IL MERCATO DEL LAVORO NELL`ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

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IL MERCATO DEL LAVORO NELL`ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE
APPROFONDIMENTI 1
IL MERCATO DEL LAVORO NELL’ERA
DELLA GLOBALIZZAZIONE
MATERIE: Economia politica (Classe 4a IT IGEA, IP Economico gestionale)
Come cambia il “fattore lavoro” nell’epoca della globalizzazione? Fenomeni
quali la delocalizzazione produttiva e la frammentazione della dimensione
delle imprese producono effetti negativi sulle condizioni lavorative: il lavoro
è divenuto più precario, meno garantito, fonte di maggiore usura psicologica.
Come uscire da questa difficile situazione che interessa anche il nostro Paese? Occorrono riforme strutturali in materia di ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro tali da realizzare un efficace welfare to work.
Premessa. La scena mondiale, come è sotto gli occhi
di tutti, è stata attraversata, negli ultimi decenni, da un
processo di crescente, massiccia e diffusa “interazione”
sia sotto il profilo strettamente economico, sia sul piano
sociale, culturale, tecnologico, della comunicazione. Questo processo irreversibile, che ha interessato a vario titolo
e con diversa intensità tanto i Paesi industrializzati quanto quelli “emergenti”, quelli in via di sviluppo e persino
i Paesi ancora endemicamente arretrati, è stato chiamato
globalizzazione (o, più raramente, “mondializzazione”).
Esula dai limiti del presente lavoro un’analisi approfondita di tale processo, ma ci sembra opportuno soffermarci su
alcuni salienti aspetti di esso, per comprendere (o “tentare” di farlo) come è mutato, in conseguenza, il mercato del
lavoro – sia per ciò che attiene al contesto internazionale,
sia nello specifico dell’Italia – e quali prospettive, in merito, si hanno di fronte per l’immediato futuro.
diverse società, e tuttavia ha determinato (e non manca
occasione, anche nei più recenti sviluppi dell’economia
mondiale, di constatarlo) non pochi “effetti collaterali”, al
punto che molti studiosi auspicano una strategia, anch’essa necessariamente “mondializzata”, di monitoraggio e di
controllo (o, se si preferisce, di “dominio”) sui meccanismi di fondo in cui esso si articola. Come ha di recente sottolineato, a questo riguardo, l’economista indiano Jagdish
Bhagwati (che pure è uno strenuo sostenitore del libero
mercato), «la globalizzazione è una buona cosa, ma non
abbastanza».
di Fabio Tittarelli
Il “villaggio globale”. Secondo una delle molte
definizioni coniate al riguardo, per globalizzazione si
intenderebbe il fenomeno attraverso il quale l’economia
internazionale e le economie nazionali tendono a integrarsi sempre più, arrivando alla creazione di un mercato
unico mondiale. Tuttavia, come è stato da molti analisti
sottolineato, appare riduttivo confinare la globalizzazione
nell’ambito della sola sfera economica. Essa, infatti, non
ha prodotto – e non sta producendo – soltanto la trasformazione delle relazioni economiche e dell’organizzazione
produttiva di ogni società, ma interessa sempre più le relazioni sociali, familiari e così via: in sintesi, secondo la
felice espressione dell’economista Karl Polanyi, coniata oltre mezzo secolo fa, la globalizzazione tende a determinare «una grande trasformazione della soggettività
umana». Per questo si parla anche di “villaggio globale”,
a indicare appunto che il mondo è oggi “più piccolo”, le
società sono assai più contigue rispetto al passato, la comunicazione tra esse è costante e influenza ampiamente le
scelte, gli orientamenti, le decisioni, siano esse assunte dai
Governi, dai centri del potere economico, dalle istituzioni
politiche e amministrative o dalle singole persone.
Ma, come vedremo tra breve, il processo di globalizzazione non è, per così dire, tutto rose e fiori: esso sta certamente producendo un balzo significativo nell’evoluzione delle
Il “fattore lavoro” nell’era della globalizzazione. L’ABC della scienza economica ci insegna che
il lavoro è uno dei “fattori della produzione”, e coloro che
lo svolgono (la “forza-lavoro”) sono oggi coinvolti, al pari
dei capitali e delle merci, nel processo di globalizzazione.
Ma in che modo il lavoro umano è interessato concretamente da questo fenomeno? Be’, qui troviamo una prima
“anomalia” della globalizzazione: perché mentre è evidente a tutti che essa ha per effetto una più rapida circolazione
delle merci e dei capitali (soprattutto di questi ultimi, attraverso l’informatizzazione, che ha ridotto drasticamente
la loro “trasmissione fisica” e praticamente azzerato i tempi di trasferimento dei relativi valori), assai meno “fluida”
è la circolazione delle persone, e segnatamente di quelle
che si muovono da un contesto a un altro alla ricerca di un
lavoro. Insomma, mentre la libera circolazione di merci e
capitali viene universalmente considerata un fattore propulsivo per lo sviluppo e si ritiene, per lo più, che ad essa
non possa (o debba) essere posto alcun vincolo, la sola
“merce” alla quale, invece, si pongono ostacoli alla libertà di trasferimento è proprio la forza-lavoro. Un esempio
tra tutti: dal 1994 è entrato in vigore, tra gli Stati Uniti, il
Canada e il Messico, un accordo di libero scambio chiamato Nafta (North America Free Trade Agreement), che
prevede la piena mobilità delle merci e dei capitali fra i tre
Paesi interessati. Peraltro, restano fermi i vincoli, in particolare tra Usa e Messico, all’ingresso legale dei cittadini
messicani in territorio statunitense, e il lungo confine costituito da una sorta di continuo muro tra i due Stati viene
giornalmente “scavalcato” – illegalmente – da centinaia
di migranti in cerca di lavoro. Molti di essi riescono a en-
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trare clandestinamente negli Stati Uniti, iniziando così un
percorso di difficile e rischioso inserimento nella società nordamericana, ma la maggior parte sono respinti alle
frontiere, e non di rado i loro tentativi sono repressi con le
armi (il numero delle vittime è andato costantemente aumentando negli anni: secondo fonti “ufficiose” sarebbero
state 100 nel 2000, 102 nel 2001, 145 nel 2002, 151 nel
2003, 175 nel 2004 e negli anni più recenti assommerebbero a diverse centinaia).
