La promozione dei sistemi di piccole imprese in Africa

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La promozione dei sistemi di piccole imprese in Africa
LA PROMOZIONE DEI SISTEMI DI PICCOLE IMPRESE IN AFRICA SUBSAHARIANA (*)
a cura di José Luis Rhi-Sausi e Marco Zupi - CeSPI
Introduzione
L’intero processo di globalizzazione economica, associato alle recenti tendenze di deindustrializzazione e
riconversione industriale, ha certamente creato delle opportunità per un gran numero di paesi. Nondimeno, in
Africa subsahariana vaste aree densamente popolate vedono crescere il rischio di una loro marginalizzazione
nell’economia mondiale.
Una risposta positiva alle sfide della globalizzazione può essere fornita dal paradigma della competitività
sistemica (Esser et al, 1996). Tale proposta implica, tra l’altro, la creazione di circuiti imprenditoriali fondati
sullo sviluppo e il rafforzamento delle istituzioni a livello locale. In termini più generali, essa scaturisce dalla
scomposizione del problema dello sviluppo in una serie di punti teorici ed empirici differenti ma strettamente
correlati:
• La capacità di innovazione tecnologica, fattore chiave per il cambiamento nello schema territoriale
dello sviluppo economico (Cappellin e Nijkamp, 1990; Hillebrand et al, 1992).
• L’organizzazione imprenditoriale e in particolare il modello di aggregazione delle imprese in modo da
collegarle alla mobilizzazione di input materiali e immateriali in un dato contesto territoriale. Anche la posizione
geografica delle aree esaminate e le conseguenti scelte di allocazione e distribuzione del fattore lavoro appaiono
essenziali in tale analisi (Van Dijk, 1994; Belussi, 1996).
• Le caratteristiche territoriali e il grado di spill-over e interazione fra fattori della produzione, istituzioni,
organizzazioni, tecnologie e attori sociali. Il loro impatto caratterizza fortemente i territori esaminati, siano essi
periferici o raggruppati in sistemi centrali (Forcaude, 1993; Saxenian, 1994; Dobkins, 1996).
Questo nuovo paradigma suggerisce un concetto innovativo dello sviluppo come risultato di complesse relazioni
e sinergie fra le persone, in cui gli attori economici non sono presentati come meri fattori di produzione. La
natura dell’accumulazione economica non viene più identificata con il valore dei beni materiali e immateriali, ma
con quello dei beni relazionali. La situazione delle economie regionali e nazionali in via di sviluppo è quindi
ridefinita come l’intero ammontare dei beni relazionali di cui sono dotate (Storper, 1996).
Il paradigma indica alcune opzioni da adottare nella formulazione delle politiche di cooperazione internazionale.
Tale approccio può affrontare le sfide insite nella promozione del settore privato nei paesi in via di sviluppo
(Pvs), in quanto supera il tradizionale supporto a iniziative imprenditoriali isolate, o il mero trasferimento di
risorse finanziarie per sanare squilibri macroeconomici (World Bank, 1996/e).
Il principale obiettivo di questa ricerca è l’analisi della promozione di sistemi di piccole imprese in Africa
subsahariana. La ricerca è stata concentrata sul continente africano. In primo luogo, la scelta è determinata dal
forte peso della cooperazione internazionale nell’area, evidenziato dalle quote del Pil (50%) e degli investimenti
pubblici (10-15%) derivanti da aiuti internazionali (Odc, 1997). Secondo, si è voluto sottolineare la necessità di
un maggiore coinvolgimento della popolazione locale, al fine di evitare la proliferazione di progetti isolati,
comune in Africa. Inoltre, riteniamo che lo sviluppo di questa area tematica costituisca uno dei punti principali
intorno a cui sviluppare i negoziati sul futuro della Convenzione di Lomé.
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1. Base d’azione
1.1 Le strategie della cooperazione internazionale per il sostegno delle piccole imprese nei Pvs
La cooperazione internazionale ha recentemente mostrato un crescente interesse per la promozione del
settore privato nei Pvs e per la creazione di condizioni favorevoli alla crescita delle piccole e medie imprese. La
domanda per il sostegno al settore privato proviene innanzitutto dai paesi beneficiari dell’aiuto internazionale,
interessati a creare un contesto economico capace di attrarre l’investimento estero e migliorare le capacità
produttive locali.
L’approccio adottato nei progetti e nei programmi di cooperazione internazionale per la promozione delle
piccole imprese non è unico, perché dipende fortemente dall’orientamento di ciascun donatore. Ognuno di loro
promuove progetti e programmi mirati alla situazione particolare dei paesi beneficiari, tuttavia è possibile
individuare molti aspetti comuni a un gran numero di Pvs (Unctad, 1993; Unido, 1995; World Bank, 1994;
Oecd-Dac, 1996/b).
Uno di questi aspetti comuni consiste nell’applicazione di programmi di aggiustamento strutturale e nelle
conseguenti riforme della struttura economica dei Pvs. Generalmente, queste ultime mirano a valorizzare il ruolo
del settore privato in tutti i campi della produzione. Lo spostamento delle risorse dal settore pubblico a quello
privato ha provocato una notevole riallocazione di risorse umane sia nel settore formale che informale e la
nascita di un gran numero di piccole imprese nei Pvs. Il processo di riforma coinvolge anche la legislazione
relativa al rilascio di autorizzazioni e licenze necessarie ad avviare un’attività di piccola imprenditoria. L’impatto
dei programmi di aggiustamento strutturale sulle piccole imprese è tuttavia complesso e multidimensionale, in
quanto questi programmi incidono su imprese differenti e a differenti livelli. A causa di tale diversificazione, le
piccole imprese tendono a collocare il loro mercato in qualsiasi area ove possano beneficiare di un vantaggio
comparato. Ciò è particolarmente vero nel caso delle piccole imprese che in passato siano riuscite a migliorare
la qualità della produzione grazie all’uso di moderne tecnologie. Le imprese che non sono riuscite a compiere
questo salto di qualità sono state invece spiazzate (Parker, Randall e Steel, 1995).
L’impatto sociale dei programmi di aggiustamento strutturale e la riduzione della domanda hanno avuto
un’incidenza negativa sull’intero settore privato. L’attenzione alle condizioni sociali e all’equità delle politiche
macroeconomiche risultano quindi precondizioni per la creazione di un settore privato efficiente. I programmi di
aggiustamento strutturale dovrebbero rispettare tali precondizioni per lo sviluppo delle piccole imprese.
Le riforme del settore privato applicate a livello locale tendono a coinvolgere istituzioni pubbliche e private.
Molti progetti e programmi di piccole cooperative hanno beneficiato del supporto delle municipalità locali e in
particolar modo delle autorità, associazioni di produttori, commercianti e consumatori, Ong, istituti di ricerca e
istruzione, ecc.
In ogni caso, il successo di questa strategia di sviluppo locale nei Pvs richiede: (a) forte consenso fra i vari
partecipanti; (b) supporto all’attività di amministrazione decentrata; (c) partecipazione popolare e
coinvolgimento dei vari soggetti nei processi politici e decisionali.
Nella cooperazione internazionale tale strategia dovrebbe di conseguenza andare oltre le relazioni a livello
governativo e promuovere invece un approccio decentrato. I diversi gruppi dovrebbero stabilire un rapporto di
partenariato in modo da identificare i propri ruoli e responsabilità e stimolare il “senso di appropriazione”
(ownership) del progetto da parte delle popolazioni locali (Ired, 1997).
In realtà, invece, la strategia di sviluppo del processo di aggiustamento strutturale è ancora ai suoi primi
stadi in molti Pvs. Nello scorso decennio l’Africa ha ricevuto aiuti per oltre 64 miliardi di dollari attraverso i
canali internazionali del Programma speciale di assistenza (Spa), ma un considerevole ammontare di aiuto non
può essere reso efficace qualora le caratteristiche sociali e politiche del paese beneficiario non siano state
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precedentemente modificate (Collier, 1997). Ciò aiuta a spiegare perché, in molte realtà africane, tale approccio
dei paesi donatori non è riuscito a indurre riforme politiche e risultati economici soddisfacenti.
In termini operativi, finora l’assistenza tecnica, finanziaria e manageriale prestata alle piccole imprese ha
cercato di identificare individui capaci di creare nuove imprese nei paesi beneficiari. Essi hanno ricevuto
formazione professionale, consigli e prestiti agevolati per iniziare la loro attività.
Alcuni limiti sono tuttavia evidenti nei programmi della cooperazione internazionale volti a sostenere le
piccole imprese. Primo fra questi è la scarsa attenzione prestata all’aggregazione delle piccole imprese. Le
istituzioni donatrici mirano a rafforzare le piccole imprese concentrando i loro interventi su singole unità e bisogni
specifici, senza considerare le caratteristiche complessive del settore. Questo approccio si è rivelato nocivo per
un decollo coerente e sostenibile delle piccole imprese, nonché per la loro sopravvivenza. Inoltre, i sistemi di
monitoraggio a medio e lungo termine sui sistemi di formazione – volti a valutare la performance economica dei
progetti finanziati e correggerne gli squilibri – non sono stati effettuati in maniera efficace (Unctad, 1995/b).
Per quanto riguarda il primo limite individuato, un passo preliminare dovrebbe implicare maggiore
attenzione al raggruppamento in sistemi di imprese. Ciò permetterebbe di identificare gli obiettivi delle piccole
imprese in relazione alle caratteristiche settoriali, sociali, culturali e ambientali dell’area geografica e
richiederebbe l’adozione di specifiche statistiche territoriali e stili gestionali.
