ENORME DIFFERENZA
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ENORME DIFFERENZA
In questi ultimi decenni abbiamo assistito ad una crescita esponenziale del fenomeno comunicazione. Il “prodigio” va rettamente inteso: meglio, considerando i fatti, questo sviluppo del sistema comunicazionale consiste soprattutto nel robusto apporto tecnologico che ha consentito a nuovi strumenti di comunicazione di essere distribuiti ed utilizzati dalla quasi totalità dei potenziali utenti, soprattutto del mondo occidentale. In altre occasioni ho avuto modo di scrivere come progresso e tecnologia non sono dei sinonimi: certo è che la tecnologia come fattore tecnicostrumentale può e deve contribuire al progresso dell’Umana famiglia. Il vero progresso è intimamente legato al disegno evolutivo dove è interamente coinvolto ogni essere umano. La comunicazione facilita i contatti, coinvolge, crea relazioni, ma i nuovi strumenti facilitano tutto questo? Le tecniche di comunicazione non sono mai state così perfezionate, e, per certi versi, anche invasive, come nei nostri tempi: veicolano l’informazione ad alta velocità consentendoci di conoscere avvenimenti anche lontani in tempo reale. Ma questa è vera comunicazione o circolazione dell’informazione? Proviamo a rispondere. La vera comunicazione, oltre che mettere qualcuno al corrente di qualcosa, è coinvolgimento, è creare relazione tra esseri umani attraverso tre fattori che sono sostanziali e generatori dello stesso processo comunicazionale e cioè la parola, il modo in cui la parola si veicola e la nostra capacità di presenza e partecipazione. Per meglio dire, usando un linguaggio mutuato dalle tecniche di settore, il verbale, il paraverbale e il non verbale. Dove il contenuto (il verbale) deve necessariamente essere accompagnato dalla relazione e quest’ultima vive nel paraverbale (tono della voce, ritmo del parlato, velocità d’eloquio e così via) e nel non verbale (gestualità, mimica, prossemica, sguardo…). La mancanza di relazione rende la comunicazione orfana di un elemento costitutivo di fondamentale importanza. La comunicazione non vive soltanto con le parole! Quindi, in alcune circostanze siamo vittime di una falsa rappresentazione della realtà: molta tecnologia che facilita lo scambio di informazioni senza creare veramente relazione è scambiata per comunicazione. Il paradosso è che la tecnologia, che dovrebbe contribuire al progresso, per certi versi ci allontana dalla realtà facendoci rifugiare nel mondo virtuale. Il supporto tecnologico è vissuto più in chiave sostanziale che strumentale. Le conseguenze? Rischiose: perdere di vista il reale a favore del virtuale e quindi divenire incapaci di progredire nella relazione verso il prossimo su base empatica, che prevede il coinvolgimento sia emozionale sia cognitivo; dimenticare che la comunicazione umana è un processo di scambio. La comunicazione è, dunque, dare e ricevere in libertà. Quando sento notizie del tipo che in una scuola non si canta più “Tu scendi dalle stelle” per non urtare la sensibilità dei fratelli scolari di religione islamica credo che il sistema relazionale sia in profonda sofferenza. La comunicazione è poter trasmette in libertà e rispetto i propri pensieri, il proprio credo e lasciare agli altri la stessa prerogativa. Non negare, bensì dare. C’è ancora molto da lavorare. Buon Natale a tutti. Rev.mo Padre Paolo Leomanni Qualche settimana fa, in seguito a un mio sms di ringraziamento per un aiuto ricevuto, ne ho ricevuto uno, in risposta, che diceva tra le altre cose: “ noi missionari serviamo pure a qualcosa…” “Già” - mi sono chiesto - “a che cosa serve essere un missionario consacrato all’interno della Chiesa Veterocattolica?” Dico subito che non pretendo di rispondere a questa domanda e che forse, la domanda stessa andrebbe riformulata