La ragione di questa “anomalia” è, in realtà, semplice: a
dispetto di quanto asserito dagli economisti neoclassici, il
lavoro non è un “fattore” come gli altri: mentre attraverso
una decisione degli interessati si può ridurre o interrompere un flusso di merci o di capitali, così come rapidamente
è possibile (e sufficientemente agevole) spostare merci e
capitali da un’area a un’altra in funzione di contingenti
esigenze, non si può fermare, ridurre o, al contrario, aumentare il “flusso” di forza-lavoro a piacimento, magari
premendo un bottone (si pensi al trasferimento on-line
dei capitali finanziari) o imponendo/rimuovendo un dazio
all’importazione come avviene per le merci. In effetti, la
circolazione della forza-lavoro è stata, ormai da decenni,
ampiamente regolamentata in tutti i Paesi industrializzati (ossia nei Paesi di immigrazione), e in molti casi ciò
sta provocando forti tensioni sociali, poiché il flusso di
persone in cerca di lavoro provenienti dai Paesi a economia arretrata non si è, nel frattempo, arrestato, dando così
luogo al crescente fenomeno delle migrazioni clandestine
che, come vedremo tra breve, incidono sensibilmente sulla “questione lavoro”.
La tendenza alla delocalizzazione produttiva. Uno degli aspetti più significativi (e “destabilizzan-
ti” per i lavoratori) della globalizzazione è la tendenza alla
delocalizzazione della produzione materiale. La maggiore facilità e l’assenza di vincoli alla circolazione di merci
e capitali comporta, come imprescindibile corollario, la
possibilità di spostare produzioni da un luogo a un altro
(da un Paese a un altro) alla ricerca del migliore rendimento del capitale e, di conseguenza, di maggiori profitti
imprenditoriali. In sostanza, mentre sino al recente passato solo le grandi multinazionali (le “transnazionali”) godevano dell’indubbio vantaggio di poter impiantare filiali
in vari Paesi in funzione dei minori costi di produzione,
attualmente questo processo si sta diffondendo a macchia
d’olio, e anche medie aziende (e persino piccole imprese)
possono “delocalizzare”, sia spostando in altre aree singoli segmenti della catena produttiva, sia trasferendo l’intero processo e “chiudendo” (o riducendo drasticamente)
la produzione nazionale. Ciò è il risultato del divario tra
i costi di produzione in contesti geo-economici diversi, e
segnatamente tra i costi del lavoro. In molte economie
poco sviluppate, infatti, tali oneri risultano assai più bassi
di quelli dei Paesi industrializzati: i salari pagati ai lavo-
ratori sono decisamente inferiori, l’orario di lavoro è, in
genere, più lungo a causa della carenza di legislazioni a
tutela dei lavoratori, il livello di sindacalizzazione è basso
o pressoché inesistente (in molti Paesi è persino vietata
l’adesione a organizzazioni sindacali).
D’altra parte, il differenziale esistente su scala internazionale in materia di tutela della condizione lavorativa (retribuzioni, orari e ritmi di lavoro, sicurezza ecc.) sembra
sospingere anche le istituzioni internazionali a “cavalcare” la discriminazione anziché porre al centro della loro
agenda un piano per il suo ridimensionamento. Ci sembra
utile citare, al riguardo, una riflessione dell’ex Segretario
generale della Cgil Guglielmo Epifani, contenuto in un
articolo scritto nel giugno 2008 quale prefazione al Rapporto sui Diritti Globali 2008: «Emblematiche… sono alcune sentenze della Corte dell’Aja, tra cui spicca quella
che afferma la facoltà degli imprenditori di applicare le
normative di tutela dei lavoratori a prescindere dal Paese in cui opera effettivamente l’azienda. Da ciò discende
la possibilità per gli industriali di adottare il sistema di
protezione sociale meno favorevole ai lavoratori, anche se
l’azienda opera in un Paese in cui le tutele sociali sono migliori. È un orientamento che di fatto mette in discussione
principi fondamentali come la difesa dei sistemi normativi
dei Paesi più avanzati…».
La delocalizzazione produttiva è, però, anche favorita da
un altro divario: quello relativo alla imposizione fiscale a
carico delle imprese. Il “villaggio globale”, sotto questo
aspetto, risulta altamente sperequato: mentre in gran parte delle economie sviluppate il costo della contribuzione
fiscale (oneri tributari, contributi previdenziali e assistenziali ai lavoratori ecc.) è consistente e incide, quindi, in
modo significativo sul totale dei costi di produzione (e, di
conseguenza, sul prezzo dei prodotti o dei servizi realizzati), in molti Paesi a economia arretrata o “emergente” esso
è assai più contenuto, e non di rado mantenuto volutamente basso al fine precipuo di attrarre capitali dall’estero (si
pensi ai cosiddetti “paradisi fiscali” quali Bermuda, Isole
Cayman, ma anche Monaco, Liechtenstein, San Marino e
molti altri).
Il convergente effetto di questi due elementi – basso
costo del lavoro, bassi oneri fiscali – fa sì che si renda
molto appetibile per le imprese la scelta di “chiudere” (o,
quantomeno, “ridimensionare”) le produzioni nazionali e
“aprire” linee produttive all’estero, e ciò ha, come è ovvio, pesanti ripercussioni sull’occupazione interna. Delocalizzare la produzione, infatti, significa per i lavoratori la
perdita del loro impiego e la conseguente ricerca di altra
occupazione. Per molti di loro, inoltre, raggiunta una certa
età tale ricerca risulta molto difficile, e spesso i “lavoratori
anziani” che hanno perduto il posto di lavoro a causa della
delocalizzazione della loro azienda sono sospinti fuori del
mercato, statisticamente ridotti a “non forza di lavoro”.
È, questo, il cosiddetto “esercito degli scoraggiati”, ossia
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l’insieme delle persone che, pur avendo necessità di lavorare e volendo farlo, non trovano adeguata occupazione e
sono, pertanto, forzosamente espulsi dal mercato del lavoro: un fenomeno che sta assumendo, negli ultimi anni
– anche in dipendenza della crisi economica che stiamo
attraversando – crescente e drammatica evidenza.
