ENORME DIFFERENZA

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ENORME DIFFERENZA
In questi ultimi decenni
abbiamo assistito ad una
crescita
esponenziale
del
fenomeno comunicazione. Il
“prodigio” va rettamente inteso:
meglio, considerando i fatti,
questo sviluppo del sistema
comunicazionale
consiste
soprattutto nel robusto apporto
tecnologico che ha consentito a
nuovi
strumenti
di
comunicazione
di
essere
distribuiti ed utilizzati dalla
quasi totalità dei potenziali
utenti, soprattutto del mondo
occidentale.
In altre occasioni ho avuto
modo
di
scrivere
come
progresso e tecnologia non sono
dei sinonimi: certo è che la
tecnologia come fattore tecnicostrumentale
può
e
deve
contribuire
al
progresso
dell’Umana famiglia. Il vero
progresso è intimamente legato
al disegno evolutivo dove è
interamente coinvolto ogni
essere umano.
La comunicazione facilita i
contatti,
coinvolge,
crea
relazioni, ma i nuovi strumenti
facilitano tutto questo? Le
tecniche di comunicazione non
sono mai state così perfezionate,
e, per certi versi, anche
invasive, come nei nostri tempi:
veicolano l’informazione ad alta
velocità
consentendoci
di
conoscere avvenimenti anche
lontani in tempo reale. Ma
questa è vera comunicazione o
circolazione dell’informazione?
Proviamo a rispondere. La vera
comunicazione,
oltre
che
mettere qualcuno al corrente di
qualcosa, è coinvolgimento, è
creare relazione tra esseri umani
attraverso tre fattori che sono
sostanziali e generatori dello
stesso
processo
comunicazionale e cioè la
parola, il modo in cui la parola
si veicola e la nostra capacità di
presenza e partecipazione. Per
meglio
dire,
usando
un
linguaggio
mutuato
dalle
tecniche di settore, il verbale, il
paraverbale e il non verbale.
Dove il contenuto (il verbale)
deve necessariamente essere
accompagnato dalla relazione e
quest’ultima
vive
nel
paraverbale (tono della voce,
ritmo del parlato, velocità
d’eloquio e così via) e nel non
verbale (gestualità, mimica,
prossemica, sguardo…). La
mancanza di relazione rende la
comunicazione orfana di un
elemento
costitutivo
di
fondamentale importanza. La
comunicazione
non
vive
soltanto con le parole!
Quindi, in alcune circostanze
siamo vittime di una falsa
rappresentazione della realtà:
molta tecnologia che facilita lo
scambio di informazioni senza
creare veramente relazione è
scambiata per comunicazione. Il
paradosso è che la tecnologia,
che dovrebbe contribuire al
progresso, per certi versi ci
allontana dalla realtà facendoci
rifugiare nel mondo virtuale. Il
supporto tecnologico è vissuto
più in chiave sostanziale che
strumentale.
Le conseguenze? Rischiose:
perdere di vista il reale a favore
del virtuale e quindi divenire
incapaci di progredire nella
relazione verso il prossimo su
base empatica, che prevede il
coinvolgimento sia emozionale
sia cognitivo; dimenticare che la
comunicazione umana è un
processo di scambio.
La comunicazione è, dunque,
dare e ricevere in libertà.
Quando sento notizie del tipo
che in una scuola non si canta
più “Tu scendi dalle stelle” per
non urtare la sensibilità dei
fratelli scolari di religione
islamica credo che il sistema
relazionale sia in profonda
sofferenza. La comunicazione è
poter trasmette in libertà e
rispetto i propri pensieri, il
proprio credo e lasciare agli altri
la stessa prerogativa. Non
negare, bensì dare.
C’è ancora molto da lavorare.
Buon Natale a tutti.
Rev.mo Padre Paolo Leomanni
Qualche settimana fa, in seguito
a un mio sms di ringraziamento
per un aiuto ricevuto, ne ho
ricevuto uno, in risposta, che
diceva tra le altre cose: “ noi
missionari serviamo pure a
qualcosa…” “Già” - mi sono
chiesto - “a che cosa serve
essere
un
missionario
consacrato all’interno della
Chiesa Veterocattolica?” Dico
subito che non pretendo di
rispondere a questa domanda e
che forse, la domanda stessa
andrebbe riformulata in maniera
più articolata; tuttavia questa
domanda è stato lo spunto per
una serie di riflessioni che
vorrei condividere in queste
righe.