Un ulteriore ostacolo allo sviluppo delle piccole imprese è la mancanza di risorse finanziarie adeguate. Nei
Pvs la scarsa presenza di banche regionali e locali e la carente disponibilità e diversificazione degli strumenti
finanziari limitano l’accesso al credito da parte delle piccole imprese. Le organizzazioni internazionali hanno
cercato di risolvere tali problemi finanziando la creazione di istituti locali di intermediazione finanziaria e
diversificando le linee del credito. Questo approccio richiede un maggiore sostegno; nondimeno sembra
necessario anche un intervento innovativo che promuova il coinvolgimento diretto degli imprenditori locali.
Recentemente, la Commissione europea ha introdotto degli schemi molto utili che prevedono, ad esempio, la
partecipazione alle attività delle imprese e insieme la realizzazione di precisi studi di fattibilità. In questo modo, il
finanziamento di progetti è incoraggiato da una gestione affidabile e realistiche previsioni di profitto (Vincent,
1994).
In seguito al dibattito sull’importanza di un appropriato trasferimento e acquisizione di tecnologie, la
cooperazione internazionale cerca oggi degli strumenti efficaci e dei meccanismi per migliorare la capacità
tecnologica nelle piccole imprese. Ciò rappresenta un’altra sfida prioritaria di questi anni. In effetti, operare in
una realtà “globalizzata” richiede il soddisfacimento di standard internazionali sulla qualità dei beni, prima che le
piccole imprese possano entrare a competere sul mercato interno ed eventualmente internazionale. Il nuovo
approccio può pertanto permettere alle piccole imprese di soddisfare le regole e le tendenze dell’economia di
mercato a livello internazionale (Schmitz and Musyck, 1994).
Se quindi risulta per un verso maturato un ampio consenso internazionale sull’importanza della promozione
delle piccole imprese ai fini dello sviluppo endogeno, per un altro verso non sono superate le difficoltà di
intervento.
L’opinione di Hirschman, secondo cui lo sviluppo coincide con l’apprendimento sociale, e la sua
raccomandazione di stimolare dal basso le imprese “umane” (Hirschman, 1958) sono ora parte integrante
dell’agenda della cooperazione internazionale. Essa contempla tre aree essenziali e collegate: il funzionamento
dello Stato, il funzionamento del settore privato e il funzionamento della società civile. Il messaggio chiave del
rapporto Ocse, Shaping the 21st Century: the contribution of development co-operation, adottato nel
1996, suggerisce che la comunità internazionale si concentri maggiormente sull’applicazione pratica
(sull’implementazione dei programmi) traducendo velocemente la sua visione concettuale in realtà (Dac-Oecd,
1998).
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1.2 L’esperienza africana e la dimensione dei sistemi di aggregazione di piccole imprese (Sapi)
Le piccole e microimprese rappresentano un settore sociale ed economico cruciale per un buon
inserimento dell’Africa nell’economia mondiale. Un intervento volto a promuovere tale settore è uno dei modi
migliori per creare occupazione e stimolare politiche di industrializzazione più equilibrate. La crescita delle
piccole e microimprese può assicurare uno sviluppo allargato a molti individui e rendere più equa la distribuzione
del reddito; essa contribuisce sia alla creazione di attività redditizie che alla riduzione della povertà. In questo
senso, lo sviluppo di una strategia di aggregazione delle piccole imprese in Africa faciliterebbe l’integrazione
africana nell’economia mondiale (Berthélemy, 1995).
Partendo da questa argomentazione teorica generale, è necessario distinguere diverse categorie e modelli
di crescita delle piccole imprese in Africa. La definizione generale delle piccole imprese africane include:
• le piccole imprese, che operano generalmente nel settore moderno e impiegano 10-50 persone;
• l’artigianato, collocato nel settore semiformale dell’economia con il coinvolgimento di 1-4 persone;
• le microimprese, generalmente attività a conduzione familiare o di una sola persona operanti nel settore
informale.
Il nostro studio si concentra sulle piccole imprese in generale e non analizza il fenomeno delle
microimprese. Questa scelta è dovuta al fatto che la creazione e la crescita nell’aggregazione delle piccole
imprese sono processi determinati dalle forze di mercato e capaci di generare occupazione in relazione alla
domanda. Al contrario, le microimprese cercano di sopperire a problemi legati alla sussistenza e alla povertà: in
tale contesto la creazione di occupazione risponde principalmente alle condizioni dell’offerta. Il settore
artigianale operante nel settore semiformale costituisce il possibile anello di congiunzione fra le due suddette
categorie. In esso i prodotti primari vengono trasformati in maniera molto semplice; l’espansione dell’attività e la
trasformazione in piccola impresa è un’eventualità possibile.
Ad ogni buon conto, al fine di evitare rischi di eccessiva semplificazione, occorre qui ricordare che gli studi
sulle imprese del settore informale in Africa subsahariana hanno sottolineato l’importanza delle cosiddette attività
informali, sia nel campo della produzione che del commercio di beni e servizi, al punto che esse potrebbero
costituire il punto d’avvio dello sviluppo di imprese nell’area (a questo proposito, un’interessante ricerca relativa
alle micro e piccole imprese nel settore dei mobili in Ghana è quella svolta da Fiamma B. Mersi, 1997/a e
1998/b).
Un passo preliminare molto importante è anche la distinzione fra un’economia aggregata di artigianato
altamente specializzato (diffusa in molte regioni africane) e un sistema di aggregazione di imprese. Nel primo
caso le attività mirano alla sopravvivenza più che alla crescita: esse sono caratterizzate da scarso accesso al
mercato, difficoltà di espansione, contratti instabili e poco remunerativi con i principali clienti, mancanza di
esperienza in marketing e finanza, fondi inadeguati e ridotto merito di credito, scarsa possibilità di accesso a
servizi – reali e non – per le imprese (Amin, 1994).
Recentemente, una nuova imprenditorialità è emersa in un numero crescente di paesi africani che si sono
impegnati nel campo delle riforme economiche. Alla metà degli anni Novanta tutti i paesi africani – ad eccezione
della Liberia – hanno adottato programmi di aggiustamento strutturale. Come in altri continenti, anche in Africa
le politiche di aggiustamento strutturale hanno stimolato la nascita delle piccole imprese. Ciò è stato possibile
grazie a un progressivo processo di liberalizzazione economica, privatizzazione e chiusura di grandi imprese
pubbliche che si rivelavano inefficienti. Il restringimento del settore pubblico ha consentito la riallocazione di
risorse a favore di quello privato. Negli anni Ottanta il settore informale aveva riscontrato una forte espansione,
servendo da ammortizzatore sociale e assicurando la sussistenza a larghe fasce della popolazione. Con la caduta
della domanda interna e la liberalizzazione delle importazioni sono nate varie imprese piccole ma competitive: le
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rigorose misure economiche sembrano rafforzare la capacità competitiva delle piccole imprese africane. L’Africa
deve quindi cercare di sfruttare le condizioni odierne e stimolare un ambiente favorevole al successo delle
piccole imprese. In Ghana, piccole imprese competitive (operanti ad es. nella manutenzione delle automobili)
forniscono merci e servizi di alta qualità e sono dotate di sufficienti conoscenze tecniche. Esse avevano rafforzato
la loro competitività anche prima dell’applicazione del Programma di risanamento economico del 1983.
Le piccole imprese che sono riuscite a superare un periodo di forte crisi possono ora contribuire
moltissimo all’opera di risanamento dell’economia. Sebbene il loro numero sia ancora limitato, esistono vari casi
di successo. È necessario quindi aumentare la dinamica delle piccole imprese africane in modo da renderle atte
a partecipare ai flussi di commercio internazionale, trasferimento di tecnologie e allocazione internazionale di
flussi finanziari.
La Valutazione del settore privato (Private Sector Assessment, Psa) compiuta dal Gruppo della Banca
mondiale su alcuni paesi africani ha evidenziato come l’ammontare di produzione realizzata su piccola scala
costituisca una grande fetta dell’esportazione. In Costa d’Avorio, il settore delle piccole imprese produce quasi
il doppio delle grandi imprese, mentre il 43% delle piccole imprese esaminate in Nigeria hanno raddoppiato le
loro dimensioni nel corso degli ultimi anni. In Madagascar, il Psa ha identificato una nuova classe di dinamici
imprenditori caratterizzati dall’orientamento all’esportazione. Le piccole imprese stanno crescendo rapidamente
e spesso in settori non tradizionali, operando a livelli di più alta utilizzazione degli impianti e dei fattori lavoro. “È
qui che il mercato ha la sua base ed è qui che ci si aspetta di crescere nel futuro” (Ifc, 1998).
Alcuni analisti hanno osservato il carattere flessibile delle piccole imprese africane. Le nuove piccole
imprese sono infatti specializzate in alcuni prodotti particolari del settore dei beni intermedi e riescono a trarre un
vantaggio comparato dalle loro ridotte dimensioni. L’aggregazione delle piccole imprese avviene non solo in
settori tradizionali quali la falegnameria, la manifattura tessile o l’industria agraria, ma anche nella costruzione
meccanica e nella metallurgia. In Ghana, ad esempio, il settore della semplice costruzione meccanica è cresciuto
molto grazie alla forte domanda di attrezzi agricoli, ed è stato ulteriormente stimolato dalla domanda delle grandi
imprese locali alla ricerca di pezzi meccanici e automobilistici. Al contrario, in Sudan l’arretratezza agricola
nell’applicazione di tecnologie e il basso potere d’acquisto dei piccoli proprietari non permettono il decollo delle
piccole imprese manifatturiere.
