di salute mentale. La internano velocemente e le
danno metadone, o meglio tante botte e poi metadone.
Le immagino tutte allineate ad un muro, l’esercito di scioppine che vanno a
reclamare una pera a qualche spacciatore con lo sguardo bieco. Poi arrivano a
casa, si chiudono nelle loro stanze arredate come quelle delle bambole e si
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preparano la peretta. Si fanno dei viaggi sensazionali in quelle loro camere
ben ammobiliate.
Ne conoscevo una che prendeva LSD prima di entrare in classe, alle superiori.
Altri invece amano praticare i loro acidi a spasso in bicicletta, in giro per il
paese, magari spacciandosi P.R. e rifilando qualche invito di qualche discoteca
alla moda. Ne hanno da pedalare prima che passi l’effetto, magari alle prime
luci dell’alba sono ancora in strada a pedalare e andando a casa a dormire non
chiudono occhio fino alla sera dopo. Poi di colpo crollano come pere marce e
magari dormono dalle otto della sera fino a mezzogiorno inoltrato, senza
battere ciglio.
Ma l’immagine di Betty tossica a spasso col gatto, mi resterà per lungo tempo
stampata in testa. E’ la cosa più buffa che potessi sentire quella sera. Ci sono
cose buffe, o apparentemente tali, che si incastonano nel mio cervello e lo
lasciano quando ormai è in fibrillazione.
Anche l’immagine del matto Thompson intento a fottere la questua, in un
confessionale. Lo fa con naturalezza, senza peccato ne rimorso, indossando
probabilmente i suoi eterni guanti arancio, poi si gira verso di me e versa le
monete sulla panca dove sono seduto. Tutto questo lo fa quasi sotto ipnosi,
come comandato da potenze invisibili. Poi si siede beato sulla panca accanto a
me e rivolge la sua attenzione all’omelia che il buon padre sta declamando,
con una vena gonfia alla tempia per la foga. Il buon padre si rivolge a noi, ladri
e farabutti, che abbiamo deciso di fottergli la questua. Sembra sul punto di
prendere un forcone ed impalarci, ma il sogno finisce e anche l’immagine del
matto Thompson intento a fottere la questua.
Come mi piacerebbe prendere tutti questi rinnegati alla vita e crearne un
libro, anzi non un libro soltanto, ma un capolavoro. Raccontare le loro paure,
le loro manie, i loro risentimenti, quello che odiano e che amano, la loro
pigrizia al posto di lavoro, il loro assoluto menefreghismo. Concentrei tutto
questo in cento o meno pagine sudate, con la certezza che il risultato
sarebbe un completo fiasco. Qualcosa di sbagliato perché non descriverebbe
soltanto quella gente, ma anche le loro anime, trafugate in qualche attimo di
lucidità o nel silenzio della cena serale seduti attorno a un tavolo.
Ho tempo a lanciarmi in quest’impresa. Ormai quello che ho imparato da loro,
da queste briose nullità, non lo scordero più. Ho notato tutto e oltre il tutto.
Ho visto che non muovono un dito più del necessario. Ora mi prude di fare
un’abbozzo su uno dei personaggi prescelti per il libro.
Il personaggio numero uno è un certo Gigi Ossi. Mi è venuta in mente l’idea del
libro mentre passavo davanti alla linea da taglio BT3, e ho visto Gigi che stava
controllando il pacco di lastre di vetro che aveva appena caricato. Aveva uno
stuzzicanti che gli pendeva a un’angolo della bocca e questo significava che
egli era già andato a far pranzo da un bel po’, bevendosi il consueto quartino
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di vino. Altri miei colleghi sostenevano che andava a mangiare prima degli
altri, cioè prima di mezzogiorno, così alla fine del pranzo non era obbligato a
offrire il caffè alle macchinette.
Gigi è un uomo molto energico, focoso, di quei tipi che non riescono mai a
star fermi, neanche nella pausa colazione, quando tutti gli altri
accomodavano i loro culi sulla lunga panca dello spogliatoio. Lui non si
sognava nemmeno di sedersi su quella panca. Preferiva girondolare per il
magazzino, con pane e formaggio ficcati in mano e col capo puntato verso le
varie linee da taglio per valutare se necessitavano di vetro. Era il mago del
taglio delle lastre. A volte tagliava a metà una lastra che intera misurava un
metro e mezzo per tre e se la portava a spasso per il magazzino fin quando
arrivava al cassone dove vengono depositati i rottami. Era anche il mago del
polistirolo. Non solo lo toglieva dalle file di carico ma lo sistemava impilato nei
carrettini, ripulendolo di nastro, isoterm o ogni altra cosa che era attaccata a
quelle liste di polistirolo. Anche durante la pausa mensa era estremamente
frettoloso, faceva due parole con il solito amico del turno, che era sempre
seduto vicino a lui, poi si alzava e usciva dalla mensa per tornare ai reparti di
produzione. Un giorno sono andato a mangiare in compagnia di Gigi e dopo
dieci minuti netti aveva spazzolato tutto quello che c’era nel vassoio davanti
a lui, vino compreso. Visto che io ero ancora a metà pranzo circa, mi ha detto
gentilmente che se volevo ancora rimanere potevo farlo. Lui è partito
sparato verso il lavoro che lo attendeva. Tipi come Gigi non trovano un lavoro
da fare, ma lo cercano essi stessi. Lui cercava ogni sorta di lavoro, come il
ripulire un pacco di vetro che aveva delle lastre rotte, oppure spazzare via i
rottami di vetro in ogni punto del magazzino lastre, anche negli antri più
nascosti, dove un qualsiasi fannullone non ci aveva mai neppure messo piede.