Siamo chiamati a continuare
l’opera di Gesù: annunciare la
novità di vita del Regno di Dio.
Ma qual è l’originalità della
concezione del regno di Dio
nella predicazione di Gesù
rispetto quella dei profeti che lo
hanno preceduto?
Consiste nel fatto che si
annuncia e si promette solo la
salvezza, non la salvezza e la
condanna.
Si confronti a questo proposito
la proclamazione iniziale di
Gesù – “convertitevi perché il
regno di Dio è vicino” –
(Matteo 4,17) con quella del
Battista: “Convertitevi, perché il
regno di Dio è vicino: … già la
scure è posta alla radice degli
alberi: ogni albero che non
produce frutti buoni viene
tagliato e gettato nel fuoco”
(Matteo 3, 2.10); in Giovanni
Battista l’imminenza del regno è
interpretata come l’imminenza
del
castigo
divino;
lo
spostamento di accento operata
da Gesù non è una semplice
sfumatura; anzi assume maggior
rilievo visto che la prima parte
dell’annuncio è uguale alla
lettera…
Il discorso programmatico nella
sinagoga di Nazaret (Luca
4,16ss) provoca una violenta
reazione nell’uditorio (versetti
22 e seguenti). L’evangelista
commenta
che
“tutti
testimoniarono contro di lui”
(emartyroun
auto)
e
si
meravigliavano delle parole di
grazia che uscivano dalla sua
bocca (v.22), fino al punto che
cercarono di ucciderlo (vv.2830).
Ma a che cosa si deve tanto
furore
dei
giudei,
tanta
indignazione? Sostanzialmente
al modo in cui Gesù ha citato un
passo dell’antico testamento,
operando una scelta di campo
chiara e netta.
Vediamola nei dettagli. Gesù ha
riportato un noto oracolo del
profeta Isaia (Isaia 61, 1-2), ma
la citazione da lui operata è
volutamente incompleta: in
essa
è
stata
soppresso
l’annuncio del “giorno di
vendetta per il nostro Dio” . Gli
ascoltatori di Nazaret si
accorsero della variazione di
tono: un messaggio per il quale
non c’è posto per il castigo, ma
solo per le parole di grazia è del
tutto inaudito e suona, agli
orecchi degli ebrei riuniti nel
tempio, come una novità
sacrilega.
Gesù manterrà questa novità
fino alla fine: le parabole del
perdono
(il
padre
misericordioso, il fariseo e il
pubblicano, la dracma e la
pecora
perduta…)
sono
altrettante espressioni nitide e
chiare del Dio che “non vuole la
morte del peccatore, ma che si
converta e viva”.
Il Gesù del quarto vangelo si
autodefinisce,
con
ancora
maggior chiarezza, il Salvatore:
“Dio non ha mandato il Figlio
nel mondo per giudicare il
mondo, ma perché il mondo si
salvi per mezzo di lui. (Giovanni
3,17). “Se qualcuno ascolta le
mie parole e non le osserva, io
non lo condanno, perché non
sono venuto per condannare il
mondo, ma per salvare il
mondo” (Giovanni 12,47).
Nemmeno Paolo pensa che il
Vangelo sia un annuncio
bivalente
di
salvezza
o
condanna: “La parola che vi
abbiamo diretto non è sì e no,
perché il Figlio di Dio Cristo
Gesù che abbiamo predicato tra
voi … non fu sì e no; in lui non
c’è stato che il sì.” (2 Corinti 1,
18 – 19)
Non c’è dubbio che, considerati
questi testi e molti altri
possibili, la dottrina della morte
eterna
non
appartiene
all’evangelo, il quale, come ben
sappiamo, nel suo significato
letterale, è “la buona notizia”.
Annunzio di salvezza, quindi,
non di salvezza o condanna.
I missionari, noi missionari,
siamo chiamati ad essere
“buona notizia”, “annuncio di
salvezza”, proposta positiva,
andando contro corrente, se è il
caso.
Essere positivi, credere alla vita
in ogni sua forma, sempre.
Credere all’energia della vita in
noi, negli altri, per noi è per gli
altri, sempre.
Tutto ciò non è forse novità
dirompente, oggi?
La novità del missionario…
Dr. Paolo Iotti
“Fortunato chi crede, condurrà
una vita più serena!”
Fin dalla sua prima comparsa,
l’uomo ha sempre manifestato il
congenito bisogno di ricondurre
gran
parte
degli
eventi
razionalmente inspiegabili a una
volontà
superiore.
