Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il

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Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO ([email protected]), DANIELE GIGLIOLI ([email protected]),
MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE ([email protected]),
FRANCESCO LO MONACO ([email protected]),
STEFANO ROSSO ([email protected]), AMELIA VALTOLINA ([email protected])
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Questo numero è stato stampato con il contributo del
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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
I (2006)
Sommario
PRESENTAZIONE
5
FORME
§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo
9
§2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista
dell’aldilà
31
§3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso
della possibilità
53
GENERI
§4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia
italiana (1903-2005)
75
§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione in Mulholland Drive di David Lynch
99
§6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine e
concezione mitica in André Breton - Una proposta d’analisi
123
TEMI
§7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele
nella letteratura italiana del Novecento
145
§8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle
167
§9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia
polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento
179
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
199
§
9
Greta Perletti
Dal mal sottile al mal gentile
La malattia polmonare e il morboso ‘interessante’
nella cultura dell’Ottocento
Nel 1853 Karl Rosenkranz, stimato successore della cattedra di Kant a
Königsberg, pubblica con il titolo Estetica del Brutto un curioso trattato,
che probabilmente a causa del suo inconsueto oggetto d’indagine rimane
a lungo negletto nella tradizione critica del filosofo tedesco.1 Prefiggendosi di offrire in quest’opera una trattazione sistematica delle norme estetiche a fondamento della percezione umana del brutto, dell’inappropriato
e del ripugnante nella natura e nell’arte, Rosenkranz si sofferma anche
sulla controversa questione della bellezza o bruttezza del corpo malato.
Poiché comporta sempre una trasformazione (o deformazione) nella regolarità del corpo sano, secondo Rosenkranz la malattia tende a suscitare il
sentimento del brutto: l’identità tra bellezza e salute costituisce infatti
uno dei principî fondanti della sua estetica. Eppure, dopo aver presentato
questa verità generale, il filosofo tedesco ammette l’esistenza di casi in cui
la malattia pare addirittura abbellire l’aspetto di chi ne è colpito. La tisi, o
etisia o consunzione polmonare, figura tra questi mali sottratti alla competenza del brutto:
La malattia provoca sempre il brutto quando deforma le ossa, lo scheletro
e i muscoli. Essa è in genere causa di brutto quando altera in modo abnorme la forma: come nel caso dell’idropisia e simili. Ma non lo è quando, come nella cachessia, nell’etisia e negli stati febbrili, conferisce all’organismo quel colorito trascendente che lo fa apparire etereo. Il dimagrimento, lo sguardo bruciante, le guance pallide o arrossate dalla febbre
1
Per una ricostruzione della difficile fortuna critica di quest’opera, si veda l’Introduzione di Remo Bodei nel volume Karl Rosenkranz, Ästhetik des Hässlichen (1853), trad. it.
Estetica del Brutto, a cura di Remo Bodei, Bologna: il Mulino, 1984.
PARAGRAFO I (2006), pp. 179-98
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GRETA PERLETTI
possono far intuire in maniera ancor più immediata la presenza dello spirito. In quello stato lo spirito è già come separato dall’organismo. Il corpo
nella sua trasparente ‘morbidezza’ non ha già più significato di per sé, è in
tutto e per tutto espressione soltanto dell’anima che se ne distacca, indipendentemente dalla natura.2
Alla luce di come, subito dopo le considerazioni qui riportate, Rosenkranz si affretta a precisare che una più autentica e ammirevole bellezza
scaturisce dalla guarigione – “[u]n convalescente è uno spettacolo degno
degli dèi” –3 lo storico Sander Gilman deduce che l’apologia del sentimento estetico suscitato dalla tisi nel passo citato sia soltanto apparente,
poiché l’aspetto tubercolare si limiterebbe a imitare la salute, incoraggiando quindi una percezione del bello ingannevole e fallace.4
Le riserve espresse da Gilman circa la celebrazione dell’aspetto tubercolare all’interno di un testo che per molti versi si presta invece ad appoggiare il discorso evoluzionistico (che proprio in quegli anni si andava formando), con la sua asserzione della superiorità anche estetica dei fittest, ci
permette di far risaltare in maniera ancora più evidente l’importanza dell’anomala scelta di Rosenkranz di escludere la malattia polmonare dall’ambito della degenerazione. In questo saggio vorremmo proporre che il
motivo che sostiene sia la reticenza del filosofo tedesco ad annettere la tisi
al dominio del brutto, sia la sua decisione di riservarle un ruolo di ‘eccezione’ all’interno del proprio testo, vada ravvisato nello speciale rapporto
che lega la tisi alla definizione dell’identità ‘interessante’, e mostrare in
che modo questo legame, nel contesto culturale dell’Ottocento, si affermi
e si consolidi grazie alla mediazione della nuova categoria epistemologica
espressa dal concetto di ‘morboso’.