Un altro aspetto del processo di delocalizzazione è la
“pressione” esercitata sulle condizioni di lavoro dei lavoratori anche di altri comparti produttivi non coinvolti direttamente da esso. Appare infatti evidente che la possibilità
di spostare all’estero linee di produzione può essere usata
come una vera e propria “minaccia” (qualcuno parla di un
autentico “ricatto”) per ottenere, da parte dell’impresa, un
alleggerimento nei propri costi di produzione (ad esempio ottenendo l’assenso dei sindacati a turni lavorativi più
pesanti, a salari più contenuti, a riduzioni di altri benefici
realizzati in epoche passate, o anche lucrando da parte dello Stato o delle Pubbliche amministrazioni incentivi alla
produzione, riduzione di imposte e così via). La recente
vicenda dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco,
nel nostro Paese, è emblematica al riguardo: per evitare
la chiusura di questa linea produttiva e lo spostamento di
essa all’estero (in uno dei Paesi dell’area balcanica), ipotesi “ventilata” dall’amministratore delegato Fiat Sergio
Marchionne, le organizzazioni sindacali di categoria (a
eccezione della Fiom-Cgil) hanno finito per accettare un
accordo con la controparte, seppure in parte contestato dai
lavoratori, che ha modificato in senso più restrittivo i diritti dei lavoratori acquisiti negli scorsi decenni.
Infine, non va trascurato un ulteriore rischio per la tutela
dei lavoratori e la legittimazione stessa delle loro organizzazioni sindacali, ossia quello derivante dagli orientamenti del sistema politico al fine di favorire le imprese che
“minaccino” di delocalizzare i loro impianti. Come hanno
efficacemente posto in rilievo gli economisti P. Lange e
L. Scruggs, la globalizzazione «può spingere i Governi a
cambiare le loro politiche competitive in modo che (intenzionalmente o meno) indeboliscono la forza contrattuale
del sindacato e il diritto di voce sui luoghi di lavoro».
Alla tendenza a “delocalizzare” si contrappone – come è
stato sottolineato da diversi economisti – la necessità di
mantenere un livello alto di produttività del lavoro e del
capitale, cosa che talvolta è scarsamente garantita in altri
Paesi industrialmente e tecnologicamente poco sviluppati.
Ma la globalizzazione sta, in questa direzione, favorendo
un miglioramento della preparazione dei lavoratori, e anche l’accesso a nuove tecnologie nelle economie “emergenti” sta diffondendosi con rapidità ed efficacia, per cui
oggi è meno “a rischio”, sotto il profilo del risultato qualitativo, produrre in Cina, nelle Filippine o in Romania,
rispetto al passato e in confronto con la qualità della produzione ottenibile sul proprio territorio. Ne consegue che
il deterrente rappresentato dal divario di preparazione professionale della forza-lavoro e delle tecnologie risulta più
che compensato dai vantaggi che, allo stato attuale, sono
ottenibili impiantando attività produttive nei principali Paesi emergenti (Cina e India in special modo: due entità che
da sole comprendono quasi la metà del genere umano).
La frammentazione del mercato del lavoro.
Altro aspetto non trascurabile del mondo globalizzato è
che esso sta determinando una crescente frammentazione,
sia per ciò che riguarda la dimensione delle imprese, sia
con specifico riferimento al mercato del lavoro.
Quanto alla dimensione delle imprese, occorre osservare
una sorta di “divaricazione”, solo apparentemente contraddittoria, fra il progressivo sviluppo ed estensione della
grande impresa multinazionale e transnazionale e il proliferare delle piccole e medie aziende, localizzate in prevalenza nei Paesi meno sviluppati. In effetti, i due fenomeni
sono complementari: la grande impresa, infatti, necessita
oggi, per una sua maggiore flessibilità operativa, di impostare la produzione mediante sub-commesse (outsourcing,
letteralmente “approvvigionamento esterno”), quindi parcellizzando le proprie linee produttive e dislocandole in
vari contesti geografici. Così, la “casa madre” finisce per
essere sempre più un “centro operativo”, o se si preferisce una “cabina di regia” costituita da relativamente pochi
dirigenti che si occupano in prevalenza di progettazione,
marketing ecc., mentre la produzione materiale è affidata a piccole e medie aziende localizzate nelle aree dove
minori sono i costi di produzione, secondo lo schema più
sopra evidenziato. Pochi “giganti” produttivi, in definitiva, dominano i mercati, mentre tante piccole imprese
lavorano per loro nelle aree del sottosviluppo o a economia emergente, e un numero sterminato di lavoratori in
queste aree è assoggettato a condizioni lavorative peggiori
di quelle esistenti nei Paesi altamente industrializzati (si
pensi, esempio tra tutti, al problema dello sfruttamento del
lavoro minorile, endemico in gran parte delle economie
sottosviluppate).
Alla frammentazione dei comparti produttivi è necessariamente associata quella del mercato del lavoro. Due
principi, a questo proposito, si sono andati affermando ed
estendendo nel “mondo globalizzato”: quello della flessibilità e quello della precarizzazione, al punto da divenire
una sorta di “manifesto neo-liberista”, il cardine attorno
al quale devono ruotare le economie dei Paesi avanzati e
tendere le economie dei Paesi emergenti e in condizioni di
sottosviluppo.
Per ciò che riguarda la flessibilità, essa nasce come “necessario effetto” della globalizzazione (quantomeno della
globalizzazione così come è stata sinora declinata), che
impone, per sua stessa natura, una dinamica di tutti i rapporti, e quindi anche di quelli che si instaurano nel mercato del lavoro.
La “flessibilizzazione” dell’attività lavorativa si può intendere in vario modo: sia con riferimento alla cosiddet-
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ta mobilità, ossia alla necessità per il lavoratore di non
rimanere ancorato al proprio posto di lavoro per tutta la
durata della vita lavorativa, ma di “mutare pelle” secondo
le esigenze del mercato (cambi di reparto, di azienda, di
attività, acquisizione di competenze plurifunzionali ecc.),
sia nel senso di prevedere un ampio ventaglio di forme
contrattuali, modellate allo scopo di aderire meglio e
più prontamente alle necessità imposte dalla produzione
“mondializzata”. Peraltro, questi molteplici schemi contrattuali (dei quali ci occuperemo più a fondo trattando del
contesto italiano) recano in sé i germi, per così dire, della
precarizzazione, in assenza di adeguate tutele che possano compensare la forzata flessibilità imposta dal sistema.