Ogni
responsabilità del destino degli
uomini viene quindi delegata a
un
“essere”
o
“esseri”
soprannaturali a cui viene
attribuita piena libertà di
arbitrio. L’immagine di questa
entità si perfeziona e si modella
nel corso dei millenni a seconda
dell’evoluzione degli uomini
che la producono.
Prima tappa è senza dubbio
quella di rintracciare in qualsiasi
evento
naturale
(fulmini,terremoti,
variazioni
climatiche…) i connotati fisici
di più figure dotate di volontà
ultraterrena.
Lentamente prende, poi, corpo
la possibilità di immaginare
divinità somaticamente simili
agli umani, altrettanto virtuose o
viziose,
cui
riconoscere
particolari poteri.
Ultima meta è affidare a un
unico “essere” (in ultima analisi
privo di sembianze fisiche)
l’assoluta facoltà di decidere e
guidare le sorti di ogni, anche
più piccolo, atomo del mondo.
Interessante è notare come
queste non siano solo tappe
storicamente definite nella
generale
evoluzione
antropologica, quanto piuttosto
forme di credenza che si
sviluppano a seconda del grado
di maturazione intellettuale,
emotiva e spirituale di una data
comunità umana. A riguardo, si
pensi che nel mondo non in tutte
le società
l’espressione
religiosa è monoteista: in alcune
organizzazioni
sociali
più
primitive, a esempio,
il
percorso di credenza religiosa è
ancora fermo alla prima tappa.
Indipendentemente
dall’età
storica e dal grado di
perfezionamento
evolutivo,
appare chiaro comunque che ciò
che accomuna la maggior parte
degli uomini sia la necessità di
aggrappare la loro credenza a
“qualcosa” o “qualcuno” a loro
superiore e, come tale, non del
tutto afferrabile e conoscibile.
A questo umano bisogno, sia la
psicologia che la filosofia hanno
cercato
di
fornire
una
spiegazione più o meno
razionale.
Dal punto di vista psicologico,
due
possono
essere
sostanzialmente i motivi per cui
l’uomo crea e accetta l’idea
della divinità. L’incapacità di
prevedere, contenere, evitare
fenomeni di diversa natura che
sfuggono alla volontà umana
conduce necessariamente alla
possibilità di identificare una
volontà superiore che “tutto può
e tutto decide”. L’uomo non può
astenersi dal pensare che le cose
avvengano per caso, ma
secondo una logica e un ordine
stabiliti: se non è lui a
determinare gli eventi, deve pur
esistere
qualcuno
di
immensamente più potente in
grado di farlo.
In seconda battuta, l’entità
divina agirebbe come “locus of
control esterno”, cui demandare
alcune
responsabilità
che
altrimenti dovrebbero essere
riconosciute come proprie di
ciascun singolo. E’, spesso,
emotivamente più economico
accettare ciò che accade come
frutto di una determinazione
altrui, piuttosto che riconoscere
la partecipazione di una propria
responsabilità.
Diverso l’approccio filosofico.
In linea generale la filosofia dei
primi pensatori poneva la
ragione come unica fonte della
conoscenza e considerava la
religione come una risposta
sommaria e accidiosa che
ostacola a trovare soluzioni
logicamente valide. La religione
è
quindi
generatrice
di
instabilità emotiva, è una gabbia
che annebbia la ragione
ancorandola
alle
semplici
opinioni che originano dai sensi,
non permettendole di discernere
tra ciò che è vero e ciò che è
frutto della fantasia.
Con
l’avvento
del
Cristianesimo, viene proposta
una nuova forma di sapienza: la
conoscenza si origina dalla
rivelazione divina che l’uomo
accoglie grazie a un atto di fede.
L’uomo partecipa, anche se in
modo infinitamente più limitato,
della stessa ragione e sapienza
divina, perché da essa stessa
creato e, in quanto tale, è in
grado di conoscere le verità
necessarie ed eterne solo a
seguito
a
un
atto
di
illuminazione.
Si parla del Cristianesimo,
perché è a questa religione cui
la filosofia occidentale ha
prestato più interesse, ma si
potrebbe affermare che ciò
valga, per sommi capi, per le
religioni monoteiste in genere.