in maniera più articolata; tuttavia questa domanda è stato lo spunto per una serie di riflessioni che vorrei condividere in queste righe. Siamo chiamati a continuare l’opera di Gesù: annunciare la novità di vita del Regno di Dio. Ma qual è l’originalità della concezione del regno di Dio nella predicazione di Gesù rispetto quella dei profeti che lo hanno preceduto? Consiste nel fatto che si annuncia e si promette solo la salvezza, non la salvezza e la condanna. Si confronti a questo proposito la proclamazione iniziale di Gesù – “convertitevi perché il regno di Dio è vicino” – (Matteo 4,17) con quella del Battista: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino: … già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Matteo 3, 2.10); in Giovanni Battista l’imminenza del regno è interpretata come l’imminenza del castigo divino; lo spostamento di accento operata da Gesù non è una semplice sfumatura; anzi assume maggior rilievo visto che la prima parte dell’annuncio è uguale alla lettera… Il discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,16ss) provoca una violenta reazione nell’uditorio (versetti 22 e seguenti). L’evangelista commenta che “tutti testimoniarono contro di lui” (emartyroun auto) e si meravigliavano delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca (v.22), fino al punto che cercarono di ucciderlo (vv.2830). Ma a che cosa si deve tanto furore dei giudei, tanta indignazione? Sostanzialmente al modo in cui Gesù ha citato un passo dell’antico testamento, operando una scelta di campo chiara e netta. Vediamola nei dettagli. Gesù ha riportato un noto oracolo del profeta Isaia (Isaia 61, 1-2), ma la citazione da lui operata è volutamente incompleta: in essa è stata soppresso l’annuncio del “giorno di vendetta per il nostro Dio” . Gli ascoltatori di Nazaret si accorsero della variazione di tono: un messaggio per il quale non c’è posto per il castigo, ma solo per le parole di grazia è del tutto inaudito e suona, agli orecchi degli ebrei riuniti nel tempio, come una novità sacrilega. Gesù manterrà questa novità fino alla fine: le parabole del perdono (il padre misericordioso, il fariseo e il pubblicano, la dracma e la pecora perduta…) sono altrettante espressioni nitide e chiare del Dio che “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva”. Il Gesù del quarto vangelo si autodefinisce, con ancora maggior chiarezza, il Salvatore: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. (Giovanni 3,17). “Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno, perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Giovanni 12,47). Nemmeno Paolo pensa che il Vangelo sia un annuncio bivalente di salvezza o condanna: “La parola che vi abbiamo diretto non è sì e no, perché il Figlio di Dio Cristo Gesù che abbiamo predicato tra voi … non fu sì e no; in lui non c’è stato che il sì.” (2 Corinti 1, 18 – 19) Non c’è dubbio che, considerati questi testi e molti altri possibili, la dottrina della morte eterna non appartiene all’evangelo, il quale, come ben sappiamo, nel suo significato letterale, è “la buona notizia”. Annunzio di salvezza, quindi, non di salvezza o condanna. I missionari, noi missionari, siamo chiamati ad essere “buona notizia”, “annuncio di salvezza”, proposta positiva, andando contro corrente, se è il caso. Essere positivi, credere alla vita in ogni sua forma, sempre. Credere all’energia della vita in noi, negli altri, per noi è per gli altri, sempre. Tutto ciò non è forse novità dirompente, oggi? La novità del missionario… Dr. Paolo Iotti “Fortunato chi crede, condurrà una vita più serena!” Fin dalla sua prima comparsa, l’uomo ha sempre manifestato il congenito bisogno di ricondurre gran parte degli eventi razionalmente inspiegabili a una volontà superiore. Ogni responsabilità del destino degli uomini