Un mio collega mi ha fatto notare che quando arrivava per cominciare il
secondo turno Gigi aveva sempre il fiato greve d’alcool. A volte il suo fiato
d’alcool l’ho sentito anch’io e la sua pancia prominente lo giustificava. Non si
fermava mai, né malattia né infortunio potevano fermarlo più di tanto. Una
volta che si era infortunato un piede sul lavoro, è rientrato dal periodo di
convalescenza con tre giorni di anticipo. Niente a che vedere con gli eterni
scansafatiche che lo circondavano, me conpreso. Altri al suo posto, scaduto il
periodo di infortunio, se lo sarebbero fatto prolungare dal medico fingendo
dolori immaginari. Ma lui no, la voglia di lavorare l’aveva nel sangue. Ogni
singola lira che la fabbrica gli versava se la guadagnava. Nessun dubbio su
questo. Poteva tranquillamente fare il lavoro di due persone, se non tre. E’
stato il mio maestro nell’utilizzo del muletto. Stando appresso a lui per otto
ore, alla fine avevo i piedi che mi fumavano. Spesso collaboravo con lui nella
raccolta di qualche rottame di vetro rotto sul pavimento del magazzino. Una
volta ho partecipato all’inventario annuale dei colli presenti in magazzino e
sono stato messo in coppia con lui. Devo dire che ho lavorato molto bene,
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quel giorno sembrava più tranquillo del solito, anche se aveva sempre
quell’eterna andatura accelerata semi zoppicante, per via di una vecchia
frattura alla rotula del ginocchio guarita male. Ora è andato in pensione e io
mi chiedo che cosa faccia tutto il giorno, visto l’energia e la vitalità che
dimostrava sul posto di lavoro. Sicuramente svolgerà un’attività che aiuti, in
parte, a soffocare questa vivacità. Sicuramente non se ne starà con le mani in
mano, su una panchina a leggere il giornale all’ombra di un platano. Neppure
lo vedo a pescare, un hobby troppo tranquillo e monotono per lui. Ora che
ripenso a lui lo vedo dietro l’angolo dell’ABS, che si affretta a raggiungere il
magazzino, la sera verso le 10, per darmi il cambio. E poi lo vedo nello
spogliatoio mentre si allaccia le scarpe appoggiandosi alla panca. Io mi siedo
sulla panca e lui si siede accanto a me e sta con le mani in mano, a
chiaccherare del più e del meno. Dal modo che tiene le mani incrociate si vede
che sta soffrendo per l’ozio forzato. Si strappa volontariamente dalla sedia e
va sulle linee a chiedere qualche informazione per la produzione.
Ora un sogno ricorrente. Sto passeggiando in un cimitero, sotto la pioggia
scrosciante. Vedo un vialetto incatramato di fresco circondato da piccoli pini
di un verde brillante. Si notano le striscie di catrame scuro e lucente spalmato
sul resto più opaco e sbiadito. La pioggia batte sulla mia testa e su una cupola
di vetro verde che oscura una cripta colma di morte. Mi fermo davanti a
quella tomba lugubre da incubo e cerco di intravedere attraverso il vetro le
tombe sottostanti. In quell’attimo mi sembra di aver vissuto in quel posto da
sempre, ogni spigolo, ogni muro di tomba mi è perfettamente noto. E’ come
se nei miei sogni tornassi sempre lì, poco prima di risvegliarmi. Noto in modo
sfocato e disturbato le foto sulle lapidi. Sono tutte facce di persone pazze,
noto la loro follia che sprizza dai loro occhi chiari, inpenetrabili e folli. Sono
ossessionato da questi volti e cerco di immaginarli in vita, nella loro vita.
Guardo l’anno della loro morte, 1946, 1959, sono morti tutti quanti da ormai
cinquant’anni. Mi sorprendo a cogitare sulle loro vite sotto la pioggia, ormai
sono zuppo dalla testa ai piedi. Proseguo il mio cammino nel cimitero e arrivo
in una tomba di famiglia, in un’angolo del cimitero. Ci si può avvicinare alle
lapidi e io lo faccio. Mentre mi avvicino ho una folgorazione. Vedo il matto
Thompson in piedi davanti a me con uno strano sguardo, con un buffo
cappelletto in testa che lo fa sembrare un marocchino. Sembra sul punto di
commettere una strage o di togliersi la vita. Non oso proferir parola.
