PLUTONE

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PLUTONE
PLUTONE
di Federico Tosi
Associazione Reggiana di Astronomia (A.R.A.)
Sommario
§I) STORIA .........................................................................................................................................3
§II) LA RICERCA DEL DECIMO PIANETA ..................................................................................6
§III) CARATTERISTICHE ORBITALI E DINAMICHE ...............................................................8
§IV) IL DIAMETRO.........................................................................................................................10
§V) CARONTE..................................................................................................................................11
§VI) CARATTERISTICHE FISICHE.............................................................................................12
§VII) LO SPETTRO .........................................................................................................................13
§VIII) LE ECLISSI DI PLUTONE E CARONTE ..........................................................................15
§IX) LE OSSERVAZIONI DEL TELESCOPIO SPAZIALE.........................................................17
§X) L’ATMOSFERA ........................................................................................................................18
§XI) PLUTONE E TRITONE ..........................................................................................................22
§XII) ESPLORAZIONE SPAZIALE ...............................................................................................23
§XIII) OSSERVAZIONI AMATORIALI.........................................................................................26
PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI PLUTONE.......................................................................28
PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI CARONTE ......................................................................28
BIBLIOGRAFIA...............................................................................................................................29
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STORIA
Dopo Nettuno, individuato nel 1846 grazie alle ricerche combinate di Le Verrier e Galle, gli
astronomi trascorsero più di mezzo secolo tentando di individuare nuovi pianeti del Sistema Solare.
Mentre la ricerca di corpi inframercuriali (Vulcano o i Ciclopi) non ebbe mai successo, tali
prolungati sforzi portarono invece alla scoperta di un ulteriore pianeta al di là di Nettuno.
L’esistenza di un nono pianeta era stata ipotizzata fin dall’inizio del Novecento per giustificare le
piccole perturbazioni osservate nell’orbita di Urano (quella di Nettuno non era infatti ancora ben
conosciuta). Fra coloro che fecero tale ipotesi vi era anche Percival Lowell: nato a Boston nel 1855
da una delle famiglie più note e benestanti del New England, titolare egli stesso di una notevole
ricchezza personale, dopo la laurea a Harvard nel 1876 aveva intrapreso la professione diplomatica
operando negli Stati Uniti, in Giappone e in Corea, ma, essendo appassionato studioso dei pianeti e
volendo dedicarsi all’astronomia, abbandonò a 37 anni la carriera e decise di costruirsi un
osservatorio privato. Per questo scopo eseguì prima di tutto uno studio accurato delle condizioni
climatiche di numerosi luoghi in Europa e in America, finché trovò in Arizona un sito
particolarmente favorevole per l’osservazione. Presso la città di Flagstaff, su una montagna alta
circa 2200 metri, Lowell fondò nel 1894 l’Osservatorio che ancora oggi porta il suo nome,
corredandolo di strumenti potentissimi per l’epoca. Il telescopio principale, costruito dal famoso
ottico Alvan Clark, era un rifrattore da 24 pollici di diametro (circa 61 cm) col quale Lowell, già sul
finire del XIX secolo, aveva osservato su Marte le famose linee scure chiamate “canali”, cui egli
aveva attribuito un’origine artificiale. Inutile dire che l’ipotesi si sarebbe rivelata totalmente
infondata; nondimeno lo stesso strumento avrebbe poi reso inestimabili servigi all’astronomia in
diversissimi campi di ricerca.
Divenuto dal 1902 professore di astronomia al Massachusetts Institute of Technology (MIT),
Lowell era profondamente convinto che esistesse un pianeta transnettuniano, da lui battezzato
Pianeta X. Vi era infatti la possibilità che le discrepanze (i cosiddetti “residui”) tra le posizioni di
Urano e Nettuno calcolate dalla teoria e quelle osservate non fossero semplicemente imputabili agli
errori di riduzione delle vecchie misurazioni, ma fossero invece dovute all’attrazione gravitazionale
di un corpo non ancora noto. Nel 1905 diede quindi inizio alle prime ricerche in proposito,
alternando sporadiche campagne di osservazioni fotografiche del cielo lungo l’eclittica a lunghi e
tediosi calcoli matematici. Lowell sperava di ricavare l’orbita e la massa del Pianeta X applicando
ai residui orbitali di Urano, ritenuti più affidabili di quelli di Nettuno, tecniche matematiche simili a
quelle già impiegate con successo da Adams e Le Verrier per lo stesso Nettuno. Nel frattempo un
altro astronomo, William H. Pickering (1858-1938), fratello minore del più celebre Edward C.
Pickering e già scopritore del satellite di Saturno Febe (1898), nonché autore del primo atlante
fotografico lunare (1903), decise di affiancare in modo indipendente Lowell nella sua ricerca del
nono pianeta del Sistema Solare. Pickering, che aveva lavorato come assistente nella stessa
Università in cui insegnava Lowell, nel 1908, usando un metodo grafico proposto da John Herschel
in un libro del 1849, propose il primo di quella che negli anni sarebbe diventata una lunga lista di
candidati: il Pianeta O, la cui orbita, molto vicina a quella di Nettuno, differiva sensibilmente da
quella proposta da Lowell.
Tra il 1906 e il 1916 a Flagstaff furono così esposte ed accuratamente esaminate con una procedura
estremamente laboriosa migliaia di lastre. Il 13 gennaio 1915 Lowell, davanti all’Accademia
americana, presentò i risultati di quasi dieci anni di studi condensati nella finale Memoir on a
Trans-Neptunian Planet, in cui si ricavava la possibile esistenza di un pianeta con massa pari a 6,7
masse terrestri ad una distanza 43 volte quella esistente fra la Terra e il Sole, di magnitudine stimata
13, ubicato nella costellazione dei Gemelli. La memoria non riscosse particolare interesse, ma a
Flagstaff i tentativi di individuare il nuovo corpo celeste continuarono fino alla metà del 1916.
Lowell morì il 12 novembre di quell’anno, lasciando ai suoi successori un potente osservatorio –
poi intitolato al suo nome – e l’intero programma di ricerca, ricerca che peraltro era rimasta orfana
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del suo protagonista più energico e convinto. Gli anni successivi conobbero nuove ipotesi di
Pickering, il quale, dopo avere modificato ripetutamente le sue predizioni per il Pianeta O, arrivò
addirittura a proporre l’esistenza di altri pianeti transnettuniani, da lui battezzati P, Q, R, S, T e U.
Tutte queste previsioni furono però puntualmente accompagnate da brevi quanto infruttuose
ricerche fotografiche, così l’impresa venne temporaneamente accantonata.
La svolta arrivò nel 1929, allorché al Lowell Observatory fu acquistato un nuovo strumento più
efficace: un astrografo, ossia un telescopio fotografico a grande campo, di 33 cm di diametro e 169
cm di focale, con il quale era possibile impressionare lastre formato 35×43 cm che fornivano
immagini di zone molto più ampie del cielo. Nella parte centrale di queste lastre, in un’ora di posa,
si riuscivano a registrare stelle di magnitudine 18. Il direttore dell’Osservatorio, Vesto M. Slipher
(1875-1969), era astronomo di chiara fama, che si era già messo in luce per aver scoperto gli
enormi spostamenti verso il rosso delle galassie esterne con il rifrattore da 61 cm. Egli decise di
riprendere la ricerca del Pianeta X assegnando all’uso del nuovo strumento un giovane assistente,
Clyde William Tombaugh (1906-1997), un ragazzo dell’Illinois da poco laureato in astronomia, che
dimostrava di possedere un grandissimo talento di osservatore subito riconosciuto da Slipher.
Anche in questo caso la ricerca fu organizzata in modo sistematico, fotografando tutte le zone della
fascia dell’eclittica quando queste si trovavano in opposizione al Sole e quando il moto apparente
dell’ipotetico pianeta, riflesso del moto terrestre, era più veloce. La campagna iniziò in settembre,
quando in opposizione al Sole si trovava la costellazione dell’Acquario, per poi spostarsi nei mesi
successivi verso est attraverso le costellazioni dei Pesci, dell’Ariete e del Toro: una coppia di lastre
da 35×43 cm esposte in assenza del disturbo lunare, in queste regioni non attraversate dalla Via
Lattea e tuttavia riboccanti di centinaia di galassie, poteva essere controllata in due giorni di duro
lavoro, al ritmo di 30.000 stelle al giorno, entro la fine del successivo periodo di Luna piena. Ma
nella parte orientale della costellazione del Toro, proprio per la vicinanza della Via Lattea, il
numero di immagini stellari in ogni lastra saliva a 300.000, cosa che incrementò il tempo di esame
all’incirca di quattro volte. Le prime lastre della regione dei Gemelli poi erano così ostiche, con
circa 400.000 stelle per lastra, che furono dapprima lasciate da parte.
Le indagini venivano effettuate con il cosiddetto “microscopio comparatore” (blink-comparator),
uno strumento che permetteva di confrontare alternativamente, e con lo stesso oculare, due
fotografie fatte a distanza di tempo l’una dall’altra, per evidenziare gli eventuali spostamenti degli
oggetti celesti ripresi: in questo caso infatti l’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non
nel caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo praticamente identico, ve ne
sia qualcuno che abbia mutato, pur di pochissimo, la sua posizione. Il 18 febbraio 1930, poco più di
un anno dopo il suo arrivo e a 24 anni appena compiuti, Tombaugh aveva scelto tre lastre da
esaminare, centrate attorno alla stella delta Geminorum e impressionate rispettivamente il 21, 23 e
29 gennaio. La prima venne inizialmente scartata perché ritenuta di scarsa qualità; le altre due
furono analizzate partendo dalla zona a sud-est. Alle 4 pomeridiane, Tombaugh ebbe un sussulto:
un minuscolo puntino di magnitudine 15 appariva essersi spostato rispetto alle stelle di campo. Le
due immagini erano separate da circa 3,5 mm e, poiché le lastre erano state riprese strettamente in
opposizione, l’entità di questo spostamento indicava senza ombra di dubbio che l’oggetto si trovava
oltre l’orbita di Nettuno. Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio cercando di ricavarne
qualcosa, e infatti poté individuare la medesima immagine spostata di un millimetro rispetto alla
posizione del 23 gennaio. Tombaugh fece controllare le lastre agli altri colleghi e al direttore
Slipher. Il cielo limpido del 19 febbraio permise al giovane astronomo di assicurare un’altra ripresa
della regione interessata, sulla quale l’immagine del corpo celeste fu rapidamente rintracciata nella
posizione prevista. La notte successiva, lo staff dell’Osservatorio esaminò visualmente l’oggetto
attraverso il rifrattore da 61 cm per controllare se si presentasse come un piccolo disco. L’aria era
molto tranquilla ma non venne distinto alcun disco: una vera delusione, in quanto Lowell aveva
previsto che il suo pianeta X dovesse mostrare un diametro angolare apparente di almeno 1 secondo
d’arco. Ad ogni modo, dopo approfonditi controlli, si decise di annunciare la scoperta il 13 marzo
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1930, giorno del settantacinquesimo anniversario della nascita di Lowell (per combinazione, in
quella stessa data ricorrevano i 149 anni dalla scoperta di Urano). Da quel momento incominciò il
problema di come chiamare il nuovo pianeta.
Da tutto il mondo giunsero all’Osservatorio Lowell numerosi messaggi contenenti suggerimenti sul
nome da dare. Nonostante le varie proposte, chi doveva decidere era Slipher, il direttore
dell’Osservatorio, che con i suoi collaboratori alla fine optò per battezzarlo Plutone. Si dice che tale
nome fosse stato avanzato da una ragazzina inglese di Oxford, Venetia Burney, allora appena
undicenne, la quale, avuta notizia della scoperta, inviò un telegramma all’Osservatorio con la
proposta che poi sarebbe stata effettivamente accettata. Il nome scelto fu comunque ritenuto adatto
per un corpo che si muove nelle buie ed estreme regioni del Sistema Solare, poiché Plutone era il
dio romano dell’oltretomba; inoltre questo nome contiene le iniziali di Percival Lowell e le prime
due lettere del cognome dello scopritore, Tombaugh.
La scoperta del nono pianeta destò grandissimo interesse da parte della stampa, non solo negli Stati
Uniti ma anche in Europa, e si può dire che per la prima volta i mezzi d’informazione misero
l’astronomia in prima pagina. In realtà, molti anni più tardi si scoprì che Plutone era già stato
fotografato, senza riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima della morte di
Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una nel 1929. In particolare, le osservazioni del
1919 erano state fatte a Monte Wilson su richiesta di Pickering, che per quell’anno aveva di nuovo
pronosticato la posizione del pianeta transnettuniano, questa volta in base a studi sulle perturbazioni
di Nettuno e non di Urano. Sfortunatamente, due delle fotografie prese nella costellazione dei
Gemelli dall’astronomo Milton L. Humason mostravano in effetti l’immagine di Plutone, ma in una
il pianeta era nascosto da un difetto della lastra, e nell’altra era oscurato dalla vicinanza di una stella
luminosa. Così Pickering perse l’occasione di diventare lo scopritore del nono pianeta.