Lo sviluppo delle piccole imprese interagisce con l’andamento dei settori arretrati, quelli trainanti e la
disponibilità del mercato. Dimensioni di mercato ridotte spingono le piccole imprese a usare macchine semplici e
disponibili a livello locale: nel fare ciò esse si precludono un’alta specializzazione tecnica. Le piccole imprese
divengono più competitive e specializzate dove il mercato è più largo e segmentato. In questo caso le piccole
imprese possono entrare in competizione anche con imprese più grandi e rispondere alle oscillazioni della
domanda (Van Dijk, 1992).
Alcuni casi di potenziale evoluzione dei Sistemi di aggregazione di piccole imprese (Sapi) sono stati
individuati in paesi africani a diverso livello di sviluppo e con differenti regimi commerciali. Fra i casi più noti in
Africa subsahariana abbiamo il Burkina Faso, il Ghana, il Kenya, il Sudan, la Tanzania e lo Zimbabwe.
Talune regioni sono rinomate per alcuni settori specifici e industrie specializzate, come nel caso dei Sapi
che hanno una lunga tradizione ed esperienza locale nelle attività artigianali e di auto-occupazione (Nadvi, 1994).
Suame, la “baraccopoli industriale di Kumasi”, è nota in Ghana per il suo sistema di aggregazione di
piccole imprese. A Suame le attività sono principalmente concentrate nell’edilizia, riparazione dei veicoli, lavori
in ferro e costruzione meccanica, con circa 40.000 artigiani che lavorano in circa 5.000 officine e botteghe
(Dawson, 1992).
Caratteristiche meno distinte sono state notate nei sistemi di aggregazione delle piccole unità manifatturiere
urbane di Nyala, Sudan (Nadvi, 1994); piccoli laboratori di falegnameria sono stati invece osservati in varie città
in Kenya, Tanzania e Zimbabwe (Sverisson, 1992; Aeroe, 1992), mentre Ouagadougou, in Burkina Faso, si
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caratterizza per il suo settore informale (Van Dijk, 1992). In tutti questi casi, la diversificazione orizzontale nel
processo di produzione e la specializzazione tra imprese sono ancora in erba. Servizi specializzati sono forniti
solo da poche unità individuali alle altre unità in aggregazione.
La maggior parte dei sistemi di aggregazione in Africa sono caratterizzati dalla mancanza di cooperazione
fra le imprese, indipendentemente dalla dotazione di macchinari avanzati. Nondimeno, il sistema di aggregazione
di Suame a Kumasi mostra chiaramente segni di stretta cooperazione fra le piccole imprese sia a livello verticale
che orizzontale. Un grado significativo di cooperazione nel processo di produzione è stato raggiunto, rendendo
possibile lo sviluppo di una capacità di adattamento in risposta alla crisi del Ghana (Dawson, 1992).
A Nyala, Sudan, piccoli laboratori edili sparsi sul territorio sono maggiormente integrati nella rete di
produzione e innovazione di quanto siano le botteghe di lavorazione dei metalli concentrate nello spazio delle
grandi città (Nadvi, 1994). In Zimbabwe, il settore delle piccole imprese di costruzione prevede che alcune unità
specializzate lavorino in subappalto. Tuttavia, non esiste alcuna prova attestante la cooperazione delle piccole
imprese nella rete di produzione e innovazione, probabilmente a causa del basso livello di divisione tecnica del
lavoro (Rasmussen, 1992).
Considerando i casi qui esaminati, l’aggregazione delle piccole imprese appare ancora scarsa in Africa
subsahariana. Ogni impresa sembra preferire la competizione alla cooperazione con altre imprese, nonostante
esse abbiano una comune esperienza lavorativa. In tali condizioni, i benefici della cooperazione sono quindi fruiti
solo in alcune circostanze particolari.
In termini generali, la mancanza di coesione e di reti sociali locali è considerata una causa primaria nel
fallimento dei Sapi in Africa (ad eccezione della tradizione imprenditoriale presente in alcune aree dell’Africa
occidentale).
In effetti, la cooperazione consiste solo in un semplice scambio di informazioni o, alcune volte, in un prestito
di utensili. In queste imprese non esistono associazioni di lavoratori quali compagnie, società o cooperative. La
formazione di una struttura di rete di piccole imprese sarebbe molto utile in quanto consentirebbe ai coltivatori e
agli artigiani di migliorare la loro economia su più ampia scala. In Africa, la forma di cooperazione più semplice
consiste nella creazione di gruppi di piccole imprese per l’acquisto di materie prime a un costo inferiore.
Accordi di subappalto fra grandi e piccole imprese sono praticati, ma non implicano alcun processo di
apprendimento tecnico. Molti imprenditori non sono ancora attivi nella specializzazione produttiva e
preferiscono invece distribuire le loro risorse finanziarie fra varie attività in modo da ridurre i rischi economici.
In Africa, generalmente, i Sapi nascono spontaneamente. Nella maggior parte dei casi le piccole imprese
non cooperano molto fra loro e mancano di reti sociali. I loro vantaggi comparati consistono principalmente nel
basso costo del lavoro e nella sua flessibilità. Ciò corrisponde all’esistenza di uno stadio iniziale di sviluppo
(Brusco, 1990).
Una strategia efficace per la promozione dell’aggregazione delle piccole imprese in Africa si deve pertanto
fondare sull’esperienza esistente. Nondimeno, dobbiamo tener conto dei fattori che ostacolano la collaborazione
fra gli imprenditori africani.
Il primo ostacolo consiste nella fragilità istituzionale di molti paesi africani. I processi di pacificazione e di
apertura democratica sono ancora estremamente deboli. Stabilità, sviluppo e sicurezza devono ancora essere
saldamente raggiunti prima che i sistemi di piccole imprese possano essere sviluppati.
Il secondo ostacolo consiste nel fatto che le disposizioni legali e regolamentari non consentono la flessibilità
necessaria al funzionamento delle piccole imprese. I costi di transazione e i rischi sono alti come nei vecchi
sistemi di stampo socialista; ciò è aggravato dalle leggi sui diritti di proprietà e dal lento e inaffidabile operare del
sistema giudiziario. La normativa sul lavoro risulta un tema particolarmente delicato per il contesto locale
africano: essa tende ad aumentare il costo del lavoro, specialmente nelle piccole imprese e, allo stesso tempo,
non rappresenta un’effettiva protezione dei diritti del lavoratore e della sua sicurezza legale. Le politiche fiscali
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sono spesso rigide, ma clementi nei confronti delle amministrazioni inefficienti. In tale contesto i sistemi di piccole
imprese divengono frequentemente delle realtà nell’ambito dell’economia informale. Le politiche industriali sono
spesso più orientate a favorire le grandi imprese e gli apparati pubblici che le piccole imprese.
Il terzo ostacolo è di ordine economico, in quanto nella maggior parte dei paesi africani le dimensioni
ridotte dei mercati interni e l’arretratezza dei sistemi finanziari limitano l’espansione delle piccole imprese. A
questo riguardo, i mercati esteri risultano importanti per la promozione di sistemi di piccole imprese nei paesi
africani. L’applicazione di misure per la liberalizzazione degli scambi nei paesi ad alto reddito deve essere
coordinata all’agenda internazionale multilaterale, perché possa effettivamente aumentare l’accesso a quei
mercati per le imprese africane. Il rafforzamento delle preferenze speciali per i paesi meno avanzati (Pma) è un
piano d’azione in tal senso. Un’altra azione politica molto importante sarebbe la creazione di nuovi mercati
subregionali volti a incrementare gli scambi Sud-Sud (Zupi, 1998). Inoltre, i prodotti delle piccole imprese sono
limitati alla distribuzione sui mercati locali. L’allargamento di questi mercati potrebbe essere ottenuto mediante
una maggiore flessibilità e specializzazione. Questi fattori, insieme alla creazione di legami reciproci a monte e a
valle fra i diversi settori, rappresentano un sentiero verso lo sviluppo dei sistemi di aggregazione di piccole
imprese.
Il quarto ostacolo consiste nel basso livello di intermediazione finanziaria, con la conseguente necessità di
applicare politiche monetarie appropriate e istituire banche locali. Nonostante questi sforzi, le piccole imprese
non hanno accesso a risorse finanziarie, specialmente ai meccanismi di finanziamento a medio e lungo termine.
Le banche commerciali e di sviluppo non includono le piccole imprese fra i loro destinatari prioritari. Programmi
di credito speciali e nuovi agenti finanziari locali dovrebbero essere i migliori strumenti per la realizzazione dei
Sapi; per quanto invece i programmi finanziari degli istituti donatori continuino ad attribuire particolare
importanza alle grandi imprese. Un metodo di forte coordinamento e complementarietà potrebbe aumentare
l’efficacia e ridurre le duplicazioni nei programmi dei donatori. In questo quadro, l’azione pilota di
Finanziamento alle microimprese dell’Ifc è un’iniziativa positiva che conferma l’importanza delle piccole imprese.
2. Modello d’azione
2.1 L’esperienza dei sistemi di aggregazione di piccole imprese in Italia
Alcuni studiosi italiani (Becattini, 1989; Brusco, 1995) hanno richiamato l’attenzione di economisti e
sociologi di tutto il mondo sul cosiddetto caso della “Terza Italia”, cioè il sistema italiano delle piccole imprese.
L’ampia popolarità del sistema dei distretti italiani a livello internazionale ha comunque prodotto delle
generalizzazioni nei concetti sottesi alla sua applicazione (Bellini, 1996). Il riferimento ai sistemi locali e territoriali
deve essere ulteriormente illustrato in modo da migliorarne la comprensione, soprattutto in relazione alle
politiche da adottare per la promozione in altri contesti dei sistemi di produzione dominati dalle piccole imprese.
L’analisi dei caratteri innovativi del sistema delle piccole imprese italiane è quindi presentata al fine di stimolare
l’innovazione nella struttura regionale africana (Saba, 1995).