Non a caso è statisticamente provato che il numero e la
percentuale dei dipendenti a tempo pieno e con contratti
a tempo indeterminato (ossia quelli ai quali erano vincolati i lavoratori impiegati secondo il rapporto normativo
tipico del recente passato) è diminuito costantemente nei
Paesi sviluppati dal 1980 a oggi, riducendosi alla metà del
trascorso periodo, mentre sono notevolmente aumentati i
contratti a tempo parziale, a tempo determinato e, soprattutto in Italia, a progetto.
In sintesi, mentre i mercati del lavoro sono diventati più
flessibili, le forme di lavoro si sono moltiplicate, divenendo sempre più “precarie”, legate alla situazione contingente, senza garanzie di continuità e dunque inadatte
a costruirvi attorno un dignitoso “progetto di vita”. Tale
condizione è ormai generalizzata, anche se in alcuni Paesi (specie in quelli del Nord Europa) la flessibilizzazione
contrattuale si è andata accompagnando a un adeguato sistema di protezione sociale. Ma, nel complesso, i diritti
dei lavoratori acquisiti nella seconda metà del secolo scorso si sono significativamente “erosi”. Citando, ad esempio, il caso degli Stati Uniti, possiamo constatare come
attualmente più della metà dei posti di lavoro creati a partire dagli anni 1980 è a tempo parziale, mentre la metà di
quelli persi è stata permanentemente eliminata (mancato
turn- over). Correlativamente, anche i salari reali (che
misurano l’effettivo potere d’acquisto del reddito percepito) sono diminuiti, specie quelli dei lavoratori non qualificati (e sono aumentati, per contro, i profitti delle imprese).
Ciò implica una progressiva riduzione della quota salari
rispetto al totale della ricchezza prodotta, associata a un
calo dell’occupazione stabile (e, negli ultimi tempi, alla
diminuzione dell’occupazione tout court).
I flussi migratori e i loro effetti sulle condizioni lavorative. In precedenza si è accennato al
fenomeno delle migrazioni internazionali alla prevalente
ricerca di lavoro. Si tratta di una dinamica che, negli ultimi
anni, ha assunto proporzioni considerevoli, tanto da “allarmare” molti Paesi, alimentando in essi un diffuso malcontento, se non vere e proprie pulsioni xenofobe (si veda,
ad esempio, il recente referendum approvato in Svizzera
che decreta l’immediata espulsione degli stranieri che abbiano commesso un grave reato e siano stati condannati
con sentenza definitiva. Tra i reati “gravi” contemplati ci
sono anche quelli di truffa, frode o di fruizione abusiva
di prestazioni sanitarie e assistenziali…). Ma sugli effetti
dell’immigrazione su un dato assetto economico-produttivo i giudizi sono contrastanti, e talvolta le valutazioni
risultano superficiali e viziate da pregiudizi. Cercheremo,
nelle note che seguono, di mettere a fuoco alcune delle
numerose problematiche sollevate dal fenomeno dell’immigrazione, con particolare riferimento ai suoi effetti nel
mercato del lavoro.
Innanzitutto, occorre distinguere fra le ripercussioni che i
flussi migratori hanno nei Paesi di partenza (tradizionalmente quelli sottosviluppati o in via di sviluppo) e nei Paesi di destinazione.
Gli effetti dell’emigrazione nelle aree di partenza
A un possibile effetto positivo, dovuto alla potenziale diminuzione dello stock di disoccupazione e quindi
allʼalleggerimento della pressione della forza-lavoro rispetto alle occasioni di impiego nei Paesi di partenza, con
il (teorico) corollario di un incremento della produttività
del lavoro in tali contesti, se ne somma un secondo dovuto
alle rimesse degli emigranti, cioè ai flussi di reddito provenienti dai lavoratori emigrati verso le famiglie rimaste
nelle aree di partenza. Ma c’è anche – e per molti studiosi
risulterebbe prevalente – un effetto negativo: molto spesso
le migrazioni interessano lavoratori qualificati, che hanno raggiunto un livello di istruzione e/o di preparazione
professionale di livello superiore rispetto alla media nazionale; non di rado si parla di una vera e propria “fuga
di cervelli”, che finisce per depauperare il capitale umano
nei Paesi di partenza, contribuendo per questa via alla perpetuazione della loro condizione di sottosviluppo. Tale effetto negativo può essere aggravato qualora le rimesse degli emigranti vengano impiegate prevalentemente in beni
di consumo anziché convertirsi in investimenti produttivi.
Considerato quanto sopra, si può concludere in prima approssimazione che l’emigrazione, per un’economia sottosviluppata, pur se rappresenta un’innegabile “valvola di
sfogo”, non risolve, di fatto, il problema dell’arretratezza,
e anzi può concorrere a mantenerla indefinitamente.
Gli effetti dell’emigrazione nelle aree di destinazione
Relativamente ai Paesi destinatari dei flussi migratori, al
di là di osservazioni convenzionali sui “pericoli” di indiscriminati ingressi, non sembrano esserci sufficienti ragioni per ritenere che il processo di immigrazione, anche
di proporzioni significative, possa ostacolare o frenare la
crescita delle economie più sviluppate. Semmai, è vero il
contrario: tendenzialmente l’immigrazione di lavoratori
provenienti da altri Paesi dove la pressione demografica è particolarmente elevata e sono carenti le occasioni
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di un lavoro dignitoso arrecano ai Paesi di destinazione
diversi vantaggi. Come ha osservato in merito l’economista Renata Livraghi, che si è ampiamente occupata del
problema: «Gli effetti del processo migratorio nelle aree
di destinazione sembra essere positivo poiché i benefici
sembrano essere maggiori dei costi da sostenere».