Trasversalmente
in
ogni
religione esistono principi e
concetti fondamentali di amore,
fede e carità, su cui si edifica il
rapporto con Dio e tra gli
uomini; l’espressione rituale o
le
figure
“illuminate”,
“profetiche”, “cristiche” (…) di
riferimento
di
ciascun
movimento religioso, sono poi
frutto
di filosofie di vita,
circostanze sociali e ambientali,
percorsi evolutivi e storici
differenti. L’entità divina può
scegliere
diversi modi per
rivelarsi e si può manifestare
alle genti sotto differenti spoglie
umane, in modo da essere
maggiormente
accolta, più
facilmente
riconosciuta
e
seguita. Dio arriva al cuore
degli uomini con disegni che
solo a Lui risultano chiari e
precisi, non chiede altro di
essere accettato e capito.
Certamente nel suo progetto non
c’è l’intento di creare conflitti di
religione in suo nome; tutto
questo è solo conseguenza dei
fanatismi
e
di
errate
interpretazioni che noi umani
poniamo in essere, proprio forse
perché “natura imperfetta”.
Non sarebbe, quindi, così
impraticabile la strada che
condurrebbe a un rispetto
reciproco
tra
le
diverse
“credenze”, se solo gli uomini
avessero il coraggio di praticare
la tolleranza del prossimo ed
emarginassero nei loro cuori i
diversi interessi, che spesso con
la religione non hanno nulla da
spartire.
Di sovente, invece, siamo
concentrati a enumerare le
differenze e soprattutto a
rintracciare elementi peculiari
che attestino la superiorità
dell’una o dell’altra religione.
Ognuno di noi ha avuto a
disposizione, per educazione
famigliare, sociale, ambientale
di conoscere una o più
movimenti legati alle diverse
manifestazioni divine. Abbiamo
scelto di credere o di praticare
l’ateismo; abbiamo scelto di
accettare una esteriorizzazione
divina piuttosto che un’altra,
perché questa si confà meglio al
nostro modo di essere e
interpretare la religione. Nel
caso in cui abbiamo optato per
questa
seconda
opzione,
dobbiamo comunque ascoltare
la voce di Dio in noi, senza
avere la presunzione che quello
sia l’unico modo in cui si rivela.
Anche all’interno di una stessa
direzione religiosa esistono
capillari diversità sul modo di
interpretare e divulgare la parola
divina; pensiamo, a esempio, ai
diversi movimenti presenti in
seno al solo cattolicesimo e al
numero ancora maggiore in
quello del cristianesimo: cambia
forse il Dio? Cambia forse il
modo in cui si è manifestato e
ha parlato agli uomini? O forse
si diversifica solo il modo in cui
ogni
movimento
lo
ha
interpretato, adattandolo a tutto
quell’insieme di concezioni
mentali, psicologiche, sociali e
spirituali dei suoi seguaci?
Se vogliamo, poi, spingerci oltre
proviamo a riflettere sul fatto
che anche nell’ambito di una
stessa
credenza
religiosa,
l’immagine di Dio subisce dei
mutamenti nel modo di essere
vissuta. Torniamo alla figura
divina come la conosciamo nel
Cristianesimo. Nel libro sacro
della Bibbia esiste una profonda
differenza tra Dio così come ci
viene descritto nell’Antico
Testamento e quello ritratto nel
Nuovo. Nel primo, infatti, si ha
il sapore di essere quasi in balia
di un Dio, che spesso è
rappresentato come collerico,
dispettoso,
capriccioso
e
vendicativo;
caratteristiche
comportamentali, queste, che lo
avvicinano molto a quelle
indicate per le divinità degli
antichi Greci e Romani. Un Dio
che
governa
gli
uomini
lasciando loro l’illusione del
libero
arbitrio,
ma
immediatamente pronto a punire
nel momento in cui non si sia
capita la sua volontà. Un Dio
nemmeno parente di quel Padre
misericordioso,
disposto
a
comprendere e a perdonare gli
errori dei figli, così come ci è
dichiarato nelle parole del
Cristo.
Qual è la differenza? E’ Dio,
che, svegliandosi una mattina,
ha
deciso
di
mutare
atteggiamento?
L’insegnamento, forse, è un
altro. La differenza è insita nel
cammino spirituale di chi si
appresta ad ascoltare e a
praticare la parola di Dio. Come
uomini abbiamo necessità di
crearci uno stabile di regole a
cui far generalmente riferimento
nella conduzione della nostra
vita.