viene quindi delegata a un “essere” o “esseri” soprannaturali a cui viene attribuita piena libertà di arbitrio. L’immagine di questa entità si perfeziona e si modella nel corso dei millenni a seconda dell’evoluzione degli uomini che la producono. Prima tappa è senza dubbio quella di rintracciare in qualsiasi evento naturale (fulmini,terremoti, variazioni climatiche…) i connotati fisici di più figure dotate di volontà ultraterrena. Lentamente prende, poi, corpo la possibilità di immaginare divinità somaticamente simili agli umani, altrettanto virtuose o viziose, cui riconoscere particolari poteri. Ultima meta è affidare a un unico “essere” (in ultima analisi privo di sembianze fisiche) l’assoluta facoltà di decidere e guidare le sorti di ogni, anche più piccolo, atomo del mondo. Interessante è notare come queste non siano solo tappe storicamente definite nella generale evoluzione antropologica, quanto piuttosto forme di credenza che si sviluppano a seconda del grado di maturazione intellettuale, emotiva e spirituale di una data comunità umana. A riguardo, si pensi che nel mondo non in tutte le società l’espressione religiosa è monoteista: in alcune organizzazioni sociali più primitive, a esempio, il percorso di credenza religiosa è ancora fermo alla prima tappa. Indipendentemente dall’età storica e dal grado di perfezionamento evolutivo, appare chiaro comunque che ciò che accomuna la maggior parte degli uomini sia la necessità di aggrappare la loro credenza a “qualcosa” o “qualcuno” a loro superiore e, come tale, non del tutto afferrabile e conoscibile. A questo umano bisogno, sia la psicologia che la filosofia hanno cercato di fornire una spiegazione più o meno razionale. Dal punto di vista psicologico, due possono essere sostanzialmente i motivi per cui l’uomo crea e accetta l’idea della divinità. L’incapacità di prevedere, contenere, evitare fenomeni di diversa natura che sfuggono alla volontà umana conduce necessariamente alla possibilità di identificare una volontà superiore che “tutto può e tutto decide”. L’uomo non può astenersi dal pensare che le cose avvengano per caso, ma secondo una logica e un ordine stabiliti: se non è lui a determinare gli eventi, deve pur esistere qualcuno di immensamente più potente in grado di farlo. In seconda battuta, l’entità divina agirebbe come “locus of control esterno”, cui demandare alcune responsabilità che altrimenti dovrebbero essere riconosciute come proprie di ciascun singolo. E’, spesso, emotivamente più economico accettare ciò che accade come frutto di una determinazione altrui, piuttosto che riconoscere la partecipazione di una propria responsabilità. Diverso l’approccio filosofico. In linea generale la filosofia dei primi pensatori poneva la ragione come unica fonte della conoscenza e considerava la religione come una risposta sommaria e accidiosa che ostacola a trovare soluzioni logicamente valide. La religione è quindi generatrice di instabilità emotiva, è una gabbia che annebbia la ragione ancorandola alle semplici opinioni che originano dai sensi, non permettendole di discernere tra ciò che è vero e ciò che è frutto della fantasia. Con l’avvento del Cristianesimo, viene proposta una nuova forma di sapienza: la conoscenza si origina dalla rivelazione divina che l’uomo accoglie grazie a un atto di fede. L’uomo partecipa, anche se in modo infinitamente più limitato, della stessa ragione e sapienza divina, perché da essa stessa creato e, in quanto tale, è in grado di conoscere le verità necessarie ed eterne solo a seguito a un atto di illuminazione. Si parla del Cristianesimo, perché è a questa religione cui la filosofia occidentale ha prestato più interesse, ma si potrebbe affermare che ciò valga, per sommi capi, per le religioni monoteiste in genere. Trasversalmente in ogni religione esistono