Rimaniamo uno di fronte all’altro impalati, come due idioti. Poi mi allontano,
quasi scappo, sento il suo fiato dietro di me, ma è solo immaginazione. La
pioggia continua a scrosciare e dall’asfalto si levano folate di vapore, sembra
di esser immersi nella nebbia fino al collo. Thompson è ancora vicino alla
lapide dove l’ho lasciato, immobile. Sembra una statua a colori, ma in lui non
c’è vita. Mi volto per l’ultima volta per accertarmi che non mi segua. Ho il
120
terrore di trovarmelo dietro intento a saltarmi addosso per strozzarmi. Il suo
sguardo la diceva lunga, non era più il matto Thompson che credevo di
conoscere, ma una creatura terrificante, immonda, con sete di morte e di
rivalsa sul mondo. Non sembrava più l’uomo che sorpresi un giorno a
piangere, seduto sulla panca dello spogliatoio del magazzino, con lo sguardo
fisso davanti a se e le lacrime che gli lambivano le guance arrossate. C’era una
nuova scintilla che sprizzava dai suoi occhi, come lo sguardo di un idiota che
dopo avere subito ogni genere di umiliazione decida di vendicarsi. Questa è la
vera descrizione di lui in quel momento, in quel fuggevole istante in cui mi
voltai e lo vidi in faccia. Questo sguardo sarà il ricordo che avrò di lui quando
scomparirà dalla mia vita per sempre. Non ricorderò le nostre chiacchierate,
le nostre battute, ma solo i suoi occhi. I suoi occhi e tutti gli occhi dei morti
che ho sbirciato dalle foto delle lapidi. Occhi folli, come gli occhi di una donna
che vado sempre a visitare presso la sua tomba nel colombario del cimitero di
Racconigi. Uno sguardo pazzo, che mi fa raccapricciare, che la rende presente
e viva anche dopo decenni la sua presunta morte. E’ una donna circa sulla
settantina, con occhi chiari, azzurri forse, con la bocca leggermente storta e
il naso un po’ schiacciato. Io credo che la notte queste anime tormentate,
questi pazzi in vita tornito indietro dalle loro tombe e si allineano in a sorta di
lugubre processione e vadano a spasso in cerca del tempo in cui sono stati
vivi. Credo che le loro anime tormentate non riposino in pace nelle cripte, ma
che vaghino per il mondo portando con se il vangelo della disperazione e della
desolazione. Portano in giro il messaggio che la morte non è liberazione, ma
soltanto un prolungamento di ciò che si è stati in vita. Guardando con la coda
dell’occhio a volte, nelle notti nebbiose di novembre, mi sembra di scorgerli
nelle loro forme spettrali, rimbalzanti nei muri a penare emettendo un
terrificante urlo. Lo stesso urlo di un uomo che è appena stato assalito dal
suo assassino. Assassinii, strupri, incidenti, stragi. Tutte queste anime come
possono morire in pace e rimanere calme nelle loro bare? Hanno sete di
vendetta, vogliono trovar giustizia e escono a spasso per il mondo per
ricordare all’uomo vivente che il ricordo non si cancella, che le azioni
rimangono impregnate in eterno nei luoghi dove sono state compiute. E loro,
testimoni dei fatti, sfogano la loro rabbia e la loro ira con urla agghiaccianti,
come quelle che si sentono a volte nei canti tribali. Loro, i non più vivi e non
ancora morti, sono lì a testimoniare le vicende, per informarci che nulla verrà
dimenticato, che nessun colpevole la passerà liscia, mai.
Dopo esser sfuggito al matto Thompson entro in un altro settore del
cimitero. Qui ci sono tutte tombe nella terra. Alcune sono prive di lapide. C’è
soltanto un piccolo cartello di ferro tenuto in piedi da un’asticella di legno
scuro e marcio. Assistendo a questa scena sono colto da una profonda
tristezza. Questa improvvisa tristezza mi porta quasi a desiderare di
sporfondare anch’io nella sabbia e scomparire per sempre. Vivere tutta una
121
vita per finire sotto terra con solo un numero. Un 314 o 556. Mi sembra quasi
di rivedere questi cartelli, anche al buio nel mio letto, come un monito per
non montarmi la testa. Nessun nome, nessuna foto. Nessuno si ricorderà di
loro perché quelli che forse un tempo li ricordavano sono anch’essi sepolti,
magari anche con un solo numero che li identifica. Cosa diventiamo dopo
morti? Un numero su un elenco come quando eravamo vivi e operai dentro a
grandi fabbriche? Un solo numero, per lo più sbiadito, reso quasi illeggibile
dalle intemperie. Il corpo sepolto nella terra, con addosso i suoi abiti migliori,
è stato da tempo corroso dai vermi e dalla pioggia. Spazzato via dalle
coscienze e dal mondo. Inghiottito dalla terra come una grande bocca che ha
sete di morti e non risorti. Che ne sappiamo della resurrezione? Certo
possiamo crederci, ma questo non ci assicura sul nostro destino. Non siamo
certi della fine che faremo, quando chiuderemo gli occhi. Passiamo la vita a
chiederci come sarà la morte e quando ci coglie capiamo di averla sprecata, la
vita. La morte forse è soltanto la fine e basta. Un libro che finisce e che
nessun mai più aprirà mai. E’ crucciante sorprendersi ateo e concepire idee
simili.
Quando ero piccolo ero angosciato da questo, pensavo che se quando
moriamo spariamo per sempre, allora è come se non fossimo mai vissuti.