A prescindere da questa curiosità, nell’ambiente scientifico ci si rese presto conto che qualcosa non
andava: anche se Plutone era stato scoperto in una posizione distante meno di 6° da quella prevista
da Lowell 15 anni prima, e con un’orbita che si accordava abbastanza bene con le previsioni
teoriche, il pianeta presentava una luminosità più bassa (di circa 2 magnitudini) rispetto a quella
prevedibile sulla base della teoria di Lowell, la quale, dando una valutazione approssimativa della
massa del pianeta perturbatore, permetteva di farsi anche un’idea delle sue dimensioni. In un primo
tempo, per risolvere la contraddizione, si pensò che Plutone potesse essere molto denso e scuro,
così da abbinare a una massa elevata una luminosità molto debole. Ma anche questa giustificazione
cadde quando divenne possibile misurare direttamente il diametro del pianeta: nel 1950 venne
impiegato a questo scopo quello che era il più grande telescopio riflettore del mondo, il 200 pollici
(508 cm) di Monte Palomar in California, con cui Gerard Kuiper e Milton Humason, spingendosi
fino a 1100 ingrandimenti, ottennero un primo valore di 5900 km. Adottando questo dato, anche
assumendo una massa pari a quella terrestre, ne risultava una densità 10 volte superiore a quella del
nostro pianeta, vale a dire 2,86 volte quella dell’oro: non essendo ragionevole accettare una densità
così elevata, diversa da quella di tutta la materia in condizioni normali formante la nostra Terra e gli
altri pianeti, si concluse che doveva essere errato il valore attribuito alla massa o quello ricavato per
il diametro. Quest’ultimo però venne poi indirettamente confermato da un’osservazione inconsueta.
Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1965, Plutone avrebbe dovuto occultare una stella della
costellazione del Leone. Il fenomeno fu seguito in molti osservatori ma l’occultazione non ebbe
luogo. Essendosi trovato che il centro di Plutone era passato a 0,125 secondi d’arco a sud della
stella, si dedusse che il diametro del pianeta non poteva essere superiore a 5800 km, in buon
accordo con le misure di Kuiper e Humason. A questo punto sembrò inevitabile che, date le
ridottissime dimensioni di Plutone, la sua massa dovesse essere assai minore di quella che era stata
prevista teoricamente, e quindi divenne chiaro che il pianeta era troppo piccolo per produrre
perturbazioni osservabili su Urano o Nettuno. Gli astronomi si chiesero allora a che cosa fossero
dovute le perturbazioni, ipotizzando che, a parte Plutone, dovesse realmente esistere un decimo
pianeta dalla massa sufficiente a produrle.
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La spiegazione oggi data alle perturbazioni di Urano e Nettuno è la seguente: le osservazioni di
Urano usate da Lowell erano in parte precedenti alla scoperta dello stesso pianeta, e questi dati
erano probabilmente affetti da errori non trascurabili, che Lowell non riconobbe come tali ma
interpretò come il risultato di una perturbazione causata appunto dalla congiunzione con un pianeta
sconosciuto, il Pianeta X, avvenuta nel corso del ’700. Gli errori di osservazione (e la
pseudoperturbazione legata ad essi) calavano molto per le osservazioni effettuate dopo la scoperta
di Urano, e Lowell ne concluse che l’orbita del pianeta sconosciuto doveva essere tale da tenerlo
lontano da Urano per tutto il XIX secolo. Si può dunque affermare che la scoperta di Plutone è stata
una coincidenza, avvenuta casualmente grazie ad errori di misura: in pratica era sbagliata l’ipotesi
di partenza di Lowell, e da una confusione fra effetti reali ed effetti apparenti dovuti ad errori
osservativi risultò per caso la predizione di un’orbita molto simile a quella reale di Plutone. In
questo senso si può forse dire che la scoperta di Plutone fu il frutto dell’applicazione in grande stile
della tecnica fotografica e non della meccanica celeste, a quei tempi ancora incapace di calcoli tanto
precisi e predittivi, benché non si debba dimenticare che se Lowell non fosse stato motivato dalla
dottrina meccanica non avrebbe fatto costruire l’Osservatorio, né avrebbe formulato il programma
di ricerca.
Negli ultimi decenni l’analisi delle orbite di Urano e Nettuno, arricchita da nuovi dati sempre più
accurati, è stata ripetuta molte volte, portando a rivedere le conclusioni di Lowell ma riproponendo
l’ipotesi dell’esistenza di un decimo pianeta al di là di Plutone.
LA RICERCA DEL DECIMO PIANETA
Negli anni successivi al 1930, Tombaugh estese deliberatamente la propria esplorazione fotografica
a tutto il cielo visibile da Flagstaff, impresa che completò nel luglio 1943. Dopo aver speso 7000
ore esaminando sulle lastre quasi 45 milioni di stelle e aver scoperto, oltre a Plutone, 145 asteroidi,
1807 stelle variabili, 1 cometa, 1 ammasso globulare, 5 ammassi aperti e diversi ammassi di
galassie, Tombaugh concluse che non potevano esserci pianeti più luminosi della magnitudine 16,5
nella porzione di cielo da lui esplorata. Solo un corpo con un’orbita molto inclinata rispetto
all’eclittica e localizzato nei pressi del polo sud celeste avrebbe potuto sfuggire alla sua indagine.
Tuttavia negli anni che seguirono furono in molti a proporre l’esistenza di un decimo pianeta, e
diverse linee di ragionamento hanno guidato i ricercatori. Alcuni si sono basati su certe regolarità o
anomalie mostrate dalle orbite di diverse comete a lungo periodo; altri hanno continuato ad
analizzare gli incerti residui orbitali di Urano e Nettuno per ottenere orbita e massa del corpo
perturbatore; altri ancora si sono ispirati alle estinzioni periodiche di specie viventi sulla Terra per
sostenere che un pianeta transplutoniano perturbasse a intervalli regolari le orbite di comete presenti
in una fascia compresa tra le 50 e le 100 Unità Astronomiche dal Sole, creando le condizioni per
catastrofiche collisioni. Robert S. Harrington e Thomas C. Van Flandern, sulla base di esperimenti
numerici, proposero nel 1979 un decimo pianeta di massa superiore a quella terrestre per spiegare le
orbite anomale di Tritone e Nereide (satelliti di Nettuno) oltre che dello stesso Plutone, ma questa
ipotesi non fu suffragata da alcun riscontro osservativo. Nel 1977 l’astronomo americano Charles T.
Kowal intraprese una ricerca sistematica usando il telescopio Schmidt da 122 cm dell’Osservatorio
di Monte Palomar: nel corso di sette anni, coprendo una fascia di 30° centrata sull’eclittica, scoprì 5
comete e 14 pianetini, oltre all’enigmatico Chirone, il grosso asteroide capostipite della famiglia dei
Centauri. Ma non trovò traccia di pianeti.
Ulteriori risultati negativi provengono da una serie di osservazioni effettuate nell’infrarosso
lontano, un dominio di lunghezze d’onda appropriato alle temperature estremamente basse in cui
dovrebbe trovarsi l’ipotetico pianeta. A questo scopo un’équipe di astronomi inglesi ricercò la
presenza di oggetti mobili in una lunga serie di immagini ottenute dal satellite astronomico
infrarosso IRAS, che operò nel 1983 effettuando, tra le altre cose, tre cartografie successive del
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cielo a sei mesi di distanza l’una dall’altra: da questa complessa ricerca non emerse appunto alcun
elemento significativo. Venendo a tempi più recenti, nell’ottobre del 1999 furono pubblicate due
ricerche indipendenti svolte dai team di due ricercatori, John Murray (Open University, Gran
Bretagna) e John Matese (University of Louisiana). Si ipotizzò la presenza di un corpo grande
almeno quanto Giove a una distanza di 25-32.000 UA, causa delle perturbazioni nelle comete a
lungo periodo. In base a un articolo pubblicato nell’aprile del 2001, le perturbazioni sulla cometa
2000CR potrebbero essere causate da un oggetto posizionato a circa 200 UA dal Sole. Tale corpo
dovrebbe essere grande almeno quanto Marte e avrebbe un periodo di rivoluzione attorno al Sole di
circa 3300 anni.
Tutte le osservazioni condotte finora hanno in generale dato esito negativo. Del resto, cercare un
puntino debolissimo in mezzo a milioni di stelle è un compito ai limiti delle capacità umane, e solo
l’invio nello spazio di potentissimi telescopi infrarossi e l’automazione delle susseguenti indagini
potranno forse dirimere la questione.
La ricerca dunque continua, anche se il decimo pianeta rimane tuttora incluso nel novero dei
“fantasmi del Sistema Solare”, mentre nei primi anni ’90 si è andato scoprendo al di là di Plutone
un grande numero di piccoli planetesimi, i cosiddetti oggetti della fascia di Edgeworth-Kuiper,
nuclei cometari raggruppati in un vasto anello la cui esistenza era già stata teorizzata nei primi anni
Cinquanta. La scoperta dei planetesimi di Kuiper e la loro dislocazione proprio là dove i calcoli
teorici dicono che dovrebbero stare, quando si tiene conto della sola perturbazione gravitazionale di
Nettuno, dimostrerebbero che la parte più esterna del disco protoplanetario non seppe partorire un
altro pianeta vero e proprio. Ciò farebbe dunque ritenere che Plutone sia veramente l’ultimo pianeta
del Sistema Solare.
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CARATTERISTICHE ORBITALI E DINAMICHE
Plutone, il più remoto pianeta del Sistema Solare, si muove intorno al Sole lungo un’orbita molto
eccentrica (e = 0,2482) con semiasse maggiore – cioè distanza media dall’astro – pari a 5,913
miliardi di km (39,52944 Unità Astronomiche), giacente su un piano molto inclinato (17°,148
ovvero 17°09') rispetto a quello dell’orbita terrestre. L’elevata inclinazione dell’orbita di Plutone,
eccezionale se paragonata a quella degli altri pianeti del Sistema Solare, fa sì che esso in certi
periodi possa trovarsi, nel cielo, anche sullo sfondo di costellazioni non zodiacali. Un’altra
caratteristica insolita è l’alta eccentricità dell’orbita, anch’essa di gran lunga superiore a quella di
tutti gli altri pianeti e responsabile del fatto che Plutone si trova all’afelio a 7,378 miliardi di km dal
Sole, mentre al perielio è a 4,437 miliardi di km e quindi per circa 20 anni viene a trovarsi più
vicino al Sole di Nettuno, penetrando all’interno della sua orbita, come è avvenuto ad esempio nel
periodo compreso tra il 7 febbraio 1979 e l’11 febbraio 1999 (l’ultimo passaggio al perielio si è
verificato il 5 settembre 1989, il prossimo si avrà nel 2237). Plutone rimarrà il pianeta più esterno
del Sistema Solare fino al 5 aprile 2231.
È un caso unico nel Sistema Solare che due pianeti abbiano orbite che si intersecano. Ad ogni modo
l’orbita di Plutone è tale che incontri ravvicinati fra i due pianeti sono impossibili, grazie a
fenomeni di “risonanza”. In primo luogo, il periodo orbitale di Nettuno è pari ai 2/3 di quello di
Plutone, che è di 248,54 anni terrestri, ovvero i due periodi stanno nel rapporto 3:2, e la
sincronizzazione fra le due orbite fa sì che quando Plutone si trova vicino al perielio Nettuno è
sempre in una parte molto lontana della sua orbita, ad una distanza angolare (angolo Nettuno-SolePlutone) minima di 60°; inoltre l’elevata inclinazione dell’orbita di Plutone fa sì che esso, al
perielio, si trovi molto al di sopra del piano orbitale di Nettuno, e viceversa molto al di sotto per la
restante parte dell’orbita stessa, allontanando sempre più il pericolo di eventuali perturbazioni
distruttive. Per questi motivi la distanza fra i due pianeti è al minimo di circa 384 milioni di km.
Simulando al computer miliardi di anni di moti orbitali di Plutone, si trova che la sua orbita è prima
caotica, poi diventa stabile; è quindi estremamente improbabile che il pianeta si sia formato in
un’orbita così strana. Una vecchia ipotesi, avanzata nel 1936 da Raymond A. Lyttleton (Università
di Cambridge), proponeva che Plutone fosse stato originariamente un satellite di Nettuno, sfuggito
alla sua attrazione gravitazionale a causa di un incontro ravvicinato con un ipotetico corpo di
dimensioni planetarie (forse lo stesso Tritone), ma questa eventualità è in seguito apparsa
indifendibile di fronte alla varietà di argomentazioni dinamiche presentate.
