come essere buoni cittadini? si deve imparare a scuola

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come essere buoni cittadini? si deve imparare a scuola
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Corriere della Sera Giovedì 17 Marzo 2016
LA PROPOSTA
COME ESSERE BUONI CITTADINI?
SI DEVE IMPARARE A SCUOLA

COMMENTI
DAL MONDO
di Attilio Oliva
Cambiamento L’insegnamento
scolastico ha il compito di istruire,
ma anche di educare a vivere con
gli altri: sessanta ore all’anno,
obbligatorie, dedicate a questa
materia potrebbero aiutare le
giovani generazioni, valorizzando
così anche l’intelligenza emotiva
S
ono passati cinquant’anni da
quando Aldo Moro introdusse nei programmi l’Educazione civica: a tutt’oggi, per indagini documentate, questa
scelta è rimasta solo sulla carta. Anche perché, affidata indistintamente a tutti gli insegnanti, non è stata praticata
da nessuno.
Più in generale, vanno evidenziati profondi mutamenti
di scenario. Il primo è il passaggio storico e impetuoso da
una scuola per pochi a una
scuola «per tutti»: le sue dimensioni si sono triplicate.
Il secondo è conseguenza
dell’entrata in campo di nuove
e potenti agenzie formative
(Tv, Internet, industria del
tempo libero ecc.) che operano in concorrenza con la
scuola e spesso in dissonanza
visto che non hanno responsabilità educative.
Il terzo è che il tessuto sociale del passato (famiglia,
chiesa, partiti) si è molto indebolito.
Tutto ciò ha appena scalfito
il funzionamento della scuola
che tuttora adotta modelli pedagogici pensati al tempo di
Gentile (1923) per una società
e una utenza molto diverse.
Addirittura, per reazione al
Ventennio, gli insegnanti si
sono trincerati a difesa della
missione di «istruire» preferendo lasciare il ruolo educativo a famiglie, chiese, associazioni giovanili, che hanno
difficoltà ad esercitarlo. Ma la
neutralità della scuola è un
valore? Per il filosofo Savater
«una certa neutralità scolastica è auspicabile, ma non fino
al punto di essere reticente rispetto ai valori costitutivi della nostra civiltà».
Così lo spazio della formazione, che non sa restare vuoto, è riempito da agenzie
esterne che qualcuno ha definito «pirata». E i giovani oggi
si formano fuori dalla scuola e
dagli spazi familiari, per cercare risposte alle loro inquietudini e domande di senso.
Per TreeLLLe è imperativa
una svolta radicale affinché la
scuola si faccia carico non solo di istruire ma anche di educare a vivere con gli altri, dando ragione, sempre in modo
critico, dei valori e delle regole per una convivenza civile.
La storia ci insegna che le conoscenze da sole non bastano, visto che possono essere
usate indifferentemente sia
per fini nobili che perversi.
Gli antropologi ci insegnano
che la razionalità, nell’evoluzione della specie, è solo un
recente strato superficiale di
pulsioni che vanno tenute
sotto controllo: insicurezza,
aggressività, intolleranza verso i diversi, istinto gregario e
conformismo. E gli psicologi
sociali ci insegnano che va
educata anche l’«intelligenza
emotiva» (autocontrollo, sa-
persi mettere al posto dell’altro ...), perché gioca un ruolo
decisivo nelle relazioni fra gli
uomini.
Ma viviamo in tempi in cui
è arduo definire chiare gerarchie di valori. TreeLLLe ritiene che la scuola debba operare evitando gli opposti pericoli della neutralità e dell’indottrinamento. Per districarsi tra
i tanti messaggi dissonanti
cui i giovani sono esposti,
sembra opportuna una terza
via: l’adozione di una «pedagogia della controversia».
Nella sua pubblicazione
«Educare a vivere con gli altri
nel XXI secolo: cosa può fare
la scuola?», TreeLLLe formula
proposte concrete, sostanzialmente ispirate da un memorabile testo del filosofo Calogero (1956): «… e come volete
che i giovani imparino ad essere buoni cittadini se non
imparano a discutere? … quel
che è importante è il nuovo
modo di insegnare… discutendo in comune… e questo si
può fare soltanto quando si
abbia agio e tempo per la discussione… e non quando si
sia ossessionati dall’ansia di
finire il programma».
Di qui la proposta chiave di
TreeLLLe: che tutti i curricoli
scolastici prevedano un tempo specifico per l’educazione
alla cittadinanza (60 ore obbligatorie all’anno), non di lezioni ma di «attività» interat-
tive su temi di etica pubblica,
per fare ricerche o prodotti di
gruppo, per uscite sul territorio; che si affidino queste attività ad un insegnante che non
insegni altro anche se in sinergia con i colleghi.
Dove trovare il tempo? Nella
scuola secondaria, ad esempio, attingendo in tutto o in
parte alle 50/60 ore di assemblee per gli studenti, così da
restituire a quel tempo il senso educativo che si è ormai
quasi sempre perduto. Dare
voti? Sì, affinché questa attività sia presa sul serio dagli studenti.
Questa proposta non ha costi aggiuntivi, è già praticabile
con le norme attuali e si potrebbe sperimentare subito
su 100 scuole.
La seconda proposta di TreeLLLe è quella di una «scuola
a tempo pieno» (6/7 ore al
giorno), obbligatorie per i primi otto anni (poi facoltative),
per avere il tempo di istruire e
di educare anche attraverso
una rosa di opzioni extrascolastiche. Si tratta di una proposta costosa, ma strategica
se vogliamo una scuola davvero compensatrice di gravi ineguaglianze sociali (e i primi
otto anni sono davvero decisivi).
Presidente
Associazione TreeLLLe
www.treellle.org
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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USA
TRUMP
È PRIMO
MA SARÀ
BATTAGLIA
di Massimo Gaggi
Sudafrica, il lungo
cammino verso
l’uguaglianza
Sudafrica fa un passo