principi e concetti fondamentali di amore, fede e carità, su cui si edifica il rapporto con Dio e tra gli uomini; l’espressione rituale o le figure “illuminate”, “profetiche”, “cristiche” (…) di riferimento di ciascun movimento religioso, sono poi frutto di filosofie di vita, circostanze sociali e ambientali, percorsi evolutivi e storici differenti. L’entità divina può scegliere diversi modi per rivelarsi e si può manifestare alle genti sotto differenti spoglie umane, in modo da essere maggiormente accolta, più facilmente riconosciuta e seguita. Dio arriva al cuore degli uomini con disegni che solo a Lui risultano chiari e precisi, non chiede altro di essere accettato e capito. Certamente nel suo progetto non c’è l’intento di creare conflitti di religione in suo nome; tutto questo è solo conseguenza dei fanatismi e di errate interpretazioni che noi umani poniamo in essere, proprio forse perché “natura imperfetta”. Non sarebbe, quindi, così impraticabile la strada che condurrebbe a un rispetto reciproco tra le diverse “credenze”, se solo gli uomini avessero il coraggio di praticare la tolleranza del prossimo ed emarginassero nei loro cuori i diversi interessi, che spesso con la religione non hanno nulla da spartire. Di sovente, invece, siamo concentrati a enumerare le differenze e soprattutto a rintracciare elementi peculiari che attestino la superiorità dell’una o dell’altra religione. Ognuno di noi ha avuto a disposizione, per educazione famigliare, sociale, ambientale di conoscere una o più movimenti legati alle diverse manifestazioni divine. Abbiamo scelto di credere o di praticare l’ateismo; abbiamo scelto di accettare una esteriorizzazione divina piuttosto che un’altra, perché questa si confà meglio al nostro modo di essere e interpretare la religione. Nel caso in cui abbiamo optato per questa seconda opzione, dobbiamo comunque ascoltare la voce di Dio in noi, senza avere la presunzione che quello sia l’unico modo in cui si rivela. Anche all’interno di una stessa direzione religiosa esistono capillari diversità sul modo di interpretare e divulgare la parola divina; pensiamo, a esempio, ai diversi movimenti presenti in seno al solo cattolicesimo e al numero ancora maggiore in quello del cristianesimo: cambia forse il Dio? Cambia forse il modo in cui si è manifestato e ha parlato agli uomini? O forse si diversifica solo il modo in cui ogni movimento lo ha interpretato, adattandolo a tutto quell’insieme di concezioni mentali, psicologiche, sociali e spirituali dei suoi seguaci? Se vogliamo, poi, spingerci oltre proviamo a riflettere sul fatto che anche nell’ambito di una stessa credenza religiosa, l’immagine di Dio subisce dei mutamenti nel modo di essere vissuta. Torniamo alla figura divina come la conosciamo nel Cristianesimo. Nel libro sacro della Bibbia esiste una profonda differenza tra Dio così come ci viene descritto nell’Antico Testamento e quello ritratto nel Nuovo. Nel primo, infatti, si ha il sapore di essere quasi in balia di un Dio, che spesso è rappresentato come collerico, dispettoso, capriccioso e vendicativo; caratteristiche comportamentali, queste, che lo avvicinano molto a quelle indicate per le divinità degli antichi Greci e Romani. Un Dio che governa gli uomini lasciando loro l’illusione del libero arbitrio, ma immediatamente pronto a punire nel momento in cui non si sia capita la sua volontà. Un Dio nemmeno parente di quel Padre misericordioso, disposto a comprendere e a perdonare gli errori dei figli, così come ci è dichiarato nelle parole del Cristo. Qual è la differenza? E’ Dio, che, svegliandosi una mattina, ha deciso di mutare atteggiamento? L’insegnamento, forse, è un altro. La differenza è insita nel cammino spirituale di chi si appresta ad ascoltare e a praticare la parola di Dio. Come uomini abbiamo necessità di