Oltre tutto non possiamo neppure disperarci per essere spariti perché non ne
abbiamo coscienza. Non ci siamo più e basta. Immaginavo la mia vita come un
cammino che finisce e poi si annulla. Dopo buio, anzi neanche buio, il buio
sarebbe già qualcosa. Solo il vuoto. Una voragine che mi inghiotte e non
rimane traccia di me. Questo mi ha angosciato per lungo tempo. Poi ho
scoperto la fede, e insieme agli altri fessi mi sono abbandonato ad essa. Ho
iniziato a credere al paradiso, un posto sempre assolato dove mi sarei unito
alle persone care morte conosciute in vita. Quindi la mia angoscia per la
sparizione eterna è cessata. Poi mi è venuto un dubbio: ma perché soltanto
noi uomini andiamo in paradiso e tutti gli altri esseri viventi niente? Una
pianta non ha diritto come noi ad andare in cielo? Un cane fedele non è
meritevole di scorrazzare eternamente in un prato? Chi siamo noi per avere
questo privilegio? Noi siamo i distruttori, siamo coloro che provocano
l’estinzione delle specie. Perché andiamo in paradiso o all’inferno allora? Che
meriti abbiamo? Abbiamo il peso della coscienza che ci ammazza. La coscienza
ci ha fornito la consapevolezza della morte, quindi la esorciziamo. Un cane
penso che non sappia che un giorno dovrà morire. E noi sì, noi lo sappiamo e
allora ci edifichiamo una dimora eterna per vivere tranquilli con le nostre
angosce quotidiane. E’ come un serpente che si morde la coda, coscienza e
immortalità, scritto a lettere scarlatte. La coscienza ha creato l’immortalità. E
l’immortalità vuol essere un prolungamento infinito della coscienza.
La coscienza ci ha dato la baldanza di crederci i padroni del mondo. Ci ha illusi
di essere esseri superiori. I dinosauri forse, per la loro mole e il loro
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predominio, si credevano superiori e si sono estinti. Noi non aspettiamo i
cataclismi, li andiamo a cercare. Li creiamo in laboratorio per mezzo di
macchine sofisticate, li andiamo a cercare nella profondità dell’atomo. E non
basta questo. Ci facciamo la guerra. E in questo siamo superiori, lo ammetto.
Nessun’altra specie ha un così enorme potere distruttivo. Noi, se volessimo,
potremmo distruggere il mondo in un giorno. Invece lo facciamo goccia a
goccia, lentamente. Tanto lenti che neppure ce ne accorgiamo. Se ne
accorgono sempre le generazioni a venire. Loro traggono le somme e
scoprono che la tal foresta è stata dimezzata o che il buco dell’ozono non è
solo un buco, ma una voragine. Deprediamo, stupriamo, estraiamo tutto il
possibile. E poi abbandoniamo l’area sterile e ne cerchiamo un’altra. Siamo
virus a dimensione umana. Siamo la maledizione peggiore che è finita sulla
Terra. Che cosa ha fatto la coscienza? Che cosa ha provocato l’intelligenza?
Solo morte, una morte globale che coinvolge anche gli altri esseri viventi.
Meritiamo forse il paradiso?
Il primo Maggio, festa dei lavoratori. Sono stato strappato dal sonno molto
presto. Erano le sette del mio orologio avanti di venti minuti. Ho sentito mio
padre che mi stava toccando un braccio e parlando a bassa voce mi stava
chiedendo se sarei andato al mare con lui. Io ho guardato l’orologio e gli ho
chiesto quasi in coma, quasi incredulo di essere stato svegliato a quell’ora
sacrilega, a che ora voleva partire. Lui ha mosso le labbra ed è uscita fuori la
parola otto. Io, quasi automaticamente, mi sono girato dall’altra parte per
riprendere il sonno appena stuprato. Ma non sono più riuscito a chiudere
occhio. Ho contato mentalmente quanto tempo avrei avuto ancora a
disposizione per stare a letto. Poco più di un’ora. L’ora è giunta e mio padre si
è ripresentato, leggermente innervosito anche, e mi ha quasi ordinato di
scendere. Sono sceso dal mio giaciglio con la mente simile a quella di un
frebbricitante. Urtavo dappertutto come un’ubriaco. Ma sono arrivato sano e
salvo in bagno e mi sono seduto sulla tazza del cesso per fumare in santa
pace una sigaretta. Ma non c’era pace intorno a me, appena tolti i tappi, che
indosso sempre prima di andare a dormire, ho sentito il latrare di un cane del
mio vicino di casa, sempre il solito rompicoglioni che mi toglie ore di sonno la
mattina presto, quando il letto comincia a farsi calduccio e per nulla al mondo
vorrei abbandonarlo. Ero in piedi davanti alla finestra del bagno e osservavo il
cane che abbaiava. Nella mia mente si stavano aprendo cassetti e ogni
cassetto conteneva un rimedio per far tacere per sempre quella maledetta
bestia. Spugna fritta servita tiepida, polpette di carne condite con scaglie di
vetro o semplicemente una precisa carabina con cui sparargli e fargli saltare
la testa. Poi mi sono volontariamente strappato da queste fantasticherie e
ho cominciato a radermi. Ho dato due o tre rasoiate alla barba vecchia di una
settimana e ho capito che la lametta che stavo usando era esausta. Ne ho
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presa un’altra e dalla prima rasoiata con la nuova lametta ho capito che mi
sarei rasato molto velocemente. Questa tagliava alla perfezione e senza
provocare grossi taglietti per giunta. Finito il rito della barba sono tornato in
camera mia e ho frugato negli armadi alla ricerca di qualcosa da mettere. Ho
optato per un paio di jeans chiari e una maglia arancione, e sotto la maglia
una maglietta color mattone. Sono sceso al piano inferiore e ho trovato mio
padre già pronto per partire da chissà quanto tempo. Ho preso un giobbotto,
nel caso di un improvviso cambio di clima provocato da una galoppante
glaciazione. Il tempo era incerto, sembrava che da un momento all’altro il
cielo si sarebbe messo a piangere. Ma non lo ha fatto, almeno in nostra
presenza, forse si vergognava quel giorno di piangere in pubblico. Forse è
andato a sfogarsi in alta montagna, dove non c’era nessuno che lo vedeva.