Non
riusciremmo,
diversamente, a crearci una
coscienza in grado di indicarci
la strada più onesta e non
riusciremmo
nemmeno
a
tollerare le gravi frustrazioni
conseguenti ai nostri sbagli. Il
Dio “emotivamente instabile”
dell’Antico
Testamento
racchiude il cammino di
costruzione
della
nostra
condotta morale, soggetta ai
capricci e vizi umani, ma
altrettanto
sensibile
alle
inevitabili punizioni che la vita
riserva. Un processo, quindi,
che ci abitua all’ascolto di noi
stessi, delle nostre passioni, di
quanto di positivo o negativo
abita negli anfratti dei nostri
sentimenti; ci pone nelle
condizioni di scegliere la via del
“bene” e ci istruisce su quanto
sarà doloroso il travaglio della
nostra coscienza, nel caso in cui
abbiamo optato per il “male”.
In questo modo il processo
sarebbe comunque monco: non
sempre si è nelle condizioni di
poter effettuare scelte ed essere
sicuri di fare la cosa giusta.
Spesso siamo chiamati ad agire
in modo tale che qualunque
decisione
prendiamo
scontentiamo noi stessi o il
prossimo.
Saremmo
così
destinati a vivere in continua
titubanza, nel continuo timore di
sbagliare, nella persistente idea
di essere puniti. In questo senso
Gesù completa il percorso: Dio
è in grado di leggerci nel cuore,
capire la sostanza delle nostre
intenzioni,
l’ingenuità
e
l’imperfezione
dei
nostri
sentimenti e azioni; proprio
perché misericordioso, ha la
possibilità di perdonarci e
amarci per come siamo. Non
pone regole rigide, ma indica
alcune direzioni da seguire,
lasciando respiro anche alla
possibilità di sbagliare, pronto a
soccorrerci
quando
inciampiamo.
Ma,
ancora,
chiede di ascoltarlo e soprattutto
di essere accettato nella sua
volontà. E’ vero che abbiamo il
dono del libero arbitrio, ma è
altrettanto palese che le prove,
cui Dio ci sottopone nel nostro
cammino
perfettivo
sono
davvero numerose. E’ in queste
che viene sondata la nostra fede:
nella capacità di accogliere
qualsiasi
evento,
seppur
negativo o doloroso, come
espresso desiderio di Dio. Solo
Lui è in grado di conoscere il
perché di quanto ci viene
richiesto, la meta ultima che ha
in serbo per noi.
Proviamo per un attimo a
riflettere se siamo sempre così
disposti e pronti a capire Dio
quando ci sottopone a dure
prove. Abbiamo il cuore libero
dal nostro egoismo umano per
accettare
anche
ciò
che
contraddice
quel
che
ci
saremmo prospettati per la
nostra vita? Pensiamo alle
nostre preghiere: spesso sono
indirizzate
per
richiedere
continuamente che i nostri
desideri trovino un positivo
riscontro. L’atteggiamento di
chi ha piena fiducia nel Creatore
dovrebbe, invece, essere quello
di recitarle, raccomandandoci a
Dio di concederci la forza di
affrontare qualsiasi situazione
abbia
riservato
per
noi,
infondendoci la capacità di
intuire quale messaggio ci stia
inviando.
Quante volte, invece, ci
dimentichiamo di ringraziarlo
per ciò che ci ha concesso? E
quante ancora lo “biasimiamo”
per non averci debitamente
ricompensati quando ci siamo
intensamente impegnati per un
fine o, peggio ancora, per averci
costretto a esami così dolorosi
che, secondo noi, non ci
saremmo davvero meritati? Ma
è davvero fede, questa?
Solo se facciamo vuoto nel
nostro cuore, depurandolo da
ogni umano residuo di insano
egoismo, possiamo ascoltare la
voce di Dio in noi e capire che
qualunque cosa ci capiti è
comunque prevista per il nostro
perfezionamento. Allora sì….:
“Fortunato chi crede, condurrà
una vita più serena”.
Dr.ssa Cristina Caroppo
Da tempo si discute del compito
dei laici all’interno della Chiesa:
in questo particolare momento
storico caratterizzato da una
società
sempre
più
multiculturale, sarebbe utile
rileggere la posizione di
Antonio Rosmini (1797-1855)
che, più di un secolo e mezzo
fa, mette in risalto il valore dei
laici,
i
loro
diritti
e,
implicitamente,
la
loro
responsabilità.