Come tutti gli altri pianeti, Plutone si sarebbe dunque formato in un’orbita quasi circolare e quasi
coincidente con il piano dell’eclittica. La costituzione dell’attuale risonanza con il moto orbitale di
Nettuno e dell’elevata eccentricità dell’orbita sarebbero avvenute in una successiva fase evolutiva,
quando l’orbita di Nettuno cominciò ad allargarsi, ad ingrandirsi, per effetto di incontri casuali con
numerosi planetesimi residui non aggregati, ancora presenti nelle regioni esterne del Sistema
Solare, e in qualche milione di anni la sua velocità angolare diminuì fino a raggiungere gli attuali
valori. Mentre Nettuno continuava a migrare verso l’esterno, Plutone e un gran numero di altri corpi
ghiacciati rimasero “intrappolati” nelle cosiddette risonanze di moto medio, combinazioni
dinamiche che si verificano quando due oggetti possiedono periodi orbitali che possono essere
espressi con un rapporto numerico semplice: come si è detto prima, Nettuno e Plutone sono oggi
bloccati in una risonanza 3:2, che fa sì che Nettuno effettui esattamente tre rivoluzioni attorno al
Sole nello stesso tempo in cui Plutone ne compie due. Quest’ultimo sarebbe stato poi forzato a
modificare la propria orbita da circolare in ellittica, e l’eccezionale eccentricità raggiunta potrebbe
essere la conseguenza delle collisioni che anch’esso può avere avuto con i planetesimi che
costituivano lo sciame originario a cui apparteneva. Inoltre, le simulazioni più recenti mostrano che
l’azione gravitazionale di Nettuno potrebbe aver fatto aumentare anche l’inclinazione dell’orbita di
oggetti come Plutone.
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Essenzialmente le orbite di Nettuno e Plutone sono “bloccate” l’una rispetto all’altra e, nel corso di
migliaia di rivoluzioni attorno al Sole, Nettuno avrebbe dapprima amplificato l’eccentricità di
Plutone, nello stesso modo in cui un bambino su di un’altalena viene mandato sempre più in alto
grazie a una serie di spinte sincronizzate con il moto dell’altalena stessa. A un certo punto, però,
dalla simulazione risulta che ulteriori complessi effetti risonanti provocano pure un aumento
dell’inclinazione del pianeta sino al suo valore presente. La ricostruzione dei processi evolutivi che
portarono Plutone all’attuale situazione può fornire una grande quantità di informazioni utili per
spiegare l’evoluzione subita dai planetesimi e dagli embrioni planetari che poco più di quattro
miliardi di anni fa occupavano tutta la zona esterna del Sistema Solare, pianeti giganti compresi.
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IL DIAMETRO
La determinazione del diametro di Plutone non fu cosa facile. Fin dal 1965, come si è detto, si
sapeva che esso doveva essere minore di 5800 km, ma le occultazioni stellari adatte a tali
misurazioni sono molto rare, cosicché vennero applicati altri metodi come quello
dell’interferometria a macchie (speckle interferometry), che permette di ricostruire al calcolatore
immagini di corpi celesti di dimensioni angolari inferiori al seeing (grado di turbolenza)
atmosferico “filtrando” quest’ultimo con opportune tecniche osservative e numeriche. Tramite
questo metodo, per buona parte degli anni Ottanta fu assegnato al diametro di Plutone un valore
generico attorno a 3000 km. Negli anni successivi, grazie allo studio di particolari fenomeni che
interessarono il pianeta e di cui si dirà più avanti, il diametro di Plutone scese ulteriormente a 2300
km, ma l’incertezza sulla stima risultava ancora relativamente grande, finché il dilemma venne
definitivamente sciolto nei primi mesi del 1994 con l’intervento del telescopio spaziale Hubble
della NASA, che, dopo la riparazione delle ottiche, veniva finalmente puntato con successo verso il
pianeta risolvendone chiaramente il disco e permettendone la misurazione: secondo la stima più
recente fatta dal Jet Propulsion Laboratory (JPL), il diametro di Plutone sarebbe di 2274 km con
un’incertezza dell’1% circa (±16 km).
Le ridotte dimensioni di Plutone fanno di esso il più piccolo pianeta del Sistema Solare, persino più
piccolo di molti satelliti tra cui anche la nostra Luna, che ha un diametro medio di 3476 km. Per
questo e altri motivi Plutone è stato al centro di un acceso dibattito svoltosi alla fine degli anni ’90:
alcuni astronomi dubitavano che esso meritasse lo status di pianeta, relegandolo al ruolo del
componente di maggiori dimensioni della fascia di Kuiper, la numerosissima popolazione di corpi
ghiacciati che si muove oltre l’orbita di Nettuno. La diatriba si è poi risolta in maniera salomonica:
Plutone, per ragioni storiche, viene ancora considerato un vero e proprio pianeta, mentre dal punto
di vista fisico e dinamico è ormai chiaro che esso appartiene alla famiglia degli oggetti
transnettuniani di Kuiper.
Plutone ruota su se stesso in 6,3872 giorni, attorno a un asse che è talmente inclinato (122°,52) da
risultare quasi adagiato sul piano dell’orbita, un caso che si era già riscontrato in altri pianeti come
Venere e Urano. Secondo la convenzione adottata dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU),
il polo nord è quello che si trova a nord del piano dell’eclittica, e per questo motivo Venere, Urano
e Plutone sono considerati pianeti con rotazione retrograda, cioè la loro rotazione avviene da est a
ovest ovvero in senso orario se osservata da un punto ideale posto sopra il polo nord.
Le dimensioni apparenti del Sole, alla distanza media di Plutone, sono 39,5 volte minori di quelle
che si osservano dalla Terra: il diametro angolare medio dell’astro, visto da laggiù, è infatti di circa
49 secondi d’arco.
Un soggiorno su quel mondo deve essere desolante. Un nero cielo cosparso di lucenti stelle sovrasta
nella notte sterminate banchise e colossali cumuli di ghiaccio. Poi, a un certo momento, sorge una
stella molto più luminosa delle altre e il paesaggio si rischiara come quello terrestre sotto la luce
della Luna: è sorto il Sole, un Sole che dovrebbe illuminare e scaldare e che invece, con la sua
radiazione ridotta mediamente di circa 1560 volte rispetto a quella che arriva sulla Terra, rivela al
massimo le immense distese di ghiaccio e neve che ricoprono il pianeta.
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CARONTE
Nel 1978, durante una serie di indagini sistematiche per determinare l’esatta posizione di Plutone,
l’astronomo americano James W. Christy e il suo collaboratore Robert S. Harrington (U.S. Naval
Observatory) si accorsero che le migliori immagini fotografiche del pianeta prese col riflettore
astrometrico di 155 cm di diametro installato presso la stazione osservativa di Flagstaff
presentavano talvolta un leggero rigonfiamento: esaminando alcune lastre ottenute da Christy fra
l’aprile e il maggio di quell’anno con l’intensificatore di immagini in dotazione al telescopio, essi
notarono come in alcune foto di Plutone apparisse a volte una specie di protuberanza, e questo
fenomeno fu ritrovato a posteriori in altre sette lastre prese nel periodo 1965-1970, dall’una all’altra
delle quali l’escrescenza si presentava in posizione diversa. Un’ulteriore conferma arrivò poco dopo
dall’Osservatorio di Cerro Tololo nel Cile. È bene ricordare a questo punto che in vecchie immagini
di Plutone, raccolte negli archivi di vari Osservatori, era già stata notata l’immagine elongata del
pianeta, ma nessuno aveva compreso il suo vero significato. Le immagini non circolari, infatti,
molto spesso sono causate da un cattivo inseguimento del telescopio o da un difetto ottico di
quest’ultimo. In questo caso però la realtà era ben diversa: il fenomeno era evidentemente dovuto
all’esistenza di un satellite che orbitava attorno al pianeta, con un periodo che fu poi determinato
con grande precisione, risultando di 6,38725 giorni (6 giorni, 9 ore, 17 minuti e 38 secondi).
L’annuncio dell’esistenza di un satellite di Plutone venne dato il 22 giugno 1978, e al corpo fu
assegnato il nome di Caronte (Charon), il mitico nocchiero degli inferi.
All’epoca della scoperta di Caronte, il piano dell’orbita del satellite era posto quasi
perpendicolarmente rispetto alla direzione Sole-Terra-Plutone, per cui si osservava la somma delle
luminosità di entrambi i corpi. Il satellite a sua volta ruota attorno a Plutone da una distanza di
19.640 km (circa 20 volte minore di quella tra la Terra e la Luna), su un’orbita perfettamente
circolare e assai inclinata (98°,80) rispetto al piano dell’orbita del pianeta: risulta così che Caronte,
muovendosi lungo il piano equatoriale di Plutone, attraversi quasi perpendicolarmente l’eclittica.
Le dimensioni relativamente cospicue di Caronte, che misurate col telescopio spaziale Hubble sono
risultate essere di 1270 km (circa la metà del pianeta stesso), fanno sì che in pratica Plutone e
Caronte costituiscano un “pianeta doppio”. È possibile che Caronte abbia avuto origine da un
primordiale impatto catastrofico contro Plutone, che avrebbe portato parte dei frammenti del
pianeta originario a riaggregarsi in orbita attorno ad esso; oppure potrebbe essere stato catturato
durante un incontro molto ravvicinato. Inoltre Caronte possiede una notevole peculiarità: non solo
rivolge sempre la stessa faccia verso il pianeta (come fa anche la nostra Luna), ma è l’unico satellite
naturale del Sistema Solare che mantiene il pianeta in un analogo stato di sincronizzazione fra la
rotazione e il moto orbitale, cioè il sistema Plutone-Caronte è caratterizzato da una risonanza 1:1 fra
periodo di rotazione del pianeta e periodo di rivoluzione del satellite. In altre parole, il periodo di
rotazione di Caronte è identico al suo periodo di rivoluzione, ed entrambi questi periodi sono
identici al periodo di rotazione di Plutone. Questo fa sì che Caronte, visto da Plutone, non sorga e
non tramonti mai, ma appaia sempre fermo nello stesso punto del cielo, permanentemente visibile
da un emisfero del pianeta e invisibile dall’altro: è un satellite sincrono, come molti satelliti
artificiali meteorologici e per telecomunicazioni che orbitano attorno alla Terra a quote
geostazionarie; in questo senso si potrebbe dire che Caronte è un satellite “plutostazionario”. Anche
Plutone, dal canto suo, volge sempre lo stesso emisfero al proprio satellite: se, con un po’ di
fantasia, immaginassimo di tirare da un punto di Plutone un filo lungo 19.640 km fino a Caronte, il
filo resterebbe sempre ben teso e si potrebbe usarlo per passare da un corpo all’altro!
Tale situazione si è venuta a creare per effetto delle forze di marea, che, se non causano in genere
deviazioni rilevanti rispetto alla forma sferica negli oggetti solidi, agiscono comunque in maniera
tanto più efficace quanto più vicini e di massa comparabile sono i due corpi in questione: la
conseguenza più eclatante è che la rotazione di entrambi rallenta finché il periodo di rotazione
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raggiunge il periodo di rivoluzione, stabilizzandosi poi su questo valore. Il corpo frenato in modo
più rapido è logicamente quello meno massiccio, il satellite, e questo spiega perché tanti satelliti
naturali, compresa la nostra Luna, abbiano un periodo di rotazione sincronizzato con quello
orbitale; ma, seppur più lentamente, le maree frenano anche la rotazione dei pianeti, come dimostra
il fatto che per questo motivo la lunghezza del giorno terrestre sta aumentando di un paio di
millisecondi per secolo. Nel caso di Plutone e Caronte, visto il rapporto di massa poco sbilanciato e
la distanza ridotta, si stima che il processo sia durato solo pochi milioni di anni, e che ora sia giunto
al suo stadio finale: entrambi i periodi di rotazione sono sincronizzati con quello orbitale, e i due
corpi restano immobili l’uno nel cielo dell’altro.
CARATTERISTICHE FISICHE
La scoperta di Caronte permise la determinazione più precisa di alcune delle grandezze
caratteristiche di Plutone, sulla base dei reciproci moti: ad esempio la massa del pianeta risultò di
sole 0,00216 masse terrestri, un valore molto inferiore alle stime precedenti, tutte basate sulle
presunte perturbazioni provocate sul moto orbitale di Nettuno. La massa di Plutone, stimata dunque
in 1,29×1022 kg, ha permesso assieme alla conoscenza del suo diametro di dare anche una
valutazione sulla sua densità media, che è risultata essere di 2,05 g/cm3, circa il doppio di quella del
ghiaccio d’acqua. Questo è un dato molto importante, poiché indica che la composizione di Plutone
è più simile a quella dei pianeti giganti che non a quella dei pianeti di tipo terrestre: dal valore della
densità media si ricava che l’interno del pianeta sarebbe costituito per il 65-70% da minerali
rocciosi, e per il resto da ghiacci, sia di acqua che di metano. Quest’ultimo composto è stato
chiaramente identificato sulla superficie da misure sulle variazioni di riflettività a diverse lunghezze
d’onda. La composizione e l’estensione del nucleo interno di Plutone dovrebbero determinare le
caratteristiche del suo eventuale campo magnetico, del quale peraltro al momento non si sa nulla. Il
rapporto di massa tra Plutone e Caronte, circa 7:1, è il più basso fra quelli di tutte le coppie pianetasatellite esistenti nel Sistema Solare: per confronto, il sistema Terra-Luna ha un rapporto 81:1,
mentre i rapporti tipici pianeta-satellite sono di 104:1 o maggiori. Tale rapporto fa sì che la massa di
Caronte sia valutabile in 1,77×1021 kg. Questo dato implica che la densità media del satellite è più
bassa rispetto a quella di Plutone: circa 1,83 g/cm3, il che fa propendere per un più alto valore del
rapporto ghiaccio/rocce, ossia nell’interno di Caronte vi sarebbe una maggiore abbondanza di
ghiaccio d’acqua e una minore quantità di silicati.
