relazione daniela silvia pace seminario lincei BD 2008 2
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relazione daniela silvia pace seminario lincei BD 2008 2
I CETACEI DEL MEDITERRANEO Daniela Silvia Pace Oceanomare Delphis Onlus Email: [email protected] www.oceanomaredelphis.org Abstract Il Mar Mediterraneo ospita un patrimonio di biodiversità tra i più significativi al mondo. Secondo stime recenti più di 8500 specie di organismi marini vivono in Mediterraneo e benché il suo bacino costituisca poco meno dell’1% della superficie oceanica mondiale, accoglie il 4÷18% della biodiversità marina globale, con un elevato grado di endemismo. Anche i Cetacei – balene e delfini – sono parte di questo mare di biodiversità, occupando numerosi habitat favorevoli alla loro sopravvivenza sia in ambiente pelagico che in siti costieri. Delle quasi ottanta specie di Cetacei esistenti, nel bacino del Mediterraneo ne sono presenti ventuno, di cui otto regolarmente avvistate nei nostri mari: due specie di enormi dimensioni, la balenottera comune (Balaenoptera physalus) e il capodoglio (Physeter macrocephalus), tre specie di delfini (il raro delfino comune, Delphinus delphis, il tursiope, Tursiops truncatus, e la stenella, Stenella coeruleoalba) e tre specie di dimensioni intermedie, il grampo (Grampus griseus), il globicefalo (Globicephala melas) e lo zifio (Ziphius cavirostris). I Cetacei sono animali longevi che si riproducono con grande lentezza. Occupano i livelli più alti della piramide alimentare e, come tali, hanno pochi antagonisti naturali; tuttavia sono particolarmente vulnerabili e, di fatto, minacciati da una intensa e sempre crescente pressione antropica che impatta sia a livello di singoli individui che di popolazioni. Il bacino del Mediterraneo subisce, infatti, forti stress derivanti dalle sostanze chimiche tossiche provenienti da attività umane (mercurio, PCB, DDT, etc.) che tendono ad accumularsi all’interno della catena alimentare marina, diventando pericolosi per i consumatori finali, come i Cetacei e l’uomo. Inoltre, è soggetto ad una elevata concentrazione di traffici marittimi mercantili e da diporto, che incrementano in maniera esponenziale il rischio di collisioni accidentali e di interferenza acustica con il sofisticato apparato di produzione e ricezione dei suoni di cui sono dotati i Cetacei. Anche la pressione di un turismo in aumento vertiginoso, l’urbanizzazione eccessiva, il sovrasfruttamento delle risorse ittiche e il global change, costituiscono un grave pericolo per questo mare e lo rendono meno adatto ad ospitare specie sensibili come i Cetacei. Quest’impressionante situazione del Mediterraneo sottolinea il fatto che la sopravvivenza futura dei Cetacei e dell’intero patrimonio di biodiversità dipenderà probabilmente dai principi di precauzione che verranno adottati e dall’attuazione di precise misure di conservazione per prevenire ulteriori impatti sugli individui e sulle popolazioni. Abstract The Mediterranean Sea is one of the most important reservoirs of biodiversity in the world. Recent research indicates the presence of 10.000 to 12.000 marine species in the Mediterranean basin (8.500 species of macroscopic fauna and more than 1.300 vegetal species). Although it constitutes less than the 1% of the globe’s oceanic surface, it contains 4 -18% of the world’s marine biodiversity, with an elevated proportion of endemic species. Contributing to this vast spectrum of biodiversity are Cetaceans, whales and dolphins, who find in the Mediterranean several favorable habitats, in both pelagic and coastal sites. Of the almost/over eighty recorded Cetacean species, twenty-one are present in the Mediterranean basin and eight of them are sighted on a regular basis; two gigantic species - the fin whale (Balaenoptera physalus) and the sperm whale (Physeter macrocephalus)-, three dolphin species (the endangered common dolphin, Delphinus delphis, the bottlenose dolphin, Tursiops truncatus, the striped dolphin, Stenella coeruleoalba), and three intermediatesized species, the Risso's dolphin (Grampus griseus), the long-finned pilot whale (Globicephalamelas) and the Cuvier's beaked whale (Ziphius cavirostris). Cetaceans are long-living species, with a low reproduction rate. They are top-predators and have few natural enemies. However, they are particularly vulnerable to the intense and continually increasing human activities that have harmful effects on both single individuals and group populations. The Mediterranean is contaminated by toxic chemical waste (mercury, PCB, DDT, etc.) which, transmitted up through the trophic levels, represent a serious threat for top consumers such as Cetaceans and even Man. A high concentration of merchant and recreational nautical traffic in the area, besides increasing the risks of accidental collisions, creates acoustic interference which hinders the sophisticated auditory apparatus of Cetacean species. The impact of the growing tourist industry, the excessive urban development of coastal areas, over-fishing and climate changes, all constitute serious threats to the health of the Mediterranean Sea, which risks becoming an unsuitable habitat for sensitive animals such as Cetaceans. The dramatic state of affairs in the Mediterranean highlights how the continued survival of Cetacean species and the preservation of a rich and varied biodiversity depends on the implementation of precautionary measures and precise conservation procedures to prevent further negative impacts on individual animals and the marine population as a whole. However, it is important that any short or long -term decisions, regarding either dolphins or their habitat, are supported by detailed and recent scientific evidence. 1. IL MAR MEDITERRANEO E LA SUA BIODIVERSITA’ Il Mediterraneo è un mare intercontinentale situato tra Europa, Africa e Asia. La sua superficie approssimativa è di 2,51 milioni di km² ed ha uno sviluppo massimo lungo i paralleli di circa 3.700 km. Il Mar Mediterraneo viene considerato un bacino semichiuso. E’ collegato ad ovest all’oceano Atlantico, attraverso lo stretto di Gibilterra (con un’ampiezza di circa 10 km e una profondità di poco superiore ai 300 m.); ad est comunica con il mar Nero tramite i piccoli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, mentre a sud-est il canale di Suez lo congiunge al mar Rosso. Il Mediterraneo presenta una morfologia dei fondali estremamente articolata, con dorsali, fosse e canyon che si susseguono e si intersecano. Da un punto di vista topografico, il Canale di Sicilia lo divide in due grandi settori, il bacino occidentale e quello orientale, che differiscono tra loro per le caratteristiche fisiche e biologiche. Il bacino occidentale è contraddistinto da ampie piane abissali e comprende diversi mari come quello di Alboran, il bacino balearico, il bacino algero-provenzale ed il bacino tirrenico. Quest’ultimo è caratterizzato da una profondità di 3.800 metri e costituisce la parte più profonda del bacino occidentale. Il bacino orientale, morfologicamente più accidentato, comprende il Mar Ionio, il Mar Egeo e il Mare di Levante ed è dominato fondamentalmente dal sistema della dorsale Mediterranea. Da un punto di vista della produzione primaria, ossia la quantità di biomassa prodotta dagli organismi vegetali attraverso la fotosintesi, il Mediterraneo è generalmente considerato un bacino oligotrofico, cioè poco produttivo e tendenzialmente povero rispetto agli oceani. I principali motivi di questa condizione dipendono dalla scarsità di movimenti ascensionali dell’acqua profonda (upwelling) che portano in superficie i nutrienti necessari allo sviluppo di tutti gli organismi della catena trofica e dalla presenza di correnti di fondo che fanno tracimare questi nutrienti dallo Stretto di Gibilterra verso l’Oceano Atlantico. Diversa è la tendenza del Mar Ligure occidentale, il mare di Corsica e il Golfo del Leone (bacino corso-ligureprovenzale), ove per particolari condizioni oceanografiche e climatiche, la produzione primaria è considerevole. La presenza di particolari profili morfologici dei fondali, il movimento o la posizione della corrente marina superficiale, l’influenza del vento e gli apporti di acqua