L’altissimo numero di piccole imprese è una delle caratteristiche più evidenti della nuova struttura
industriale italiana. È stata stimata l’esistenza di circa 4 milioni di imprese in Italia e il 75% dell’intera produzione
sarebbe realizzato dalle piccole imprese.
Il modello italiano di aggregazione delle piccole imprese è fortemente competitivo e ben integrato nel
mercato internazionale. Ciò è dovuto principalmente alla flessibilità del lavoro. Inoltre, anche il modo in cui le
imprese creano o aderiscono a sistemi di aggregazione permette un’altissima flessibilità nella produzione.
Il successo del modello italiano è dovuto a due aspetti principali:
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• il perseguimento dell’incremento di produttività attraverso l’aggregazione;
• l’adozione di un approccio flessibile nella competitività internazionale.
Nelle piccole imprese il lavoro ha un alto grado di flessibilità: mentre in Europa la media dell’autooccupazione ammonta a meno del 12%, essa raggiunge il 32% in Italia. La sua composizione comprende
principalmente imprese artigianali spesso organizzate in associazioni (consorzi). La flessibilità e l’efficienza,
comunque, non risultano solo dal grande numero di imprese ma anche dal modo in cui esse si uniscono e
lavorano insieme. Il fenomeno dell’aggregazione crea i distretti industriali, vero aspetto innovativo del caso
italiano.
Le imprese appartenenti a una stessa comunità condividono legami territoriali e culturali. Questi stimolano la
cooperazione e la competizione fra le imprese stesse e incidono anche sulla divisione del lavoro. Il processo di
produzione è infatti diviso in un numero di fasi distinte, ognuna delle quali è portata a termine da una impresa
specializzata in un’attività specifica. I legami conducono quindi alla creazione di economie di scala e consentono
le potenziali economie di scopo e il raggiungimento dei target qualitativi. Oltre alle imprese che realizzano la gran
parte della produzione finale, spesso anche le produzioni dei macchinari del distretto sono coinvolte nel
processo. Questo metodo particolare stimola innovazioni continue.
La competitività sistemica è enfatizzata dalla simultanea presenza dei cosiddetti “beni relazionali”, strutture
di socialità, “contesto sociale e culturale favorevole” e stabilità istituzionale (Messner, 1996, Scandizzo, 1997).
Questi fattori assicurano che l’aggregazione delle piccole imprese benefici di un processo di sviluppo economico
endogeno e autosostenuto.
Le piccole imprese che sono radicate nel tessuto sociale e culturale locale promuovono un’atmosfera di
cooperazione che implica “reciproca conoscenza e fiducia”, un “alto grado di consenso” e un “contesto sociale
e culturale favorevole”. L’innovazione è incoraggiata e la cooperazione non è circoscritta alle relazioni di
mercato (Unctad, 1994).
Il processo di aggregazione delle piccole imprese è anche un metodo per promuovere la partecipazione
cittadina. La recente esperienza dei Patti territoriali applicata a tutto il territorio nazionale mira a incoraggiare
un contesto economico e politico favorevole.
In questo ambiente di beni relazionali, l’efficienza e la flessibilità si combinano con le crescenti abilità
imprenditoriali che probabilmente rappresentano l’aspetto più peculiare del caso italiano. Accade
frequentemente che i lavoratori più qualificati di un’impresa siano anche gli unici commercianti del bene
prodotto. Tale processo crea un’imprenditoria diffusa su tutto il territorio.
Dato che le nuove imprese italiane hanno un’origine artigianale, la diffusione della microimprenditoria su
tutto il territorio – comprese alcune aree del Meridione – è un segno di vitalità economica.
La nostra ipotesi principale è che il sistema industriale italiano non è né una distorsione né una
degenerazione del modello di struttura industriale prevalente nel mondo occidentale e nemmeno può
considerarsi un fenomeno di industrializzazione residuale. Esso è invece una forma nuova e originale per il
raggiungimento dello sviluppo industriale in un paese che nel corso di pochi decenni è divenuto uno dei paesi più
industrializzati del mondo. I distretti industriali rappresentano al meglio il processo di sviluppo industriale italiano.
Alcuni distretti industriali hanno raggiunto un alto livello di coesione e organizzazione produttiva, altri si
stanno organizzando in migliori forme di produzione. Anche nelle aree ove non esisteva alcuna precedente
cultura industriale le nuove imprese che sfruttano risorse locali tendono a creare delle organizzazioni di distretto
molto interessanti. Ciò appare particolarmente rilevante in considerazione delle iniziali condizioni di sottosviluppo
e dell’abilità degli imprenditori locali ad affrontare il mercato internazionale introducendo innovazioni
tecnologiche elaborate in situ. Il sistema italiano non può essere un modello generalizzabile di sviluppo
industriale nei Pvs, tuttavia esso mostra il potenziale di alcuni sistemi di aggregazione in specifiche aree dei Pvs.
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Il recente sviluppo italiano è basato su sistemi di piccole industrie che, in alcuni casi, si riuniscono e
formano un distretto. Ciò avviene principalmente nelle aree di recente industrializzazione. In altre regioni, alcune
piccole imprese si organizzano attorno a una impresa leader in una relazione che è differente dai tradizionali
rapporti fra le grandi compagnie e i loro subfornitori.
Dal punto di vista storico, il decentramento produttivo è stato spesso prevalente, costituendo il primo
passo verso la creazione dei distretti. In seguito, quando una piccola impresa raggiungeva medie dimensioni,
invece di sopraffare la concorrenza e diventare una grande industria, essa andava a formare delle piccole
imprese nel distretto.
Il modello teorico di Marshall prevede una precisa gerarchia fra l’industria leader e i suoi subfornitori; il
caso italiano è in effetti molto diverso. La produzione è decentrata e un gran numero di piccole imprese operano
come una squadra altamente specializzata guidata da un’industria più grande. Ogni impresa si specializza in una
specifica fase della produzione, ottenendo quindi alti livelli di qualità ed efficienza e producendo buone merci
rinomate sul mercato. Una porzione considerevole della produzione è venduta all’industria leader, ma la piccola
impresa è libera di vendere anche ad altre imprese. Non è prevista alcuna restrizione che renda le piccole
imprese dipendenti dalla grande e non c’è alcuna riduzione di prezzo che faccia calare i margini di profitto della
piccola impresa. Inoltre, l’industria leader è particolarmente interessata ad avere un gruppo di piccole imprese
precise, efficienti e affidabili.
In Italia, il processo innovativo nelle piccole imprese è generalmente correlato all’acquisizione di nuove
macchine. Miglioramenti nei processi e nei prodotti finiti implicano l’incorporazione di nuove macchine nel
sistema industriale. Le piccole imprese non sono dotate di laboratori o dipartimenti di ricerca: esse hanno solo i
“dipartimenti di ingegneria della produzione”.
Comprendere la rapida crescita dell’industria italiana richiede quindi un’accurata analisi dell’uso delle
macchine. Gli italiani sono infatti fra i primi produttori ed esportatori di macchine utensili: la produzione italiana è
indubbiamente specializzata in piccole macchine esportate in tutto il mondo.
La maggior parte delle macchine sono prodotte dalle piccole imprese, che devono quindi presentare un
alto livello di specializzazione produttiva: devono conoscere gli aspetti meccanici e quelli elettronici (essendo
molte macchine a controllo digitale) e inoltre anche conoscere il settore nel quale la macchina andrà a operare.
La presenza di un settore così importante e sviluppato nella struttura industriale italiana dimostra l’alto livello di
cultura industriale e conoscenze tecniche nel paese. Questa è una delle più significative spiegazioni del successo
industriale.
Un altro aspetto importante è che la maggior parte delle macchine utensili sono prodotte nei distretti la cui
produzione primaria è ottenuta usando lo stesso tipo di macchina. Ad esempio, il distretto industriale di Prato
(Toscana) comprende principalmente industrie tessili e il 24% delle imprese produce macchine da cucito; nelle
Marche vengono prodotti mobili e macchine per la lavorazione del legno; anche il semplice distretto di
Calangianus (Sardegna) produce sughero e macchine per la lavorazione del sughero; nello stesso distretto dove
il granito viene prodotto si fabbricano anche macchine per tagliarlo. È quindi importante capire come il processo
di innovazione continua avvenga nonostante la grande incertezza sulla copertura dei costi di ricerca.
Quando la produzione presenta delle nuove opzioni, o cambiamenti tecnologici appaiono necessari, le
nuove prospettive sono presentate e discusse dall’impresa che produce anche le macchine in questione nello
stesso distretto. Si stabilisce quindi un dialogo continuo fra produttori e consumatori dei macchinari. Ciò
permette di:
• individuare nuovi processi e applicare velocemente le innovazioni e i miglioramenti alla produzione;
• aggiornare le conoscenze tecniche e la sperimentazione (per i consumatori delle macchine).
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Il sistema che vede “lavorare insieme” i produttori di macchine e i produttori del bene finito nella stessa
area geografica è rappresentato al meglio dal caso del distretto di Biella (Piemonte), dove è stato creato un
consorzio di produttori e un centro per testare le nuove macchine tessili. Il centro è una specie di fabbrica in cui
vengono realizzate attività di sperimentazione, formazione e ricerca. Il distretto produce la migliore qualità di
tessuti nel mondo.
La produzione di macchine utensili di alto livello è senza dubbio il punto di forza del sistema di piccole
imprese. La cooperazione internazionale deve concentrare la sua attenzione su questo aspetto cruciale.