Il cancello del vialetto d’ingresso si è aperto al comando di un pulsante e ci
siamo trovati in strada. Erano esattamente le otto e un quarto.
Ci siamo diretti verso il distributore Esso per mettere qualche litro di benzina
nella macchina. Abbiamo raggiunto in un battibaleno, data la velocità di
crociera di mio padre sempre molto sostenuta, il casello dell’autostrada di
Marene. La rampa di lancio ci ha sparati nella A6. Dopo qualche decina di
chilometro abbiamo deciso di fermarci ad un’autogrill per fare colazione. Il
bar era affollatissimo. Mio padre si è messo in coda per avere gli scontrini per
le colazioni ed io ho girato a zonzo per l’autogrill ispezionando accuratamente
tutte le incredibili sciocchezze che offriva. Ho preso un pessimo cappuccino
con troppo caffè ed allungato ad acqua e una squisita brioches ancora calda,
tutto fatto andar giù da una spremuta d’arancia. Fuori dall’autogrill, ormai
con la pancia piena, ho acceso una sigaretta e poi mi sono accorto di avere
un’improvvisa crisi di colica. Allora sono andato ad assecondare la crisi al
cesso. Dopo la seduta in bagno mi sentivo lo stomaco sconquassato. Siamo
risaliti in auto e mio padre ha giudato spedito fino all’arivo al casello di
Varazze. Un paio di curve a picco sul mare e ci siamo ritrovati nel centro del
paese, davanti al municipio nientemeno. Una banda cittadina stava scaldando
i propri strumenti con qualche inno di ricorrenza. Roba da farmi vomitare.
Non la musica, la musica era tranquillante e quasi terapeutica. Quello che mi
ha lasciato allibito è l’occasione, il primo maggio, presa per vomitarsi addosso
ogni genere di insulti, al di qua e al di là delle varie fazioni. Abbiamo lasciato la
banda, che se ne stava immobile davanti al municipio come in attesa di
istruzioni. Ci siamo diretti a piedi verso il lungomare e mio padre ha sentito
subito la necessità di andare a prendersi un caffè. Dopo il caffè ci siamo
intrufolati in un’agenzia immobiliare, per valutare la possibità di comprare
casa in quel paese. Ma i prezzi erano nient’affatto abbordabili e allora
abbiamo detto “Grazie e arrivederci”. Abbiamo proseguito il cammino e ci
siamo immersi nel budello. In una vetrina di un’enoteca ho visto una bottiglia
di Pigato, un vino che avevo largamente bevuto durante un precedente
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soggiorno in Liguria, precisamente a Laigueglia. Mio padre stava davanti a me
e non ha visto che mi ero fermato e quindi ho lasciato la vetrina e l’ho
raggiunto. Siamo arrivati in una piazzola dove sorgeva un’altra agenzia e
allora mio padre gli ha fatto visita. Io ho aspettato fuori, seduto
pacificamente su una panchina e mi sono fumato una sigaretta. Quando è
uscito dall’agenzia ci siamo diretti verso l’enoteca e ho comprato tre bottiglie
di vino, ognuna delle quali proveniente da una diversa cantina. Tre bottiglie
confezionate in una scatola in finto legno. Con il mio investimento in mano
siamo tornati alla macchina e abbiamo lasciato il paese. Siamo andati al paese
vicino, Cogoleto. E qui abbiamo trovato il mercato. Abbiamo parcheggiato la
macchina un po’ lontano dal centro e poi siamo andati tra le bancarelle a
curiosare. Abbiamo trovato, in riva al mare, un ristorantino e siamo entrati
per prenotarci pranzo. Poi siamo ancora andati in cerca di agenzie. Ne
abbiamo trovata una aperta nel budello del paese. Mio padre è entrato e io
sono stato fuori a contemplare una stupenda casa con una lunga scalinata di
pietra e circondata di fiori multicolore. Se avessi avuto con me la macchina
digitale avrei fatto uno scatto per poi trasportare sulla tela quella pittorica
casa. Mentre attendevo ho fatto quattro passi e ho trovato un’atelier di un
pittore, un lungo corridoio stretto dove erano appese le sue opere. E lui, il
pittore, era in fondo della sua tana e si stava sbizzarrendo a creare una nuova
tela. Ho sbirciato per alcuni attimi il suo lavoro in corso e poi sono uscito.