continentale sembrano essere i fattori chiave che determinano le favorevoli condizioni tipiche di queste zone del Mediterraneo (Sabatès et al., 1989; De Bovèe et al., 1990; Durrieu de Madron et al. 1990; Durrieu de Madron, 1994; MacquartMoulin e Patriti, 1996; Della Tommasa et al., 2000). Il Mar Mediterraneo ospita un patrimonio di biodiversità tra i più significativi al mondo (Bianchi e Morri, 2000). Secondo stime recenti (Zenetos et al., 2002), più di 8.500 specie di fauna macroscopica e 1.300 specie vegetali vivono in Mediterraneo e benché il suo bacino costituisca poco meno dell’1% della superficie oceanica mondiale, accoglie il 4÷18% della biodiversità marina globale, con un elevato grado di endemismo. Anche i Cetacei – balene e delfini – sono parte di questo mare di biodiversità, occupando numerosi habitat favorevoli alla loro sopravvivenza sia in ambiente pelagico che in siti costieri. Il nostro mare, importantissimo per la ricchezza di vita, è purtroppo soggetto ad una eccezionale perdita di habitat a causa delle attività umane: l’antropizzazione delle coste, l’urbanizzazione, l’uso intensivo in agricoltura di fertilizzanti ricchi di azoto e fosforo e la conseguente eutrofizzazione delle acque, l’inquinamento causato dalle acque di scarico contenenti metalli pesanti e organoclorurati, la crescente espansione turistica, gli sversamenti di idrocarburi, il prelievo delle risorse ittiche caratterizzato da sovrasfruttamento e mancata applicazione di metodiche ecocompatibili. Inoltre, i cambiamenti climatici, in particolare l’incremento della temperatura dell’acqua, sono considerati tra i possibili responsabili dell’alterazione dell’inestimabile patrimonio di biodiversità endemica mediterranea; implicano, infatti, una serie di variazioni che vanno ad influire in maniera diretta sugli ecosistemi, modificando sensibilmente le strategie adattative di sopravvivenza degli organismi, e ampliando (o riducendo) la biodiversità propria di una determinata nicchia ecologica. Recentemente, sono stati documentati rapidi e drastici cambiamenti nell’abbondanza di alcune specie native del Mediterraneo (Bianchi e Morri, 2000; Peirano et al., 2005), mentre alcune specie termofile, storicamente limitate ai settori meridionali del bacino, hanno esteso la loro distribuzione geografica verso nord (Bianchi e Morri, 1993; Francour et al. 1994). Inoltre, l’incremento della temperatura, influenzando direttamente i parametri di popolazione che determinano le interazioni interspecifiche, può cambiare il pool di specie capaci di stabilirsi in Mediterraneo, consentendo agli organismi termofili di espandersi oltre i loro attuali confini geografici (Galil, 2008). La situazione attuale presenta dunque evidenti segnali di un processo di cambiamento in atto che sembra proiettato verso un aumento crescente della biodiversità marina. Attualmente, 558 specie aliene sono state listate in Mediterraneo (Galil, 2008) (220 di provenienza Indo-Pacifica), giunte attraverso la principale via d’ingresso: il Canale di Suez. Ancora poco si conosce della loro capacità di adattarsi e delle loro potenzialità invasive. Viene tuttavia generalmente accettato che esse siano vettori di sconvolgimenti profondi negli equilibri ecologici delle comunità native. 2. I CETACEI Balene, delfini e focene sono noti con il nome collettivo di Cetacei (dal greco ketos: mostro marino) e, da un punto di vista tassonomico, sono un ordine di Mammiferi. Non si sa con precisione quante specie di Cetacei esistano poiché ne vengono ancora scoperte di nuove e vi è un perenne dibattito sull’opportunità di ripartirne alcune in due o più generi. La tassonomia dei Cetacei è stata recentemente rivisitata, in seguito alle nuove scoperte della biologia molecolare. Secondo questa classificazione l’ordine dei Cetacei annovera attualmente 82-87 specie divise in due sottordini: i Misticeti (balene e balenottere) e gli Odontoceti (delfini, orche, capodoglio). Il terzo sottordine, quello degli Archeoceti, comprende specie ormai estinte, conosciute unicamente dallo studio dei reperti fossili (Barnes, 2002). Il nome Misticeti deriva dal greco e significa “Cetacei con i baffi”. Questi animali hanno perso nel corso della loro evoluzione i denti, per sostituirli con i fanoni, lamine cornee flessibili e sfrangiate che pendono dalla mascella superiore che servono per filtrare dall’acqua enormi quantità di zooplancton e piccoli pesci. I Misticeti posseggono inoltre due narici, sebbene il soffio sia unico tranne che nelle balene franche (Eubalaena sp.). Tutte le specie sono generalmente molto grandi; appartiene infatti a questo gruppo l’animale più grande mai esistito sulla terra, la balenottera azzurra (Balaenoptera musculus), che può superare l’eccezionale dimensione di 30 metri e il peso di 150 tonnellate. Al sottordine dei Misticeti appartengono 13-15 specie, divise in 4 famiglie. Gli Odontoceti possiedono invece i denti, in numero e posizione diversi a seconda delle specie. Sono prevalentemente ittiofagi o teutofagi, e le loro prede vengono cacciate attivamente. Sono animali generalmente più piccoli dei Misticeti, ad eccezione di alcune specie fra le quali il capodoglio (Physeter macrocephalus), il berardio (Berardius bairdii) e l’orca (Orcinus orca). Le due narici sono riunite in un’unica struttura, lo sfiatatoio. Gli Odontoceti comprendono 69-72 specie, divise in 10 famiglie. Le caratteristiche morfologiche e fisiologiche dei Cetacei li rendono perfettamente adattati alla vita ambiente acquatico (Elsner, 2002); tuttavia c’è stato un tempo, nella storia della vita sul nostro pianeta, in cui gli antenati dei delfini e delle balene che oggi popolano i nostri mari camminavano sulla terraferma ed erano in grado di muoversi agilmente fuori dall’acqua. Parliamo di una evoluzione iniziata circa 55 milioni di anni fa (Fordyce, 2002), di una radicale trasformazione che ha portato a specie completamente affrancate dalle terre emerse che, a differenza di altri Mammiferi acquatici come le foche e i leoni marini, sono in grado di nutrirsi, riprodursi e perfino dormire rimanendo in acqua. I Cetacei hanno subito nel corso dell’evoluzione numerose modificazioni anatomiche riguardanti in particolar modo la struttura scheletrica (Rommel e Reynold III, 2002). Il corpo ha assunto una forma affusolata per fendere l’acqua con facilità e il pelo è completamente scomparso, lasciando una pelle nuda e sensibile (Reynolds III e Rommel, 1999), dalla superficie perfettamente levigata, in grado di abbattere la resistenza dell’acqua e di ridurre al minimo la creazione di turbolenze durante il nuoto attraverso la formazione di minuscole creste dermiche (Palmer e Weddell, 1964). Hanno un collo breve e rigido indispensabile per il nuoto ad alta velocità; il loro rachide ha decorso rettilineo e in esso mancano le vertebre sacrali a seguito della completa atrofia del bacino (Rommel e Reynold III, 2002). Sono dotati di una potente pinna caudale con funzione propulsoria che, a livello dell’articolazione, ha subito una modificazione tale da consentire un movimento dall’alto verso il basso, conferendo al nuoto dei Cetacei un aspetto del tutto caratteristico (Williams, 2002). L’arto anteriore, trasformato in pinna, ha omero breve e massiccio, radio e ulna accorciati in contrapposizione all’allungamento dello scheletro dell’arto anteriore che presenta iperfalangia. La pinna dorsale, con funzione stabilizzatrice e termoregolatoria (Castellini, 2002), è costituita da una duplicatura della pelle e del tessuto cutaneo, non è sostenuta né da ossa né da una muscolatura specifica, ma solo da fasci fibrosi immersi nel tessuto connettivo. Il cranio ha caratteristiche peculiari rispetto a quello dei mammiferi terrestri (Rommell et al., 2002): le narici infatti sono situate all’apice della testa in modo da consentire il nuoto sinusoidale anche durante la respirazione; i mascellari e i premascellari sono molto allungati e la scatola cranica è corta, più sviluppata in altezza che in larghezza (teleoscopia); l’apertura boccale è molto ampia, senza labbra funzionalmente equivalenti a quelle degli altri mammiferi; mancano i padiglioni auricolari. Esistono anche altri adattamenti meno evidenti: per esempio i Cetacei hanno un’elevata