crearci uno stabile di regole a cui far generalmente riferimento nella conduzione della nostra vita. Non riusciremmo, diversamente, a crearci una coscienza in grado di indicarci la strada più onesta e non riusciremmo nemmeno a tollerare le gravi frustrazioni conseguenti ai nostri sbagli. Il Dio “emotivamente instabile” dell’Antico Testamento racchiude il cammino di costruzione della nostra condotta morale, soggetta ai capricci e vizi umani, ma altrettanto sensibile alle inevitabili punizioni che la vita riserva. Un processo, quindi, che ci abitua all’ascolto di noi stessi, delle nostre passioni, di quanto di positivo o negativo abita negli anfratti dei nostri sentimenti; ci pone nelle condizioni di scegliere la via del “bene” e ci istruisce su quanto sarà doloroso il travaglio della nostra coscienza, nel caso in cui abbiamo optato per il “male”. In questo modo il processo sarebbe comunque monco: non sempre si è nelle condizioni di poter effettuare scelte ed essere sicuri di fare la cosa giusta. Spesso siamo chiamati ad agire in modo tale che qualunque decisione prendiamo scontentiamo noi stessi o il prossimo. Saremmo così destinati a vivere in continua titubanza, nel continuo timore di sbagliare, nella persistente idea di essere puniti. In questo senso Gesù completa il percorso: Dio è in grado di leggerci nel cuore, capire la sostanza delle nostre intenzioni, l’ingenuità e l’imperfezione dei nostri sentimenti e azioni; proprio perché misericordioso, ha la possibilità di perdonarci e amarci per come siamo. Non pone regole rigide, ma indica alcune direzioni da seguire, lasciando respiro anche alla possibilità di sbagliare, pronto a soccorrerci quando inciampiamo. Ma, ancora, chiede di ascoltarlo e soprattutto di essere accettato nella sua volontà. E’ vero che abbiamo il dono del libero arbitrio, ma è altrettanto palese che le prove, cui Dio ci sottopone nel nostro cammino perfettivo sono davvero numerose. E’ in queste che viene sondata la nostra fede: nella capacità di accogliere qualsiasi evento, seppur negativo o doloroso, come espresso desiderio di Dio. Solo Lui è in grado di conoscere il perché di quanto ci viene richiesto, la meta ultima che ha in serbo per noi. Proviamo per un attimo a riflettere se siamo sempre così disposti e pronti a capire Dio quando ci sottopone a dure prove. Abbiamo il cuore libero dal nostro egoismo umano per accettare anche ciò che contraddice quel che ci saremmo prospettati per la nostra vita? Pensiamo alle nostre preghiere: spesso sono indirizzate per richiedere continuamente che i nostri desideri trovino un positivo riscontro. L’atteggiamento di chi ha piena fiducia nel Creatore dovrebbe, invece, essere quello di recitarle, raccomandandoci a Dio di concederci la forza di affrontare qualsiasi situazione abbia riservato per noi, infondendoci la capacità di intuire quale messaggio ci stia inviando. Quante volte, invece, ci dimentichiamo di ringraziarlo per ciò che ci ha concesso? E quante ancora lo “biasimiamo” per non averci debitamente ricompensati quando ci siamo intensamente impegnati per un fine o, peggio ancora, per averci costretto a esami così dolorosi che, secondo noi, non ci saremmo davvero meritati? Ma è davvero fede, questa? Solo se facciamo vuoto nel nostro cuore, depurandolo da ogni umano residuo di insano egoismo, possiamo ascoltare la voce di Dio in noi e capire che qualunque cosa ci capiti è comunque prevista per il nostro perfezionamento. Allora sì….: “Fortunato chi crede, condurrà una vita più serena”. Dr.ssa Cristina Caroppo Da tempo si discute del compito dei laici all’interno della Chiesa: in questo particolare momento storico caratterizzato da una società sempre più multiculturale, sarebbe utile rileggere la posizione di Antonio Rosmini (1797-1855) che, più di un secolo e mezzo fa, mette in risalto