Riguardo l’origine del sistema Plutone-Caronte, sulla base delle caratteristiche orbitali dei due
corpi, del loro rapporto di massa, del momento angolare del sistema binario e dell’elevata obliquità
(circa 120°) dell’asse di rotazione rispetto al piano orbitale attorno al Sole, si possono fare alcune
ipotesi. Secondo una delle teorie più accreditate, Plutone e Caronte originariamente dovevano
essere due corpi indipendenti. Caronte entrò però in collisione con Plutone, provocando l’eiezione
di parte della superficie del pianeta nello spazio; a seguito di questa collisione i due corpi si
riunirono gravitazionalmente. Se il nucleo di Plutone era costituito da roccia e il suo mantello da
ghiaccio, la maggior parte del materiale eiettato doveva essere costituita da ghiaccio, e ciò
renderebbe conto dell’elevata preponderanza di roccia che si osserva attualmente sul pianeta.
Inoltre, una certa quantità del ghiaccio espulso da Plutone potrebbe essere ricaduto su Caronte,
spiegando così perché il satellite sia composto per la maggior parte da ghiaccio d’acqua. In
definitiva, un minor valore della densità media di Caronte tenderebbe a privilegiare l’ipotesi della
formazione provocata da un grande impatto, una spiegazione invocata anche per il sistema TerraLuna e che pare essere in buon accordo con i modelli dinamici e con le più recenti simulazioni al
computer.
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LO SPETTRO
Nel 1972 il cosmochimico americano John S. Lewis elaborò dei modelli quantitativi sulla
condensazione degli elementi chimici nella nebulosa protoplanetaria: Lewis dimostrò che varie
sostanze “ghiacciate” come l’acqua (H2O), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’azoto (N2), o le
loro miscele, devono essere i componenti principali della superficie dei corpi solidi più esterni del
Sistema Solare. La radiazione infrarossa rivela la componente “fredda” della materia cosmica; in
particolare il vicino infrarosso, a lunghezze d’onda comprese tra 0,7 e 2,5 micron (si ricorda che 1
micron, o micrometro, è la milionesima parte del metro), è la zona spettrale che meglio si presta a
questi studi perché, oltre che essere facilmente accessibile da terra, presenta bande molto tipiche e
differenziate per le forme ghiacciate dei principali gas cosmogonici. Gli spettri infrarossi di questi
materiali, raffreddati a bassissime temperature, possono essere studiati in laboratorio: essi mostrano
in diversi casi bande di assorbimento che permettono di riconoscere bene, ad esempio, il ghiaccio
d’acqua e quello di metano. Il ghiaccio d’acqua si identifica in due zone di assorbimento principali,
una a 2 micron e l’altra fra 1,55 e 1,65 micron più due assorbimenti minori a 1,25 e 1,04 micron. Il
metano solido invece presenta bande in zone completamente diverse: le principali si trovano a 2,3 e
1,7-1,8 micron, altre meno importanti cadono a 1,15-1,4 e 1-0,9 micron.
Nel caso di Plutone, il suo spettro può essere ottenuto solo quando il pianeta eclissa completamente
Caronte, poiché altrimenti è “contaminato” da quello del suo satellite, o in altre parole risulta la
somma degli spettri dei due corpi, a causa del fatto che la distanza angolare tra essi è sempre
inferiore a 0,9 secondi d’arco e quindi talmente piccola da non permettere di inquadrarli
separatamente con gli strumenti. D’altra parte, negli spettri del sistema, il contributo preponderante
(circa l’80%) viene da Plutone; sottraendo dallo spettro composto quello del pianeta si può ricavare
anche lo spettro di Caronte.
Il primo a ricavare spettri infrarossi di Plutone (o meglio, della coppia Plutone-Caronte) fu Dale P.
Cruikshank (Università delle Hawaii) nel marzo 1976, quando il satellite non era stato ancora
scoperto. L’emissione infrarossa di Plutone venne misurata al telescopio di 4 metri di Kitt Peak, in
cinque punti tra 1,2 e 2,2 micron: ne risultò un andamento che permetteva di escludere la presenza
di acqua e di ammoniaca, mentre era decisamente compatibile con lo spettro di laboratorio del
metano ghiacciato. Dunque Plutone era ricoperto almeno in parte di metano ghiacciato, e per questo
doveva riflettere la luce solare molto più efficacemente di quanto si pensasse; di conseguenza le sue
dimensioni andavano di molto ridotte rispetto a quanto si era stimato in precedenza. Negli anni
successivi (e soprattutto dopo la scoperta di Caronte), gli studi spettroscopici proseguirono con
l’obiettivo di rintracciare tutte le bande del metano. Fu allora che le osservazioni mostrarono spettri
nettamente diversi per i due corpi: quello di Plutone con due assorbimenti, uno a 1,7 micron e
l’altro, più intenso, a 2,3 micron, entrambi ascrivibili al metano ghiacciato; lo spettro di Caronte
invece con un debole assorbimento a 1,6 micron e un altro più marcato a 2,0 micron, dovuti
all’acqua ghiacciata. Chi si aspettava una composizione molto simile per i due corpi rimase
sorpreso nel constatare che le bande di assorbimento nell’infrarosso vicino dovute al metano, così
evidenti nello spettro di Plutone, mancano completamente in quello di Caronte, che d’altra parte ha
un andamento facilmente riconoscibile poiché ricalca lo spettro ottenuto in laboratorio da strati di
brina. Successivamente è stato necessario attendere oltre dieci anni per avere spettri di ottima
qualità nell’infrarosso vicino (1-2,5 micron) della luna plutoniana, ottenuti con la camera NICMOS
del telescopio spaziale Hubble e con il telescopio Keck di 10 m di apertura situato sul vulcano
spento Mauna Kea nelle isole Hawaii. Questi spettri confermano la presenza di ghiaccio d’acqua; la
seconda sorpresa è che esso si trova allo stato cristallino.
Ghiaccio d’acqua di questo tipo è stato individuato sui satelliti di Giove, Saturno e Urano, e ciò non
deve sorprendere in quanto il ghiaccio allo stato amorfo, sinora osservato in natura soltanto nei
nuclei cometari, cristallizza rapidamente a temperature maggiori di –150°C. Ma su Caronte, dove la
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temperatura superficiale non supera mai i –190°C, questa transizione di fase non avrebbe la
possibilità di verificarsi. Inoltre, il ghiaccio cristallino dovrebbe gradualmente trasformarsi in
amorfo sotto l’effetto del continuo bombardamento da parte della luce ultravioletta e dei protoni del
vento solare. Queste radiazioni tendono infatti a rompere i legami dell’idrogeno delle molecole
d’acqua, le quali successivamente si riformano ma non nell’originale struttura cristallina. La
presenza di ghiaccio cristallino su Caronte può significare che la temperatura di questo oggetto ha
raggiunto recentemente valori superiori a quelli che si suppone esistano a quelle distanze dal Sole,
oppure che la sua superficie è stata in buona parte ricoperta in tempi non lontani da ghiaccio
apportato dall’impatto di una o più comete. Un’ipotesi alternativa è che qualche processo non
ancora preso in considerazione converta il ghiaccio amorfo in cristallino.
La terza sorpresa, se sarà confermata da altre osservazioni, potrebbe provenire da certe difformità
dello spettro a lunghezze d’onda superiori a 2 µm rispetto a quello del ghiaccio d’acqua puro.
Utilizzando modelli della luce riflessa da una numerosa varietà di ghiacci e minerali è stato
possibile dedurre che questo particolare andamento con ogni probabilità è dovuto alla presenza di
ghiaccio di ammoniaca, un composto che finora era stato osservato soltanto nelle atmosfere dei
pianeti giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano, Nettuno) e nelle comete. Un elemento, quest’ultimo,
che rafforzerebbe l’ipotesi dell’impatto cometario; infatti la formazione iniziale dell’ammoniaca
nella nebulosa protoplanetaria ha sicuramente richiesto temperature e pressioni elevate, e la sua
molecola tende a essere distrutta dalla radiazione ultravioletta solare e dall’interazione con altre
sostanze come l’anidride carbonica, che è diffusa in tutto il nostro sistema planetario. Ma una
conferma della presenza di questo importante composto si potrà avere solo quando una sonda
spaziale si avventurerà in quella zona del Sistema Solare.
Più in generale, le caratteristiche spettrali di Caronte assomigliano a quelle della maggior parte dei
satelliti dei pianeti giganti esterni, dominate dalle bande di assorbimento del ghiaccio d’acqua: un
satellite analogo a Caronte, per dimensioni e composizione superficiale, potrebbe essere Miranda,
una delle lune di Urano. Il ghiaccio d’acqua su Caronte, viste le rigidissime temperature che
dominano quella remota parte del Sistema Solare, dovrebbe essere resistente come la roccia dura e
potrebbe dar luogo a scarpate e dirupi. I ghiacci più insoliti su Plutone dovrebbero essere invece
strutturalmente più deboli, e forse più fangosi, con pochi paesaggi ben definiti.
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LE ECLISSI DI PLUTONE E CARONTE
Il fatto che Caronte, all’epoca della sua scoperta, avesse il piano orbitale disposto quasi “di taglio”
rispetto alla visuale di un osservatore terrestre, suggerì subito agli astronomi che entro pochi anni i
due corpi avrebbero cominciato a passare l’uno davanti all’altro, occultandosi a vicenda e variando
così periodicamente la luminosità totale in modo facilmente misurabile da Terra. Questo periodo di
eclissi mutue, della durata di alcuni anni, si verifica soltanto due volte nel corso di un’orbita
plutoniana, ovvero ogni 124 anni terrestri; era quindi di fondamentale importanza organizzare
rapidamente una campagna di osservazioni che tenessero costantemente sotto controllo il sistema.
Le eclissi, prima parziali, poi totali e poi di nuovo parziali, ebbero in effetti inizio nel febbraio 1985
e si prolungarono fino all’ottobre del 1990. Durante questi 5 anni e mezzo, Caronte si interponeva
fra la Terra e Plutone, coprendone regioni sempre diverse: inizialmente solo la calotta nord, poi una
fetta crescente dell’emisfero settentrionale, poi nascondeva le regioni equatoriali e così via
scivolando sempre più a sud, fino ad occultare solo la calotta meridionale. In questo modo i due
corpi si eclissavano reciprocamente ogni 3,2 giorni (mezzo periodo orbitale di Caronte), e la durata
di questi eventi variava fra 32 e 79 minuti. Dato poi che anche il Sole si trova all’incirca allineato
con la congiungente Terra-Plutone (in quanto la distanza Sole-Plutone è molto maggiore del raggio
dell’orbita terrestre), i suddetti eventi non si dovevano considerare come “transiti” e “occultazioni”,
ma come vere e proprie eclissi: Caronte cioè proiettava la sua ombra sulla superficie di Plutone
(evento inferiore), e poi spariva nel cono d’ombra di quest’ultimo (evento superiore). Le
osservazioni condotte furono soprattutto di tipo fotometrico, per misurare in maniera precisa la
luminosità totale del sistema in funzione del tempo e ricavare quindi molte informazioni
quantitative sulle sue proprietà dinamiche e fisiche.
Solitamente, la luce che riceviamo da Plutone rappresenta la somma dei contributi del pianeta e del
suo satellite, indistinguibili a causa della ridotta separazione angolare, come si è già detto. Allo
stato attuale Plutone presenta una ben nota oscillazione fotometrica di circa 0,4 magnitudini con
periodo di 6,3872 giorni, indizio questo che sulla superficie vi sono zone a diverso potere riflettente
che si presentano all’osservatore terrestre con la periodicità della rotazione del pianeta. L’ampiezza
nella curva di luce di Plutone è inoltre aumentata nel tempo, essendo molto più alta delle 0,12
magnitudini osservate nel biennio 1953-55 e delle 0,25 magnitudini segnalate nel 1985. Ciò
potrebbe essere in relazione con l’evaporazione dei ghiacci superficiali attorno alla fase di perielio.
Come se non bastasse, un’ulteriore indicazione sul fatto che la superficie del pianeta sia ben lungi
dall’essere omogenea proviene da decenni di accurati studi fotometrici, che hanno dimostrato come
la luminosità globale apparente di Plutone durante tutto questo tempo sia notevolmente diminuita:
l’opinione più accreditata è che, data la grande inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, alla
metà degli anni ’50 da Terra fosse ben visibile l’ampia regione polare sud, ghiacciata e riflettente,
mentre nel periodo vicino al passaggio al perielio, quando si sono verificate le reciproche eclissi
con Caronte, fosse visibile soprattutto la regione equatoriale, più scura e più ricca di irregolarità.
Tornando proprio alle suddette eclissi, bisogna rilevare che quando Caronte transita sul disco di
Plutone la luce totale è minore, perché parte della superficie del pianeta è nascosta alla nostra vista.