efficienza nell’utilizzare l’ossigeno presente nell’aria inspirata in ogni singolo atto respiratorio (2-3 volte superiore a quella dei mammiferi terrestri), nonostante siano dotati di polmoni molto piccoli rispetto alla loro mole. Tale risultato, fondamentale per l’immersione, è stato raggiunto attraverso un particolare accorgimento fisiologico, ovvero la presenza di una elevata quantità di pigmenti respiratori tanto nel sangue (l’emoglobina) quanto nei muscoli (la mioglobina) (Kooyman, 2002). Il maggior numero di pigmenti respiratori e la loro diversa percentuale relativa rispetto ai mammiferi terrestri permettono, appunto, una maggiore efficienza e velocità degli scambi gassosi per ogni singola inspirazione ed espirazione. Per di più la mioglobina, grazie alle sue caratteristiche chimiche e “logistiche”, funziona letteralmente da magazzino di ossigeno, avendo la capacità tanto di legarlo quanto di rilasciarlo a basse pressioni ed in maniera costante. Inoltre, vivendo in un ambiente, quello marino, la cui temperatura è generalmente inferiore ai 25° C e immersi in un elemento, l’acqua, che favorisce la dispersione di calore 27 volte superiore all’aria ed essendo animali a sangue caldo, con una temperatura corporea di circa 37° C, hanno bisogno di una ottima funzione termoregolatoria (Castellini, 2002) e un eccellente isolamento termico. Quest’ultima funzione è assicurata da uno strato di grasso sottocutaneo che, nelle specie più grandi, può raggiungere i 50 cm di spessore. Questo pannicolo adiposo, che ricopre l’intera superficie corporea ad eccezione del capo e delle pinne, non solo garantisce il mantenimento dell’omeotermia, ma conferisce all’animale un buon galleggiamento e costituisce una consistente riserva nutritiva soprattutto per gli individui che compiono lunghe migrazioni (Iverson, 2002). L’aspetto più straordinario della biologia dei Cetacei riguarda tuttavia l’equipaggiamento sensoriale e i sistemi di comunicazione (Dudzinski et al., 2002). I Cetacei sono praticamente privi di olfatto, cioè anosmatici, ma possiedono un buon senso del gusto e un tatto particolarmente sviluppato. La vista risulta certamente limitata dalle caratteristiche dell’ambiente acquatico, spesso opaco o buio; di conseguenza, essi dipendono principalmente dall’udito e dalla capacità di produrre suoni complessi utilizzabili in differenti contesti. D’altra parte nell’acqua le onde sonore viaggiano 5 volte più rapide che nell’aria e vengono quasi totalmente riflesse dall’interfaccia acqua/aria. Inoltre, la pressione delle onde sonore in acqua è 60 volte maggiore di quella prodotta da suoni della stessa intensità e frequenza emessi nell’aria; per questo motivo, a differenza dei Mammiferi terrestri, l’orecchio dei Cetacei anziché amplificare i suoni ricevuti, tende invece ad attenuarli (Thewissen, 2002). I Cetacei, pertanto, sono privi di padiglione auricolare ed hanno il meato acustico esterno molto stretto, tanto da risultare quasi invisibile ad occhio nudo per limitare la necessità di «compensare» le variazioni di pressione idrostatica durante le immersioni. L’orecchio medio è praticamente escluso dalla conduzione dei suoni e l’orecchio interno risulta racchiuso in una capsula di osso molto compatto che lo isola acusticamente dagli altri tessuti del capo ad eccezione di una ‘finestra’ alla quale fa capo un particolare sistema di conduzione (Thewissen, 2002). Le strutture anatomiche implicate nella produzione dei suoni non sono ancora ben conosciute. Solo per poche specie è nota con precisione l’anatomia del capo e degli organi che, oltre a produrre il suono, lo proiettano verso l’esterno. Conosciamo meglio gli Odontoceti, nei quali, in linea generale, il suono è prodotto da un flusso d’aria in pressione che fa vibrare un complesso diversificato di strutture collocate nella parte terminale dell’apparato respiratorio (Frankel, 2002). Queste possono vibrare a intervalli, producendo impulsi chiamati clicks, o costantemente producendo toni continui, i cosiddetti fischi modulati. Negli Odontoceti è anche presente una struttura particolare, chiamata “melone” a causa della sua forma, che ha la funzione di una vera e propria “lente acustica” per focalizzare e proiettare i click in direzione frontale. Si tratta di una massa lenticolare adiposa più o meno pronunciata che si trova sul capo, frontalmente o superiormente all’osso frontale del cranio. La produzione di suoni si differenzia in ragione della specie, della mole e del sesso degli animali e anche della situazione contingente, svolgendo diversi ruoli (Dudzinski et al., 2002). Questa varietà si esprime con segnali acustici a funzione ecolocalizzativa (tipica negli Odontoceti ma non presente nei Misticeti) (Au, 2002), con frequenze anche superiori a 150 kHz, e con segnali di comunicazione che sono a frequenze più basse, generalmente inferiori a 25 kHz negli Odontoceti e a 5 kHz nei Misticeti. Nei delfini, il raggio d’azione dei segnali di ecolocalizzazione può raggiungere i 350 metri, mentre i fischi modulati come quelli emessi dalla stenella (Stenella coeruleoalba) sono generalmente rilevabili entro 1-2 km. I Cetacei sono animali gregari ma la loro organizzazione sociale è, nella maggior parte delle specie, ancora poco nota. Tuttavia, varia grandemente in risposta a fattori ecologici quali i ritmi ed il tipo di predazione e la qualità e la distribuzione delle risorse alimentari. In particolare, la pressione di predazione viene addotta come principale fattore di selezione a favore della formazione di complessi gruppi sociali, in quanto il mare aperto rappresenta un habitat con poche opzioni per nascondersi dai predatori (Trillmich, 2002). Una interessante implicazione dell’esistenza di diverse strutture sociali fra i Cetacei è la presenza - a livello etnografico – di culture, che includono, ad esempio, l’apprendimento di particolari tecniche di caccia dalla madre o da membri del gruppo, così come l’adozione di caratteristici comportamenti all’interno dello stesso clan (Rendell e Whitehead, 2001). Di fatto, molte caratteristiche dei Cetacei favoriscono l’evoluzione di forme di apprendimento sociale e di cultura, quali ad esempio la lunga durata della vita, le avanzate capacità cognitive, le cure parentali prolungate, la vita in gruppi coesi e un ambiente che può variare le proprie caratteristiche lungo un’ampia scala temporale e spaziale (che renderebbe costoso l’apprendimento individuale) (Whitehead, 1997). Le specie appartenenti al sottordine degli Odontoceti sono quelle che mostrano la più ampia variabilità nell’ambito della tipologia, entità, complessità e struttura delle loro aggregazioni sociali, mentre nei Misticeti i raggruppamenti di grosse dimensioni sono poco comuni, essendo spesso solitari o associati in due o tre individui (Bannister, 2002). Anche durante le migrazioni, in quelle specie che presentano rotte ben definite (e.g. balena grigia, Eschrychtius robustus e megattera, Megaptera novaeangliae), i gruppi sono di piccole dimensioni, consistendo per lo più di pochi individui. Questa caratteristica è giustificabile dalle notevoli dimensioni di questi animali: la pressione di predazione è bassa e l’entità dei gruppi è proporzionalmente ridotta. Fra i Misticeti esistono scarse evidenze della presenza di legami a lungo termine fra gli individui, se confrontate a quelle osservate fra gli Odontoceti. Ad esempio, durante la stagione riproduttiva, la megattera mostra interazioni sociali particolarmente vigorose e aggressive. I maschi di questa specie, infatti, competono per l’accesso alle femmine con canti e combattimenti, ma una volta conquistata una posizione favorevole (Bannister, 2002) e avvenuta la riproduzione, i maschi abbandonano la femmina, che provvederà da sola ad accudire il proprio piccolo. Gli Odontoceti sono particolarmente conosciuti per le dimensioni del loro cervello e la loro ricca vita sociale (Mann et al., 2000). Tuttavia solo i sistemi sociali di poche specie ci sono noti attraverso studi a lungo termine effettuati in ambiente naturale, e questi suggeriscono nuovi adattamenti agli standard dei modelli di vita dei Mammiferi (Connor et al., 1998). Fra le orche non sono state mai riportate testimonianze dell’esistenza di