2
Ivi, p. 67.
Ivi, p. 68.
4
La bellezza della tisi “non è bellezza per Rosenkranz. […]. La tubercolosi la imita soltanto, e perciò offre un’immagine falsa di bellezza”. Sander Gilman, “The Ugly and the
Beautiful: Cross-Cultural Norms and Definitions in the Medical Culture of Sexuality”, in
Id., Health and Sickness: Images of Difference, London: Reaktion, 1995, pp. 51-66 (laddove non sia altrimenti indicato, la traduzione è mia). Tuttavia, l’idea che la malattia imiti la
salute non sembra presente nel testo del filosofo neppure quando questi elogia il valore
estetico della guarigione: “Se, in alcuni casi, la malattia riesce addirittura a rendere l’uomo
più bello, essa può ancor più diventare causa di bellezza quando scompare. Il progressivo
ritorno alla salute conferisce allo sguardo una maggiore chiarezza e un sano rossore sulle
guance”. Karl Rosenkranz, op. cit., p. 46.
3
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
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La malattia polmonare, l’eccezionalità dei malati e “l’epoca delle belle morti”
Quando Rosenkranz assegna un valore di ‘eccezione’ alla malattia che oggi chiamiamo tubercolosi, egli accoglie implicitamente una connotazione
della tisi ben consolidata nell’immaginario ottocentesco. La tisi è infatti
un male ‘di eccezione’, non solo nel senso predicativo del termine (essa è,
come nell’anti-estetica di Rosenkranz, un’eccezione rispetto ad altre patologie), ma soprattutto in virtù dell’eccezionalità che viene attribuita a chi
ne è colpito. Il topos del lamento per la crudeltà di questa malattia, che
arresta esistenze giovani e meritevoli, imperversa egualmente tra romanzieri e medici, e non è casuale ritrovarlo amplificato in un testo che deve
forse la sua fortuna di bestseller all’intrigante indecidibilità della sua collocazione disciplinare. Che si tratti di un lavoro di fiction con pretese
‘scientifiche’ o di un testo medico ‘romanzato’ (come ebbe a sostenere
perfino l’autorevolissimo Lancet), possiamo ipotizzare che la seduzione
che questo sedicente Diary of a Late Physician esercitò sulla cultura che di
lì a pochi anni sarebbe stata definita ‘vittoriana’ si sprigionasse proprio
dalla reciproca – e visibile – interferenza dei discorsi della medicina e della letteratura, che condividono il medesimo immaginario:
Terribile, insaziabile tiranno! Chi può arrestare la tua avanzata, o contare
le tue vittime? Perché attacchi quasi esclusivamente i più belli e i più ammirevoli della nostra specie? […] Per quale infernale raffinatezza hai escogitato di render sino ad ora vane le più importanti abilità della scienza, di
sconcertare completamente gli insegnamenti dell’esperienza, e di renderti
manifesta solo quando ti sei irrimediabilmente assicurata la tua vittima, e
le tue zanne sono rosse del suo sangue? O angelo distruttore! Perché ti riproponi di abbattere così coloro che sono i primi della nostra umanità
sofferente?5
In questa personificazione della tisi come ‘tiranno insaziabile’, a risuonare
come un ritornello più che noto nella cultura ottocentesca è soprattutto la
crudele selettività con cui questa malattia opera: il destino di questi ‘primi
dell’umanità’ appare a tal punto ineluttabile da indurre a credere che, come
sostiene con una lapidaria riflessione un altro medico, nel caso della con5
Al successo di questo testo, che si presentava come il diario postumo di un medico,
contribuì probabilmente la polemica sull’irrispettosa violazione del segreto professionale
accesasi poco dopo la pubblicazione sulla rivista medica The Lancet. L’esemplare qui consultato è Samuel Warren, Passages from the Diary of a Late Physician (1832), EdinburghLondon: William Blackwood, 1834, vol. 1, p. 144.