Naturalmente se la superficie stessa è molto scura di per sé, allora il calo sarà minimo e viceversa:
proprio queste piccole variazioni, la diversa “profondità” delle cadute di luminosità collegate alle
eclissi e la forma delle relative curve di luce, furono sfruttate nel 1992 da due astronomi del MIT,
Leslie Young e Richard P. Binzel, per tracciare una mappa del pianeta in cui fosse possibile
individuare le regioni a diversa riflettività. Analoghi tentativi a questo proposito erano già stati fatti
nel 1983 (Marcialis) e nel 1987 (Tholen e Buie), ma con scarsi risultati. È interessante notare che il
lavoro fu possibile grazie alla circostanza che i periodi sono sincronizzati: solo così si poteva essere
certi che l’emisfero di Plutone che si stava osservando nel corso di un’occultazione fosse sempre lo
stesso. In aggiunta, bisognava assumere che la superficie non fosse andata soggetta a mutamenti
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significativi nei cinque anni di osservazione, il che pare un’ipotesi ragionevole dato che nel corso di
cinque anni il pianeta non muta di molto la sua posizione orbitale.
Osservando la mappa di Plutone a bassa risoluzione ricavata da Binzel e Young colpiscono
anzitutto le differenze di albedo da zona a zona: la riflettività media nel visibile risulta essere
dell’ordine del 60% (tipica del ghiaccio sporco), ma ci sono regioni in cui la luce solare viene
riflessa per il 30%, altre in cui raggiunge il 90%; notevole, inoltre, è l’estesa fascia scura appena più
a sud dell’equatore. L’impressione immediata che se ne ricava è quella di un equatore più “caldo”
dove la sublimazione abbondante del metano ghiacciato ha lasciato intravedere il terreno più scuro
sottostante, ma la caratteristica più evidente e curiosa è la marcata asimmetria tra le cappe polari
sud e nord, con la prima molto più brillante ed estesa della seconda. E questo rappresentò una
sorpresa inaspettata e sconcertante; infatti, all’epoca dell’osservazione Plutone si trovava a cavallo
del passaggio al perielio, quando cioè l’illuminazione solare è massima, e all’inizio dell’autunno
meridionale. Dunque, la calotta polare sud era rimasta esposta al Sole per tutto il secolo precedente,
mentre quella a nord si trovava immersa nel buio e nel gelo del suo inverno. Per questo ci si doveva
attendere semmai un’asimmetria inversa: la cappa nord estesa, ghiacciata e riflettente e la cappa sud
molto più piccola e scura. La spiegazione data dai due autori fu che le stagioni effettive su Plutone
non dipendono tanto dalla inclinazione dell’asse del pianeta o del suo piano orbitale – e quindi
dall’angolo con cui la radiazione solare investe la superficie – quanto dalla distanza dal Sole,
distanza che aumenta di un buon 66% andando dal perielio all’afelio per via della forte eccentricità
orbitale, e causa grandi variazioni di temperatura durante l’anno plutoniano.
Il satellite europeo per astronomia infrarossa ISO (Infrared Space Observatory) osservò Plutone per
otto volte nel 1997. Misurando il calore emanato dal sistema Plutone-Caronte si ottenne una curva
di luce alle lunghezze d’onda termiche, scoprendo che alcune regioni della superficie di Plutone
hanno una temperatura di –235°C, mentre altre arrivano a –210°C. Non sorprende che queste
variazioni di temperatura siano legate a differenti albedo del pianeta: le regioni più chiare hanno
temperature più basse di quelle scure, anche se le temperature e l’albedo non vanno sempre di pari
passo. Lo scostamento della curva termica relativamente alla luce visibile starebbe forse ad indicare
che la parte superiore delle aree scure sia porosa. Ad ogni modo, anche secondo questi dati, la
superficie di Plutone è probabilmente costituita da metano ghiacciato e da materiale organico più
complesso prodotto dall’esposizione del ghiaccio alla radiazione solare.
Prima che iniziassero le eclissi reciproche si pensava che le caratteristiche di Caronte non dovessero
essere molto diverse da quelle di Plutone, ma le stesse osservazioni permisero di determinare che il
satellite è più scuro del pianeta: l’albedo media di Caronte è circa del 40% (come i satelliti di
Urano), mentre quella di Plutone, come si è detto, raggiunge il 60%, indicando che su Caronte i
ghiacci presenti in superficie devono essere quasi completamente sublimati. Fu inoltre rilevata
anche un’altra cosa: nei transiti di Caronte davanti a Plutone si registrava minor radiazione nella
lunghezza d’onda caratteristica della banda visuale (V), mentre durante l’occultazione di Caronte si
misurava minor radiazione nella banda blu (B), la lunghezza d’onda caratteristica dell’emulsione
fotografica. In sostanza Caronte, pur possedendo una riflettività minore di Plutone, è più luminoso
di quest’ultimo se osservato in luce blu, confermando così che la sua superficie deve essere ricca di
ghiaccio d’acqua, piuttosto che di metano o altri composti chimici ghiacciati come su Plutone: un
fatto quantomeno strano se si ammette che i due corpi siano nati contemporaneamente nella stessa
zona del Sistema Solare e costituiscano un sistema doppio. Il colore più “rosso” di Plutone rispetto
a un colore più “blu” della superficie di Caronte, confermato anche dalle osservazioni del telescopio
spaziale Hubble, è attribuito alla perdita dei ghiacci di azoto, ossido di carbonio e metano volatili
che avrebbero costituito un’atmosfera primordiale sul satellite, poi evaporata a causa della piccola
massa. Una volta innescatosi, questo processo era destinato a progredire sempre di più:
l’evaporazione del metano, infatti, metteva a nudo la sottostante coltre di ghiaccio d’acqua; su
questa cominciò a depositarsi uno strato via via più scuro di materiale carbonioso, così Caronte finì
per assorbire sempre meglio la debole radiazione solare e per far procedere sempre più
speditamente il depauperamento del metano e degli altri composti volatili. Per questo Caronte
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sembra aver raggiunto la fine della sua evoluzione, un’evoluzione tipica di tutti i grandi satelliti
ghiacciati che circondano i pianeti esterni, mentre da questo punto di vista Plutone appare ancora un
mondo in mutamento.
LE OSSERVAZIONI DEL TELESCOPIO SPAZIALE
La mappa di riflettività di Binzel e Young rappresenta indubbiamente una pietra miliare negli studi
sulla superficie di Plutone, tuttavia non è paragonabile alle ricostruzioni della stessa superficie
ricavate dalle osservazioni del telescopio spaziale Hubble, dopo che alla fine del 1993 la NASA,
con una missione Shuttle, aveva provveduto a correggere il grave difetto di aberrazione sferica che
interessava lo specchio principale del telescopio tramite l’inserimento di uno speciale dispositivo.
Già dai primi mesi dopo la riparazione, l’occhio del telescopio spaziale fu puntato verso Plutone: il
dato più impressionante fu la prima individuazione diretta di dettagli morfologici sul disco del
pianeta. Furono elaborate varie immagini riprese sia nel visibile che nell’ultravioletto. Nel visibile
apparivano evidenti alcune zone ad alta riflettività, compatibili con le mappe dedotte da Walter J.
Wild (Università di Chicago) sia dalle mutue eclissi con Caronte sia da quarant’anni di studi sulle
variazioni intrinseche di albedo; nell’ultravioletto gli stessi dettagli apparivano più confusi, mentre
il disco si mostrava leggermente più esteso.
Da queste osservazioni studiosi quali Rudolph Albrecht (Space Telescope European Coordinating
Facility), Alan Stern (Southwest Research Institute) e Marc Buie (Lowell Observatory) partirono
per ottenere, a distanza di poco più di un anno, la prima mappa completa della superficie di Plutone,
con un’eccezionale risoluzione di 160 km. La nuova e più dettagliata mappa mostrava una dozzina
di aree chiare e scure, oltre alle due calotte polari. Evidentemente qui giocava un ruolo importante
la complessa distribuzione dei ghiacci che costituiscono la superficie del pianeta, la cui variegata
morfologia cambia presumibilmente con la lontananza dal Sole; inoltre il comportamento
nell’ultravioletto era riconducibile ad un’atmosfera che il pianeta pareva aver sviluppato
nell’approssimarsi al perielio. Su questo punto pare opportuno discutere più approfonditamente.
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L’ATMOSFERA
Di regola, più un pianeta o un satellite è piccolo, minore è la probabilità che la sua gravità abbia
potuto trattenere un’atmosfera gassosa nei pressi della superficie, per via della scarsa velocità di
fuga. Ad esempio la nostra Luna, che pure è più grande di Plutone, è essenzialmente priva di
atmosfera. Tuttavia, oltre alla gravità, un altro fattore determina la stabilità di un’atmosfera
planetaria: la temperatura. Una bassa temperatura rende in media più lento il moto delle molecole
del gas, e quindi minore la frazione di quelle che possiedono energia sufficiente per sfuggire nello
spazio. Da questo punto di vista Plutone, grande quanto i due terzi della Luna e con una
temperatura superficiale nell’ordine dei 200 gradi sotto zero, è apparso per molti anni come un caso
incerto: fino al 1988 l’esistenza di un’atmosfera su di esso era uno dei problemi aperti
dell’astronomia planetaria, e soltanto in quell’anno la tecnica delle occultazioni stellari permise di
ottenere una prova indiscutibile a questo proposito. L’esistenza di metano ghiacciato su Plutone,
peraltro, era stata provata fin dal 1976 attraverso l’analisi del suo spettro infrarosso, ed era quindi
naturale supporre che parte del metano superficiale potesse sublimare, formando una tenue
atmosfera gassosa.
Dopo anni di risultati incerti, finalmente l’astronomo Uwe Fink (Università dell’Arizona), nella
primavera del 1980, riuscì ad ottenere, al riflettore da 1,55 metri dell’Osservatorio di Catalina
abbinato a un rivelatore CCD, uno spettro molto buono nella regione tra 0,58 e 1,06 micron, dove il
metano gassoso presenta ben 7 bande di assorbimento. Lo spettro di Fink era praticamente
coincidente con quello teorico, di laboratorio, del metano gassoso. In particolare risultava molto
convincente la grande somiglianza, anche nella struttura fine, della banda più importante del
metano, quella a 0,89 micron. Dalle intensità degli assorbimenti minori e facendo le ipotesi più
verosimili sulla massa e sulla gravità del pianeta, Fink calcolò una pressione superficiale di 0,15
millibar (circa 1/6755 di quella terrestre al livello del mare). In realtà, per quanto già molto basso,
questo apparve ben presto essere un limite superiore: infatti le bande su cui era stato fatto il calcolo
compaiono anche nello spettro del metano ghiacciato e quindi il contributo della componente
gassosa poteva essere stato sovrastimato.
Che però un’atmosfera dovesse comunque avvolgere anche il più freddo dei pianeti venne
confermato da alcune straordinarie osservazioni effettuate nel luglio e nell’agosto del 1983 dal
satellite artificiale IRAS nell’infrarosso medio e lontano, a lunghezze d’onda inaccessibili da terra
ma estremamente utili per definire l’effettiva temperatura del pianeta. Agli “occhi” di IRAS,
Plutone risultava quasi invisibile a 25 micron, ma molto brillante a 60 e 100 micron. La misura
dell’energia emessa in queste due bande risultò compatibile con una temperatura del corpo
emittente di 51 K (ossia –222°C); un valore superiore a quello che, teoricamente, è calcolabile per
un corpo solido “nudo” in equilibrio termico con la radiazione che lo illumina (corpo nero) che disti
dal Sole quanto Plutone: circa 43 K, pari a –230°C. A fare dubitare di questi risultati ci furono
alcune osservazioni radiotelescopiche nella lunghezza d’onda millimetrica delle microonde, che
indicavano una temperatura più bassa (30-40 K). Tuttavia un modo per spiegare l’eccesso termico è
quello di ammettere qualche tipo di effetto serra prodotto da una debole atmosfera, ed infatti il
metano è un tipico gas da effetto serra, poiché tende a trattenere il calore essendo trasparente alla
radiazione solare incidente ma parzialmente opaco alla radiazione infrarossa irradiata dal suolo. In
definitiva, prendendo per buone le osservazioni di IRAS, si confermavano le conclusioni di Fink
visto che la suddetta pressione limite di 0,15 millibar corrispondeva ad una temperatura di circa 60
K: dai dati di IRAS si doveva dedurre una pressione decisamente inferiore.
Rimaneva però ancora un problema, sollevato per la prima volta da Laurence Trafton (Università
del Texas) nel 1980 e, se vogliamo, aggravatosi sempre di più con la progressiva diminuzione della
stima di dimensioni e densità (quindi della massa) di Plutone conseguente allo studio delle mutue
eclissi con Caronte. Si trattava in sostanza di spiegare come può Plutone conservare un’atmosfera di
18
metano in condizioni di pressione così bassa. Secondo i calcoli quantitativi di Trafton addirittura,
nelle condizioni di Plutone, una quantità di metano pari all’intera massa del pianeta sarebbe
inevitabilmente evaporata nel giro di 2-3 miliardi di anni. Per uscire da questo “fastidioso”
paradosso non ci sono che due possibilità: l’atmosfera di Plutone potrebbe non essere permanente,
ma limitata solamente ai periodi in cui il pianeta è vicino al perielio e quindi subisce una più intensa
irradiazione solare, per poi “congelare” nel resto del tempo sulla superficie; oppure un altro gas
atmosferico relativamente pesante, ma non evidente negli spettri, potrebbe stabilizzare l’atmosfera
stessa, aumentando la pressione globale superficiale. Ora, si diceva che le occultazioni stellari
furono il mezzo determinante per ottenere una prima prova inconfutabile dell’esistenza di questa
atmosfera.