individui solitari ed esse vivono in gruppi sociali fortemente stabili (Tyack, 2002). Diversa è la strategia dei capodogli, fra i quali maschi e femmine seguono strade diverse: i piccoli nascono in gruppi matrilineari composti solo da femmine ed individui giovani, per un totale di circa dieci individui per unità (con più unità matrilineari che possono associarsi per alcuni giorni per volta), mentre i maschi, una volta raggiunta la maturità, fra i cinque e i dieci anni di età, lasciano il proprio gruppo matrilineare e si associano con altri maschi in unità di dimensioni ridotte (Acevedo-Gutiérrez, 2002). La complessità delle società formate dai Cetacei sembra essere correlata alla quantità di tempo investito nella lattazione e nella cura dei piccoli (Acevedo-Gutierrez, 2002). Esiste un ampio grado di variabilità nella durata dell’accudimento parentale, probabilmente relazionato alla grande diversità riscontrata nella durata dei legami sociali in generale e in particolar modo nelle associazioni individuali. I Cetacei, a differenza delle altre specie di Mammiferi, generano prole precoce (Derrickson, 1992). La pressione selettiva per uno sviluppo precoce è ovvia, in quanto essi nascono in ambiente acquatico: non solo devono essere in grado di nuotare e respirare indipendentemente fin dalla nascita, ma devono anche rimanere vicino ed allattarsi ad una madre che si muove di continuo. Fra i Mammiferi, di solito la durata del periodo di lattazione e la precocità della prole sono correlati inversamente (Derrickson, 1992), mentre sembra essere vero il contrario per quanto riguarda Primati e Delfinidi. Ciò appare particolarmente evidente fra i tursiopi (Tursiops truncatus), i cui piccoli vengono allattati per 3-6 anni e iniziano a riprodursi intorno ai 13 (Wells et al., 1987). Paradossalmente, dunque, i tursiopi hanno uno sviluppo motorio rapidissimo ma una maturazione sociale ritardata. Ciò si spiega probabilmente col fatto che la selezione deve favorire programmi di sviluppo che consentano ai nuovi nati di rispondere rapidamente alle necessità ambientali, mentre altre abilità si sviluppano lentamente lungo tutto il periodo di crescita (Mann, 1997). Il rapporto madre-piccolo è estremamente importante nei Cetacei, anche in quelli che, come i Misticeti, non vivono in branchi. La madre, infatti, accompagna la propria prole nell’apprendimento delle funzioni indispensabili alla sopravvivenza: ricerca del cibo, capacità di movimento nello spazio per evitare i predatori, instaurazione di rapporti sociali. Il periodo di stretta associazione è, ovviamente, anche legato alle necessità nutritive del piccolo. A differenza di tutti gli altri Mammiferi, i Cetacei, non essendo dotati di labbra, non sono in grado di succhiare il latte materno dalle mammelle; questo, infatti, gli viene spruzzato direttamente in bocca, grazie alla stimolazione dei capezzoli e alla contrazione della muscolatura addominale da parte della madre (McBride e Kritzler, 1951). L’allattamento avviene con successo entro le prime ventiquattro ore di vita dei piccoli, anche se tentativi più o meno positivi sono rilevabili fin dalla prima ora dopo la nascita (vedi Triossi et al., 1998, per il tursiope). Il latte prodotto dai Cetacei è ricchissimo di grassi, basti pensare che un piccolo di balenottera (Balaenoptera physalus) può crescere fino a 100 kg al giorno grazie alle sostanze nutritive che ricava da questo alimento. Anche il calcio ed il fosforo, sono presenti a elevate concentrazioni e questo sembra essere correlato con la crescita molto veloce dello scheletro che avviene in questi animali. Allo stesso modo, la concentrazione di proteine viene messa in relazione al numero di giorni che i mammiferi impiegano per raddoppiare il loro peso dalla nascita. Poiché questo numero è inversamente proporzionale alla taglia dell’animale, un ratto raddoppia il suo peso nel giro di 5 giorni, una mucca in 15, una balena in 7 giorni (Slijper, 1963). La lunghezza del periodo di allattamento varia notevolmente all’interno delle specie e nei Misticeti ha durata minore che negli Odontoceti (Hayssen, 1993). Durante il primo anno di vita, i piccoli dei Misticeti generalmente raggiungono il 60% della lunghezza materna, mentre la crescita è più lenta negli Odontoceti (circa il 30% della lunghezza materna). Le femmine raggiungono la maturità sessuale tra i 4 e i 15 anni (intorno ai 9 nei Misticeti, mentre negli Odonotceti l’età aumenta in relazione alla taglia), con la possibilità di generare piccoli ogni 2-3 anni nei Misticeti e ogni 1,5-5 anni negli Odontoceti. La conoscenza della distribuzione geografica, del comportamento e di altri aspetti della vita dei Cetacei sono in perenne evoluzione. Lo studio delle balene e dei delfini in natura presenta grosse difficoltà e richiede un impegno particolare, diverso dagli altri approfondimenti, perché questi animali trascorrono la maggior parte della loro vita sott’acqua, a volte in zone molto remote, frequentemente a largo delle coste. Alcune specie di grandi dimensioni dividono la loro esistenza fra le zone di alimentazione e quelle riproduttive, spesso distanti centinaia di migliaia di chilometri. Non sorprende perciò che, per molti anni, le uniche informazioni riguardo a questi animali provenissero da individui morti, spiaggiati, o uccisi da balenieri e da pescatori. Attualmente, vengono utilizzate diverse e moderne tecniche di ricerca per lo studio dei Cetacei in natura, tecniche che favoriscono continue e nuove scoperte. Gli studi sugli animali in libertà sono certamente i più affascinanti: in superficie si osservano e descrivono i comportamenti, con la foto-identificazione si catalogano gli individui per riconoscerli quando li si incontrano di nuovo, con gli idrofoni si ascoltano e si registrano i loro suoni. 3. LE SPECIE DEL MEDITERRANEO Delle oltre ottanta specie di Cetacei esistenti, nel bacino del Mediterraneo ne sono presenti ventuno, di cui otto regolarmente avvistate nei nostri mari: due specie di enormi dimensioni, la balenottera comune (Balaenoptera physalus) e il capodoglio (Physeter macrocephalus), tre specie di delfini (il raro delfino comune, Delphinus delphis, il tursiope, Tursiops truncatus, e la stenella, Stenella coeruleoalba) e tre pecie di dimensioni intermedie, il grampo (Grampus griseus), il globicefalo (Globicephala melas) e lo zifio (Ziphius cavirostris). Questi animali hanno colonizzato ambienti diversi del Mar Mediterraneo, occupando gli habitat più favorevoli alla loro sopravvivenza. Immaginando che il mare possa essere diviso in tre zone principali l’ambiente pelagico, con profondità media superiore ai 2000 m, l’ambiente di scarpata, tra i 1000 e i 500 m e quello costiero, inferiore ai 500 m - balenottera, globicefalo e stenella striata sono animali principalmente pelagici, capodoglio, zifio, e grampo prevalentemente di scarpata e infine, tursiope e delfino comune sono fondamentalmente costieri. Non è stato chiarito a tutt’oggi quali siano le ragioni della presenza/assenza di alcune specie di Cetacei nel Mediterraneo. La ricerca scientifica più attuale in Mediterraneo cerca, infatti, di stabilire quali siano le caratteristiche ambientali per le quali è più alta la probabilità di incontrare una specie piuttosto che un’altra e anche se esistano movimenti migratori regolari tra il Mare Nostrum e l’Atlantico e/o all’interno del nostro bacino. Le otto specie di Cetacei regolarmente presenti nel Mar Mediterraneo producono suoni che possono essere raggruppati in poche categorie: a) i suoni a bassissima frequenza delle balenottere (intorno a 20 Hz); b) le sequenze di “click” dei capodogli (al ritmo di 1-4 al secondo, si estendono da poche centinaia di Hz a oltre 20 kHz); c) i fischi modulati anche ad alta frequenza (da pochi kHz a oltre 25 kHz) e d) i click di ecolocalizzazione dei delfini (con massimo di energia fra 30 e 100 kHz); infine e) i fischi a bassa frequenza dei globicefali (generalmente al di sotto di 5-8 kHz). Balenottera comune (Balaenoptera physalus) (Linnaeus, 1758) La balenottera comune (Fig. 1) è il più grande cetaceo del Mediterraneo. La sua lunghezza media è stata stimata intorno ai 24 metri per un peso che varia da 60 a 80 tonnellate. Il suo corpo affusolato presenta