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GRETA PERLETTI
sunzione polmonare “se esiste in una famiglia una persona più affascinante
o più dotata delle altre, quello è l’individuo che sicuramente morirà”.6
La convinzione che i soggetti che contraggono la tisi presentino con
allarmante ripetitività straordinarie doti intellettuali, morali o estetiche
inizia a essere formulata e sostenuta con insistenza nel corso del XVIII secolo. Grazie al retaggio di una lunga tradizione umorale che avvicinava e
spesso confondeva – in nome di un ‘male inglese’ che affascinerà per un
momento anche il Rousseau delle Confessioni –7 la tisi con i mali evanescenti che nel Settecento iniziano a essere denominati ‘dei nervi’, si creano i presupposti per promuovere un rapporto di reciproca causalità tra la
malattia polmonare e la finezza d’animo di chi soffre di una non comune
sensibilità.
Per questo motivo, nel 1761, un medico eminente come Samuel Auguste Tissot non inserisce la tisi nel volume dedicato alle patologie proprie della gente comune, ma la fa figurare, nove anni più tardi, tra i mali
della gente definita “del gran mondo”.8 Nel raro caso che il contadino
contragga la consunzione, essa non sarà provocata dai “tubercoletti,” come accade ai cagionevoli cittadini, dediti all’esercizio di una sensibilità civile che, nel bene e nel male, “fa sì, che le genti dedite a’ piaceri del mondo siano pur anche le vittime delle loro più oneste affezioni” (SGM, p.
34). Il contadino potrà ammalarsi soltanto di una consunzione per così
6
Thomas Harvey Burgess, The Physiology or Mechanism of Blushing, London: J. Churchill, 1839, p. 65.
7
L’espressione ‘male inglese’, originariamente riferita alla generica ‘consunzione’, viene
associata più specificamente alla malinconia, all’isteria o genericamente allo spleen dopo il
1733, anno di pubblicazione dell’influente opera di George Cheyne, The English Malady:
or, a Treatise of Nervous Diseases of all Kinds, London: Strahan and Leake, 1733. Ma Rousseau nelle Confessioni accoglie ancora la confusiva sovrapposizione tra l’immaginario della
malattia nervosa e quello della consunzione polmonare. Quando si reca a Montpellier per
curarsi di una malinconia che lo “consuma” a dispetto del suo “sano torace” egli decide di
darsi più credibilità facendosi passare per un inglese di nome Dudding. Inoltre, accanto ai
sintomi della malinconia, egli ha anche un episodio di emottisi, riconducibile verosimilmente a un disturbo polmonare. Jean Jacques Rousseau, Les Confessions (1789), trad. it. di
Valentina Valente, Le Confessioni, a cura di Andrea Calzolari, Milano: Mondadori, 1990,
pp. 281, 316.
8
Samuel Auguste André David Tissot, Avis au peuple sur sa santé (1761), trad. it. di
Giampietro Pellegrini, Avvertimenti al popolo sopra la sua salute, Venezia: Antonio Zatta,
1766, e Id., Essai sur les maladies des gens du monde (1770), trad. it. di C. Pompeati, Saggio intorno alle malattie a cui è soggetta la gente dedita a’ piaceri del mondo, Napoli: Gaetano Stampellani, 1771; i successivi riferimenti a questa edizione saranno segnalati con la sigla SGM.
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dire di second’ordine, derivata cioè dalla degenerazione di una di quelle
comuni e impoetiche “infiammagioni” che, come la peripneumonia, la
pleurisia, il catarro e il raffreddore, costituiscono i soli “mali di petto” che
trovano spazio tra le pagine dell’Avis au peuple sur sa santé (SGM, p. 54).