Quando finalmente è uscito dall’agenzia, mio padre mi ha informato che in
quel posto, come in tutta la Liguria del resto, i prezzi per comprare casa
erano proibitivi, quindi bisognava puntare sulla Costa Azzurra. Aveva con se
un volantino preso in agenzia dove erano elencati autentici affari. Prezzi
abbordabili anche da un giovane operaio come me. Ci siamo seduti su una
panchina nella piazza di Cogoleto dov’è stato eretto un monumento alla
memoria di Cristoforo Colombo. Mio padre ha telefonato a casa per sentire
mia madre e informarla degli affari che si possono fare in Costa Azzurra.
Dopo qualche minuto ci siamo diretti verso il ristorante, con un certo
languorino. Appena seduti a tavola un cameriere ci ha portato l’aperitivo con
spiedini di salame e fagiolini. Poi è arrivato il menù ed io ho ordinato un misto
di pesce affumicato e un fritto di mare, tutto annaffiato da buona birra.
Dopo pranzo ero sazio e appagato con il mondo. Avevamo soltanto bisogno di
una breve passeggiata. Ci siamo diretti verso il molo e ci siamo spinti fino alla
fine. Vedevo mio padre che leggeva le scritte sui massi lasciate da altri. Ho
volto il mio sguardo verso il mare e ho impresso nella memoria la sua
immagine per trarne una marina a tempera.
Dopo siamo tornati indietro e siamo passati su un ponte. Sotto, nel
fiumiciattolo che sboccava nel mare, c’era una giocosa famiglia di anatre con
anatroccoli che cercavano di mangiare le briciole lanciate da qualche sadico,
sul ponte accanto a noi. Sono stato per qualche tempo ad osservare le loro
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evoluzioni, i loro starnazzamenti smorzati. Poi abbiamo ripreso a camminare
fino ad un’altra piazzola dove c’erano alcuni bambini che giocavano a tedesca.
Ci siamo accomodati su una panchina e io mi sono messo ad osservare le
persone che sfilavano sulla passeggiata, con i loro passeggini, i tagli di capelli
all’ultima moda, le loro pance gravide, i loro soliti sopetti di tradimento, le
loro noie o il loro disperato tentativo di raggiungere la pace dei sensi. Tutto
questo lo vedevo nelle loro tetre facce, nei loro musi lunghi, nelle loro menti
invase dalle preoccupazioni. Nessun sorriso, nessuna risata improvvisa. Sono
trasalito e ci siamo avviati verso la macchina per lasciare il paese. Abbiamo
percorso la via Aurelia e siamo arrivati ad Albisola e dopo una breve sosta
abbiamo raggiunto Savona. Dopo un rapido tour al margine marittimo della
città siamo rientrati in autostrada per prendere la via di casa. Ci siamo ancora
fermati dieci minuti in un autogrill per bere una bibita fresca e poi siamo
arrivati a casa, sorprendendo mia madre a dormire beata sul sofà della
cucina.
Ora voglio narrare un’altra fobia ricorrente. La povertà. Quando mi sento
avvilito e triste mi immagino spesso in una condizione di estrema povertà,
costretto a rovistare nella spazzatura in cerca di qualcosa, costretto ad
allungare la mano per ricevere qualcosa, magari una banconota da cinque o
solo uno stronzo secco di cane. Mi sentirei comunque pronto ad allungare la
mano, anche fingendo di essere cieco o sordo. Anche fingendo di essere in
pericolo di vita. Quello che mi importerebbe è ricevere qualcosa, a qualsiasi
costo, grattando alle porte come un cane affamato, battendo debolmente
come un gatto che vuole entrare al caldo. Mi immagino vestito alla bella
meglio, in vecchi abiti consunti e sporchi, con la barba lunga e il fiato cattivo.
Con gli occhi cisposi e la faccia unta di sporco. Mi immagino sul marciapiede di
una stazione qualunque, con un borsone di nylon pieno di nulla, con lo
stomaco vuoto come un conto in banca in rosso. In quella situazione allungo
la mano sporca, con le unghie lunghe e sporche, e pronuncio qualche sudicia
parola ai passanti che si affrettano a vivere le loro vite. In molte occasioni mi
sono trovato nella situazione opposta, io passante che scorgo un barbone
che tende la mano. Confesso che quando ho offerto qualcosa, l’ho fatto con
schifo come per togliermi un sudicio peso dalla coscienza. Non l’ho mai fatto
per il diretto interessato, ma per sentirmi bene con me stesso, per
dimostrare a me stesso di riuscire a compiere una buona azione. Penso
comunque di essermi comportato come la maggior parte dei miei simili. Il
barbone chiede i soldi e tu per levartelo di torno frughi nelle tue tasche e gli
metti in mano qualche moneta.