una colorazione uniformemente grigio ardesia, ad eccezione della zona ventrale bianca e di due particolari macchie biancastre sul lato destro del muso, note con il nome di blaze e chevron. La forma di queste due aree più chiare è molto importante perché permette di fotoidentificare e riconoscere i singoli individui. E’ una specie prettamente pelagica, frequenta acque profonde della scarpata inferiore e di largo anche se, talvolta, alcuni individui sono stati osservati su deboli profondità. Come tutti i Misticeti, anche la balenottera comune compie migrazioni stagionali: dai siti riproduttivi invernali, caratterizzati da acque temperato-calde, passano a quelli alimentari con acque più fredde in estate. L’alimentazione di questi grossi Cetacei si basa soprattutto sul krill, piccoli gamberetti planctonici, oltre che su piccoli pesci e cefalopodi (Orsi Relini e Giordano, 1992; Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994; Mussi et al., 1999). Grazie agli studi compiuti sulle feci di balenottera, è stato scoperto che la popolazione mediterranea predilige una particolare specie di piccoli crostacei, Meganyctiphanes norvegica, una specie che abbonda in Mar Ligure durante l’estate e che costituisce il krill dei nostri mari. Ciò spiega perché, proprio in questo periodo dell’anno, in questa zona e nell’intero bacino Liguro-Provenzale si registri la maggior concentrazione di balenottere (Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994; Zanardelli et al., 1998; Panigada et al, 2005, 2006) che, invece, nei mesi invernali si allontanano probabilmente dirigendosi verso le coste africane (in febbraio-marzo sono state osservate predare Nyctiphanes couchi nelle acque dell’isola di Lampedusa; Canese et al., 2006). Anche nel Tirreno centro-meridionale sono stati o documentati individui in alimentazione durante il periodo estivo (Mussi et al., 1999). Le balenottere emanano lunghi soffi verticali a forma di cono rovesciato alti anche 6-7 metri. Il tipico ciclo di immersione di questi Misticeti è costituito da una serie di 5/6 brevi immersioni della durata di qualche minuto, che precede una lunga apnea di 5-15 minuti, iniziata quando l’animale inarca gran parte della schiena fuori dall’acqua. Quando si immergono, scendendo alla profondità di circa 500 metri, le balenottere non mostrano la pinna caudale, cosa che invece accade nel capodoglio e in altre specie di Misticeti. L’attuale status della popolazione è poco noto nella maggior parte delle aree del Nord Atlantico (incluso il mar Mediterraneo). A livello mondiale, le popolazioni di balenottera comune sono gravemente compromesse a causa dello sfruttamento da parte della moderna industria baleneria Circa i tre quarti di un milione di balenottere comuni sono state cacciate ed uccise nell’emisfero meridionale tra il 1904 e il 1979 (IWC, 1995). Pertanto la specie è stata classificata nella lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come endangered (in base ai criteri e alle categorie del 1996) per un declino stimato di almeno il 50% in tutto il mondo nelle ultime tre generazioni (assumendo il tempo di una generazione a 20-25 anni). Il declino maggiore viene registrato nell’emisfero meridionale, che ospitava in origine la popolazione più abbondante (Reeves et al., 2003). Le collisioni sono tra le cause principali di mortalità della specie anche in Mediterraneo (Laist et al., 2001; Panigada et al., 2006), dove la balenottera è classificata come data deficient dal gruppo di specialisti sui Cetacei IUCN (Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006). Fig. 1 – Distribuzione della balenottera comune (Balaenoptera physalus); (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Capodoglio (Physeter macrocephalus) (Physeter catodon, Linnaeus, 1758) Il capodoglio (Fig. 2) è il più grande degli Odontoceti e il secondo grande cetaceo del Mediterraneo: può infatti raggiungere i 18 metri di lunghezza e un peso superiore alle 50 tonnellate. La femmina è di dimensioni più ridotte (11 metri circa). Una delle caratteristiche inconfondibili del capodoglio, da cui deriva proprio l’etimologia del suo nome, è la forma della sua testa, molto grossa, asimmetrica e dalla tipica forma squadrata. Solo la mandibola è munita di denti (che possono essere alti fino a 25 centimetri e pesare mezzo chilogrammo l’uno), mentre la mascella superiore presenta buchi all’interno dei quali si collocano una volta che l’animale chiude la bocca. La colorazione del capodoglio è grigio scuro uniforme; solo lungo l’esterno della mascella superiore e della mandibola, la pelle presenta spesso sfumature biancastre. Il suo nuoto in superficie in condizioni indisturbate è lento e le sue apnee sono molto lunghe con un massimo di 60-90 minuti. Le immersioni arrivano fino a oltre 3.000 metri. Prima di immergersi il capodoglio si trattiene in superficie per 10-20 minuti, soffia alcune decine di volte, poi inarca il dorso estraendo la sua grande coda. La pinna dorsale non ha la classica forma falcata che si osserva nei delfini e nelle balene, ma è triangolare. I due rami terminali dell’apparato respiratorio sono profondamente diversificati: il ramo destro si è chiuso verso l’esterno ed è specializzato per produrre potentissimi click, mentre il ramo sinistro svolge la funzione respiratoria. Proprio per questo motivo il capo del capodoglio è asimmetrico, con un grande sfiatatoio posto frontalmente a sinistra ed un soffio basso, disordinato e diretto obliquamente in avanti con una inclinazione di circa 45°. Il melone non esiste, ma al suo posto c’è un’altra struttura formidabile, lo spermaceti. E’ una grande massa cilindrica posta davanti all’osso frontale del cranio ed è lunga circa 1/3 della lunghezza dell’animale. Le sue funzioni sono incerte: è costituito da tessuti muscolari che delimitano una massa di tessuto adiposo contenente un liquido viscoso le cui caratteristiche cambiano al variare di temperatura e pressione. Si credeva che fosse un organo per mantenere l’equilibrio idrostatico nelle profonde immersioni, ma ora si ipotizza che possa servire anche nella focalizzazione del suono, come il melone, oppure che possa aiutare il sistema circolatorio assorbendo l’eccesso di azoto prodotto durante le lunghissime apnee. Durante le immersioni il capodoglio emette serie di segnali impulsivi (regular click con frequenze di 30-35 kHz) con funzione ecolocalizzativa (caccia e ricognizione dell’ambiente), organizzati in sequenze più o meno lunghe, con tassi di ripetizione variabili. Al termine delle sequenze regolari possono essere prodotte brevi serie di click secondo modelli stereotipati, della durata variabile di 0,5-5 secondi, chiamati codas. Il significato dei codas è ancora incerto, anche se gli studi condotti sinora sono orientati a ritenerli segnali di comunicazione sociale poiché vengono generalmente emessi quando sono presenti più animali. Secondo alcuni autori (Rendell e Whiteheatd, 2003, 2005; Weilgart e Whitehead, 1997), l’esistenza di codas di tipo diverso, forse legati a zone geografiche, indicherebbe che i capodogli potrebbero aver evoluto una sorta di identificativo regionale che animali di uno stesso areale utilizzerebbero come segnale di riconoscimento. In Mar Mediterraneo sono stati registrati codas che seguono principalmente il modello /// / (3+1), definendo così la presenza di un coda tipico, ma non esclusivo, del nostro mare. Di abitudini pelagiche, il capodoglio si sofferma di solito in acque profonde e si avvicina alla costa solo dove essa presenta un fondo scosceso e in presenza di canyon sottomarini. Si nutre essenzialmente di cefalopodi mesopelagici e consuma anche specie demersali come merluzzi, naselli e tracine di taglia media e grande di notevoli profondità (Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994; Pauly et al., 1998; Würtz e Repetto, 2003). Sebbene la specie venga descritta come una delle otto più frequenti del Mediterraneo (Duguy, 1991) e sia monitorata nella porzione orientale del bacino, esistono pochi studi sulla distribuzione e l’abbondanza della specie nella parte occidentale. Gli avvistamenti di capodoglio riguardano spesso individui isolati o coppie (Gannier, 1998; Mussi et al. 1998), anche se in tempi più recenti