3. Verso un piano d’azione
3.1 Precondizioni
Prima di procedere nell’analisi della strategia di promozione dei sistemi di aggregazione di piccole imprese
(Sapi) in Africa, vogliamo sottolineare la limitatezza e incompletezza delle fonti sui sistemi di piccole imprese
africane. Esse si basano su dati parziali relativi al settore informale o su studi sulla produzione manifatturiera. La
scarsità di informazioni, la dubbia attendibilità dei dati statistici disponibili e, comunque, la poca funzionalità dei
dati tradizionalmente raccolti rispetto all’obiettivo della promozione di sistemi di piccole imprese costituiscono
un vincolo preliminare all’avvio di una corretta strategia di cooperazione internazionale.
Seppure ogni caso è strettamente legato al suo particolare contesto storico, tuttavia la diversificazione dei
modelli di piccole imprese non deve scoraggiarci dal compiere valutazioni complessive sulle varie esperienze.
Non ci concentreremo sul settore manifatturiero informale, gli accordi di subappalto fra le imprese o la
natura più o meno appropriata dei trasferimenti di tecnologie. Analizzeremo invece le implicazioni che la
creazione di Sapi comporta a livello strategico e nei primi stadi dello sviluppo dei paesi africani.
Il nostro punto di partenza è che i Sapi africani dovrebbero scaturire da un processo di sviluppo endogeno.
Ciò richiede la promozione di un ambiente favorevole di sviluppo generale e un contesto capace di trarre
benefici dagli interventi e aiuti esterni (Nadvi, 1994).
L’applicazione di un programma per lo sviluppo dei Sapi in Africa richiede il soddisfacimento di alcune
precondizioni specifiche e basilari che appaiono essenziali per accrescere l’impatto della cooperazione allo
sviluppo. I paesi africani e gli attori della cooperazione internazionale stanno cercando ora di promuovere lo
sviluppo dell’economia di mercato nel settore privato. Questo approccio emerge anche nel dibattito sul futuro
della Convenzione di Lomé (Commissione europea, 1997).
Il soddisfacimento delle precondizioni è inoltre necessario per l’identificazione di un secondo livello di
condizioni e processi specifici che possano promuovere dei Sapi decentrati.
3.2 Condizioni
La nostra analisi si concentra su alcuni elementi chiave per il sostegno di potenziali Sapi in Africa e
individua una gamma di condizioni specifiche da soddisfare.
Diffusione dello spirito imprenditoriale
L’acquisizione di uno spirito imprenditoriale da parte dell’intero tessuto sociale è un elemento fondamentale
nei progetti relativi allo sviluppo delle imprese. Gli uomini e le donne impiegati nelle imprese interagiscono con
un’ampia gamma di individui che conducono le attività. Tale interazione è proficua solo se il ruolo, gli obiettivi e
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l’immagine socioculturale dell’imprenditore sono riconosciuti e condivisi dalla società civile (dimensione “meta”
nella competitività sistemica). A livello locale, le società che operano attorno a potenziali Sapi non hanno ancora
pienamente sviluppato un’accettazione sociale dello spirito imprenditoriale.
Liberalizzazione e decentramento amministrativo
Il decentramento delle istituzioni sia pubbliche che private sostiene lo sviluppo spontaneo dei Sapi. Abilità
industriali, politiche di competizione e basilari capacità amministrative a livello locale aiutano la creazione di un
ambiente favorevole alla crescita delle piccole imprese. Un programma di decentramento e di “capacity
building” dell’amministrazione locale è essenziale per l’applicazione di qualsiasi programma di sviluppo. Al fine
di stimolare i Sapi è quindi necessario operare in una cornice amministrativa semplice ed efficiente orientata alla
prassi della buona gestione degli affari pubblici (good governance). Gli amministratori locali dovrebbero essere a
conoscenza delle tecniche e delle politiche industriali, mentre – nel contesto della liberalizzazione – l’applicazione
effettiva di politiche di competizione a livello locale appare essenziale per favorire l’accesso al mercato
mondiale.
Coesione sociale a livello locale (amministrazione locale, imprenditori, reti e associazioni per l’autoaiuto, organizzazioni di lavoratori)
Un processo spontaneo di interazione e cooperazione fra alcuni attori-guida coinvolti nei Sapi sarebbe
ottimale. Esso darebbe vita a un gran numero di legami e stimolerebbe la creazione di un “circolo virtuoso” di
democratizzazione, crescita economica, fiducia reciproca e cooperazione fra gli imprenditori, i lavoratori e i
funzionari. La cooperazione fra gli attori economici e sociali mirerebbe alla definizione di un “interesse comune”
volto al raggiungimento di obiettivi imprenditoriali e da cui deriverebbe una efficienza collettiva. In questo
contesto il processo di “apprendimento attraverso l’interazione” è uno strumento strategico per incoraggiare lo
sviluppo delle piccole imprese, le innovazioni continue e la loro capacità competitiva.
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3.3 Valutazione strategica della concentrazione di piccole imprese
La proposta di azione per la realizzazione di Sapi può essere efficace solo se le piccole imprese sono già
localizzate sul territorio in maniera che esse siano “potenzialmente” interdipendenti. La densità di interazione può
riguardare lo stesso settore come anche settori diversi ma complementari.
Un fattore molto importante per incentivare la flessibilità nella produzione è l’esistenza di un certo grado di
divisione del lavoro nello stesso settore a livello locale. La specializzazione produttiva flessibile è un elemento
discriminante nel miglioramento della produttività e della forza competitiva dei Sapi. Anche la presenza di legami
strutturali di cooperazione fra le piccole imprese operanti in diversi settori produttivi è di prioritaria importanza,
come il rafforzamento di legami complementari fra i Sapi e l’agricoltura locale. Lo sviluppo rurale è infatti
strettamente connesso ai Sapi a livello locale; l’interazione fra le piccole imprese e i contadini può stimolare la
domanda locale e beneficiare fortemente delle “nuove tendenze” nella distribuzione e consumo degli alimenti nel
mondo (come ad es. nel caso del cibo “etnico”).
Questi elementi sono inoltre collegati alla disponibilità di lavoratori qualificati nel contesto locale.
L’organizzazione di programmi di formazione e istruzione sostenuti dal settore privato può rappresentare un
ottimo punto di partenza in quanto gli imprenditori e le loro associazioni potrebbero giocare un ruolo
fondamentale nell’elaborazione e monitoraggio di tali corsi.
Coinvolgimento degli intermediari finanziari locali (banche locali, cooperative del credito, Ong)
Le piccole imprese hanno bisogno di un ampio accesso alle risorse finanziarie. Un sistema di finanziamento
locale che includa varie organizzazioni per l’autofinanziamento delle piccole imprese è una condizione importante
per l’ampliamento del loro accesso al mercato dei capitali.
Espansione dei mercati locali e liberalizzazione/integrazione dei mercati regionali
Lo sviluppo di Sapi può avere grande successo se essi mirano all’espansione dei mercati locali. Un’altra
condizione essenziale consiste nella partecipazione ai processi di liberalizzazione e integrazione regionale. In
questo contesto, la produzione e la capacità delle piccole imprese di partecipare all’esportazione aumenterebbe
il bisogno di cooperazione. Ne deriverebbe una maggiore sinergia fra gli imprenditori, rendendoli capaci di
fronteggiare le sfide dell’economia di mercato.
Infrastrutture di base nei Sapi (allacciamento idrico ed elettrico, reti di trasporti e telecomunicazioni)
L’interdipendenza fra le imprese può essere raggiunta solo ove siano presenti almeno delle infrastrutture di
base (allacciamento alle reti idriche ed elettriche, strade accessibili e telecomunicazioni) per favorire lo sviluppo
rurale.
3.4 Linee-guida
Se i paesi donatori si concentrassero su alcune aree specifiche dei sistemi di aggregazione di piccole
imprese (Sapi), essi riscontrerebbero un enorme incremento delle risorse disponibili in Africa subsahariana. Ciò
servirebbe anche a diversificare le risorse finanziarie e ridurre il pericolo della dipendenza da aiuti internazionali,
fenomeno molto diffuso nel continente. Al fine di massimizzare la qualità e l’efficacia della cooperazione
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internazionale a favore dei Sapi, occorrerà accettare alcuni cambiamenti profondi, quali ad esempio una radicale
ristrutturazione delle piccole imprese e un accurato esame sulle risorse disponibili in ciascuna area. Concentrarsi
su alcune priorità è quindi fondamentale nella promozione dei Sapi in Africa subsahariana.
La priorità principale è che i Sapi siano fondati sui criteri del decentramento amministrativo e approcci
partecipativi con spinta dal basso. L’identificazione, l’elaborazione e l’applicazione delle misure di cooperazione
devono scaturire dalle piccole imprese locali. Inoltre, perché le iniziative raggiungano un successo sufficiente, è
necessario che anche i donatori ne siano parte, e allo stesso tempo promuovano un approccio partecipativo.
Questa idea è connessa ai principi fondamentali della cooperazione internazionale. Il fatto che i Sapi
nascano in seguito a dei processi di aggregazione spontanei è la principale garanzia sul “principio di
appropriazione” da parte delle popolazioni locali nei confronti delle iniziative di cooperazione. La strategia di
cooperazione non dovrebbe essere imposta alle imprese locali da organizzazioni esterne, ma dovrebbe essere
invece radicata nello stesso sistema di piccole imprese africane.
Il principio di appropriazione è infatti strettamente legato a quello di sviluppo basato sulle proprie forze
(self-reliance). La nuova strategia di cooperazione dovrebbe migliorare le risorse locali e promuovere l’attitudine
alla competizione.
Come è stato ricordato nel dibattito sul futuro della Convenzione di Lomé (Commissione europea, 1997), i
donatori suggeriscono il decentramento amministrativo nei paesi africani. Ciò dovrebbe agevolare lo sviluppo
dei Sapi e una maggiore capacità di interazione con le forze socioeconomiche locali.
