Notiziario Accademia Italiana Cucina

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A TAVOLA CON L’INSUBRIA
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ette Delegazioni si sono riunite per dar vita, tutte
insieme, a un importante convegno di studi sulla
civiltà della tavola insubrica: Varese-Busto Arsizio
(Delegazione ospitante), Lariana, Lecco, Monza e Brianza, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Svizzera Italiana.
Tema: “L’Insubria a tavola”. Si è così ridato vita a una regione virtuale che comprendeva la Lombardia nord-occidentale, parte del Piemonte e il Canton Ticino.
L’Insubria, infatti, è una regione virtuale che acquista
però contorni reali se si passa dalla geografia alla gastronomia. Gli Insubri erano bellicosi Celti originari della Gallia transalpina, calati nella pianura padana attraverso il Monginevro verso il 450 a.C. Quando, un paio
di secoli dopo, i Romani vollero dividere tra i veterani le
loro terre, gli Insubri insorsero sobillando altre tribù galliche per marciare su Roma: giunsero fino in Etruria dove vennero però sconfitti da Attilio Regolo a Talamone.
Per vendicarsi di Roma si unirono poi ad Annibale cui
rimasero fedeli per quindici anni. Domati definitivamente nel 194, nel 49 ebbero la cittadinanza romana. Gli Insubri, dunque, hanno progressivamente perduto la loro
identità etnica mantenendo però inalterati usi e costumi
gastronomici, taluni giunti fino ai nostri giorni.
Questo tema affascinante è stato affrontato nel corso
di un convegno che si è svolto al “Palace Grand Hotel”
di Colle Campigli a Varese sotto l’egida dell’Università
dell’Insubria, il cui Magnifico rettore, professor Renzo
Dionigi, ha aperto i lavori illustrando l’importanza degli
studi relativi a questa antica civiltà. Il Presidente dell’Accademia, Giuseppe Dell’Osso, ha ribadito l’importanza
degli obiettivi culturali volti alla riscoperta e alla valorizzazione di antiche tradizioni legate alla civiltà della tavola. Dell’Osso ha poi ringraziato tutti i Delegati presenti:
“Vedere sette Delegazioni unite insieme per un unico
obiettivo culturale - ha detto il Presidente - è un grande
segno di vitalità e di passione accademica”.
Numerose le relazioni, e tutte di altissimo livello
scientifico. Ciascuna Delegazione è stata presente con
un proprio relatore.
La relazione introduttiva è stata della Delegazione di
Varese-Busto Arsizio, con il tema svolto dal prof. Pierangelo Frigerio su “Alimentazione e cucina tra Milano e le
Alpi”. “Granaglie e riso, pane e paniscia” è stato il tema
svolto da Giampiero Monreale (Novara). Luigi Bosia
(Svizzera Italiana) ha parlato dei vini ticinesi. Giacomo
Fiori (Verbano-Cusio-Ossola) ha trattato il tema degli
“Antichi formaggi d’alpeggio tra le Lepontine e il Milanese”: a cavallo delle Alpi, tra la zona insubrica cisalpi-
na e il Canton Ticino, sono moltissime le analogie. Gli
alpeggi sono praticamente identici, molto simili i processi di lavorazione, di conservazione e di stagionatura.
Nel Seicento i formaggi di Schwyz e di Brienz e lo
“abrinzo” di Antrona erano commercializzati tranquillamente al di qua delle Alpi. Nel 1598 il vescovo di Novara Carlo Bescapé, volendo inviare un omaggio al papa
Clemente VIII che dimorava a Ferrara, gli fece recapitare, tramite il proprio castellano di Orta, come dice un
documento dell’epoca, “150 libbre di formaggio sbrinzo
del migliore che ivi si trovi”. Questo formaggio infatti
era molto pregiato, degno addirittura di figurare sulla
mensa di un papa.
Dall’Archivio borromeo dell’Isola Bella, poi, emergono
molte notizie anche curiose. Per esempio nel maggio
1654 per onorare il governatore di Milano marchese di
Caracena, ospite dei Borromeo, vengono acquistate 11
libbre di formaggio sbrinzo, che costava 15 soldi la libbra (soltanto un soldo in più del prezzo del burro, mentre l’olio costava venti soldi). Sempre al Castello borromeo di Arona nel 1661 venne in visita il nuovo governatore di Milano, duca di Sermoneta: per onorarne la mensa, vennero acquistati formaggi “sbrinzo vecchio” e
“sbrinzo giovane”. Tra il Canton Ticino e l’Italia esisteva
addirittura una “via del formaggio” che, partendo da Locarno, giungeva a Varallo per raggiungere gli empori del
lago Maggiore e di lì le grandi città lombarde.
Oggi negli alpeggi al di qua e al di là delle Alpi si lavora esclusivamente latte vaccino. In passato, invece, in-
LE ANTICHE RICETTE
“Palace Grand Hotel” Varese
Colli Campigli
1 giugno 2002
Crostone di pane giallo con rosticciata
Risotto alla monzese
Filetto di coregone con verdure in agretto bianco
Tapulone con polenta
Dolce Varese con salsa vaniglia
I vini:
Carolus 2001 e Ghemme Docg 1998
(Antichi Vigneti di Cantalupo)
Moscato d’Asti (La Spinetta)
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sieme alle vacche venivano portate in montagna capre e
pecore che si alimentavano brucando nei terreni più impervi, dove le vacche non giungevano. Ne usciva così
un formaggio “misto” dal sapore più accentuato. Questo
consentiva una maggiore scrematura del latte vaccino (il
latte ovino e caprino è molto più grasso) per ricavarne
una maggiore quantità di burro, altro prodotto molto
pregiato.