sono stati riportate segnalazioni di gruppi sociali (Drouot, 2003; Moulins e Wurtz, 2005; Pace et al., 2005; Mussi et al. 2005). In particolare, la presenza sia di gruppi sociali composti da femmine e individui immaturi di entrambi i sessi, che di maschi isolati nelle acque dell’Arcipelago Pontino-Campano rappresenta la prima evidenza di attività riproduttiva nel mar Tirreno (Mussi et al. 2005). Sembra che la presenza del capodoglio nei mari italiani vari al mutare delle stagioni. Numerose ipotesi sono state formulate sui movimenti dei capodogli nel Mediterraneo e sulla durata della loro permanenza, anche se a tutt’oggi non è possibile stabilire se se la popolazione sia residente o se periodicamente entri dal vicino Oceano Atlantico (Di Natale e Mangano, 1983). La specie, a causa del continuo sfruttamento commerciale per il valore economico delle sue carni, è in rarefazione. Lo stato di conservazione del capodoglio in Mediterraneo è tuttora sconosciuto. Non esistono stime di abbondanza in tutta la regione, tuttavia gli spiaggiamenti e gli avvistamenti della specie sono in declino. Gli attrezzi da pesca, in particolar modo le reti pelagiche derivanti che continuano illegalmente ad agire nel Mediterraneo rappresentano una minaccia significativa per questi animali (Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006; Pace et al., 2005), così come le collisioni con le imbarcazioni (Cagnolaro e Notarbartolo di Sciara, 1992; André et al., 1994; Félix et al., 1997; Laist et al., 2001). I dati di mortalità per l’alto tasso di collisioni e le catture accidentali (e mortali) negli attrezzi da pesca, soprattutto spadare, sono allarmanti (IWC, 2004; Reeves et al., 2003). La specie, in Mediterraneo, è stata recentemente classificata come endangered dal gruppo di specialisti sui Cetacei IUCN (Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006). Fig. 2 – Distribuzione del capodoglio (Physeter macrocephalus). (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Zifio (Ziphius cavirostris) (Cuvier, 1823) Fino a qualche anno fa lo zifio (Fig. 3) veniva considerato uno dei Cetacei più misteriosi del Mediterraneo; pochissimo si conosceva infatti della sua ecologia e lo si riteneva un animale timido, difficile da incontrare e avvicinare. Gli esemplari adulti raggiungono i 5-7 metri di lunghezza ed il peso di 3-5 tonnellate. Il corpo è massiccio e piuttosto tozzo, con il capo relativamente più piccolo e lateralmente compresso. Lo sfiatatoio, posto sulla verticale degli occhi e leggermente asimmetrico sulla sinistra, è a mezza luna con la concavità rivolta in avanti. La pinna dorsale può essere triangolare o falcata ma comunque piccola e posta in posizione molto arretrata. La colorazione sembra essere variabile in relazione all’età e al sesso. I maschi adulti sono grigio ardesia su tutto il corpo, tranne sulla testa e sul dorso immediatamente retrostante, che invece presenta elementi bianchi o biancastri. Le femmine adulte possono essere da grigio scuro a bruno rossiccio, con il capo di sfumatura più chiara. La livrea del piccolo sembra essere di color nero bluastro, con il ventre di tonalità più chiara. Graffi e striature sono presenti spesso sui fianchi, mentre la regione del ventre può portare irregolari macchie ovali (Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994). Negli ultimi anni alcuni scienziati hanno proposto di utilizzare le fotografie delle cicatrici per l'identificazione individuale, come per altre specie si utilizzano foto della pinna dorsale o caudale. Le cicatrici degli zifi sarebbero, infatti, permanenti e un monitoraggio costante permetterebbe di riconoscere gli individui già identificati anche a distanza di anni. Le femmine non hanno denti mentre i maschi adulti ne possiedono soltanto due, disposti sulla mandibola in maniera da fuoriuscire dalla rima boccale, dando l’idea di uno strano “sogghigno” quando l’animale chiude la bocca. Lo zifio è una specie rara da incontrarsi in mare, normalmente schivo nei confronti delle imbarcazioni, che affiora alla superficie per poco tempo, con un profilo di emersione piuttosto basso. Come il capodoglio è considerato un deep diver , ovvero capace di effettuare profonde immersioni, che superano i 1000 m. E’ un animale di scarpata o pelagico, che raramente si avvicina alla costa. Di solito vive in gruppi di 2-4 esemplari, anche se talvolta sono stati avvistati individui isolati. Dall’analisi dei contenuti stomacali di animali spiaggiati sembrerebbe che lo zifio sia un predatore opportunista, nutrendosi prevalentemente di calamari meso- e batipelagici, ma anche specie di pesci che vivono a profondità più elevate. Lo zifio è diffuso sia nel bacino occidentale che in quello orientale del Mediterraneo: Mar Ionio, Mar Egeo, Turchia, Egitto ed Israele. Non esistono informazioni sulla consistenza della specie e nella lista rossa IUCN è classificata come data deficient. Fig. 3 – Distribuzione dello zifio (Ziphius cavirostris) (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Globicefalo (Globicephala melas) (Traill, 1809) Il globicefalo (Fig. 4) è un delfinide di medie dimensioni che presenta dimorfismo sessuale. Il maschio raggiunge i 7 metri di lunghezza ed il peso di 3 tonnellate, la femmina è leggermente più piccola (circa 5.5 metri). Il corpo è massiccio. Ha un rostro appena accennato a causa di una elevata globosità del capo. Possiede una pinna dorsale inconfondibile che rappresenta un carattere distintivo dei due sessi: nei maschi essa è infatti molto più grossa, l’apice è più arrotondato ed è abbassata verso il lato posteriore del corpo, mentre nelle femmine è più piccola e ha la classica forma falcata, tipica dei delfinidi. La colorazione è nero ebano oppure marrone scuro nell’adulto mentre i giovani sono di un colore più chiaro. Nell’adulto è sempre presente una pezzatura bianca a forma di ancora sul petto e sul ventre. Si tratta di una specie gregaria con un elevato grado di socialità che forma branchi compatti di qualche decina o migliaia di esemplari. Solitamente presenta un nuoto piuttosto lento in superficie. Il globicefalo frequente le acque pelagiche, si alimenta in profondità e si nutre essenzialmente di cefalopodi, in particolare di calamari e totani (Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994; Relini e Garibaldi, 1992). Il globicefalo è una specie ad ampia diffusione in tutti i mari, ma è occasionale ed abbastanza rara nelle acque italiane, dove viene osservata sporadicamente soprattutto nei settori occidentali. A partire dal 1995 è stata documentata la presenza semistanziale al largo delle isole di Ischia e Ventotene di un gruppo stabile di globicefali (Mussi et al., 1998, 2000). I globicefali sono incidentalmente uccisi nelle reti da posta fisse, nelle reti da strascico e nei palangresi. L’unica area dove continuano uccisioni dirette su larga scala sono le isole Faroe, in nord Europa, dove la cattura annuale è aumentata da una media di circa 1500 negli anni ‘70 fino a 2500 negli anni ‘90, per poi declinare fino a 1000-1500 negli anni ’90. Non esistono informazioni sulla consistenza della specie in Mediterraneo e nella lista rossa IUCN è classificata come data deficient. Fig. 4 – Globicefalo (Globicephala melas). (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Grampo (Grampus griseus) (Cuvier, 1812) Il grampo (Fig. 5) adulto raggiunge i 3.5 metri di lunghezza ed il peso di 400/600 kg. Il corpo è proporzionato, la pinna dorsale alta e grossa, il rostro assente e la fronte bombata, ma non globosa come nei globicefali. La caratteristica peculiare di questi animali è la livrea: il colore di fondo è il grigio, dalle tonalità più chiare a quelle più scure, a cui sono sovrapposte delle cicatrici e dei graffi bianchi che aumentano con l’età. I neonati sono di colorazione scura, bruno nerastra ma, con il passare del tempo, acquisiscono sempre più graffi fino a diventare, negli esemplari più vecchi, completamente bianchi. Non si conosce il motivo per cui queste cicatrici – frutto delle interazioni sociali tra individui – rimangano per tutta la vita. Questo animale forma piccoli gruppi di 5-6 individui che spesso si diradano durante la ricerca del cibo. Si nutre soprattutto di cefalopodi (Wurtz