In particolare, si sostiene che:
a. i migranti vanno in genere a ricoprire quei posti di
lavoro resi vacanti per mancanza di lavoratori dei Paesi
di destinazione disposti a occuparli (sono i cosiddetti bad
jobs, “cattivi lavori”, cioè occupazioni marginali o particolarmente faticose, pericolose ecc.). Questo, a ben riflettere, è un “vantaggio” per modo di dire, poiché non sembra
a chi scrive (e a molti altri commentatori) che uno Stato
possa fondare il proprio gradimento alla permanenza dei
migranti sul proprio territorio sul principio della discriminazione del lavoro (bad jobs, good jobs, “lavori cattivi”,
“lavori buoni”, i primi da affidare agli stranieri, i secondi
ai lavoratori locali). Ma è un fatto che spesso il confronto
sulla “questione immigrazione” viene affrontato – anche
da parte di esponenti di rilievo – con le argomentazioni
che abbiamo qui esposto, anziché impostarlo sull’esigenza, per una società civile, di praticare una reale “politica
di accoglienza”;
b. la produttività del lavoro dei migranti – ancorché
supportata da modesta preparazione professionale – tende a essere superiore a quella dei lavoratori locali, non
foss’anche che per il fatto che questi lavoratori hanno
estremo bisogno di impegnarsi a mantenere l’attività per
poter inviare parte del proprio reddito alle famiglie;
c. la spesa sociale a favore dei migranti è, di massima,
inferiore agli oneri sociali pagati dai lavoratori stranieri.
Infatti, poiché un numero rilevante di persone presenta frequenti ritorni nei Paesi di origine e molti immigrati sono giovani e senza famiglia al seguito, ne consegue
un utilizzo dei servizi sociali inferiore alla media. Inoltre,
per quanto riguarda i lavoratori stranieri occupati regolarmente, essi pagano contributi previdenziali di cui possono
non usufruire allorché, per raggiunti limiti di età, escono
dall’ambito delle forze di lavoro, in quanto spesso rientrano nei Paesi di origine e non possono, pertanto, godere di
un trattamento pensionistico (al quale hanno, almeno in
parte, contribuito);
d. infine, ma non da ultimo, la presenza di migranti
in uno Stato “ringiovanisce” la popolazione, in quanto è
noto che il tasso di riproduzione degli stranieri provenienti
dai Paesi del sottosviluppo è superiore a quello dei cittadini dei Paesi industrialmente avanzati. In questi ultimi,
dunque, il “tasso di dipendenza economica” – che misura
l’impegno complessivo del sistema di protezione sociale a
favore della popolazione – è particolarmente elevato, data
l’alta percentuale di persone anziane, e tale indice «potrebbe diminuire se si favorisse il processo d’immigrazione dei
giovani dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi» (Livraghi).
Ovviamente stiamo parlando di lavoratori assunti con regolare contratto di lavoro: ma sappiamo, purtroppo, che
sovente gli stranieri risultano in posizione di irregolari e
sono, quindi, occupati senza contratto, svolgendo un’attività lavorativa “in nero”. Questo fatto, oltre che porre
costantemente a rischio per lo straniero la permanenza nel
Paese di destinazione (per la nostra legislazione, ad esempio, l’immigrato irregolare viene considerato “clandestino” e sanzionato penalmente, in quanto è stato istituito,
con legge 15/07/2009, n. 94, il “reato di immigrazione
clandestina”), lo costringe di fatto ad accettare qualsiasi tipo di occupazione, pur sottopagata e a condizioni di
sfruttamento. Ciò, d’altra parte, crea un duplice negativo
effetto nei riguardi del Paese di destinazione: mediante il
“lavoro nero” lo Stato non percepisce oneri contributivi
(si tratta di un’evasione fiscale dipendente dal cosiddetto “sommerso” che, secondo le recenti stime della Banca d’Italia, in Italia si aggira attorno al 18% del Prodotto
interno lordo). In secondo luogo, essendo il lavoro non
dichiarato mediamente retribuito assai meno dell’occupazione regolare, si ha un generale effetto depressivo sui livelli salariali: in sostanza, è come se i lavoratori del “sommerso”, sottopagati e sfruttati, facessero una “concorrenza
sleale” (assolutamente non intenzionale) ai lavoratori regolari, con la conseguenza che questi ultimi finiscono per
risultare complessivamente meno garantiti nei loro diritti
da tale “concorrenza” e, pertanto, costretti a loro volta ad
accettare condizioni lavorative più sfavorevoli. Una seria
politica di integrazione degli stranieri e di sanatoria degli
“irregolari” andrebbe, in definitiva, sia a vantaggio di questi ultimi, sia a vantaggio dell’economia del Paese di destinazione, sia, infine, a vantaggio dei lavoratori locali. Per
questo si parla con insistenza della necessità di realizzare
una efficace politica di contrasto all’evasione fiscale e, per
quanto riguarda la sfera contributiva, di “emersione” del
lavoro nero e di regolarizzazione dei migranti che, attualmente, si trovano in condizione di “clandestinità”.
La condizione lavorativa in Italia. Il nostro
Paese sta soffrendo più di altri (considerando complessivamente l’area Ocse, ossia l’insieme delle economie altamente
sviluppate) per gli effetti del processo di globalizzazione.
Innanzitutto, la tipologia produttiva italiana è considerata
dagli economisti “tradizionale”, ad alta intensità di lavoro e
con il comparto dei servizi ancora scarsamente sviluppato rispetto ad altri Paesi occidentali: inadatta, dunque, ad affrontare la competizione internazionale. Nella media degli ultimi
dieci anni la quota dei settori tradizionali (ad esempio quello
tessile e dell’abbigliamento, delle calzature ecc.) sul valore
aggiunto manifatturiero è stata del 14%, vale a dire il doppio
della media nell’Unione europea e circa tre volte quella della
Germania, del Regno Unito e della Francia. La specializzazione produttiva italiana, pertanto, sembra essere più simile
a quella dei Paesi emergenti, rispetto ai Paesi industrializzati.
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Inoltre, diversamente da altre economie che hanno saputo adattare la struttura dell’esportazione alle mutate condizioni internazionali, l’Italia ha mantenuto un assetto di
export sostanzialmente uguale a quello dei decenni precedenti. In tal modo ha subito – e subisce tuttora – la pressione della concorrenza delle economie emergenti (Cina
e India in particolare), senza poter vantare posizioni di sicuro vantaggio in nessuna attività a tecnologia avanzata.