Quando un corpo del Sistema Solare, visto da Terra, passa davanti a una stella, naturalmente ne
intercetta la luce. Misurando da diversi punti della superficie terrestre la variazione temporale del
flusso luminoso (la cosiddetta curva di luce) proveniente dalla coppia stella-oggetto, e conoscendo
la velocità orbitale del corpo occultante, è possibile stimarne le dimensioni. È anche grazie a questo
metodo che si conoscono i diametri di parecchi asteroidi e in qualche caso le loro forme più o meno
irregolari. Se il corpo che occulta la stella ha un’atmosfera in grado di assorbire una frazione
significativa della luce che l’attraversa, la curva di luce può rivelarne l’esistenza e anche il profilo
di densità: basterà notare come la luminosità della stella, invece di calare a zero di colpo all’inizio
dell’occultazione (e risalire al valore normale improvvisamente quando questa è finita), vari
gradualmente, man mano che i raggi luminosi si trovano ad attraversare strati atmosferici più o
meno densi. Inoltre, il confronto tra le curve di luce misurate in bande fotometriche diverse può
persino dare qualche indicazione sulla composizione chimica dell’atmosfera.
L’applicazione di questo metodo a Plutone è molto difficile: date le sue piccole dimensioni e la sua
distanza, le occultazioni promettenti sono assai rare, inoltre conoscere a priori le posizioni in cielo
di Plutone e della stella in modo abbastanza accurato (meno di un decimo di secondo d’arco), per
prevedere se e da dove l’occultazione sarà realmente visibile, è ai limiti delle possibilità
dell’astrometria. Di conseguenza, quando nel 1985 si prospettò la possibilità che il 9 giugno 1988
Plutone occultasse una stella di magnitudine 12 nella costellazione della Vergine, fu organizzata
una vera e propria “campagna di caccia”. L’evento era molto favorevole, perché, selezionando in
maniera accurata i siti osservativi, sarebbe stato possibile seguire la sparizione della stella in vari
punti del disco di Plutone, con un enorme aumento delle informazioni ottenibili.
Di fatto, James L. Elliot (Massachusetts Institute of Technology) coordinò e organizzò ben 8
postazioni osservative: 7 a terra, tra Australia, Tasmania e Nuova Zelanda, e una in volo sul
Pacifico a bordo del Kuiper Airborne Observatory (KAO), l’aereo della NASA adibito ad
osservatorio volante di alta quota, oggi non più attivo. Quest’ultima spedizione, guidata dallo stesso
Elliot, era senz’altro la meglio equipaggiata, potendo disporre dello stesso telescopio di 91 cm con
il quale proprio Elliot aveva scoperto nel 1977 gli anelli di Urano.
Mentre il KAO era in volo a 12.000 metri di quota sul Pacifico meridionale tra Have e Samoa, la
stella venne occultata da Plutone: la sua luce cominciò ad attenuarsi a 350 km dalla superficie del
pianeta; per i primi 300 km il calo della luminosità fu lento e continuo (perdita del 70% in 20
secondi), poi negli ultimi 50 km fu assai veloce (perdita del residuo 30% di luminosità in 5
secondi). Dopo 70 secondi di occultazione totale da parte del disco di Plutone, la luminosità della
stella risalì con un andamento discontinuo perfettamente simmetrico rispetto alla fase di discesa. La
stessa occultazione fu osservata anche da quattro gruppi al suolo, mostrando un profilo simile a
quello rilevato dal KAO.
Dalle osservazioni fu dedotto che l’atmosfera plutoniana è probabilmente formata da due strati
sovrapposti, che presentano proprietà ottiche assai diverse: a quanto pare, l’alta atmosfera
trasparente si stenderebbe sopra una bassa foschia velata o su un’inversione di temperatura
rifrangente (quando la temperatura, che di norma diminuisce allontanandosi dal suolo, inverte il
trend e inizia a salire con la quota), anche se nulla di più preciso si evinse in quella occasione sulla
composizione chimica dell’involucro gassoso. Diversi modelli teorici, che prevedevano
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un’atmosfera di metano puro o un’atmosfera dominata da azoto misto a una piccola percentuale di
metano, risultavano compatibili con i dati, benché nel secondo caso si dovesse presumere che la
temperatura dell’atmosfera stessa fosse più alta del previsto, risultando di almeno 100 K (173°C
sotto lo zero) ad un’altezza corrispondente alla pressione di 1 microbar (al suolo si dovrebbero
misurare circa 10 microbar durante il periodo di massima vicinanza al Sole). Ciò indusse a qualche
perplessità, dal momento che la superficie del pianeta appariva decisamente più fredda (si stima che
nel 1988 la temperatura al suolo avesse raggiunto punte massime di 58 K, equivalenti a –215°C), e
non si capiva quale fosse il meccanismo che potesse determinare un efficace riscaldamento
dell’atmosfera.
Nel maggio del 1992 un gruppo formato da scienziati americani, britannici e francesi si recò sulla
cima del vulcano spento Mauna Kea, a ben 4200 metri di quota nelle isole Hawaii, dove sorge
l’Osservatorio che ospita l’UKIRT, il Telescopio Infrarosso del Regno Unito da 3,81 metri di
diametro. Questo tipo di telescopi è installato sempre a quote molto elevate, a causa del fatto che la
radiazione infrarossa viene fortemente assorbita dal vapore acqueo presente nella nostra atmosfera
soprattutto a quote inferiori a 3000 metri. Le osservazioni nel vicino infrarosso si possono perciò
effettuare soltanto da grandi altitudini, e così, per utilizzare grosse strumentazioni che non possono
essere caricate su palloni stratosferici, una località di alta montagna diviene un requisito essenziale.
Spettri ad alta risoluzione tra 1,4 e 2,4 micron individuarono per la prima volta su Plutone la banda
dell’azoto ghiacciato a 2,15 micron, unitamente alla banda del monossido di carbonio a 2,35 micron
e varie bande del metano tra 2 e 2,4 micron. Le due bande dell’azoto e dell’ossido di carbonio non
erano state notate in precedenza perché meno evidenti rispetto a quella del metano, e la scoperta fu
possibile proprio grazie al sensibilissimo spettrografo infrarosso di cui era dotato l’UKIRT.
Dall’intensità relativa delle varie bande fu presto dedotto che il componente sicuramente
predominante della superficie di Plutone è l’azoto molecolare (N2), essendo la sua abbondanza
almeno 50 volte superiore a quella del metano, mentre quest’ultimo occuperebbe solo il secondo o
terzo posto in ordine di abbondanza.
Sia l’azoto che il monossido di carbonio sono più volatili del ghiaccio di metano, per cui,
sublimando, con una probabile predominanza dell’azoto, devono essere i primi costituenti che
vanno a formare l’effimera atmosfera del pianeta. La situazione è in qualche modo analoga a quella
della superficie terrestre d’inverno, in cui l’acqua è ghiacciata sul terreno, ma è anche presente
come vapore nell’aria, dove può passare allo stato solido e cadere al suolo sotto forma di neve o
brina: su Plutone l’azoto sembra per l’appunto giocare un ruolo simile, con la differenza che esso è
ancora più abbondante che qui sulla Terra, dominando la composizione chimica dell’atmosfera. Ciò
fa del pianeta una copia quasi perfetta di Tritone, la maggiore delle lune di Nettuno, della quale la
sonda Voyager 2 ci inviò spettacolari immagini nell’estate del 1989. Come si ricorderà, la navicella
della NASA aveva mostrato che l’atmosfera del satellite, pur così evanescente, era interessata da
fenomeni meteorologici, come la formazione di strati di nebbie a bassa quota. Se questo avvenisse
anche su Plutone i risultati dell’occultazione del 1988, che prevedevano un’atmosfera a due strati,
troverebbero una loro giustificazione. Inoltre si potrebbe ipotizzare che anche la superficie di
Plutone, al pari di quella di Tritone, sia costellata di geyser attivi che rilasciano con l’azoto anche
tracce di metano: si è infatti calcolato che basterebbe la presenza di metano gassoso in piccole
proporzioni per giustificare una temperatura di 100 K. Il fatto poi che l’atmosfera plutoniana
“sente” in maniera così netta la radiazione ultravioletta, come si evince dalle immagini prese dal
telescopio spaziale, è probabilmente dovuto alla circostanza che essa è intasata da uno smog
fotochimico di idrocarburi complessi prodotto dalla radiazione solare sulle molecole di metano. Per
intenderci, qualcosa di molto simile a quello che rende completamente opache le nuvole di Titano,
il più grande dei satelliti di Saturno; fortunatamente però, alla distanza di Plutone, la radiazione
solare è così debole che la formazione di smog deve essere avvenuta solo in tracce, permettendoci
l’osservazione della superficie. La presenza di idrocarburi nell’atmosfera del pianeta è stata
recentemente provata: grazie ad osservazioni effettuate nel giugno e luglio del 1999 col telescopio
Subaru da 8,2 metri di diametro del National Astronomical Observatory del Giappone, situato
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anch’esso sulla cima del Mauna Kea, un gruppo di ricercatori ha scoperto che su Plutone esiste
l’etano (C2H6) ghiacciato. Questo composto, disciolto nel ghiaccio di azoto, potrebbe essere rimasto
preservato intatto dai primi giorni della formazione del nostro Sistema Solare, circa 4,5 miliardi di
anni fa, oppure potrebbe anche non essere primordiale, ma appunto il risultato delle reazioni tra i
raggi ultravioletti del Sole e il metano che forma gran parte della superficie del pianeta. Ulteriori
osservazioni potranno stabilire quale di queste due ipotesi sia la più convincente.
Più recentemente, il 20 luglio 2002 e il 21 agosto 2002, Plutone ha occultato altre due stelle, la
P126A (mag. 13,9) e la P131.1 (mag. 15,5), ambedue situate nella costellazione di Ofiuco. La
possibilità di una doppia occultazione era stata prevista due anni prima; tuttavia non era stato
possibile predire con esattezza dove si sarebbe proiettata l’ombra del pianeta sulla Terra, per via del
fatto che l’orbita di Plutone non è ancora conosciuta a un livello di precisione adeguato. Tutto ciò
che si sapeva era che l’occultazione della stella P126A, prevista per il 20 luglio, sarebbe risultata
osservabile dal Sud America, mentre quella della P131.1 avrebbe interessato il 21 agosto il
Pacifico. Nel primo caso lo studio è stato condotto con telescopi mobili nel nord del Cile, mentre la
seconda occultazione è stata seguita con maggiore fortuna da un grande telescopio, il francocanadese-hawaiano (CFHT) di 3,6 m di diametro situato sulla cima del Mauna Kea nelle isole
Hawaii, che però ha registrato la curva di luce solo nel vicino infrarosso, a 0,89 micron.
Tutti i dati sono ora al vaglio degli astronomi, ma, in via del tutto preliminare, sembra che
l’atmosfera di Plutone sia nel frattempo diventata tre volte più densa e in parte più opaca e
omogenea (in pratica, è quasi scomparsa la discontinuità tra alta e bassa atmosfera rilevata
nell’occultazione del 1988). Questo potrebbe essere spiegato fisicamente da un aumento di almeno
2-3°C della gelida temperatura del pianeta, un valore davvero importante a livello globale, ma nel
contempo difficilmente compatibile con il fatto che l’attuale flusso di energia solare ricevuta da
Plutone sia diminuito di un buon 6% rispetto a quello dell’epoca del perielio. Non va tuttavia
dimenticato che la fotometria del 1988 era nel visuale, mentre quella del CFHT è nell’infrarosso: la
discontinuità più “dolce” potrebbe dipendere dal fatto che lo strato interno di nebbiolina (ammesso
che di nebbie si tratti) è più trasparente all’infrarosso che al visibile. Per quanto riguarda l’inatteso
aumento di temperatura superficiale, va ricordato che un fatto analogo ha interessato anche Tritone,
la maggiore delle lune di Nettuno: anche in quel caso la scoperta era stata possibile grazie a
un’occultazione, verificatasi nel 1997, sebbene i mutamenti nell’atmosfera di Plutone appaiano più
significativi. Da qui l’idea di James Elliot che la ragione dell’improvviso aumento della pressione
atmosferica plutoniana sia di carattere endogeno. In pratica, potrebbe esistere su Plutone un’attività
emissiva simile a quella di Tritone, con immensi geyser di azoto liquido che si sollevano dalle
regioni ricoperte di azoto ghiacciato, in conseguenza di stress meccanici vari di tipo mareale
(presenza del satellite Caronte) o stagionale (posizione orbitale vicina al perielio).