Altro argomento affrontato a Varese è stato il pesce,
con una relazione del professor Ettore Grimaldo (Lariana) il quale ha ricordato come la pesca nelle acque
insubriche (Lago d’Orta, Lago Maggiore, Lago di Lugano e Lago di Como) sia antica di oltre duemila anni:
un primato assoluto nell’ambito della civiltà occidentale. Il rapporto vitale tra l’uomo insubrico e i suoi laghi è decaduto progressivamente dalla metà del secolo scorso, dando vita a un fatto molto importante: la
nascita del “pescatore di mestiere”. Oggi il pesce di
lago compare sempre meno sulle tavole domestiche
ma ha aumentato parecchio la sua presenza nei ristoranti, dove i pesci di lago sono sempre più graditi e
richiesti. Rinasce così una cucina di tipo tradizionale,
dai sapori decisi ed elementari, con molte ricette “innovative”come l’offerta di pesce di lago crudo sottoposto a particolari marinature.
Per la Delegazione di Lecco il professor Ottavio Lurati, dell’Università di Basilea, ha interpretato la “cultura dell’alimentarsi” tracciando un panorama a dir
poco sconfortante della situazione attuale. Egli ha
compiuto un’acuta analisi delle pratiche commerciali
e pubblicitarie con cui vengono imposti ai cibi nomi
nuovi e diversi da quelli originali e collaudati nel
tempo: così avviene per gli oli, i vini, i salumi i dolci,
i biscotti dell’attuale produzione industriale. Progressivamente, ha proseguito, l’industria alimentare si sostituisce alla cucina familiare, modificando i piani
delle coltivazioni, sganciandosi dai giacimenti gastronomici locali per uniformare tutto in una assurda globalizzazione. “Le differenze regionali durate secoli ha detto tra l’altro il prof. Lurati - vengono sovente
cancellate in un nuovo e dannoso cosmopolitismo
consumistico”.
Infine Angelo Grampa (Monza e Brianza) ha svolto
il tema delle cucina delle feste e della cucina quotidiana della zona insubrica nei loro caratteri originali.
Il moderatore del convegno, l’Accademico Vito Artioli, ha concluso affermando che compito precipuo
dell’Accademia Italiana della Cucina è proprio quello
di controbattere queste tendenze dannose.
È seguita una riunione conviviale, molto apprezzata,
con antiche ricette insubriche.
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IL PRIMO DISCIPLINARE DEL VINO
Il 24 settembre 1716 il granduca Cosimo III de’
Medici emanò un bando che costituisce forse il
primo esempio legislativo di denominazione di
origine per il vino. Riferendosi ai confini della zona di produzione del vino di Carmignano il bando dice testualmente: “dal muro del Barco reale al
fiume Furba… fino al muro del detto Barco Reale
al cancello d’Arzana”. Il Barco reale era una muraglia lunga 32 metri fatta costruire da Cosimo I
nel XVI secolo, dopo che aveva acquistato i possedimenti in quel di Carmignano. Separava i terreni agricoli dalla selva riservata alla caccia. Nel
1587 diventò granduca Ferdinando I. Era tanto
innamorato di quei posti che dette incarico al
Buontalenti di costruire una villa che avesse “abbondanza di tutte quelle delizie che in occasione
di villeggiatura può un grande desiderare”. Sette
anni dopo, Ferdinando con tutta la sua corte poté
installarsi nella nuova villa che ormai è conosciuta come “Villa reale La Ferdinanda” e che il popolo ha sempre chiamato “Villa dei cento camini”
per gli innumerevoli pinnacoli fumari che ha sul
tetto. Nel 1670 Cosimo III diventa granduca. La
sua politica non incontra il favore plebiscitario
dei sudditi. A lui si imputa lo stato miserevole dell’agricoltura. Ma forse si tratta solo di notizie che
si ricavano dal caparbio lavoro di una opposizione che ci ha lasciato tanti scritti. Infatti il granduca aveva al suo servizio un ottimo “botanico” che
si chiamava Micheli che “gli riempiva i fiaschi degli squisiti doni di Bacco” e un medico personale
poeta, Francesco Redi, che gliene cantava le lodi.
Cosimo III poi, a conferma di una buona conduzione almeno delle viti e del vino, ogni anno
mandava a regalare ai coronati d’Europa fiaschi
di buon Chianti e, nella stessa spedizione, la terza
edizione del vocabolario della Crusca rinnovato
nel 1691 da una delle più valenti generazioni di
quella Accademia. In fondo Cosimo III non doveva poi essere come i suoi detrattori continuavano
a dipingerlo, anche se non tutto doveva funzionare, specialmente per l’opposizione, a puntino. Al
di là delle critiche e degli umori dei politici, un
fatto comunque resta: Cosimo III de’ Medici, in un
suo bando, e ne ha fatti tanti, ha dato al mondo il
primo esempio di disciplinare per i prodotti della
vite. Ha creato insomma il primo Doc e Francesco
Redi, aretino, suo medico personale, ha cantato le
lodi di questo vino: “Ma se giara io prendo in mano / di brillante Carmignano / così grato in sen
mi piove / ch’ambrosia o nettare / non invidio a
Giove”. (Guido Gianni)
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