et al., 1992), ma anche occasionalmente di piccoli pesci. In Mediterraneo, il grampo viene descritto come una specie prevalentemente pelagica che vive tra i -500 e i 2000 metri con preferenza per la parte alta della scarpata tra i -500 e i -1000 metri (Fabbri et al., 1992; Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994). Tuttavia non è infrequente riscontrarlo anche vicino alla costa. Comune nei mari italiani soprattutto nel Mar Ligure e a Nord della Sicilia, è presente anche nel Mar Tirreno (Miragliuolo et al, 2004). Non esistono informazioni sulla consistenza della specie a livello mondiale, né si conosce lo status della popolazione Mediterranea. Nella lista rossa IUCN è classificata come data deficient. Fig. 5 – Distribuzione del grampo (Grampus griseus). (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Tursiope (Tursiops truncatus) (Montagu, 1821) Il tursiope (Tursiops truncatus) presenta una corporatura possente e muscolosa, con dimensioni comprese tra 2.5 e 3.8 metri di lunghezza e un peso di 275-350 Kg. Possiede una livrea alquanto sfumata, generalmente grigio scuro sul dorso, grigio chiaro sui fianchi e sul peduncolo caudale, biancastra sul ventre. Il muso è caratterizzato da un rostro tozzo, dalla cui forma deriva il nome. Non presenta uno spiccato dimorfismo sessuale. Il tursiope è una delle specie di Cetacei meglio studiata. Presenta società complesse, caratterizzate da un notevole investimento parentale da parte delle femmine (Mann & Smuts, 1998; Oftedal, 1997). La sua è una società del tipo “fission-fusion” (dispersione-fusione), nelle quali ciascun individuo partecipa ad una vita di gruppo fluida, allontanandosi da solo e poi riassociandosi liberamente. Le associazioni possono durare da pochi minuti a molti anni (Smolker et al., 1992; Wells et al., 1987). Tale variabilità nelle associazioni in un sistema flessibile come questo riflette le strategie riproduttive dei due sessi (Mann et al., 2000). Le femmine possono essere altamente sociali o solitarie, associandosi con altre femmine a loro imparentate oppure no (Mann et al., 2000; Smolker et al., 1992). Esse si focalizzano sulla protezione dei piccoli e sull’accesso al cibo, mentre i maschi privilegiano l’aspetto riproduttivo, competendo per le femmine e formando gruppi nei quali si riuniscono per stringere alleanze forti e stabili nel tempo (Connor et al., 1992; 1999). In questo senso i maschi di Tursiops truncatus presentano una delle società più complesse al di fuori di quelle umane, al punto che sembra non esistere, al momento, alcun modello che possa adeguatamente spiegare tutti gli aspetti della formazione di alleanze multi-livello fra i maschi (Krutzen et al., 2002). A loro volta, in alcuni casi le femmine sembrano opportunisticamente formare coalizioni contro i maschi (Connor et al., 1992, 1996). Il tursiope può essere rinvenuto in tutte le acque temperate e tropicali del mondo. I limiti alla distribuzione della specie sembrano essere correlati alla temperatura, direttamente o indirettamente attraverso la distribuzione delle prede (Wells e Scott, 2002). Inoltre esibisce un ampio spettro di modalità di spostamento, comprese migrazioni stagionali, cambiamenti annuali della zona di residenza, residenza periodica e una combinazione di spostamenti a lunga distanza e residenza ripetuta in uno stesso luogo (Shane et al., 1986). Nei mari italiani la specie è diffusa ovunque, soprattutto nell’Alto Tirreno, nei mari intorno alla Sicilia e nell’Adriatico. Nelle zone costiere, vive sulla piattaforma continentale (-100 metri) e forma piccoli sottogruppi di qualche decina di individui solo occasionalmente più numerosi. Il tursiope, specie caratterizzata da grandi capacità adattative e da straordinaria plasticità comportamentale, utilizza un caleidoscopio di tattiche e strategie di ricerca e cattura delle prede a seconda delle circostanze, che spaziano dalle tecniche di caccia individuale alle attività predatorie di gruppo altamente coordinate (Wells & Scott, 2002), in risposta alla locale disponibilità di prede potenziali e in relazione ad una serie di caratteristiche ecologiche dell’habitat. Inoltre, utilizza deliberatamente e opportunisticamente diverse tipologie di reti da pesca come elemento integrante delle proprie strategie alimentari, rimuovendo le prede direttamente dall’attrezzo (Fert e Leatherwood, 1997; Pace et al., 1999, 2003; Pulcini et al., 2001, 2002; Lauriano et al., 2004; Blasi e Pace, 2006). Per quanto riguarda l’aspetto relativo alla composizione e preferenza nella dieta, studi condotti in varie parti del mondo mostrano che Tursiops truncatus predilige una ampia varietà di prede (dai pesci ai cefalopodi, fino ai crostacei), collocandosi pertanto tra le specie opportuniste nelle abitudini alimentari (Barros e Odell, 1990; Barros e Wells, 1998; Barros et al., 2000; Blanco et al., 2001; Lewis & Schroeder, 2003). Problemi di conservazione interessano la specie in Mediterraneo e in Mar Nero, per la passata caccia, le catture accidentali e soprattutto il degrado dell’ambiente marino (Reevs et al., 2003). Il tursiope è classificato come vulnerabile nella lista rossa IUCN. Fig. 6 – Tursiope (Tursiops truncatus) (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) Delfino comune (Delphinus delphis) (Linnaeus, 1758) Il delfino comune (Fig. 7) adulto raggiunge i 2.5 metri ed il peso di 75 kg. La colorazione è variabile: nero o nerastro il dorso e i fianchi, ventre e petto color bianco panna con una serie di sfumature gialle, grigie e bianche lungo i fianchi e il ventre. E’ riconoscibile un tipico triangolo capovolto scuro, più o meno in corrispondenza della pinna dorsale e un anello nero intorno all’occhio che si allunga in avanti. Il delfino comune nuota velocemente effettuando dei grossi salti, riuscendo ad immergersi fino ai 300 m., per durate superiori agli 8 minuti. E’ ampiamente distribuito nelle acque temperate e tropicali degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano (Young e Cockroft, 1994), ma risulta ogni quasi assente nel mare delle Baleari, nel bacino Provenzale, nel Mar Ligure e nel Mar Adriatico (Notarbartolo di Sciara et al., 1993; Forcada, 1995; Forcada e Hammond, 1998). La specie è tuttavia ancora presente nel nostro mare sia in ambiente costiero che in ambiente pelagico, in comunità isolate sia nel Tirreno meridionale (isola di Ischia) sia nel Mar Ionio (Notarbartolo di Sciara et al., 1993; Notarbartolo di Sciara e Demma, 1994; Sagarminaga e Cañadas, 1998; Politi et al., 1998; Pulcini e Pace, 1999; Mussi et al., 2002), oltre che a nord della Sardegna, nel canale di Sicilia e nel Mar Egeo. Il delfino comune si ciba di pesci epipelagici e mesopelagici (Silva e Sequeira, 1996; Ohizumi et al., 1998; Neumann et al., 2003). Infatti, i contenuti stomacali di individui spiaggiati nel mar Ligure e nel Mediterraneo occidentale confermano che la sua dieta si basa principalmente su pesce azzurro di superficie come l’acciuga (Engraulis encrasicolus), la sardina (Sardina pilchardus), la sardinella (Sardinella aurita) e l’aguglia (Belone belone), ma anche su cefalopodi e crostacei. Nelle acque costiere del mar Ionio orientale le prede principali sono acciughe e sardine (Agazzi et al., 2004), mentre nelle acque costiere dell’isola d’Ischia nel Tirreno Meridionale il delfino comune è stato visto predare principalmente la costaredella (Scomberesox saurus) (Orsi Relini e Relini, 1993; Boutiba e Abdelghani, 1995; Mussi et al., 2002). Letteratura storica, documentazione fotografica e collezioni osteologiche indicano che delfino comune era un tempo distribuito in tutto il Mediterraneo. Negli ultimi decenni invece, la specie ha subito un drammatico declino ed è scomparsa da larghe porzioni del bacino (Bearzi et al., 2003). Ciò ha spinto il Cetacean Specialst Group dell’IUCN nel 2003 a listare la specie come a rischio di estinzione, sulla base del criterio A2, che si riferisce al 50% di declino in abbondanza nelle ultime tre generazioni, le cause del quale “non possono cessare o non possono essere comprese o non possono essere reversibili”. Il delfino comune è pertanto incluso tra le specie a cui dare il massimo di protezione per il Mediterraneo Centrale ed Orientale e per le quali