Appare infatti evidente che, vista la forte variazione della distanza del pianeta dal Sole nel corso
dell’orbita, con conseguente forte variazione dell’irraggiamento, l’atmosfera di Plutone deve avere
un carattere periodico. Intorno al perielio si avrebbe cioè una specie di “estate globale” che fa
evaporare i ghiacci superficiali ed estende al massimo la tenue coltre atmosferica (un po’ come
fanno le comete); quando poi il pianeta si incammina verso l’afelio, i gas di azoto, monossido di
carbonio e metano tendono a condensarsi in superficie formando uno strato fresco di brina o neve, e
in questo processo l’emisfero sud risulterebbe favorito perché è quello che precipita nel buio. Ciò
sarebbe inoltre in accordo con i cambiamenti di riflettività e di colore misurati su Plutone negli
ultimi decenni: le regioni più scure che si possono individuare sulle mappe di albedo del pianeta
dovrebbero essere aree in cui la sublimazione di ghiacci “freschi” ha portato alla luce strati
sottostanti più antichi dove sono presenti materiali opachi (probabilmente idrocarburi) prodotti nel
complesso miscuglio di ghiacci dall’azione dei raggi cosmici e dalla radiazione ultravioletta solare.
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PLUTONE E TRITONE
Tornando alle analogie esistenti fra Plutone e Tritone, si deve rilevare che i tre gas rivelati
nell’atmosfera sono anche tra i maggiori costituenti delle nubi interstellari, e per questo motivo gli
astronomi sono sempre più convinti che i due corpi siano quelli che maggiormente riflettono nella
loro composizione chimica quella originaria della materia da cui si condensarono tutti i pianeti del
Sistema Solare.
Per le affinità in dimensione, massa, densità e composizione superficiale, è stata avanzata l’ipotesi
che Tritone possa essere un gemello di Plutone, anche perché il moto orbitale del primo, di tipo
retrogrado, può far pensare a una sua cattura da parte di Nettuno e quindi a una sua provenienza
iniziale, assieme a Plutone, da una fascia asteroidale transnettuniana. Molte sono le analogie
superficiali comuni, quali la presenza su entrambi i corpi di azoto, monossido di carbonio e metano
ghiacciati. Sulla superficie di Tritone è stata rilevata anche anidride carbonica ghiacciata e si
suppone la presenza di ghiaccio d’acqua, ghiaccio che tra l’altro, allo stato cristallino e molto
probabilmente frammisto ad ammoniaca, pare essere il costituente principale della crosta di
Caronte. Sia Plutone che Tritone sono poi avvolti da una sottile atmosfera di azoto e metano,
mentre l’esistenza di una tenue atmosfera su Caronte è decisamente più improbabile, anche se non
impossibile (forse è esistita in un lontano passato).
Pur possedendo numerose analogie comuni, non si può tuttavia affermare che Plutone sia un altro
Tritone: è leggermente meno denso e meno massiccio di quest’ultimo, ma molto più scuro, e il suo
satellite Caronte lo è ancora di più; inoltre Plutone non ha sofferto il catastrofico stress termico di
Tritone, dovuto alla sua cattura da parte di Nettuno. Tali differenze probabilmente si possono
spiegare con la diversa storia dinamica e chimica dei tre corpi, una storia che sarebbe utile
conoscere per ricostruire gli eventi occorsi ai confini più esterni della nebulosa protoplanetaria. A
questo proposito c’è chi ipotizza che Plutone e Tritone siano gli ultimi rappresentanti di una
famiglia arcaica di planetesimi esistente alle origini del Sistema Solare e sopravvissuti perché, in
virtù di una specie di “selezione naturale”, avrebbero trovato una stabile “nicchia gravitazionale”, il
primo intorno al Sole e il secondo intorno a Nettuno. In definitiva nulla di certo si può ancora dire,
visto che le migliori stime che definiscono il sistema Plutone-Caronte si riferiscono alle proprietà
superficiali, mentre quasi completamente oscura rimane la composizione interna dei due corpi,
assieme alla loro storia geologica e dinamica. Per chiarire questi misteri è certamente auspicabile
l’esplorazione del pianeta da parte di una sonda automatica, che potrebbe illuminare le fasi della
formazione del Sistema Solare esterno.
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ESPLORAZIONE SPAZIALE
Plutone è rimasto il solo pianeta del Sistema Solare a non essere ancora stato visitato da una sonda
spaziale. Finora i progressi nella conoscenza dei suoi parametri orbitali e fisici sono stati possibili
solamente grazie a tecniche astrometriche e astrofisiche condotte dalla Terra, e anzi dalla fine degli
anni ’70 in poi si sono fatti passi da gigante nella comprensione di questo gelido e remoto mondo,
ma si è ormai giunti a un punto in cui l’invio di una navicella spaziale che sveli i suoi misteri più
reconditi si è dimostrato irrinunciabile.
Plutone è passato al perielio nel 1989, un evento che si verificherà di nuovo soltanto nel 2237.
Poiché i componenti volatili (azoto, metano e ossido di carbonio) presenti in superficie allo stato di
ghiacci che, sublimando, danno origine all’atmosfera, sono estremamente sensibili alla temperatura,
ci si aspetta che in prossimità del perielio la densità atmosferica sia di alcuni ordini di grandezza
superiore rispetto a quando il pianeta si trova all’afelio. Ciò comporta che i processi chimici,
dinamici e di interazione con il vento solare sarebbero molto più attivi e interessanti.
È perciò necessario che questi fenomeni vengano studiati prima del previsto, e abbastanza rapido,
“collasso atmosferico” che dovrebbe iniziare tra il 2010 e il 2020: entro quell’anno gli strati gassosi
saranno tornati a depositarsi sul suolo. In quello stesso periodo, a causa della forte inclinazione
dell’asse di rotazione del pianeta, inizierà un lungo “inverno” che interesserà l’emisfero
meridionale, destinato a sprofondare in un’oscurità semipermanente che impedirebbe ogni ripresa
fotografica della regione così come l’analisi della composizione superficiale. Infatti Plutone, che ha
l’asse di rotazione coricato sull’orbita come Urano e negli anni ’80 mostrava al Sole l’equatore, nel
2005 avrà poco meno del 10% della superficie avvolta da un’oscurità stagionale permanente, ma
tale percentuale raggiungerà il 20% nel 2015, mentre verso il 2030 il pianeta sarà posizionato in
modo da rivolgere all’astro solo il suo polo nord, per cui circa metà del globo risulterà
inosservabile. Scemerebbe quindi l’interesse della missione se la navicella arrivasse al pianeta dopo
il 2020: troverebbe infatti l’atmosfera quasi completamente congelata e depositata su una superficie
in buona parte avvolta dall’oscurità, mentre fino al 2015 la situazione sarebbe indubbiamente più
favorevole, permettendo la visione della maggior parte di Plutone e del suo satellite Caronte.
Benché la prima proposta relativa a una missione spaziale rivolta a Plutone risalga al 1975, quando
si pensò di costruire una terza navicella Voyager per questo scopo, fu solo nel 1989 che la NASA
prese in considerazione l’idea di portare laggiù una sonda o una coppia di piccole sonde gemelle, in
tempi variabili da 7 a 18 anni. Inizialmente si era pensato di inviare la navicella direttamente verso
il pianeta senza ricorrere ad alcun effetto fionda; poi, per ridurre i costi di lancio e aumentare il
carico utile, fu studiata una traiettoria che prevedeva un incontro ravvicinato con Giove prima di
arrivare a Plutone. La missione, battezzata dapprima Pluto Fast Flyby, poi Pluto Express ed infine,
dopo la scoperta dell’esistenza di altri corpi orbitanti al di là di Nettuno, qualcuno dei quali avrebbe
potuto essere il secondo obiettivo della missione, Pluto-Kuiper Express (PKE), fu tormentata da
continue restrizioni di bilancio che costrinsero i responsabili a rivedere il progetto e a ridurre di
oltre la metà il peso degli strumenti scientifici rispetto a quanto definito nel modello originario. Per
questo la missione prevedeva l’utilizzo di nuove tecnologie emergenti per la riduzione di costi,
massa, potenza e volume, senza sacrificare risultati e capacità di lavoro. Tuttavia, per diverse
ragioni, tra le quali lo sforamento del tetto massimo delle spese del progetto (costato fino a quel
momento più di 800 milioni di dollari senza aver prodotto alcun risultato scientifico), nel settembre
del 2000 la NASA sospese la missione, e il lancio della sonda, inizialmente previsto per il dicembre
2004, venne rinviato indefinitamente.
A quel punto ogni speranza di inviare una sonda spaziale verso Plutone in tempi utili sembrava
perduta. Ma sotto le pressanti insistenze della Planetary Society (che aveva sostenuto la missione
fin dall’inizio) e di molti scienziati e appassionati, la NASA fu praticamente costretta a lasciare
aperta questa possibilità. Fu così indetto un concorso per selezionare il progetto migliore e meno
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dispendioso, che avrebbe ricevuto finanziamenti per la realizzazione. Finalmente, il 29 novembre
2001 è stato designato il progetto New Horizons, proposto dal Johns Hopkins University Applied
Physics Laboratory (APL) e dal Southwest Research Institute (SWRI). È stato stabilito che la
missione dovrà partire non oltre il 2006, e la costruzione della sonda dovrà rispettare determinate
scadenze fisse.
Secondo il progetto, la New Horizons partirà nel 2006 e transiterà vicino a Plutone e Caronte nel
2015, per poi entrare nella fascia di Kuiper nel 2025. Gli obiettivi scientifici, che ricalcano in buona
sostanza quelli della precedente missione Pluto-Kuiper Express, sono i seguenti:
1. Caratterizzare la geologia globale e la geomorfologia di Plutone e Caronte, tramite una mappa a
colori in buona risoluzione. Con immagini riprese a diversi angoli di fase (angolo Sole-Plutonesonda) si potrebbero determinare le caratteristiche di riflettività dei due corpi e quindi sarebbe
possibile avere informazioni sulla struttura a piccola scala delle loro superfici;
2. Determinare in dettaglio la composizione superficiale per mezzo di mappe spettroscopiche
nell’infrarosso;
3. Caratterizzare l’atmosfera di Plutone, determinandone la composizione (abbondanze di azoto,
ossido di carbonio, metano e argon), la struttura termica e l’eventuale presenza di aerosol;
4. Esplorare la parte interna della Fascia di Kuiper almeno sino a distanze di 45-50 UA.
Il lancio della New Horizons è ora previsto per il gennaio 2006: dalla Terra, la sonda si dirigerà
verso Giove, a cui arriverà solo un anno dopo. La navicella otterrà così un gravity-assist che le farà
acquisire la velocità necessaria per raggiungere il sistema doppio di Plutone e Caronte nei tempi
previsti. La scelta di usare Giove come “trampolino di lancio” per arrivare a Plutone non è
indispensabile, ma di fatto abbatte i costi in quanto con essa risulta minore la quantità di
combustibile necessaria e di conseguenza maggiore il carico utile, inoltre è richiesto un razzo
vettore di minore potenza per l’inserimento iniziale in orbita. D’altra parte, adottando questa
soluzione il viaggio della sonda risulta più lungo, con tutti i problemi e i rischi che implica una
permanenza prolungata nello spazio per i delicati strumenti di bordo prima ancora che essi abbiano
la possibilità di funzionare a regime.
Durante il lungo viaggio da Giove a Plutone, i responsabili della missione effettueranno continui
controlli sulla “salute” della sonda, attivando periodicamente tutti gli strumenti e calibrandoli in
vista dell’incontro ravvicinato. Nel contempo, gli astronomi sulla Terra cercheranno di scegliere
uno o più oggetti della fascia di Kuiper che siano adatti all’esplorazione da parte della New
Horizons.
Le telecamere della sonda inizieranno ad osservare Plutone e Caronte un anno prima dell’arrivo.
Dapprima i due corpi appariranno come puntini di luce irrisolti, ma le dimensioni si faranno sempre
più sensibili al procedere dell’avvicinamento. Circa tre mesi prima della fatidica data – quando
Plutone e la sua luna disteranno 160.000 km – le telecamere effettueranno le prime mappature. In
quei tre mesi, il team acquisirà immagini ottiche e spettri: se l’atmosfera di Plutone starà
collassando, sarà questa una grande opportunità di osservare in che modo le stagioni cambiano sul
lontano pianeta.
Sia Plutone che Caronte ruotano (su se stessi e la luna intorno al pianeta) in 6,3872 giorni. Negli
ultimi due giorni plutoniani precedenti l’incontro (circa 12 giorni terrestri), il team acquisirà mappe
e nuovi spettri di Plutone e Caronte a intervalli di tempo fissati: dal confronto emergeranno
eventuali variazioni morfologiche del pianeta, sulla scala di un giorno plutoniano e con una
risoluzione spaziale di circa 48 km. Ma la vera fase saliente sarà ovviamente quella del fly-by, e
durerà un’intera giornata, da 12 ore prima del massimo avvicinamento a 12 ore dopo. In questo
periodo di tempo la sonda analizzerà le emissioni ultraviolette dell’atmosfera di Plutone, e con le
sue telecamere realizzerà le migliori mappature complete di Plutone e Caronte nei colori verde, blu,
rosso e in una speciale lunghezza d’onda sensibile al metano ghiacciato in superficie. Saranno
anche prese mappe spettrali nel vicino infrarosso, per rivelare in maniera precisa la composizione
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superficiale (ghiacci di azoto, acqua, metano) nonché la posizione e la temperatura di questi
ghiacci. La sonda arriverà alla minima distanza di 9600 km da Plutone e 27.000 km da Caronte.