il valore dei laici, i loro diritti e, implicitamente, la loro responsabilità. Lo spunto ci viene offerto da “MICROPROVINCIA” rivista di cultura diretta da Franco Esposito che, in occasione del 150° anniversario della morte del filosofo e teologo di Rovereto, grande amico di Manzoni e suo consigliere, dedica un intero numero a questo “pensatore moderno” le cui intuizioni, le più delle volte “profetiche, non erano in linea con il pensiero del suo tempo” (1). Nell’articolo di Piersandro Vanzan “ Il risveglio del laicato: Rosmini precursore del Vaticano II ”, pubblicato nel numero 43 della rivista, l’autore sottolinea che Rosmini, in tempi marcatamente clericogerarchici, propose il passaggio dei laici da “fedele gregge” a protagonisti nella vita della Chiesa. Ciò, secondo l’autore dell’ articolo, è avvenuto molti anni dopo con le affermazioni del Concilio Vaticano II e con l’Esortazione Christifideles laici (1988) di Giovanni Paolo II. Già Rosmini, infatti, ne “La società teocratica” assegna ai laici un “settemplice potere” : costituente, liturgico, di sciogliere e legare (e medicinale), ierogenetico, didattico e ordinativo. Infatti i laici, essendo battezzati, hanno il potere di battezzare e di aggregare quindi alla Chiesa (potere costituente ) ; il potere liturgico attraverso il quale possono rendere culto a Dio; in caso di necessità possono amministrare a se stessi e agli altri il sacramento dell’ Eucaristia (potere eucaristico); possono, in caso di estrema necessità, ricevere il sacramento della penitenza e somministrare quello della estrema unzione (potere di sciogliere e di legare e potere medicinale ). A questo proposito il Vanzan fa riferimento, in una nota, ad una tradizione, presente in Oriente dall’800 al 1300 e in Occidente dal 1000 al 1500, che attribuisce ai fedeli laici la possibilità della confessione e fa riferimento alla posizione di S. Tommaso che avvicina questa pratica all’amministrazione del battesimo: “nei due casi, la necessità della salvezza gli sembrava giustificasse le massime facilitazioni” (2). Di fondamentale importanza è anche, nella visione rosminiana, il potere ierogenetico che fa degli sposi i veri ministri del sacramento matrimoniale: in tal modo la famiglia diventa una “chiesa domestica”. Secondo Rosmini il sacerdozio coniugale, specificazione del sacerdozio dei battezzati, consente agli sposi di essere artefici e ministri del sacramento matrimoniale. Anche nel campo del matrimonio la teologia rosminiana non appiattisce, ma mette in risalto la reciprocità o “uguaglianza differenziata (anche sessuale)” tra uomo e donna nella famiglia, specchio dell’amore reciproco esistente tra la Chiesa e il Verbo di Dio. Rosmini anticipa così anche un dibattito che è sempre attuale, quello cioè sul rapporto uomodonna e sul rispetto delle diversità tra loro, dibattito che investe non solo la famiglia, ma anche la Chiesa e l’intera società civile. Anche il ruolo profetico (evangelizzazione e predicazione), funzione principale del sacerdozio gerarchico è, secondo il teologo roveretano, compito dei fedeli laici che, “sotto la direzione dei pastori della Chiesa”, sono chiamati al ministero della Parola (potere didattico ) . Egli afferma che i genitori poi “hanno il dovere d’infondere nei loro figlioli una sana dottrina non solo per altrui mezzo, ma bene spesso anche essi convivendo coi figli. Il semplice fedele ha il diritto infine, di confrontare l’insegnamento d’un pastore della Chiesa con quello di altri pastori della Chiesa universale, e di rigettare il primo se è contrario alle decisioni espresse dalla Chiesa universale”. Come non sottolineare la modernità del Rosmini che già nell’800 considera il laico non un essere passivo e incompetente, bensì una presenza partecipe e critica! Infatti anche per quanto riguarda poi il potere