L’eterogeneità del contesto africano, la scarsità delle risorse e il bisogno di identificare una massa critica di
potenziale competitivo richiedono un approccio selettivo nella definizione dei Sapi. Il sostegno dei Sapi in Africa
subsahariana potrebbe basarsi su otto linee-guida:
1. Miglioramento delle informazioni statistiche territoriali
Precise informazioni statistiche sul potenziale dei sistemi di aggregazione di piccole imprese (Sapi) in Africa
subsahariana potrebbero migliorare la capacità delle istituzioni africane di identificare, valutare e selezionare i
sistemi da applicare più appropriati. In questo contesto i donatori potrebbero solo assistere le unità locali (frutto
del decentramento) nella raccolta ed elaborazione di dati statistici territoriali, nel compimento di ricerche
socioeconomiche e studi per la valutazione di alcuni programmi specifici. L’identificazione delle condizioni e dei
fattori per lo sviluppo dei Sapi può favorire un più adeguato ricorso ai metodi statistici della cluster analysis.
2. Stipula di contratti internazionali
La conclusione di contratti di sviluppo a lungo termine fra istituzioni pubbliche e unità private decentrate e i
partenariati territoriali con i paesi donatori dovrebbero essere incoraggiati. In effetti, l’identificazione degli
obiettivi dei Sapi africani e la conoscenza dei sistemi stessi non possono essere realizzate rapidamente. Un
ampio lasso di tempo è necessario anche per stabilire relazioni di fiducia e reciprocità nelle varie cooperative e
piccole imprese. Rafforzare le aggregazioni e allo stesso tempo integrarle nel sistema di mercato può risultare
alquanto arduo; tuttavia, la cooperazione tra Sapi decentrati sta raggiungendo un’ampia popolarità nel mondo.
Essi sembrano rappresentare una nuova modalità per accrescere la consapevolezza e il senso di responsabilità
globale per i problemi dello sviluppo (Oecd-Dac, 1995). Il sistema di cooperazione è illustrato sia
dall’esperienza di alcuni paesi industrializzati, come nel caso dei Patti territoriali italiani, che dagli approcci
innovativi di cooperazione allo sviluppo, come nel caso della modalità dello Sviluppo umano a livello locale
dell’Undp/Cooperazione italiana.
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La cooperazione decentrata può essere un fattore fondamentale per la promozione delle piccole imprese in
Africa se il sistema economico prende in considerazione il ruolo giocato dagli scambi tecnici e culturali, e dagli
accordi fra l’amministrazione centrale e quelle locali. Questi elementi devono essere incoraggiati su ampia scala.
3. Acquisizione tecnologica agevolata
La specializzazione flessibile è ritenuta il fattore economico chiave per lanciare la produttività e la forza
competitiva delle piccole imprese. Ci si aspetta che essa possa stimolare l’efficienza collettiva creando relazioni
esterne e favorendo l’agglomerazione di unità produttive in Sapi. La realizzazione di queste aspettative dipende
tuttavia dalla creazione di nuovi mercati e legami fra le industrie specializzate e dagli incentivi all’importazione di
tecnologie.
La cooperazione tecnica dovrebbe dare priorità al sostegno del settore privato e ai servizi diretti ai Sapi. I
consorzi tecnologici locali e i centri sperimentali potrebbero ricevere assistenza tecnica e finanziaria da parte dei
paesi donatori, in modo tale da distribuire sia i rischi che le innovazioni fra le piccole imprese locali. In generale, i
donatori dovrebbero sostenere gli sforzi locali e la capacità dei Sapi di migliorare la loro autosufficienza,
l’apprendimento interattivo e l’ampliamento della scelta tecnologica.
In particolare, il ruolo preminente che la produzione meccanica di beni utensili ha nel sostenere la
produzione specializzata e flessibile, l’innovazione e la competitività, spinge a incentivare l’importazione
tecnologica e lo sviluppo delle potenzialità locali africane.
I risultati di varie ricerche indicano che l’uso di processi di produzione con impiego intensivo del fattore
lavoro è non solo coerente con vari aspetti sociali e ambientali, ma è anche più vantaggioso di quanto si
credesse in termini economici. Un’analisi delle scelte tecnologiche e delle costrizioni del mercato richiede
ovviamente specifiche conoscenze nel campo tecnologico e delle opportunità di mercato: i donatori dovrebbero
assistere le piccole imprese locali nell’adattamento delle tecnologie alle condizioni e alla domanda locale.
Considerando la connessione del processo innovativo con l’acquisizione di nuove macchine, è quindi
importante sostenere il processo di apprendimento usando le piccole imprese locali, l’interazione fra queste, e le
relazioni fra i consumatori e i produttori. Tali processi di apprendimento contribuiscono in modo decisivo a
stimolare la cultura industriale.
4. Sostegno dei meccanismi di autofinanziamento
La carenza di risorse finanziarie costituisce un serio problema nei Sapi africani ed è dovuta non solo ai costi
elevati ma anche alla scarsa disponibilità di fondi. In questo caso gli interventi di cooperazione allo sviluppo sono
diretti al sistema finanziario. La promozione di sistemi di autofinanziamento nei Sapi africani e il rafforzamento
dei canali formali e informali del credito, e degli istituti di garanzia, implica la necessità di stimolare la crescita
delle istituzioni di raccolta del risparmio locale. Tale approccio costituirebbe un tentativo per la diffusione del
credito e degli istituti finanziari che garantiscono un senso di obbligazione reciproca e riducono al minimo i rischi
di fallimento.
5. Riformulazione degli strumenti finanziari degli organismi internazionali
Il dibattito internazionale per la definizione e il confronto della nuova dimensione affermatasi nella
cooperazione allo sviluppo ruota attorno ai problemi della gestione e alla scelta degli strumenti finanziari che è
più opportuno adottare. È particolarmente importante sottolineare come gli strumenti finanziari – specialmente
quelli mirati al sostegno delle piccole imprese – dovrebbero essere differenziati e allocati in base ai differenti
livelli di sviluppo dei Pvs, alla tipologia dell’intervento e alla dimensione delle imprese.
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6. Promozione di programmi formativi a orientamento pratico
Le misure di investimento nelle risorse umane sono una caratteristica comune ai Sapi di maggior successo. I
programmi di formazione e istruzione dovrebbero essere orientati verso il settore privato che li organizza. Le
piccole imprese africane e le loro associazioni dovrebbero giocare un ruolo fondamentale nel determinare il
contenuto di tali corsi, così come nel loro finanziamento e monitoraggio. I donatori dovrebbero sostenere la
creazione e l’espansione della formazione nelle organizzazioni delle piccole imprese, stimolando l’istruzione di
esperti locali e fornendo i servizi connessi.
Secondo l’approccio selettivo e decentrato diventano processi essenziali l’identificazione, l’analisi e la
valutazione delle istituzioni locali – sia formali che informali – e delle organizzazioni di auto-aiuto. Il monitoraggio
sulla capacità istituzionale delle organizzazioni di auto-aiuto rappresenta un ulteriore compito necessario alla
crescita dei Sapi.
7. Allargamento del mercato
La dimensione del mercato dovrebbe essere ampliata stimolando il mercato locale, specialmente in
connessione allo sviluppo del settore rurale, e creando nuovi mercati regionali e subregionali. L’allargamento del
flusso di scambi fra le piccole imprese a livello locale e regionale dovrebbe essere perseguito, in particolar modo
fra quelle imprese che contribuiscono all’approfondimento della specializzazione nel processo produttivo.
Legami reciproci a monte e a valle fra le attività rurali e le piccole imprese potrebbero costituire un altro mercato
rilevante.
I donatori dovrebbero promuovere l’organizzazione di Sapi che mirano all’organizzazione di mercati di
auto-aiuto, accrescendo i fondi devoluti alla ricerca nel marketing e attribuendo sussidi per la creazione di
piccoli centri commerciali. Il commercio locale e le organizzazioni di commercianti dovrebbero beneficiare di
assistenza nel miglioramento della qualità e nella standardizzazione dei prodotti. La creazione di piccole imprese
potrebbe coinvolgere il settore dei servizi, quali ad esempio quelli relativi ai trasporti, al marketing e alla
pubblicità.
8. Incoraggiamento dei flussi di investimento privato
Nei Pvs l’economia di mercato può avere successo solo in presenza di un ambiente economico, finanziario,
politico, sociale e istituzionale orientato verso la fruizione dei benefici derivanti dall’investimento estero, quali il
trasferimento di tecnologie, la creazione di occupazione e l’integrazione economica. L’applicazione delle lineeguida qui presentate in uno scenario caratterizzato dalla presenza di sistemi aggregati di piccole imprese (Sapi)
stimolerebbe un contesto orientato ad attrarre flussi stabili di capitale privato. I paesi africani dovrebbero
riorientare i loro strumenti politici al fine di attrarre gli investimenti e riceverne i conseguenti benefici.
4 Tre strumenti d’azione
4. 1. I partenariati territoriali
Dall’esperienza italiana dei Patti territoriali è possibile ricavare un interessante contributo per rafforzare la
coesione sociale, migliorare il ruolo delle piccole imprese e dare al settore informale la possibilità di espandersi
(Gallia, 1997; Manzella, 1997).
L’idea di fondo è che la cooperazione internazionale possa promuovere una strategia di sviluppo locale di
tipo bottom-up basata sull’iniziativa di attori locali quali imprenditori, sindacati, Ong e amministrazioni locali.
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L’assistenza finanziaria è solo uno strumento per facilitare l’applicazione della strategia di sviluppo e non ne
costituisce il fondamento.