Se poi consideriamo il fatto che, al contrario, alcuni dei
Paesi emergenti (di nuovo dobbiamo citare la Cina e l’India) stanno rapidamente e con efficacia portandosi verso
produzioni ad alto contenuto di capitale e di tecnologia,
ne consegue che il nostro Paese rischia, in un futuro prossimo, di essere “sospinto” verso posizioni marginali nella
sfera delle relazioni commerciali a livello globale, incapace come si sta rivelando di “cavalcare la globalizzazione”.
C’è da rilevare, infine, che l’Italia da molti anni è un Paese a
crescita zero, con una popolazione attiva (persone tra i 15 e i
65 anni) tra le più basse d’Europa, e dunque con un progressivo, e crescente, invecchiamento della popolazione. Sotto
questo profilo, l’apporto di stranieri immigrati può costituire
uno stimolo allo sviluppo, in quanto si tratta di una porzione
della popolazione tendenzialmente giovane (e più prolifica),
in grado di apportare nuove “energie” al nostro Paese.
Non sorprende, quindi, che la risposta dell’economia italiana alla globalizzazione sia stata da un lato la delocalizzazione produttiva, specie in settori nei quali non si richiedono alla manodopera conoscenze e competenze particolari, e dall’altro una sistematica politica di bassi salari
(all’interno dell’Unione europea le retribuzioni per lavoro
dipendente del nostro Paese, a parità di potere d’acquisto – cioè i salari reali – risultano essere, attualmente, le
più basse). In sostanza, l’Italia sta cercando di competere
sul piano internazionale attraverso una strategia altamente
“difensiva”, giocata eminentemente sul contenimento del
costo del lavoro, la quale, a giudizio di molti commentatori, non ha futuro.
Nell’ambito di questa politica, risulta centrale la tendenza
verso la frammentazione dei rapporti di lavoro, perseguita attraverso i due “principi” già richiamati, della flessibilità e della precarizzazione. Se, d’altra parte, era forse
necessario per l’assetto economico-produttivo dell’Italia
“dinamizzare” i rapporti lavorativi introducendo forme di
mobilità, diversificazione di orari, pluralità di tipologie
contrattuali ecc. (si veda, al riguardo, l’apposita scheda
dedicata alle principali forme contrattuali), ciò ha finito
per sospingere una quota considerevole di forza-lavoro
verso l’instabilità, specie con riferimento ai giovani e alla
popolazione femminile (attualmente in Italia gli impieghi
lavorativi cosiddetti “atipici”, cioè quelli a tempo determinato, a progetto ecc., sono il 13% del totale, ma la percentuale sale al 40% con riferimento ai giovani. Negli ultimi
cinque anni il precariato è raddoppiato, crescendo più che
in altri Paesi). La crescita dei contratti “atipici” (che ormai
sembrano essere più “tipici” di quelli a tempo indeterminato, propri del recente passato) ha inoltre contribuito ad
abbassare il fronte dei salari: il reddito medio annuo netto
di un “permanente”, infatti, si situa oggi attorno a 15mila
euro, mentre quello di un “precario” è di appena 10mila euro.
LA TIPOLOGIA DEI CONTRATTI DI LAVORO IN ITALIA
La forma contrattuale “ordinaria” di rapporto di lavoro subordinato,
sino al recente passato, era quella a tempo indeterminato. Con
il decreto legislativo n. 368/2001 è stato fortemente liberalizzato il
ricorso al lavoro a tempo determinato. In base ad esso, nel relativo
contratto è apposto un termine, alla scadenza del quale il contratto si
risolve senza ulteriori formalità. È possibile una proroga del termine,
ma solo per contratti di durata inferiore a 3 anni e per una sola volta.
Altra forma contrattuale è quella a tempo parziale (part-time),
che prevede un orario di lavoro ridotto rispetto a quello previsto dal
legislatore. Nel corso del tempo questo tipo di contratti si è assai diversificato; di massima possiamo indicare tre tipologie di part-time:
orizzontale (riduzione dell’orario giornaliero), verticale (tempo pieno
giornaliero ma limitatamente ad alcuni giorni della settimana o ad
alcuni periodi del mese o dell’anno), misto, dato dalla combinazione
tra le prime due forme di part-time.
Il contratto di lavoro ripartito (o job sharing), introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 30/2003 (cosiddetta “riforma Biagi”), prevede che due lavoratori si impegnino ad adempiere solidalmente a un’unica e identica obbligazione lavorativa. Nell’atto deve
essere indicata la quota lavorativa afferente a ciascun lavoratore.
Il contratto a progetto, definito anche contratto di collaborazione
per programma, è stato anch’esso introdotto dalla legge n. 30/2003.
Esso prevede l’esistenza di un progetto da realizzare, la condizione
di autonomia del lavoratore in funzione del risultato, l’assenza di un
vincolo di subordinazione, l’apposizione di una durata (anche non
determinata, ma determinabile). Va detto, però, che a questa forma
contrattuale si è, negli ultimi anni, fatto sempre più ricorso, non di
rado mascherando un rapporto di lavoro subordinato (che, per sua
natura, offrirebbe maggiori garanzie al lavoratore).
Mediante il contratto di lavoro intermittente (detto anche “a
chiamata”) un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro per lo svolgimento di una prestazione lavorativa “su chiamata” di
quest’ultimo. Anch’esso è stato disciplinato dalla legge Biagi.
Il contratto di somministrazione di lavoro prevede la partecipazione di tre distinte figure: il “somministratore” (un’Agenzia autorizzata espressamente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali), l’“utilizzatore” (un’impresa, pubblica o privata, che necessiti
della prestazione di un lavoratore per un certo periodo di tempo) e
il lavoratore che si impegna a svolgere tale prestazione. Il rapporto
lavorativo instaurato è tra il lavoratore e l’Agenzia per il lavoro, che
per legge dovrà retribuire il lavoratore in maniera adeguata alla tipologia di contratto dell’azienda utilizzatrice. Tale contratto sostituisce
quello di lavoro interinale previsto precedentemente all’introduzione
della riforma Biagi.