ordinativo, inteso da Rosmini come potere di reggere e governare la comunità ecclesiale (munus regendi et gubernandi), Egli afferma che i semplici fedeli, nell’ottica della reciprocità a uguaglianza differenziata in cui sono coinvolti clero e laici, hanno il diritto di influire nel governo della Chiesa a tre livelli: elezione dei vescovi, legislazione disciplinare e amministrazione dei beni ecclesiastici. Il Vanzan sottolinea che questo è il “punto più alto (e critico) del Rosmini”. Infatti, se da una parte il Concilio Vaticano II ha recepito alcune istanze innovative del roveretano, dall’altra è evidente che molta strada è necessario ancora percorrere per arrivare alla partecipazione attiva dei laici alla vita della Chiesa così come Egli auspicava. Tale percorso si rende ancora più urgente se veramente si vuole onorare l’Uomo di cui oggi si è avviata la causa di beatificazione. Qui non si tratta semplicemente di rivendicare diritti e poteri, ma di far crescere carismi che sono di ciascun battezzato per il servizio a tutta la comunità. La partecipazione dei laici, infatti, implica necessariamente la consapevolezza da parte loro di avere una grande responsabilità che deriva dal fatto di radicare la parola di Dio in ogni scelta e di essere testimoni nella Chiesa e nella società del messaggio evangelico. Solo così il Cristianesimo sarebbe non un “museo da conservare, ma un giardino da far crescere” (Giovanni XXIII). (1) Franco Esposito “La lezione di Antonio Rosmini”, in MICROPROVINCIA, rivista di cultura diretta da F. Esposito, n°43, Stresa; p.3 (Gennaio-Dicembre 2005) (2) nella nota n° 5 si fa riferimento all’opera di Y. Congar, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1996 p. 304 in MICROPROVINCIA op. cit. p.99. Dr.ssa Antonia Dagostino Dr.ssa Liliana Gadaleta Minervini Tra pochi giorni, il 16 gennaio prossimo venturo, ricorrerà il terzo anniversario della scomparsa di Padre Caroppo. La Dr.ssa Dagostino Antonia ha così voluto onorare la sua memoria: Chi è stato Luigi Caroppo? Cosa ha contraddistinto il suo operato in questa porzione di tempo, su questi orizzonti d’Italia e d’Europa? Non posso fare a meno, pensando a lui, di ritornare a quel passo del vangelo di Matteo e di Luca in cui si narra di “quel tale” che, possedendo cento pecore gli accade che una si perde. Che cosa farà? Non lascerà le altre novantanove sui monti, al sicuro, per andare a cercare quella pecora che si è perduta? E la cerca finchè non l’ ha trovata, sottolinea Luca e, aggiunge che quando la trova se la mette sulle spalle pieno di gioia e ritorna a casa sua… e “vi assicuro”, conferma Matteo, “sarà più contento per questa pecora…” Gli evangelisti Matteo e Luca sono chiari, la gioia che investe il pastore è tutta per quella pecora sperduta che geme tra i rovi. La sensibilità del pastore che si accorge di quella pecora che manca e si mette in cammino per cercarla, è sicuramente un tratto che ha caratterizzato l’opera di padre Caroppo in questa esistenza terrena. Caricarsi dei problemi di tutti coloro che si sono rivolti a lui a causa di sofferenze fisiche, esistenziali, coscienziali, aprire a ciascuno quello spiraglio attraverso cui cercare una nuova via, risvegliare un nuovo senso di fiducia nella vita, illuminare quegli anfratti più oscuri dell’animo umano per riconciliarlo con se stesso e con gli altri e gioire di ogni più piccola conquista. Questa la missione terrena di padre Caroppo. Tante sono ancora le pecore che hanno perduto la via: chi le cercherà? Gino, aiutaci a tenere i piedi pronti e le gambe ben salde e le braccia robuste, capaci di sollevare chi, nella sua ricerca personale del Cristo, si è spinto fuori dal recinto… Fa che noi possiamo operare, sulla tua scia, perché “tutti siano una cosa sola… e possano essere perfetti nell’unità perché il mondo