Ancora, durante la mezz’ora di massimo avvicinamento ai due corpi, saranno acquisite numerose
immagini nel visibile e nel vicino infrarosso. Per dare un’idea, la migliore di queste immagini di
Plutone dovrebbe mostrare particolari della sua superficie grandi 60 metri.
Ma anche dopo aver superato Plutone e Caronte, il lavoro della New Horizons sarà lungi dall’essere
concluso. Infatti, guardando all’indietro verso gli emisferi bui, sarà possibile evidenziare foschie
nell’atmosfera ed eventuali anelli, oltre a capire se le superfici siano prevalentemente lisce oppure
corrugate. E dal momento che la sonda transiterà nei coni d’ombra dei due corpi, osservando la luce
del Sole e captando le onde radio inviate dalle stazioni a Terra sarà possibile avere ulteriori preziose
informazioni sulla struttura della tenue atmosfera.
Dopo avere definitivamente abbandonato il sistema doppio di Plutone e Caronte, la New Horizons
si dirigerà verso un asteroide della fascia di Kuiper. In verità, un possibile candidato per questo
incontro non è stato ancora selezionato, ma gli scienziati confidano di trovarne uno o più di uno,
con dimensioni di 50-100 km, che la sonda potrebbe esplorare. L’incontro ravvicinato sarà simile a
quello con Plutone e Caronte: la navicella effettuerà una mappatura del pianetino, evincerà la sua
composizione dalla spettroscopia infrarossa e dalle mappe in quattro colori, e cercherà eventuali
tracce di un’atmosfera.
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OSSERVAZIONI AMATORIALI
A causa della sua debole luminosità, che in questi anni si aggira attorno alla magnitudine 14,
Plutone richiede un telescopio di almeno 25-30 cm di diametro perché lo si possa scorgere come
una stellina al limite della percezione, naturalmente in condizioni osservative eccellenti ed
aiutandosi con una mappa fotovisuale della regione di cielo interessata che consenta di individuarlo,
con assoluta certezza, in seguito al confronto delle posizioni relative alle stelle di campo osservate
in notti diverse. Con strumenti più potenti lo si può vedere meglio, ma sempre come un puntino
senza dimensioni, senza alcuna possibilità di risolvere il disco, la cui dimensione angolare
apparente è di circa 0,1 secondi d’arco. Il suo satellite Caronte sarebbe pure relativamente facile da
vedere con un grosso telescopio (appare circa di magnitudine 17) se non fosse troppo accostato a
Plutone, dal momento che la separazione angolare tra i due corpi è al massimo di 0,9 secondi d’arco
e si mantiene tale per meno di 12 ore prima e dopo la massima elongazione nord o sud. Questo
spiega perché Caronte non venne scoperto da Kuiper con il riflettore di 5 metri di Monte Palomar,
nonostante che la magnitudine limite raggiungibile da quel telescopio fosse ben superiore alla
diciassettesima.
In pratica l’osservazione diretta di Plutone risulta assai difficoltosa per gli astrofili e i semplici
appassionati, poiché richiede strumenti di grande apertura che normalmente non sono alla loro
portata, e in ogni caso essa resta molto deludente per l’impossibilità di distinguere la natura
planetaria del corpo celeste. Risultati di importanza scientifica possono essere ottenuti solo con
telescopi professionali di grande diametro, tuttavia non bisogna dimenticare che dalla sua scoperta
Plutone ha finora percorso solo poco più di 1/4 della sua orbita, la quale perciò non è ancora
conosciuta con assoluta precisione. Inoltre, con strumenti di piccolo diametro (superiore però ai 10
cm) è possibile determinare la variazione fotometrica del pianeta, che ha un periodo fisso di 6,3872
giorni e un’ampiezza di circa 0,4 magnitudini (dato del 1998) variabile nel corso degli anni. Di qui
la necessità di misurazioni astrometriche e fotometriche, che, eseguite secondo rigorose procedure
fotografiche o con camere CCD, sarebbero di sicuro interesse per contribuire a migliorare
ulteriormente la conoscenza dei parametri orbitali e fisici. Un CCD rende accessibile il pianeta
anche a un telescopio di 8 cm di apertura con una posa di qualche decina di secondi, mentre con un
telescopio di almeno 20 cm (in realtà meglio se di 30 cm) e un’esposizione di pochi minuti si
possono immortalare sia Plutone che Caronte: quest’ultimo, alla massima elongazione nord o sud,
apparirà come una piccola protuberanza del pianeta. Allo scopo si dovrà riprendere Plutone con un
rapporto focale superiore a f/30-60, a seconda delle dimensioni dei pixel (10-20 micrometri
rispettivamente). Infatti la distanza massima tra i due corpi è di 0",9 e con un potere separatore
migliore di 0",4 e un ottimo seeing si può sperare di mettere in evidenza almeno un’ovalizzazione
nell’immagine del pianeta.
Rimanendo in ambito fotografico, in considerazione dell’apparenza del tutto stellare di Plutone, i
metodi per fotografarlo sono analoghi a quelli utilizzati per le stelle. Considerando la sua debole
luminosità, è consigliabile riprendere il pianeta durante il passaggio in meridiano e comunque
quando culmina nel punto più alto sull’orizzonte. In linea di massima con uno strumento di 15 cm
di diametro aperto a f/8 occorre una posa nell’ordine dei 10 minuti per averne un’immagine, purché
la pellicola sia molto sensibile e la guida effettuata correttamente. Piccole sfocature o errori di
inseguimento portano facilmente a un raddoppio del tempo indicato, senza contare che l’altezza del
pianeta sull’orizzonte e la trasparenza del cielo possono pure influire sensibilmente sul tempo di
posa: conviene fotografare solo se nella zona interessata è possibile scorgere ad occhio nudo stelle
di 5a magnitudine. A causa del moto molto lento tra le stelle, Plutone può essere fotografato come
oggetto puntiforme anche con lunghe pose (alcune ore) con medie focali telescopiche (da uno a tre
metri); servendosi di focali molto lunghe, riscontrabili in diversi strumenti professionali, in alcuni
periodi il moto del pianeta diventa chiaramente visibile (con pose da un’ora in su e focali di oltre
26
cinque metri). Questo non è dovuto solamente al moto vero e proprio di Plutone (che mediamente è
di 14,3 secondi d’arco al giorno), ma al moto combinato della Terra, che, durante l’opposizione, lo
fa apparire spostarsi di circa 90" al giorno tra le stelle, cioè quasi 4" all’ora.
Per i dilettanti che dispongono di telescopi di corta focale, fotografare Plutone rappresenta
essenzialmente una soddisfazione personale, ma come si è detto in precedenza uno dei principali
motivi per la fotografia del pianeta è l’esatta conoscenza della sua orbita, donde la necessità di
ottenere un’immagine molto puntiforme con una lunga focale. È bene pertanto ricordare che
conviene eseguire la posa – o meglio le pose – con una durata appena sufficiente ad ottenerne le
immagini; in tal modo queste risulteranno più puntiformi. Pose ripetute in sere consecutive
mostreranno, oltre al moto apparente sullo sfondo delle stelle, la variazione di luminosità del
pianeta, che ruota in 6,3872 giorni ed ha alcune macchie scure sulla superficie. Un incoraggiamento
alla fotografia di Plutone deriva inoltre dal fatto che esso si trova ancora in una parte della sua
orbita relativamente vicina al Sole, e la luminosità è maggiore di circa due magnitudini rispetto a
quella che avrebbe all’afelio: poco prima del passaggio al perielio, nella primavera del 1989, il
pianeta, che si trovava a nord dell’eclittica, raggiunse la luminosità massima corrispondente alla
magnitudine 13,6, una circostanza che si rivelò piuttosto vantaggiosa per gli osservatori situati
nell’emisfero boreale.
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PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI PLUTONE
Scopritore
Data della scoperta
Massa (kg)
Massa (Terra = 1)
Raggio equatoriale (km)
Raggio equatoriale (Terra = 1)
Densità media (g/cm3)
Distanza media dal Sole (km)
Distanza media dal Sole (Terra = 1)
Periodo di rotazione (giorni)
Periodo orbitale (anni)
Velocità orbitale media (km/s)
Eccentricità orbitale
Inclinazione dell’asse di rotazione (gradi)
Inclinazione dell’orbita (gradi)
Accelerazione di gravità all’equatore (m/s2)
Velocità di fuga all’equatore (km/s)
Albedo di Bond
Albedo visuale geometrica
Magnitudine visuale apparente media
Temperatura di corpo nero (K)
Composizione dell’atmosfera
Clyde W. Tombaugh
18 febbraio 1930
1,29×1022
0,0021595
1137
0,18188
2,05
5.913.520.000
39,52944
–6,3872
248,54
4,74
0,2482
122,52
17,148
0,4
1,22
0,145
0,3
15,12
42,7
Azoto, Monossido di carbonio, Metano
PARAMETRI ORBITALI E FISICI DI CARONTE
Scopritore
Anno della scoperta
Massa (kg)
Massa (Terra = 1)
Raggio equatoriale (km)
Raggio equatoriale (Terra = 1)
Densità media (g/cm3)
Distanza media da Plutone (km)
Periodo di rotazione (giorni)
Periodo orbitale (giorni)
Velocità orbitale media (km/s)
Eccentricità orbitale
Inclinazione dell’orbita (gradi)
Velocità di fuga all’equatore (km/s)
Albedo di Bond
Albedo visuale geometrica
Magnitudine visuale apparente
James W. Christy
1978
1,77×1021
0,00029630
635
0,099561
1,83
19.640
6,38725
6,38725
0,23
0,00
98,80
0,610
0,375
0,5
16,8
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Bibliografia
Libri:
• AA.VV.: Enciclopedia a fascicoli Astronomia - alla scoperta del cielo, ed. Curcio, Roma 1986,
•
•
•
•
•
vol. 1, pagg. 42, 68, 71, 73, 74, 75;
AA.VV.: Enciclopedia a schede Astronomia - dalla Terra ai confini dell’Universo, ed. Fabbri,
Milano 1991 (Il cielo nella storia, pagg. 315-316; Sistema Solare, pagg. 29-30, 251-252, 313314, 327-328, 335-336; Strumenti e metodi, pagg. 127-128, 143-144);
Grande Dizionario Enciclopedico UTET, quarta edizione, ed. UTET, Torino 1990, vol. XVI,
pag. 162;
Patrick Moore: Il guinness dell’astronomia, ed. Rizzoli, Milano 1990;
Alessandro Braccesi, Giovanni Caprara, Margherita Hack: Alla scoperta del Sistema Solare, ed.
Mondadori, Milano 1993;
Marco Falorni, Paolo Tanga: Osservare i pianeti, manuale della sezione Pianeti dell’UAI, ed.
Biroma, Galliera Veneta (PD) 1994.
Articoli:
• Paolo Farinella, Cesare Guaita: “Plutone e Caronte, nascondersi per scoprirsi”, l’Astronomia
n.87 aprile 1989, pagg. 4-19;
• Corrado Lamberti: “Plutone: atmosfera pesante”, l’Astronomia n.96 febbraio 1990, pagg. 73-74;
• Patrizia Caraveo: “Il pianeta doppio ‘risolto’”, l’Astronomia n.105 dicembre 1990, pagg. 70-71;
• Clyde W. Tombaugh: “La ricerca del pianeta trans-nettuniano”, articolo in due parti da Nuovo
Orione n.2 luglio 1992 e n.3 agosto 1992;
• Corrado Lamberti: “La faccia di Plutone”, l’Astronomia n.126 novembre 1992, pagg. 69-70;
• Mirco Elena: “Ghiaccio di azoto scoperto su Plutone”, Astronomia UAI n.3 settembre/ottobre
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
1993, pag. 35;
Corrado Lamberti: “I misteri di Plutone”, l’Astronomia n.139 gennaio 1994, pagg. 10-11;
Mario Di Martino: “L’orbita enigmatica di Plutone”, l’Astronomia n.150 gennaio 1995, pag. 13;
Carlo Blanco: “Plutone oggi”, Nuovo Orione n.35 aprile 1995, pagg. 44-47;
Cesare Guaita: “Voyager 3”, l’Astronomia n.155 giugno 1995, pagg. 33-34;
Mario Di Martino: “Plutone mostra il suo volto”, l’Astronomia n.167 luglio 1996, pagg. 9-11;
Walter Ferreri: “Plutone”, Nuovo Orione n.74 luglio 1998, pagg. 38-41;
Mario Di Martino: “La strana orbita di Plutone”, l’Astronomia n.191 ottobre 1998, pag. 18;
Mario Di Martino: “Plutone e Caronte tanto vicini e tanto diversi”, l’Astronomia n.209 maggio
2000, pagg. 14-15;
Mario Di Martino: “Salvare la Pluto-Kuiper Express”, l’Astronomia n.215 dicembre 2000, pagg.
26-35;
Cesare Guaita: “Vulcani attivi sul gelido Plutone?”, Nuovo Orione n.129 febbraio 2003, pagg.
42-47.
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