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APPROFONDIMENTI 7
Il passaggio dalla flessibilità alla precarizzazione non era
– e non è – automatico: i disagi dovuti alla mobilità e ad
altre forme di flessibilità, infatti, possono essere efficacemente contrastati da adeguate forme di protezione sociale. Sono i cosiddetti ammortizzatori sociali (vedi scheda), che tuttavia in Italia risultano del tutto inadeguati,
e ciò è stato sottolineato anche dagli stessi esponenti di
Governo e da autorevoli membri di Confindustria (l’Organizzazione che rappresenta gli imprenditori del settore
industriale). Come ha osservato in proposito l’economista Fabrizio Onida: «…esistono politiche appropriate di
protezione sociale contro gli squilibri occupazionali, che
non devono necessariamente confliggere con obiettivi di
efficienza del mercato e mobilità-flessibilità della manodopera in un contesto di veloci cambiamenti tecnologici
e organizzativi». Ma queste politiche, a tutt’oggi, non
sono ancora state realizzate. In base a quanto si legge in
un recente studio della Cgil: «L’Italia... manca di un si-
stema universale di ammortizzatori sociali, dal momento
che l’accesso alle prestazioni di welfare in caso di disoccupazione (…) è differenziato in ragione della tipologia
contrattuale, del settore e della dimensione di impresa,
dell’età e dell’area di residenza dell’individuo. In aggiunta, le indennità sono erogate solo a chi soddisfa determinati requisiti contributivi (…); ne restano pertanto
esclusi i neo-entrati nel mercato del lavoro, i giovani in
cerca di prima occupazione e i lavoratori autonomi e parasubordinati (per i quali non è prevista contribuzione ai
fini della protezione dal rischio di disoccupazione)…».
In conseguenza, un gran numero di lavoratori non è attualmente coperto da un adeguato sistema di protezione
sociale: secondo l’ultima relazione annuale della Banca
d’Italia, sarebbero infatti circa 1,6 milioni i lavoratori dipendenti o parasubordinati che non avrebbero diritto ad
alcun trattamento in caso di sospensione o cessazione del
rapporto di lavoro.
GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Gli ammortizzatori sociali consistono in una serie di provvedimenti da assumere in caso si determini una crisi in singole imprese o in un intero
comparto produttivo, allo scopo di “ammortizzare” appunto, il disagio dei lavoratori in conseguenza di tale crisi.
Tra essi un posto di rilievo occupa la Cassa integrazione guadagni (CIG), destinata a garantire un reddito, anche se inferiore a quello ordinario, ai
lavoratori di imprese che manifestino difficoltà a continuare regolarmente la produzione. Si distinguono: la Cassa integrazione ordinaria, alla quale si
ricorre in caso di difficoltà temporanee, e la Cassa integrazione straordinaria, prevista successivamente alla prima, che può essere utilizzata da imprese
versanti in gravi crisi strutturali. Il salario erogato è tratto da un fondo alimentato dallo Stato e dalle imprese e gestito dall’Inps.
Un secondo strumento è dato dai contratti di solidarietà, introdotti nel 1984. Possono essere utilizzati da imprese in crisi che, onde evitare licenziamenti, ricorrono a una riduzione dell’orario di lavoro con una corrispondente riduzione della retribuzione. In questo caso, il Ministero del Lavoro e
delle Politiche sociali fornisce un’integrazione salariale per un periodo massimo di 24 mesi (prorogabile per un altro biennio).
Inoltre, uno strumento ampiamente usato per affrontare le crisi occupazionali sono stati i prepensionamenti, almeno sino al recente passato. Si
tratta, nello specifico, di favorire con adeguate agevolazioni l’uscita anticipata di una parte di lavoratori dal mercato del lavoro, senza che questi
dipendenti siano sostituiti (mancato turn-over), ovvero sostituendoli con altri con contratti a tempo determinato, parziale ecc.
Un altro ammortizzatore sociale è dato dalla mobilità. L’obiettivo è favorire il reinserimento lavorativo. I lavoratori in mobilità ricevono
un’indennità salariale e vengono iscritti in una lista di mobilità, su base regionale. Le imprese che assumono personale dalle liste di mobilità beneficiano di agevolazioni fiscali. Un lavoratore può essere iscritto alle liste di mobilità per un periodo massimo di un anno che, però,
può essere rinnovato per un altro anno nel caso di lavoratori fra i 40 e i 50 anni e per altri due anni per i lavoratori che hanno più di 50 anni.
Da ultimo, va richiamata l’indennità di disoccupazione che interviene non necessariamente in caso di difficoltà aziendale, ma in generale nel caso in
cui il lavoratore subordinato perda l’occupazione involontariamente.
L’impegno delle istituzioni sovranazionali
a tutela delle condizioni lavorative. La ne-
cessità di ammortizzatori sociali è stata avvertita anche in
sede UE, e non poteva essere altrimenti. Per questo è stato
creato il Fondo Europeo di adeguamento alla Globalizzazione (FEG), con la funzione di sostenere coloro che
hanno perso il lavoro a seguito di mutamenti strutturali del
commercio mondiale. In particolare, quando una grande
impresa chiude o viene delocalizzata in un Paese extraeuropeo, ovvero un intero settore manifesta un forte calo
occupazionale, il FEG interviene per aiutare con opportuni fondi e assistenza i lavoratori in esubero a trovare con
sufficiente rapidità un nuovo impiego. Secondo quanto
dichiarato dalla Commissione europea, che ha predisposto
il progetto: «...il FEG intende contribuire alla creazione di
condizioni di flessicurezza nell’UE: un concetto nuovo questo, che indica l’equilibrio tra flessibilità e sicurezza dell’occupazione, destinato a migliorare le possibilità dei cittadini
di trovare un lavoro e di utilizzare nuove qualifiche, favorendo contemporaneamente la flessibilità indispensabile
per rispondere alle nuove sfide della globalizzazione».
Un ruolo più incisivo, in questo contesto, è stato assunto da un’altra istituzione sovranazionale, la International
Labour Organization (ILO), o Organizzazione Interna-
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APPROFONDIMENTI 8
zionale del Lavoro (OIL). Si tratta di un’agenzia delle
Nazioni Unite creata nel lontano 1919 e della quale fanno parte 178 Stati. Questa organizzazione si caratterizza
anche per il fatto di essere l’unica entità sovranazionale
composta da rappresentanti di tre istituzioni: i Governi dei
Paesi membri, le imprese, i lavoratori. Essa contempla, tra
i suoi fondamentali obiettivi, quelli di promuovere i diritti
dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni
dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il
dialogo sulle problematiche del lavoro. Attraverso strumenti procedurali quali le convenzioni e le raccomandazioni l’OIL è responsabile dell’adozione e dell’attuazione
delle norme internazionali del lavoro. In un contesto come
quello che stiamo vivendo, la sua funzione è dunque di
primaria importanza, in quanto si tratta di “governare”, per
quanto possibile, il processo di globalizzazione impedendo che a farne le spese, per così dire, siano le fasce deboli
della popolazione mondiale, e in particolare i lavoratori.