È chiaro che ciò che spinge Tissot a sostenere – verosimilmente a dispetto
della sua stessa esperienza clinica – l’immunità delle classi indigenti alla
malattia polmonare è la sensazione di incompatibilità tra la tisi e il contadino o il povero, due categorie che agli occhi del medico svizzero paiono,
per la loro inciviltà e insensibilità, egualmente prive di qualità eccezionali. Come sostiene nel 1785 anche il medico londinese Thomas Hayes, a
perire per mano della tisi sono gli individui migliori della società, “gli uomini con i più grandi talenti” e “le donne dall’aspetto più attraente e la
sensibilità più spiccata”,9 ciascuno colpito in ragione della particolare eccezionalità che esprime.
Contrariamente a una simile distinzione di genere, tuttavia, nell’Ottocento si assiste a una universale insistenza sulla bellezza del malato di tisi,
un fenomeno di cui peraltro le considerazioni di Rosenkranz in apertura
ci hanno fornito una brillante esemplificazione. Che sia uomo o donna,
in punto di morte il malato si trasforma in una creatura interessante e attraente: ogni accenno alla fisicità della sofferenza scompare dai tratti del
volto, l’incarnato assume le sfumature di un pallore simile alla purezza infantile, gli occhi acquistano una lucentezza e un acume sconosciuti ai
giorni della salute. Nei case histories presenti nei testi medici a partire dalla fine del XVIII secolo, il tributo alla ‘phthisical beauty’ finisce spesso
per oscurare del tutto le pagine dedicate alla diagnosi o quelle rivolte alla
terapeutica di questa malattia.
Ora, proprio il significativo cambiamento che nel Settecento e soprattutto nell’Ottocento si fa subire all’antica facies hippocratica – che un testo del 1672 ritraeva ancora come “cadaverica, e livida, con un cerchio
scuro bluastro o marrone intorno alle palpebre inferiori, gli occhi […]
vuoti, piatti, rimpiccioliti, privi della loro naturale lucentezza” –10 può offrire lo spunto per una riflessione approfondita sui motivi che sostengono
la rappresentazione della malattia polmonare come ‘angelo distruttore’
che sceglie con crudele precisione le proprie vittime.
9
Thomas Hayes, A Serious Address on the Consequences of Neglecting Common Coughs
and Colds (1784), London: J. Murray, 1785, p. 61.
10
Gideon Harvey, Morbus Anglicus, or a Theoretick and Practical Treatise on Consumptions, and Hypochondriack Melancholy (1672), London: William Thackerai, 1674, p. 174.
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GRETA PERLETTI
All’analisi della pervasiva insistenza sulla bellezza eterea del malato di
tisi lo storico Philippe Ariès dedica una parte importante del proprio monumentale studio sulla storia delle rappresentazioni della morte in Occidente.11 Focalizzando il discorso sul XIX secolo, e servendosi di fonti eterogenee (diari, lettere, testamenti, biografie e romanzi) e di due campioni
esemplari come le famiglie La Ferronays e Brontë, falciate entrambe dalla
tubercolosi, Ariès individua nella costruzione dell’eccezionalità del malato
il fattore che permette alla cultura ottocentesca di risolvere, attraverso la
costruzione dell’ingigantita irripetibilità di chi muore, la propria angoscia
nei confronti di una morte ormai privata dell’aura di familiarità e ‘naturalità’ del passato, e divenuta quindi incomprensibile e selvaggia. Il compromesso collettivo che mira alla trasformazione della morte in un’entità “patetica e bella” (UM, p. 726; per Ariès l’Ottocento è appunto “l’epoca delle
belle morti”) si alimenta certamente anche di paralleli mutamenti nelle
pratiche rituali e sociali (in particolare, lo spostamento dei morti fuori dalle città, con la conseguente fioritura della scultura funeraria e del culto dei
cimiteri da parte dei sopravvissuti), ma individua la tappa fondamentale
del cammino verso la cancellazione dell’angoscia proprio nel passaggio, favorito dalle morti per tisi, dal memento mori al memento illius. Promuovere
una versione estetizzata del moribondo servirebbe così a nascondere l’orrore della morte dietro la copertura della capacità seduttiva della bellezza.