Ora sono dall’altra parte, tendo la mano e mi aspetto di ricevere qualcosa. Mi
aspetto scioccamente di ricevere come io ho donato. La mia pancia brontola
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per la fame e mi costringe ad essere insistente. Vedo boriose signore vestite
con pellicce sfarzose tirare dritto senza degnarmi di un solo sguardo. Hanno
paura di corrompersi l’anima incrociando il mio sguardo. Io non dico nulla,
continuo imperterrito a tendere la mano. La tendo finché, nella nebbia,
quando è già quasi scesa la sera, sento qualcosa cadere nel palmo. Guardo nel
palmo e vedo un bottone, un bottone verde scuro semicorroso. Provo a
mangiarlo ma è solo un bottone. Tendo ancora la mano e questa volta un
facoltoso milionario in sciarpa e cappello a cilindro estrae il portafogli, ma
non ne trae banconote. Mi porge un biglietto da visita. E’ una mensa dei
poveri. Il biglietto da visita reca scritto: Mensa dei poveri Pastorello d’Assisi,
via Dante 14, Torino. E sotto ancora orario 11 – 14 e 17- 20. Butto un’occhio
al polso per guardare l’ora ma poi ricordo, guardando il nudo braccio, di non
possedere nessun orologio. Guardo l’orologio su un palazzo di una banca. Sono
solo le 19 e 20. Se mi avvio subito ce la posso fare. Posso sedermi ai tavoli
della mensa e godermi una buona cena. Mentre cammino verso la mensa
continuo imperterrito nella mia attività di mendicante. Riesco a scucire a
qualcuno qualche paio di euro, mai abbastanza per me. Qualcuno dovrebbe
sbagliarsi e mollarmi una banconota da 50. Qualche ragazzotto figlio di papà
dovrebbe intenerirsi e lasciarmi un quarto della sua paghetta settimanale. Ma
il miracolo non avviene. Arrivo in mensa e mi metto educatamente in coda.
Ho un’espressione di estrema sobrietà in volto, di compostezza e di bonarietà.
Ricevo le mestolate di cibo nel vassoio come se mi stessero dando oro a 24
carati. Mi avvio verso un tavolo vuoto con l’acquolina in bocca. In poco tempo
faccio fuori tutto, anche le briciole cadute per sbaglio sul vassoio. Sto per
qualche tempo seduto a fissare il vassoio vuoto e a godermi il caldo della
mensa. Vedo una lunga fila di derelitti che come me, si stanno mettendo in
coda diligentemente. C’è un assoluto contegno nei loro volti, un contegno
che mi fa quasi piangere. Guardando nei loro occhi e come se contemplassi
me stesso e questo mi rende triste, assolutamente angosciato. Esco con gli
occhi lucidi dalla mensa e mi incammino per la strada.
Questa scena l’ho già rivissuta migliaia di volte, in sogno. Sempre le stesse
facce, i soliti visi consunti, le solite ricche boriose signore che mi rispondono
picche. Sono consapevole del fatto che se al lavoro mi tolgono la sedia da
sotto il culo, divento un barbone nel giro di un’anno. Non ho un mestiere e
poca voglia di lavorare. Chissà quanta gente al mondo c’è con i miei pari
requisiti. Nullafacenti e nulla tenenti. Senza arte ne parte. Ingranaggi di una
grande macchina, che possono essere sostituiti in ogni momento, per una
crisi qualunque, per una lieve flessione di mercato. Abbandonato a me stesso
mi ridurrei automaticamente a derelitto, andrei sistematicamente a
mendicare. Non mi abbasserei mai a rubare, non ne ho il coraggio e sarei
troppo goffo per farlo, verrei subito acciuffato. Quindi non mi resterebbe
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che mendicare. Mendicare e dormire chissà dove avvolto dentro a scatoloni
vecchi e puzzolenti.
Epilogo
Un triste sogno destinato a diventare realtà. Posso mollare io stesso il lavoro,
magari un martedì mattina, quando in magazzino c’è un casino della madonna
da sbrigare. Io entro tranquillo nello spogliatoio e inizio ad svuotare com
calma l’armadietto, senza tralasciare neppure una briciola. Poi vado su dal
capo e gli dico solo tre parole “Me ne vado”, con lo zaino colmo di roba stretto
a un braccio e un sorriso beffardo. Uscito dalla fabbrica potrei
immediatamente cominciare il mio nuovo lavoro alla luce del sole. Mi installo
in un bar di Saluzzo o Fossano, apro il mio portatile e inizio a buttare giù
pensieri, come del resto ho sempre fatto. Comincio con il raccontare che
impressione mi ha fatto mollare in quattro e quattr’otto il lavoro, senza
avvertire con otto giorni di anticipo. Sicuramente mi sorprenderei a ridere,
una risata serena, una di quelle che facevo da bambino, ma che io, il mondo e
la realtà hanno tacitato. Voglio aggrapparmi a questa risata e risalire al
galoppo della mia vita, senza droghe sintetiche o pillole del buon umore.
Voglio avere la giornata a mia completa disposizione. Ogni secondo in mano
mia, da sfruttare. E quindi, in queste condizioni, potrei iniziare a girare tra gli
editori per far leggere i miei scritti. Trovare il coraggio di porgere a qualcuno
il malloppo di roba che ho scritto e non farmi intimorire dalle loro critiche o
dalle loro beffarde risate. Se da un editore vedo che la situazione prende una
brutta piega allora lo mollo e vado da un altro, finche ne trovo uno che
apprezzi questa roba e che reciti le parole magiche “Va bene, la
pubblicheremo.”