Lo spunto ci viene offerto da
“MICROPROVINCIA” rivista
di cultura diretta da Franco
Esposito che, in occasione del
150° anniversario della morte
del filosofo e teologo di
Rovereto, grande amico di
Manzoni e suo consigliere,
dedica un intero numero a
questo “pensatore moderno” le
cui intuizioni, le più delle volte
“profetiche, non erano in linea
con il pensiero del suo tempo”
(1).
Nell’articolo di Piersandro
Vanzan “ Il risveglio del laicato:
Rosmini
precursore
del
Vaticano II ”, pubblicato nel
numero 43 della rivista, l’autore
sottolinea che Rosmini, in tempi
marcatamente
clericogerarchici, propose il passaggio
dei laici da “fedele gregge” a
protagonisti nella vita della
Chiesa. Ciò, secondo l’autore
dell’ articolo, è avvenuto molti
anni dopo con le affermazioni
del Concilio Vaticano II e con
l’Esortazione Christifideles laici
(1988) di Giovanni Paolo II.
Già Rosmini, infatti, ne “La
società teocratica” assegna ai
laici un “settemplice potere” :
costituente,
liturgico,
di
sciogliere
e
legare
(e
medicinale),
ierogenetico,
didattico e ordinativo. Infatti i
laici, essendo battezzati, hanno
il potere di battezzare e di
aggregare quindi alla Chiesa
(potere costituente ) ; il potere
liturgico
attraverso il quale
possono rendere culto a Dio; in
caso di necessità possono
amministrare a se stessi e agli
altri
il
sacramento
dell’
Eucaristia (potere eucaristico);
possono, in caso di estrema
necessità, ricevere il sacramento
della penitenza e somministrare
quello della estrema unzione
(potere di sciogliere e di legare
e potere medicinale ). A questo
proposito
il
Vanzan
fa
riferimento, in una nota, ad una
tradizione, presente in Oriente
dall’800 al 1300 e in Occidente
dal 1000 al 1500, che attribuisce
ai fedeli laici la possibilità della
confessione e fa riferimento alla
posizione di S. Tommaso che
avvicina
questa
pratica
all’amministrazione
del
battesimo: “nei due casi, la
necessità della salvezza gli
sembrava
giustificasse
le
massime facilitazioni” (2).
Di fondamentale importanza è
anche, nella visione rosminiana,
il potere ierogenetico che fa
degli sposi i veri ministri del
sacramento matrimoniale: in tal
modo la famiglia diventa una
“chiesa domestica”.
Secondo
Rosmini
il
sacerdozio
coniugale,
specificazione del sacerdozio
dei battezzati, consente agli
sposi di essere artefici e ministri
del sacramento matrimoniale.
Anche
nel
campo
del
matrimonio
la
teologia
rosminiana non appiattisce, ma
mette in risalto la reciprocità o
“uguaglianza
differenziata
(anche sessuale)” tra uomo e
donna nella famiglia, specchio
dell’amore reciproco esistente
tra la Chiesa e il Verbo di Dio.
Rosmini anticipa così anche un
dibattito che è sempre attuale,
quello cioè sul rapporto uomodonna e sul rispetto delle
diversità tra loro, dibattito che
investe non solo la famiglia, ma
anche la Chiesa e l’intera
società civile.
Anche il ruolo profetico
(evangelizzazione
e
predicazione),
funzione
principale
del
sacerdozio
gerarchico è, secondo il teologo
roveretano, compito dei fedeli
laici che, “sotto la direzione dei
pastori della Chiesa”, sono
chiamati al ministero della
Parola (potere didattico ) . Egli
afferma che i genitori poi
“hanno il dovere d’infondere nei
loro figlioli una sana dottrina
non solo per altrui mezzo, ma
bene
spesso
anche
essi
convivendo coi figli. Il semplice
fedele ha il diritto infine, di
confrontare
l’insegnamento
d’un pastore della Chiesa con
quello di altri pastori della
Chiesa universale, e di rigettare
il primo se è contrario alle
decisioni espresse dalla Chiesa
universale”.
Come non sottolineare la
modernità del Rosmini che già
nell’800 considera il laico non
un
essere
passivo
e
incompetente,
bensì
una
presenza partecipe e critica!