Tuttavia, quando leggiamo le stesse fonti analizzate da Ariès nella sua argomentazione, pare difficile far scivolare la verità della morte all’ombra dell’eccezionalità del malato, poiché nel XIX secolo tutto, in coloro che soffrono di tisi, rimanda continuamente alla morte. Se vi è un elemento che accomuna tutti i ritratti estetizzati di questi malati – nella medicina come nei
romanzi, nei diari privati di chi assiste la malattia di una persona cara come
nel testo filosofico di Rosenkranz – esso può essere ravvisato nella presenza
di un riferimento più o meno marcato all’impressione di spiritualizzazione
che investe il malato. Chi attraversa le ultime fasi del male polmonare diviene oggetto di contemplazione estetica precisamente nel momento in cui
il suo corpo si fa teatro della liminale compresenza della vita e della morte.
Se torniamo a Rosenkranz, possiamo ricordare come la percezione
della bellezza nell’etisia scaturisse dalla visibilità dello spirito garantita
dall’assottigliamento ‘trasparente’ di un corpo già proiettato nella ‘morbi11
Philippe Ariès, L’homme devant la mort (1977), trad. it. di Maria Garin, L’Uomo e la
Morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari: Laterza, 1980 (d’ora innanzi, UM).
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dezza’ della morte. Il critico letterario John Middleton Murry, cui spetta
nelle edizioni del Diario della moglie Katherine Mansfield l’ultima parola
sull’esistenza della scrittrice, descrive le ultime ore della donna suggerendo che la perfezione estetica operata nel suo aspetto dalla tisi discenda direttamente dalla morte, tanto che “per questa purificazione, aveva perduto la vita”.12 In modo simile, nel ritratto di Smike morente nel romanzo
Nicholas Nickleby (1839) di Charles Dickens, che fa della tisi la malattia
che più di ogni altra affina la vittima mescolando in modo inquietante la
vita con la morte,13 riecheggiano e trovano un modello innumerevoli simili quadri presenti nei casi clinici ottocenteschi.14
Sembra dunque essere la visibilità della morte, piuttosto che la sua cancellazione, a creare le premesse per la percezione estetica della tisi, e a evocare il diffuso interesse dimostrato dalla cultura ottocentesca per la malattia polmonare. Del resto, Ariès stesso si sofferma sulla fortissima, ambivalente fascinazione che la cultura ottocentesca avverte per la visibile contaminazione tra la vita e la morte. Nella moltitudine di testimonianze relative all’ossessione collettiva per la morte apparente, si registra secondo lo
storico francese un significativo mutamento nella valutazione della morte,
che oltre a suscitare orrore per la sua alterità selvaggia viene per la prima
volta associata ai medesimi discorsi che riguardano il sesso, diventando così oggetto, oltre che di timore, anche di un’inspiegabile tensione erotica.15
12
“Non ho mai visto né vedrò mai un essere più bello di lei, in quel giorno. […] l’ultimo granello di ‘zavorra’, le ultime ‘tracce di degradazione terrena’, si erano staccate da lei
per sempre. Ma per questa purificazione, aveva perduto la vita”. Katherine Mansfield,
Journal (1927), trad. it. di Mara Fabietti, Diario, Milano: Dall’Oglio, 1988, p. 508.
13
“Vi è una temibile malattia che a tal punto prepara, per così dire, la sua vittima alla
morte; che a tal punto la ripulisce degli elementi più volgari […] che giorno dopo giorno,
e pezzo dopo pezzo, la parte mortale si consuma e si raggrinzisce; […] una malattia in cui
vita e morte sono così bizzarramente mescolate, che la morte assume la lucentezza e il colorito della vita, e la vita la scarna e sinistra forma della morte”. Charles Dickens, The Life
and Adventures of Nicholas Nickleby (1839), London: Penguin, 1999, p. 601.
14
Tra gli innumerevoli, menzioniamo brevemente il ritratto di phthisical beauty del medico londinese John Armstrong: “l’occhio ha un aspetto lucente e brillante; e un’espressione di interesse, addirittura di bellezza viene non di rado conferita all’intero aspetto, un fenomeno particolarmente evidente in persone il cui volto era prima insignificante [plain]”.
John Armstrong, Practical Illustrations of the Scarlet Fever, Measles, Pulmonary Consumption, and Chronic Diseases, London: Baldwin, Cradock and Joy, 1818, p. 256.