Dopo un periodo di studio, promozione e discussione, le forze locali dovrebbero accordarsi (con
l’assistenza dei donatori) per l’applicazione di una strategia di sviluppo incentrata sulle opportunità e potenzialità
dell’area. Ogni gruppo dovrebbe assumersi dei precisi impegni socioeconomici per facilitare il successo di
questa strategia. Le responsabilità assunte da ogni gruppo dovrebbero essere riportate su un documento di
concertazione, principale pilastro del partenariato territoriale. Questo documento può essere affiancato da
ulteriori protocolli per la precisazione delle misure di sicurezza e degli obblighi legali nel quadro normativo
vigente. Ciò può rappresentare un forte incentivo per promuovere l’aggregazione delle piccole imprese in Africa
subsahariana.
L’assistenza finanziaria della cooperazione internazionale andrebbe accordata in seguito all’elaborazione di
un accurato programma di iniziative.
Tutte queste condizioni dovrebbero riuscire a indurre gli attori locali a fare affidamento principalmente sulle
proprie forze, a elaborare una strategia di sviluppo incentrata sul loro effettivo potenziale e a considerare l’aiuto
governativo come un mezzo e non un fine a se stesso.
Trattandosi di un approccio più che di uno strumento pratico, l’idea dei partenariati territoriali può
essere applicata ad aree che hanno raggiunto differenti stadi di sviluppo.
Nelle aree povere, dove la popolazione è impiegata principalmente nel settore informale e non esistono
piccole imprese, le Ong potrebbero agire come promotrici. In primo luogo, esse potrebbero raccogliere e
selezionare una serie di progetti, e poi presentare questi ad agenzie di sviluppo in paesi industrializzati perché
vengano ulteriormente esaminati. Un esempio particolarmente interessante è l’iniziativa promossa
dall’associazione di immigranti africani in Italia Divaar Mu Mangand, che si realizza soprattutto in Angola,
Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Come accade nel caso italiano, le agenzie potrebbero finanziare
una percentuale fissa del progetto e agire come garanti nei confronti di altri istituti di credito. Esse potrebbero
anche promuovere i progetti a livello nazionale nella comunità degli investitori, con particolare riferimento alle
piccole imprese, mentre le Ong potrebbero fornire assistenza tecnica o di altra natura, seguendo la realizzazione
del progetto attraverso le varie fasi e dopo la sua conclusione.
Tutti i progetti selezionati dovrebbero essere integrati in una strategia di sviluppo locale; essi non
dovrebbero essere orientati dalle politiche governative, ma partire dalle esigenze degli individui, delle
associazioni e amministrazioni locali. Il loro obiettivo non dovrebbe essere solo la crescita dell’economia locale,
ma anche il rafforzamento della coesione sociale e dei legami fra i diversi gruppi.
Nelle aree che hanno raggiunto un livello più alto di sviluppo, il partenariato inizierebbe con il
coinvolgimento degli imprenditori e dell’amministrazione locale, quindi secondo uno schema molto simile
all’esperienza italiana. I progetti sarebbero più complessi, ma anche più interessanti per gli investimenti privati
internazionali. Il compito di assicurare la redditività e solidità degli investimenti diverrebbe dunque cruciale per
garantire il successo del contratto.
In entrambi i casi, la collaborazione fra le imprese del Nord e quelle del Sud dovrebbe essere incoraggiata.
Essa dovrebbe prevedere delle iniziative di solidarietà e altre attività vantaggiose per le due parti (quali il
gemellaggio e la tutela, sperimentati in Italia in conformità alla legge 28 febbraio 1986 n.44 sulla promozione
imprenditoriale).
L’idea del partenariato territoriale può applicarsi a differenti stadi di sviluppo, il che non significa
tuttavia che essa possa applicarsi a qualsiasi contesto. Infatti, il soddisfacimento di alcune condizioni è
essenziale.
Dovrebbe esserci un minimo di stabilità politica e una scarsa conflittualità fra i diversi gruppi sociali
o etnici. Inoltre, è importante che l’amministrazione pubblica venga decentrata in modo da rendere le
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amministrazioni locali competenti nella promozione e applicazione del partenariato. Una discreta
gestione degli affari pubblici deve esistere sia a livello nazionale che locale; infine, i Pvs interessati
devono partire da un certo livello di iniziativa privata e un consistente settore informale.
Un grande vantaggio insito nel concetto di partenariato territoriale consiste nel fatto che tale schema è
particolarmente adatto al contesto della disciplina macroeconomica. Il partenariato è fortemente sostenuto dalle
attività degli attori locali e dall’iniziativa privata. La sua esistenza è dovuta a un processo spontaneo che
necessita di un ambiente libero per svilupparsi; di conseguenza, l’intervento statale nell’economia deve essere
limitato. Il partenariato aiuta la popolazione a passare dal settore informale a quello formale, il che è
estremamente importante in paesi che hanno applicato dei programmi di aggiustamento strutturale. Infatti, come
già ricordato, tali programmi inducono spesso – almeno nelle prime fasi – a un “confinamento” degli attori
economici nel settore informale, senza creare sufficiente lavoro nel settore formale.
Infine, l’esperienza italiana dimostra come sia importante far capire alla popolazione cosa sia veramente il
partenariato. Esso non dovrebbe essere visto come un nuovo modo per ottenere assistenza dall’esterno,
piuttosto come un sistema per lasciare che le popolazioni locali elaborino le proprie prospettive di sviluppo,
concentrate sulle aree nelle quali vivono. In questo modo lo sviluppo diviene un processo endogeno, spontaneo
e spinto dal basso.
4.2. Il consorzio di garanzia
In molti paesi africani l’assenza assoluta di intermediazione finanziaria e la mancanza di capitale sufficiente
ostacolano la crescita del settore privato. Ciò va a vantaggio del finanziamento informale o dei sistemi produttivi
poco efficienti e che non creano occupazione. Inoltre, studi recenti suggeriscono che mediamente circa il 40%
del finanziamento estero è speso in consumo. Ciò evidenzia come nella maggior parte dei casi esso sia diretto a
paesi caratterizzati da bassi livelli di reddito pro capite e dove considerazioni relative alla sussistenza
determinano le decisioni di risparmio (Levy, 1988; World Bank, 1994; Imf, 1995).
La situazione delle piccole imprese in Africa non è caratterizzata solo da carenza di capitale, ma anche
dall’inefficienza delle istituzioni finanziarie e in particolare di quelle mirate al sostegno delle piccole imprese.
In questo contesto il ruolo giocato dalle banche commerciali o dagli intermediari finanziari sostenuti dalla
cooperazione internazionale appare inadeguato ad assicurare uno sviluppo imprenditoriale sufficientemente
diffuso. Ciò deriva dall’incapacità strutturale a costruire relazioni radicate nel territorio produttivo.
È quindi consigliabile insistere sul particolare fenomeno del razionamento del credito. La soluzione a questo
problema non è semplice e implica un’analisi delle politiche economiche per lo sviluppo delle piccole imprese.
2.1. Ogni politica riguardante la concessione del credito deve essere accompagnata da una serie di
interventi il cui fine principale sia l’elevazione del livello complessivo di competitività fra le imprese (esempio di
ciò può essere il trasferimento tecnologico, la formazione tecnica, la gestione delle imprese e la diffusione
dell’informazione commerciale).
2.2. La formulazione di politiche del credito deve essere basata sulla valutazione quantitativa e qualitativa
delle necessità delle imprese. I meccanismi di gestione finanziaria, cioè il termine entro il quale il debito deve
essere ripagato e la capacità di remunerazione del capitale, devono essere adeguati.
2.3. È necessario tener conto del profilo imprenditoriale e manageriale delle imprese al fine di rendere le
procedure di accesso al credito corrispondenti alla capacità gestionale delle imprese.
2.4. Gli stimoli alla crescita delle banche locali orientate al sostegno delle imprese accelerano il processo di
crescita e sviluppo industriale in quanto riducono le asimmetrie fra i banchieri e gli imprenditori.
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2.5. L’efficienza e la sostenibilità delle politiche del credito miranti al miglioramento del grado di
concentrazione, specializzazione e integrazione dei sistemi produttivi devono essere valutate. In questo senso,
andrebbero privilegiati i settori che costituiscono l’ossatura strategica del paese, o aree a maggiore
concentrazione di specializzazione produttiva.
2.6. Ogni azione relativa alle politiche del credito nei paesi africani dovrebbe stimolare la costruzione dei
sistemi produttivi delle piccole imprese. In questa cornice è possibile contenere le limitazioni connesse alla natura
stessa delle imprese e in particolare incrementare l’efficienza degli interventi di cooperazione internazionale. La
creazione di aree-sistema nei paesi africani è un’ulteriore operazione sicuramente non facile da compiere; la
maggior parte di questi paesi tuttavia presenta alcune condizioni per la crescita di sistemi complessi di
aggregazione fra le imprese. Accanto allo straordinario artigianato tradizionale, sono essenziali la flessibilità e una
forte identificazione nella cultura e storia della realtà territoriale. Nel contesto africano è quindi possibile
sviluppare una capacità relazionale fra gli imprenditori, migliorare la quantità e qualità delle relazioni sia interne
che esterne con il mercato, e favorire al diffusione di tecnologie moderne che accrescano la produzione e la
competitività mediante una serie di regole e stimoli.
Il meccanismo che si propone in questo progetto segue le seguenti direttive: i sistemi di garanzia
dovrebbero essere promossi dalle stesse reti di imprenditori al fine di favorire l’accesso al credito, lo sviluppo di
visioni strategiche e gli orientamenti di mercato. Nell’esperienza italiana dei consorzi fidi di garanzia le quote
associative pagate dagli imprenditori stessi (cioè contributi al consorzio) integrano i fondi pubblici. Nel caso
africano sarebbe opportuno pensare a un meccanismo tale da prevedere la partecipazione di fondi da parte
della cooperazione internazionale.