Infatti anche per quanto
riguarda
poi
il
potere
ordinativo, inteso da Rosmini
come potere di reggere e
governare
la
comunità
ecclesiale (munus regendi et
gubernandi), Egli afferma che i
semplici fedeli, nell’ottica della
reciprocità
a
uguaglianza
differenziata in cui sono
coinvolti clero e laici, hanno il
diritto di influire nel governo
della Chiesa a tre livelli:
elezione
dei
vescovi,
legislazione
disciplinare
e
amministrazione
dei
beni
ecclesiastici.
Il Vanzan sottolinea che questo
è il “punto più alto (e critico)
del Rosmini”. Infatti, se da una
parte il Concilio Vaticano II ha
recepito
alcune
istanze
innovative
del
roveretano,
dall’altra è evidente che molta
strada è necessario ancora
percorrere per arrivare alla
partecipazione attiva dei laici
alla vita della Chiesa così come
Egli auspicava. Tale percorso si
rende ancora più urgente se
veramente si vuole onorare
l’Uomo di cui oggi si è avviata
la causa di beatificazione.
Qui non si tratta semplicemente
di rivendicare diritti e poteri, ma
di far crescere carismi che sono
di ciascun battezzato per il
servizio a tutta la comunità. La
partecipazione dei laici, infatti,
implica necessariamente la
consapevolezza da parte loro di
avere una grande responsabilità
che deriva dal fatto di radicare
la parola di Dio in ogni scelta e
di essere testimoni nella Chiesa
e nella società del messaggio
evangelico. Solo
così
il
Cristianesimo sarebbe non un
“museo da conservare, ma un
giardino da far crescere”
(Giovanni XXIII).
(1) Franco Esposito “La lezione di
Antonio
Rosmini”,
in
MICROPROVINCIA, rivista di
cultura diretta da
F. Esposito, n°43,
Stresa; p.3 (Gennaio-Dicembre
2005)
(2) nella nota n° 5 si fa riferimento
all’opera di Y. Congar, Per una
teologia del laicato, Morcelliana,
Brescia
1996
p.
304
in
MICROPROVINCIA op. cit. p.99.
Dr.ssa Antonia Dagostino
Dr.ssa Liliana Gadaleta
Minervini
Tra pochi giorni, il 16 gennaio
prossimo venturo, ricorrerà il
terzo
anniversario
della
scomparsa di Padre Caroppo. La
Dr.ssa Dagostino Antonia ha
così voluto onorare la sua
memoria:
Chi è stato Luigi Caroppo?
Cosa ha contraddistinto il suo
operato in questa porzione di
tempo, su questi orizzonti
d’Italia e d’Europa?
Non posso fare a meno,
pensando a lui, di ritornare a
quel passo del vangelo di
Matteo e di Luca in cui si narra
di “quel tale” che, possedendo
cento pecore gli accade che una
si perde. Che cosa farà? Non
lascerà le altre novantanove sui
monti, al sicuro, per andare a
cercare quella pecora che si è
perduta? E la cerca finchè non l’
ha trovata, sottolinea Luca e,
aggiunge che quando la trova se
la mette sulle spalle pieno di
gioia e ritorna a casa sua… e
“vi assicuro”, conferma Matteo,
“sarà più contento per questa
pecora…”
Gli evangelisti Matteo e Luca
sono chiari, la gioia che investe
il pastore è tutta per quella
pecora sperduta che geme tra i
rovi.
La sensibilità del pastore che si
accorge di quella pecora che
manca e si mette in cammino
per cercarla, è sicuramente un
tratto che ha caratterizzato
l’opera di padre Caroppo in
questa
esistenza
terrena.
Caricarsi dei problemi di tutti
coloro che si sono rivolti a lui a
causa di sofferenze fisiche,
esistenziali, coscienziali, aprire
a ciascuno quello spiraglio
attraverso cui cercare una nuova
via, risvegliare un nuovo senso
di fiducia nella vita, illuminare
quegli anfratti più oscuri
dell’animo
umano
per
riconciliarlo con se stesso e con
gli altri e gioire di ogni più
piccola conquista. Questa la
missione terrena di padre
Caroppo.
Tante sono ancora le pecore che
hanno perduto la via: chi le
cercherà?
Gino, aiutaci a tenere i piedi
pronti e le gambe ben salde e le
braccia robuste, capaci di
sollevare chi, nella sua ricerca
personale del Cristo, si è spinto
fuori dal recinto…
Fa che noi possiamo operare,
sulla tua scia, perché “tutti siano
una cosa sola… e possano
essere perfetti nell’unità perché
il mondo possa capire…”
Nel 1988, grazie a un’amica, ho
avuto l’opportunità di conoscere
delle persone speciali: Padre
Luigi Caroppo, M.Antonietta
Caroppo e il Dott. Renato
Leomanni.