possa capire…” Nel 1988, grazie a un’amica, ho avuto l’opportunità di conoscere delle persone speciali: Padre Luigi Caroppo, M.Antonietta Caroppo e il Dott. Renato Leomanni. Da quel giorno la mia vita ha iniziato a cambiare. Andavo una volta al mese presso il consultorio di Ausilia Calabrese, anche lei assistente pastorale della Missione VeteroCattolica, e lì ho avuto modo di raccontare tutta la mia vita, i problemi che dovevo affrontare avendo anche una figlia da crescere, i miei pensieri nei momenti di fiducia e di scoraggiamento. Per motivi di lavoro ho frequentato città e persone diverse sentendo sempre l’esigenza di trovare degli interlocutori che mi dessero quel senso di fiducia e di appoggio di cui avevo bisogno, ma mi sono sentita appagata solo nell’incontro con il gruppo di Padre Caroppo. Gli psicoterapeuti del consultorio sono riusciti a dare una spiegazione ai miei perchè e farmi comprendere tutte quelle risposte che per molto tempo non ero riuscita neanche a trovare. Anno dopo anno ho percorso un cammino, a volte faticoso, per conoscere me stessa, ma oggi posso dire di sentirmi molto meglio e di vivere quello stato d’animo di serenità che avevo ammirato e invidiato nell’espressione e nel modo di fare delle persone che mi stavano aiutando. Quando si è ammalato Padre Caroppo, il mio padre salvatore, la mia vita è cambiata, mi si è stretto il cuore come se fosse stato mio padre. Ma ho continuato a curare la mia crescita interiore, ho ricevuto la consacrazione e ho sentito ancora di più quanto i principi che mi avevano insegnato alla Missione e la disponibilità delle persone che avevo frequentato fossero importanti per me. Ho sentito veramente l’energia e la piccola scintilla divina presenti nel mio essere che andava via via acquistando forza e consapevolezza. La cosa più bella è che riesco anche a dare una mano a quelle persone che, colpite dal mio atteggiamento sereno, sono portate a confidarsi con me. Ascolto i loro problemi, sono felice quando i miei suggerimenti sono d’aiuto e, nel caso, li indirizzo al Consultorio dove sono sicura che saranno compresi e guidati con competenza. Teresa (da Taranto) Ano e nei sentieri della vita…. incontrai me stessa Ombre amorfe che si incontrano si schivano pensierose con sguardi biechi o sorrisi cortesi parlano senza capirsi eppure sono figlie di uno stesso padre… si osservano, così, pietose ognuna dell’altra … E dare l’ultimo respiro, che cos’è se non liberarlo dal suo flusso inquieto, affinché possa involarsi finalmente e spaziare disancorato alla ricerca di Dio?… (“Il Profeta” di Gibran) Sicuri che le anime dei loro cari godano già della Luce divina, porgiamo le nostre più sentite condoglianze alla Rev.da La Piccirella Concetta (Assistente Pastorale di Bari) per la triste perdita del papà e a Matera Mario, Ricchiuto Augusto e Pranzo Vera per quella delle loro mamme. talvolta si abbracciano o giocano a fare la guerra …anime sole, eppure sono tante. Sguardi che si incontrano solo per respingersi nella frenetica corsa alle cose terrene e intanto l’odore dell’aria pregno di false parole sciolte nel suono degli ipocriti canti di pace. Nazy Estella Cristhel Ci congediamo con il sincero augurio che possiate vivere questo Natale non solo tra le carte dei vostri magnifici regali, ma nella riscoperta del suo vero significato. Donate, donate…. tutto l’amore di cui il vostro cuore è capace. Sorridete con gioia anche al vostro peggior nemico e… tendete una mano a chi ve la chiede. Col cuore, Buon Natale a tutti voi! IL DIALOGO Direttore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo Direttore Stampa Dr. Renato Leomanni Reg. 233 Trib. RE Fotocopiato in proprio Redaz. Missione Cristcattolica Direz. e Amm. Via Matteotti, 27 Scandiano (RE) Sito internet: www.chiesaveterocattolica.it e-mail: [email protected]