 Ilindietro.
E rischia di
essere ancora un Paese
diviso per etnie. Se lo
domanda preoccupato Jeff
Rudin sul Cape Times.
Ragionare sempre in termini
di «bianco» e «nero» è un
obbrobrio che alimenta odi
e rancori. Ieri quelli dei
sostenitori dell’apartheid,
oggi della maggioranza di
colore che sostiene che
l’uguaglianza promessa da
Mandela sia un traguardo
lontano da raggiungere. Le
proteste degli studenti neri a
Johannesburg e Città del
Capo sono un segnale
inquietante al riguardo.
«Verwoerd (uno dei padri
dell’apartheid) gioirà nella
tomba» sottolinea il Cape
Times. E con lui chi vuole un
Sudafrica lacerato per
dimostrare che il razzismo
non si può estirpare.
a cura di Carlo Baroni
S
pazzato via il figlio e
fratello di presidenti,
demolita la giovane
stella della politica repubblicana con la sua
storia da «american dream», il
discendente di poveri immigrati cubani che riesce ad arrivare in vetta, tocca ora a John
Kasich sfidare il rullo compressore Donald Trump. Modesta
figura di figlio dell’Europa dell’Est (padre ceco, madre croata), il governatore dell’Ohio
non sembrerebbe avere né i
numeri né il «physique du role» per tentare l’impresa.
La sua retorica pragmatica e
buonista da parroco di campagna, il tentativo di conquistare
gli elettori con l’elenco delle
cose costruttive fatte in Ohio,
ricordano da vicino i toni predicatori che hanno contribuito
a far colare a picco la candidatura di Jeb Bush. Niente a che
vedere col linguaggio marziale
di Trump che calamita l’attenzione dell’America arrabbiata. I
numeri, poi, dicono che Kasich
ha vinto solo uno dei 30 confronti elettorali che si sono tenuti fin qui: quello nel suo Stato. Un po’ poco per essere considerato un credibile candidato
alla Casa Bianca: ha racimolato
138 delegati, rispetto agli almeno 621 di Trump e ai circa 400
di Cruz. Rubio, già uscito di
scena, ne aveva di più: 168.
Ma i numeri dicono anche
altro: intanto Trump, che sicuramente arriverà primo al traguardo delle primarie, ieri ha
mancato il colpo del ko proprio
in Ohio e quindi potrebbe non
arrivare al «quorum» dei 1.237
delegati che gli garantirebbe la
«nomination» repubblicana.
Attualmente è a metà strada
mentre sul fronte democratico
Hillary Clinton è già a due terzi
del percorso. Ci sono poi altri
numeri, quelli dei sondaggi
sullo scontro finale per la Casa
Bianca. Ne sono stati fatti diversi, a destra e a sinistra e tutti
danno lo stesso risultato: la ex
«first lady» vincerebbe nettamente contro Trump mentre
perderebbe, anche se di poco,
contro Kasich.
Ma si tratta di stime premature e i sondaggi nazionali sono poco attendibili. Basterà
questo per spingere il partito
repubblicano a trasformare la
«convention» in una battaglia
campale col rischio che il
«tycoon», persa la «nomination», scateni (come ha già minacciato ieri) proteste di piazza
e si presenti comunque come
candidato indipendente? Difficile dirlo ora. Lo «speaker» repubblicano alla Camera, Paul
Ryan, non ha escluso l’ipotesi
di una «convention contestata»: a chi chiede risponde con
un sibillino «vedremo».
Trascinato chissà dove dalla
leadership di Trump o spaccato e costretto a rifondarsi, il
«Grand Old Party» sprofonda
nei suoi incubi. Così all’«establishment» repubblicano, che
non ama nemmeno Cruz, non
rimane che aggrapparsi alla
zattera di Kasich, sperando che
il governatore prenda quota
nelle prossime votazioni in Stati problematici per Trump, dalla Pennsylvania allo Utah. E che
l’immobiliar-populista non
riesca ad «asfaltare» anche lui
con la sua retorica rude, insultante ma efficace.
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