Da quel giorno la mia vita ha
iniziato a cambiare. Andavo una
volta al mese presso il
consultorio
di
Ausilia
Calabrese, anche lei assistente
pastorale della Missione VeteroCattolica, e lì ho avuto modo di
raccontare tutta la mia vita, i
problemi che dovevo affrontare
avendo anche una figlia da
crescere, i miei pensieri nei
momenti di fiducia e di
scoraggiamento.
Per motivi di lavoro ho
frequentato città e persone
diverse
sentendo
sempre
l’esigenza di trovare degli
interlocutori che mi dessero
quel senso di fiducia e di
appoggio di cui avevo bisogno,
ma mi sono sentita appagata
solo nell’incontro con il gruppo
di Padre Caroppo.
Gli
psicoterapeuti
del
consultorio sono riusciti a dare
una spiegazione ai miei perchè e
farmi comprendere tutte quelle
risposte che per molto tempo
non ero riuscita neanche a
trovare. Anno dopo anno ho
percorso un cammino, a volte
faticoso, per conoscere me
stessa, ma oggi posso dire di
sentirmi molto meglio e di
vivere quello stato d’animo di
serenità che avevo ammirato e
invidiato nell’espressione e nel
modo di fare delle persone che
mi stavano aiutando.
Quando si è ammalato Padre
Caroppo, il mio padre salvatore,
la mia vita è cambiata, mi si è
stretto il cuore come se fosse
stato mio padre.
Ma ho continuato a curare la
mia crescita interiore, ho
ricevuto la consacrazione e ho
sentito ancora di più quanto i
principi che mi avevano
insegnato alla Missione e la
disponibilità delle persone che
avevo
frequentato
fossero
importanti per me. Ho sentito
veramente l’energia e la piccola
scintilla divina presenti nel mio
essere che andava via via
acquistando
forza
e
consapevolezza.
La cosa più bella è che riesco
anche a dare una mano a quelle
persone che, colpite dal mio
atteggiamento sereno, sono
portate a confidarsi con me.
Ascolto i loro problemi, sono
felice
quando
i
miei
suggerimenti sono d’aiuto e, nel
caso, li indirizzo al Consultorio
dove sono sicura che saranno
compresi
e
guidati
con
competenza.
Teresa (da Taranto)
Ano
e nei sentieri della vita….
incontrai me stessa
Ombre amorfe che si incontrano
si schivano pensierose
con sguardi biechi o sorrisi
cortesi
parlano senza capirsi
eppure sono figlie di uno stesso
padre…
si osservano, così,
pietose ognuna dell’altra
… E dare l’ultimo respiro, che
cos’è se non liberarlo dal suo
flusso inquieto, affinché possa
involarsi finalmente e spaziare
disancorato alla ricerca di
Dio?…
(“Il Profeta” di Gibran)
Sicuri che le anime dei loro cari
godano già della Luce divina,
porgiamo le nostre più sentite
condoglianze alla Rev.da La
Piccirella Concetta (Assistente
Pastorale di Bari) per la triste
perdita del papà e a Matera
Mario, Ricchiuto Augusto e
Pranzo Vera per quella delle
loro mamme.
talvolta si abbracciano
o giocano a fare la guerra
…anime sole,
eppure sono tante.
Sguardi che si incontrano
solo per respingersi
nella frenetica corsa alle cose
terrene
e intanto
l’odore dell’aria
pregno di false
parole
sciolte nel suono
degli ipocriti canti di pace.
Nazy Estella Cristhel
Ci congediamo con il sincero
augurio che possiate vivere
questo Natale non solo tra le
carte dei vostri magnifici regali,
ma nella riscoperta del suo vero
significato.
Donate, donate…. tutto l’amore
di cui il vostro cuore è capace.
Sorridete con gioia anche al
vostro peggior nemico e…
tendete una mano a chi ve la
chiede.
Col cuore, Buon Natale a tutti
voi!
IL DIALOGO
Direttore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo
Direttore Stampa Dr. Renato Leomanni
Reg. 233 Trib. RE
Fotocopiato in proprio
Redaz. Missione Cristcattolica
Direz. e Amm. Via Matteotti, 27 Scandiano
(RE)
Sito internet:
www.chiesaveterocattolica.it
e-mail: [email protected]