4.3. Trasferimento di conoscenze tecniche e acquisizione di macchine
Mobilizzazione di conoscenze tecniche
Finora il trasferimento di innovazioni e di tecnologie moderne ai paesi africani non ha avuto alcun successo,
anzi in alcuni casi la dipendenza tecnologica dalle importazioni è addirittura aumentata. Il fallimento è dovuto
principalmente alla erronea trasmissione di conoscenze, cioè alla scarsa comunicazione e sostenibilità dei
progetti.
La mancanza di comunicazione è evidente nel trasferimento meccanico di complicati “pacchetti di
conoscenza” dai paesi industrializzati ai Pvs. In questi casi il trasferimento di tecnologie è limitato alle specifiche
informazioni che si presume di trasmettere. In effetti, esse richiederebbero competenze, conoscenze e
informazioni altrettanto specifiche e non facilmente decodificabili. Quindi, tali conoscenze e informazioni possono
essere difficilmente trasferite.
I tentativi per l’introduzione di tecnologie sono stati anche nocivi alla sostenibilità dei progetti. I paesi
fortemente industrializzati hanno sviluppato tali tecnologie senza tener conto dell’effettiva compatibilità fra le loro
innovazioni e il contesto nel quale sarebbero state trasferite. In altre parole, tecnologie simili producono effetti
diversi se applicate a contesti diversi.
Nel medio termine il fattore realmente determinante dello sviluppo è la conoscenza tecnica, o meglio il
complesso delle conoscenze ed esperienze pratiche, scientifiche e tecnologiche che permettono uno sviluppo
autonomo di organizzazioni coordinate e cooperative di individui e di imprese. Le risorse umane sono scarse, in
quanto esse non possono essere facilmente istruite o addestrate. Il loro miglioramento può derivare solo dalla
partecipazione attiva nel processo produttivo, da stimolare attraverso continue innovazioni introdotte
nell’impresa stessa.
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Tutte le analisi statistiche sull’imprenditorialità e la competitività dimostrano che le nuove imprese
competitive scaturiscono soprattutto da attività artigianali, dall’iniziativa di emigranti/immigranti e da
commercianti. La conoscenza tecnologica è l’elemento chiave a fondamento dello sviluppo e della crescita.
La stagnazione e la dipendenza dall’assistenza esterna hanno distrutto la conoscenza tecnica per anni. Il
primo obiettivo da perseguire consiste quindi nella trasformazione delle società statiche e dipendenti in società
aperte all’apprendimento, in cui i processi cognitivi sia formali che informali siano visti come importanti strumenti
per l’acquisizione di conoscenze e autoconsapevolezza.
Alcune indicazioni precise sono necessarie per ottenere tale obiettivo:
• Tutte le attività di formazione dovrebbero essere precedute da un accurato esame e rapporto sulle
necessità di aggiornamento e introduzione di nuove tecnologie. Il decentramento e la diffusione di strutture di
formazione sul territorio possono facilitare l’analisi della domanda e migliorare l’efficacia del trasferimento di
conoscenze. Tale obiettivo può essere raggiunto anche mediante la promozione di associazioni e consorzi
orientati alla formazione tecnica e imprenditoriale.
• La formazione professionale e la diffusione di tecnologie dovrebbero mirare a trasferire le conoscenze
tecniche agli individui. Raggiungere questo obiettivo è molto difficile, in quanto il know-how richiede delle
conoscenze specifiche trasferibili solo nel contesto della produttività. Comunque, gli emigranti africani residenti in
paesi industrializzati e a diretto contatto con i processi produttivi più avanzati possono costituire dei punti di
riferimento strategico per lo sviluppo dei loro paesi di origine. Gli Stati che li accolgono dovrebbero quindi
stimolare gli immigranti africani a promuovere le nuove imprese nei loro paesi.
Tali azioni permetterebbero:
• il trasferimento sostenibile di conoscenze tecniche;
• la diffusione informale di capacità industriali nei paesi africani;
• la creazione di legami formali e informali fra le reti produttive dei paesi avanzati e quelle dei paesi africani.
Inoltre, le conoscenze tecniche possono anche essere trasmesse mediante un rafforzamento dei legami fra
le piccole imprese stesse. Numerose esperienze dimostrano che le attività di diffusione stimolano le
organizzazioni a migliorare e condurre i processi di cambiamento in maniera indipendente.
Il ruolo giocato dagli specialisti e dai consulenti in questo meccanismo alternativo è molto importante. Essi
aiutano le imprese nel periodo di transizione verso nuovi approcci tecnologici e manageriali. I “consulenti di
processo” assistono le organizzazioni nell’identificazione di problemi, suggeriscono soluzioni e aiutano le imprese
a sviluppare le conoscenze tecniche. Il loro ruolo è quindi molto diverso da quello degli “esperti” e specialisti
che si occupano di problemi specifici dello sviluppo e della cooperazione.
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Acquisizione di macchine
La produzione di macchine ed equipaggiamento tecnico ha un ruolo preminente nel sostenere la produzione
flessibile e specializzata, l’innovazione e la competizione. Tale produzione richiede un approccio particolare per
migliorare il trasferimento tecnologico e lo sviluppo delle capacità tecnologiche locali in Africa.
I risultati delle ricerche e le pubblicazioni indicano come i processi produttivi a uso intensivo del fattore
lavoro siano spesso i più adatti al contesto sociale e ambientale. In questo senso un’analisi molto approfondita
delle opzioni tecnologiche deve essere compiuta nel contesto locale, al fine di individuare la specificità delle
relazioni fra produttori e consumatori. Inoltre, bisogna ricordare che le piccole imprese hanno una buona
conoscenza della domanda e dei bisogni locali e adeguano a questi le loro tecnologie.
Considerando come ogni processo innovativo sia connesso all’acquisizione di nuove macchine, è
importante incoraggiare i processi di apprendimento basati sull’esperienza pratica delle piccole imprese
(learning by using) e lo scambio di informazioni fra esse. Quest’ultimo aspetto può essere facilitato
dall’assistenza tecnica.
In alcuni casi particolarmente positivi, i consorzi tecnologici locali e i centri di sperimentazione che
promuovono la diffusione delle innovazioni nelle piccole imprese locali potrebbero ricevere l’assistenza tecnica e
finanziaria dei donatori.
In termini più generali, la cooperazione internazionale dovrebbe sostenere le capacità e gli sforzi dei sistemi
di aggregazione di piccole imprese (Sapi), stimolando la loro autosufficienza, l’apprendimento derivante
dall’interazione e l’ampliamento della gamma di tecnologie disponibili.
Internazionalizzazione delle imprese locali
Le piccole imprese dovrebbero concentrarsi sul campo delle relazioni esterne. La cooperazione
internazionale ha spesso previsto l’invio di agenti che potessero promuovere l’“internazionalizzazione” delle
imprese locali. Ciò andrebbe assicurato mediante un supporto diretto e il collegamento con imprese estere.
La partecipazione a fiere internazionali è stata incoraggiata come una opportunità per condividere le
informazioni sui meccanismi dell’esportazione e le tecniche di orientamento al mercato. Sfortunatamente questi
tentativi non hanno riportato grande successo a causa delle caratteristiche strutturali delle piccole imprese. In
ogni caso si tratta di un percorso sul quale insistere.
Incentivi per sviluppare relazioni di mercato
L’innovazione tecnologica e le trasformazioni nelle economie di mercato hanno profondamente modificato
la competizione. È cresciuta l’importanza delle variabili non di prezzo della competizione, e oggi è posta
maggiore attenzione alle innovazioni, alla qualità dei servizi, alla percezione di valori, immagini, identità.
Nondimeno, questa tendenza contrasta con la struttura delle piccole imprese, che tendono a concentrare le
risorse nelle aree funzionali più tradizionali, come la produzione, l’organizzazione e l’amministrazione, piuttosto
che impegnarsi nei fattori di competitività esterna.
La fornitura di servizi e assistenza tecnica può costituire una forma di politica dell’innovazione per sistemi di
aggregazione di piccole imprese, a sostegno della specializzazione flessibile e dell’espansione di mercato. A
questo riguardo, è fondamentale l’acquisizione di professionalità specifiche per singoli prodotti nel campo della
tecnologia e dei vincoli e opportunità di mercato.
Il ricorso a centri privati di servizi reali può contribuire a modificare le strategie e la cultura aziendale delle
piccole imprese.
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In effetti, il decentramento delle funzioni amministrative, gli incentivi alla crescita dei consorzi, i partenariati
territoriali e forme di “gemellaggio” possono insieme favorire sia l’emersione di associazioni e organizzazioni
definite territorialmente, sia l’afflusso di conoscenze e capacità tecnologiche nelle aree depresse, promuovendo
in questo modo un processo di sviluppo sostenibile ed endogeno.
(*) Questo testo è un’ampia sintesi di uno studio del Cespi, “Promoting Small-Sized Enterprises in SubSaharan Africa. A Proposal for Action” (luglio 1998), elaborato da una équipe di ricercatori italiani e africani,
composta da Silvia Aprile, Bangambe Bila, Simone Cantagallo, Temesgen Habtemichael, Peter Onyango,
Alessandro Ricci, Alessandro Spaventa, Andrea Stocchiero e Giuseppe Torre. Lo studio è stato coordinato da
José Luis Rhi-Sausi e Marco Zupi, con l’assistenza operativa di Barbara De Benedictis. La ricerca si è avvalsa
della consulenza scientifica di Andrea Saba dell’Università di Roma “La Sapienza”. Le versioni in inglese e in
italiano sono state realizzate con la collaborazione di Elena Mancusi-Materi.
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