Se mi sentissi dire queste parole andrei sistematicamente a festeggiare.
Chiamerei i vecchi amici e gli direi: “Ragazzi, Paolo è risorto, è tornato tra voi!”.
E si inizierebbe una maratona bevitoria lunga una notte. In un pub fumoso,
forse lo stesso di mille sere passate a fissare una birra media corretta a
whisky.
Sono perfettamente cosciente che questo cambiamento improvviso, il
licenziamento dal lavoro insomma, farebbe perdere la fiducia che hanno i miei
genitori nei miei confronti. Lo so che non basta dir loro: “Credete in me”. Non
basterebbe questo, mi prenderebbero per pazzo. Penserebbero:”Paolo questa
volta ha perso completamente la ragione”. Non riuscirei a sopportare il loro
sguardo di commiserazione, lo sguardo con cui si guarda un bambino
capriccioso che voglia fare il salto più lungo della gamba. A questo punto io
risponderei che non sono pazzo, che sono sicuro di quello che faccio. Gli
mostrerei le mie scartofie, una mole talmente vasta di scritti che gli ci
vorrebbero settimane a leggerle. Dimostrerei che non sto partendo da zero,
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ma che ho alle mie spalle molto materiale. Due libri e innumerevoli poesie.
Tanto per cominciare. Poi la serenità mi spingerà sicuramente a scrivere
dell’altro. Mi piace immaginarmi in un cafè parigino con il portatile appoggiato
al tavolino intento a buttare giù parole. Parole su parole. Con un assegno per i
diritti d’autore da delapidare in tasca e molta serenità. So per certo che
cambiare aria per un po’ mi farà soltanto bene. Qui ormai sono come un
passero impagliato, sono un pianista con una rara malattia alle mani, qui mi
sento in trappola. Non riesco a sfogare appieno le mie idee. Non ho molte
ispirazioni. Devo vivere per trovare sane ispirazioni, per sentire ancora quel
groppo in gola che ti prende quando stai per creare qualcosa. Quando senti di
voler scrivere ad ogni costo qualcosa e nessuno può impedirtelo. Voglio
riprovare la sensazione di gioia che ho avuto quando ho iniziato il mio primo
libro. Vidi la pagina bianca del documento word che avevo aperto e sentivo la
necessità, anzi l’obbligo di riempirla. Avevo qualcosa in mente da dire e lo
volevo esprimere meglio che potevo, soppesando ogni parola, accarezzandola
e poi imprimerla eternamente sulla carta. Forse questa è l’eternità che sto
cercando: la parola scritta. La parola scritta supera le bufere e le catastrofi.
Supera gli uomini e le masse. Parole semplici, concetti semplice che possano
essere capiti anche dai bambini, che possano essere intesi anche dall’ultimo
degli imbecilli. E’ una bella sensazione avere un’idea da esternare e riuscire a
farlo. Riuscire a scrivere quasi precisamente quello che si era
precedentemente pensato. Far maturare un’idea e trasformarla in prosa.
Niente più poesia, la poesia è riduttiva, non riesce a colmare la mia voglia di
dire. La poesia è stata per me una nave scuola. Ho imparato a esprimere
concetti profondi in pochi versi. Ora voglio ampliare questi concetti per
creare libri. I libri rispetto alle poesie sono orizzonti allargati. Ora sono libero
di dire quello che voglio, come voglio e nella forma che voglio. Penso di averlo
già detto, ma qui, davanti alla tastiera mi sento il re del mondo, posso parlare
di tutto e di più, posso permettermi di criticare, ma innanzitutto voglio
descrivere, voglio descrivere al mondo quella stretta fessura che si chiama
realtà. La mia realtà, il mio mondo intimo, inconoscibile e inesprimibile. Voglio
riuscire a tradurlo sotto forma di parole. Tutto quello che ho scritto finora e
che penso di scrivere in seguito sarà soltanto il mio mondo, il mondo come lo
intendo io, il mio punto di vista con cui sbircio il mondo. E già per questo
motivo questi libri saranno unici. Ma tutti i libri sono unici. Ognuno racconta
una storia, narra una favola. Sono tutti surrogati del mondo dell’autore. Io
sono un’autore, uno tra tanti, milioni credo. Siamo tutti riuniti per tentare di
raccontare al mondo il nostro intimo. Cerchiamo di scandagliarci il cervello
per offrire al mondo un’altra realtà, la nostra realtà sulle cose.
Sento l’estate che si avvicina con i suoi odori, primo tra tutti, l’odore del
fieno. Quant’è buono quest’odore, sarei disposto a dormire in un letto fatto
di fieno e lasciarmi avvolgere dalla sua aroma e venirne cullato teneramente.
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Prenderei potenti boccate per addormentarmi lietamente e fare un sonno
come quando ero bambino, uno di quei sonni profondi che però vengono
interrotti da un nonnulla, anche da una sola mosca che passa ronzando piano.
Ora serenamente, con lo sguardo soddisfatto per ciò che ho fatto, mi guardo
indietro e non penso al mondo o a Dio o a chissà cosa, penso a qualcosa che
trascenda da tutto questo. Penso a me stesso.
FINE
Racconigi, settembre 2002 - maggio 2003
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