Sia le convenzioni che le raccomandazioni, infatti, spaziano su un ampio ventaglio di materie attinenti la giustizia
sociale tra le quali: salari e occupazione, disoccupazione,
orari di lavoro, età minima di accesso al mercato del lavoro, condizione del lavoro femminile, sicurezza, previdenza, istruzione professionale.
Uno dei risultati di maggior rilievo di questa organizzazione è stato quello di aver predisposto e approvato i Core
Labour Standards (CLS), o Standard del Lavoro. Si tratta di fondamentali principi che dovrebbero essere seguiti
da ciascun Paese aderente all’ILO affinché non si creino
condizioni di sfruttamento, violazione di diritti dei lavoratori, negazione di diritti sindacali e così via.
Possono distinguersi due tipologie di CLS: quella strettamente connessa con il livello del reddito del Paese (salario
minimo, orario di lavoro, copertura previdenziale) e quella non connessa a tale livello (lavoro forzato e minorile,
discriminazione e diritti sindacali). Mentre questi ultimi
standards possono applicarsi in modo uniforme a tutti i
Paesi, non altrettanto avviene per i primi, considerando il
diverso grado di sviluppo (o di arretratezza) esistente sul
piano mondiale. In definitiva, la priorità è rappresentata
dall’applicazione degli standards relativi ai fondamentali
diritti del lavoro, valevoli per tutti, mentre si cerca di “adeguare” i primi standards alle reali condizioni in cui versa
ciascuna economia.
La predisposizione dei CLS è stata resa possibile dalla preventiva adozione, nel corso dei decenni di attività
dell’OIL, di diverse convenzioni, tra le quali citiamo:
–– la libertà di associazione sindacale e la protezione dei diritti sindacali;
–– il divieto del lavoro forzato o in schiavitù;
–– l’eguaglianza retributiva per lavoro di uguale valore e la
non discriminazione di genere, sesso, razza, religione;
–– l’età minima di lavoro e il divieto delle forme peggiori di
sfruttamento del lavoro minorile.
Il limite all’efficacia dell’adozione dei CLS è però rappresentato dal fatto che l’OIL non ha effettivamente poteri
di imposizione, poiché gli standards devono essere recepiti, mediante ratifica, da ogni Stato membro, cosa che
spesso non avviene. Gli Stati Uniti, ad esempio, che pure
si sono impegnati a fondo per predisporre gli standards,
delle convenzioni poste alla loro base hanno a tutt’oggi
ratificato solo la n. 105, che riguarda il lavoro forzato, e
la n. 182 inerente alle peggiori forme di lavoro minorile.
In tali condizioni, la prospettiva del rispetto “globale” dei
diritti fondamentali del lavoro appare, al momento, piuttosto remota.
Considerazioni conclusive.
Dei negativi effetti
che la globalizzazione sta producendo, specie nei riguardi
dei Paesi più arretrati, si è già detto in apertura del presente
lavoro. Nonostante l’indubbio sviluppo che l’ampliamento delle relazioni internazionali e la circolazione delle informazioni ha determinato, il divario fra Paesi ricchi e Paesi poveri non si è ridotto, così come quello tra aree ricche
e povere all’interno di ciascuna economia. Nel contempo,
il lavoro è divenuto più precario, meno garantito, fonte
di maggiore usura psicologica. E gli Stati nazionali non
sembrano in grado di affrontare con determinazione questo problema, tendendo passivamente a “seguire il corso
degli eventi”. Come ha, di recente, sostenuto il sociologo
Zygmunt Bauman: «…l’istruzione gratuita, l’assistenza
medica di base, la pensione, l’indennità di disoccupazione. Lo stato ha le mani legate, ormai è sempre più in balia
delle forze del mercato; se cerca di contrastarle, il capitale
semplicemente si riversa altrove, al sicuro, dove può crescere senza problemi, e lo stato, a quel punto, si trova alle
prese con una grave piaga sociale, quella della disoccupazione e della povertà. Insomma, se basta premere un bottone per trasferire il capitale, che cosa può oggi prendere il
posto delle vecchie fondamenta della legittimità statale?».
Il “che cosa fare?” è, allora, d’obbligo nell’agenda degli
organismi internazionali, se non si vuole che aumentino
a dismisura, tanto nei Paesi più industrializzati quanto in
quelli emergenti e nelle economie più arretrate, le tensioni
sociali e le rivendicazioni per una migliore qualità della
vita. Ne sono consapevoli, del resto, tutti i centri di potere
economico-finanziario e le organizzazioni sovranazionali, e da più parti si auspicano interventi tempestivi al riguardo. Così si è espresso il segretario generale dell’Ocse
Angel Gurria: «Affinché la globalizzazione diventi inclusiva e produca maggiore prosperità per tutti, dobbiamo riequilibrarla, tramite politiche pubbliche innovative
e compromessi politici intelligenti che favoriscano le riforme strutturali. L’unico modo per riuscirci è di ridurre i
timori sociali sulla globalizzazione». Ma certamente questo non appare un obiettivo né facile né di raggiungimento
immediato. Occorrerà, da un lato, dare maggiore impulso
all’OIL e alle sue convenzioni, spingendo i Paesi aderenti
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APPROFONDIMENTI 9
a ratificare i CLS in modo da favorire, per questa via, una
maggiore omogeneizzazione delle condizioni internazionali del lavoro. Per altro verso, si auspicano interventi di
fondo in materia di ammortizzatori sociali e di politiche
attive del lavoro tali da realizzare un efficace welfare to
work, associati a serie politiche ambientali ecosostenibili
e a un maggior impegno nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale. «Solo così – sostiene al riguardo Fabrizio
Onida – si può favorire uno sviluppo (...) non generatore di impoverimento e pericolosa distruzione di capitale
umano...».
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