implementare immediate azioni di tutela per le poche popolazioni rimaste (Sagarminaga e Cañadas, 1995; Forcada e Hammon, 1998; Bearzi et al., 2003; Reevs et al., 2003; Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006). Fig. 7 – Delfino comune (Delphinus delphis) (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com) Stenella striata (Stenella coeruleoalba) (Meyen, 1833) La stenella (Fig. 8) adulta raggiunge una lunghezza media di 2.2 metri ed un peso di 80-100 kg. Il maschio è leggermente più grande della femmina. La specie è caratterizzata da un corpo snello e siluriforme, con pinna dorsale piccola e falcata e pinne pettorali affusolate, e dalla presenza di un rostro lungo e assottigliato, con denti piccoli e appuntiti. Anche la livrea della stenella striata, come quella di delfino comune, è indicativa per il riconoscimento della specie. La colorazione generalmente è grigio-bruno o blu scuro sul dorso, bianca sul ventre. Una stretta fascia scura corre lungo i fianchi partendo da una macchia intorno all’occhio, terminando intorno all’apertura anale; un’altra striscia più sottile parte dall’occhio e sfocia alla base della pinna pettorale; una terza striscia, "il baffo" parte dalla pinna dorsale in avanti. La stenella striata è una specie cosmopolita, distribuita nelle acque temperate e tropicali di tutto il mondo. In Mediterraneo è una specie prevalentemente pelagica, tuttavia si distribuisce entro tutti gli strati batimetrici tendendo a trovarsi anche in prossimità della costa, in particolare dove c’è il passaggio tra due isole e dove il mare è profondo (Notarbartolo di Sciara, 1986; Gannier e David, 1997). La stenella vive in branchi che possono variare da una ventina ad un centinaio di individui. In Mediterraneo, ove sembra che si riproduca durante l’estate, è la specie più comune. Si nutre di pesce azzurro e di calamari rivelando un certo opportunismo alimentare (Wurtz e Marrale, 1993; Dolar et al., 2003). E’ generalmente abbondante, ma alcune popolazioni come quelle del Pacifico nord occidentale e del Mediterraneo sono in pericolo. In Mediterraneo un’epidemia di morbillivirus ha causato la moria di più di 1.000 animali tra il 1990 e il 1992. Si pensa che questa epidemia sia stata favorita dall'indebolimento del loro sistema immunitario dovuto all'alta concentrazione di PCB riscontrata nei loro tessuti. La stenella mediterranea è classificata come vulnerabile dall’IUCN (Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006). Fig. 8 – Distribuzione della stenella striata (Stenella coeruleoalba) (disegno di Maurizio Wurtz, www.artescienza.com; mappa da Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006) 4. MINACCE DI ORIGINE UMANA E CONSERVAZIONE I Cetacei sono animali longevi che si riproducono con grande lentezza. Occupano i livelli più alti della piramide trofica e, come tali, hanno pochi antagonisti naturali; tuttavia sono particolarmente vulnerabili e, di fatto, minacciati da una intensa e sempre crescente pressione antropica che impatta sia a livello di singoli individui che di popolazioni. Per gli individui, i pericoli sono rappresentati principalmente dalle catture incidentali negli attrezzi da pesca (le specie che subiscono le perdite più gravi sono il capodoglio, il globicefalo, la stenella striata), dalle uccisioni occasionali deliberate da parte di pescatori (la specie più colpita è il tursiope) e dalle collisioni accidentali con imbarcazioni (le specie più colpite sono la balenottera comune e il capodoglio). L’impatto sulle popolazioni è invece principalmente causato dalla distruzione e degradazione dell’ambiente. Il bacino del Mediterraneo subisce, infatti, forti stress derivanti dalle sostanze chimiche tossiche provenienti da attività umane (mercurio, PCB, DDT, etc.) che tendono ad accumularsi all’interno della catena trofica marina, diventando pericolosi per i consumatori finali, come i Cetacei e l’uomo. Queste sostanze possono dare effetti di avvelenamento acuto oppure interferire con il sistema endocrino e immunitario, ostacolando la riproduzione e indebolendo l’organismo. Inoltre, il Mediterraneo è soggetto ad una elevata concentrazione di traffici marittimi mercantili e da diporto che, oltre ad incrementare in maniera esponenziale il rischio di collisioni con i singoli individui, determina interferenza acustica con il sofisticato apparato di produzione e ricezione dei suoni di cui sono dotati i Cetacei. Anche la pressione di un turismo in aumento vertiginoso, l’urbanizzazione eccessiva, il sovrasfruttamento delle risorse ittiche e il global change, costituiscono un grave pericolo per questo mare e lo rendono meno adatto ad ospitare specie sensibili come i Cetacei. Quest’impressionante situazione del Mediterraneo sottolinea il fatto che la sopravvivenza futura dei Cetacei e dell’intero patrimonio di biodiversità dipenderà probabilmente dai principi di precauzione che verranno adottati e dall’attuazione di precise misure di conservazione per prevenire ulteriori impatti sugli individui e sulle popolazioni. Tutte le specie di Cetacei che frequentano i nostri mari sono inserite nelle liste rosse dell’IUCN in categorie che evidenziano la necessità di maggiori informazioni (Data deficient) e/o di urgenti azioni di conservazione e protezione (Reeves e Notarbartolo di Sciara, 2006). Molte sono incluse anche in Direttive, Convenzioni e Accordi di carattere internazionale per la protezione degli habitat, delle specie e della biodiversità (CBD, Direttiva Habitat, Convenzione di Bonn, CITES, Convenzione di Barcellona protocollo ASPIM, IWC). L’Italia ha inoltre aderito a due importanti accordi internazionali per la conservazione dei Cetacei quali l’accordo ACCOBAMS ed il Santuario Pelagos. Il Governo Italiano, ratificando queste Direttive, Accordi e Convenzioni, si è impegnato, fra le altre cose, a contribuire a mantenere uno stato ottimale di conservazione delle popolazioni di Cetacei, nelle aree interessate da tali accordi. In particolare, in riferimento agli adempimenti all’Articolo 12, comma 4 della Direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, conosciuta come Direttiva Habitat, all’Italia viene imposta la realizzazione di “un sistema di sorveglianza” nazionale sulla mortalità indotta dalle attività umane e, quindi, sulle popolazioni faunistiche delle specie in Allegato IV. Anche la nuova Strategia per l’ambiente marino adottata con risoluzione dell’11 dicembre 2007 dal Parlamento Europeo [Marine Strategy Framework Directive, 993/2/2007 – C6-0261/2007 – 2005/0211(COD)] prevede il mantenimento della Diversità Biologica marina (i.e. mantenimento della distribuzione e abbondanza delle specie in linea con le condizioni fisiografiche, geografiche e climatiche) oltre a specifici programmi di monitoraggio per la valutazione dello stato dell’ambiente sulla base di specifici elementi, fra i quali i mammiferi marini (Annex III). Sostenere la messa in atto di misure atte ad incrementare il livello di protezione e conservazione delle popolazione dei Cetacei afferenti alle acque italiane, nell’ambito della tutela e valorizzazione della biodiversità di tutta la regione del Mediterraneo e del Mar Nero, è una priorità nazionale. Anche molte organizzazioni non governative (ONG) stanno sostenendo lo sviluppo di programmi di tutela di queste specie La scomparsa dei Cetacei dagli oceani terrestri rappresenterebbe un devastante impoverimento della biodiversità planetaria, lasciando un vuoto incolmabile negli ecosistemi e nell’immaginario collettivo di tutta l’umanità. RINGRAZIAMENTI Un sentito ringraziamento al Prof. Baccio Baccetti per aver fortemente incoraggiato questo lavoro e alla Commissione Lincea per i Problemi della Biodiversità. Vorrei inoltre ringraziare il Prof. Maurizio Wurtz per i disegni delle specie di Cetacei del Mediterraneo, Francesca Triossi e Raffaella Tizzi per il loro ininterrotto supporto, Barbara Mussi e Angelo Miragliuolo per il nostro lavoro comune, Giancarlo Giacomini, Carlo Fortunato, Carla Berardi e Nicolò Pace per il costante sostegno. BIBLIOGRAFIA ACEVEDO-GUTIÉRREZ A., 2002. Group Behavior. In: W.F. Perrin, B. Würsig & J.G.M. Thewissen (Eds.), Encyclopedia of Marine Mammals. 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