15
“La gravità del sentimento della morte, che aveva coesistito con la familiarità, si trova
a sua volta ad essere intaccata: si giocano con la morte giochi perversi, fino ad andare a
letto con lei. Si è stabilito un rapporto tra la morte e il sesso; perciò essa esercita un fascino, un’ossessione come il sesso; indizi di un’angoscia senza nome” (UM, p. 475).
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GRETA PERLETTI
La drammatica ‘evidenza’ della possibile compresenza della vita e della
morte, esibita in maniera emblematica nella morte apparente e nel malato di tisi ‘spiritualizzato’, e il sentimento di ambivalente fascino e orrore
che ne deriva, vengono da Ariès confinati (con un’operazione di drastica
riduzione della loro complessità e diffusione)16 entro i limiti della parentesi – che lo storico stesso definisce “limitata, scongiurabile, che non si
estende all’intero mito” (UM, p. 476) – rappresentata dalla paura per la
sepoltura prematura negli anni a cavallo tra il secolo XVIII e il XIX. Al di
là di questo ambito definito e circoscrivibile, lo studio di Ariès ipotizza
un processo di progressivo allontanamento della vita dalla morte, che viene dimenticata attraverso un immotivato investimento estetico (nell’Ottocento, con la finzione della morte bella) o ripudiata tramite l’imperativo del silenzio (nel Novecento, con il sentimento di vergogna e pudore
che circonda il discorso sulla morte). Nella sua tensione verso una ‘teleologia negativa’ che dispieghi la progressiva degenerazione dell’atteggiamento umano dinanzi alla morte – da una sana familiarità a un patologico ripudio –17 l’opera di Ariès non coglie le ricche potenzialità sprigionate
nell’Ottocento da quella problematica mescolanza di vita e morte che la
tisi non si limita ad esibire sui volti morenti delle sue vittime, ma che essa
ha in un certo senso reso possibile – e irresistibile – percepire. Sono infatti le ricerche sulla tisi a contribuire in misura significativa a quella rivoluzione epistemologica che Foucault individua nella nascita dello sguardo
anatomo-clinico, caratterizzato da una paradossale coincidenza del sapere
sulla morte e di quello sull’individuo.18 Sulle modalità di affermazione di
un simile mutamento nella concezione dei rapporti tra la vita e la morte
16
Il rifiuto dell’interpretazione psicoanalitica del fenomeno è probabilmente all’origine
di questa riduzione: nel volume di Ariès non vi è neppure un riferimento a Freud, che
considera la morte apparente, per la sua natura di rovescio della fantasia della vita prenatale nel grembo materno, una importante fonte di perturbante. Sigmund Freud, “Das
Unheimliche” (1919), trad. it. di Silvano Daniele, “Il Perturbante”, in Id., Saggi sull’arte
la letteratura il linguaggio, Torino: Bollati Boringhieri, 1991, p. 297.
17
Si vedano a questo proposito le riflessioni di Jonathan Dollimore, Death, Desire and
Loss in Western Culture (1998), London: Penguin, 1999, alle pp. 120 sgg.
18
Per Foucault il movimento di progressivo avvicinamento tra la clinica e l’anatomia
patologica inaugura un intreccio discorsivo tra la morte e l’individuale: “conoscere la vita
è dato solo a questo sapere crudele, riduttore e già infernale che la desidera solamente
morta. […] [La morte] è […] costitutiva di singolarità; solo in essa l’individuo si realizza”.
Michel Foucault, Naissance de la Clinique. Une Archéologie du regard médicale (1963),
trad. it. Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, a cura di Alessandro
Fontana, Torino: Einaudi, 1998, p. 185 (d’ora innanzi, NC).
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
/ 187
– un mutamento che, come vedremo, incide in maniera significativa sull’immaginario ottocentesco – conviene soffermarsi più diffusamente.
Il ‘morboso interessante’ e la nascita dell’individuo ‘polmonare’
Che la vita e la morte non possano più essere concepite come due categorie ontologicamente distinte è evidente nei discorsi della medicina occidentale sin dalle ultime decadi del XVIII secolo. L’enorme attenzione riservata in tutta Europa, ma soprattutto in Inghilterra e in Germania, a un
testo come gli Elementa Medicinae dello scozzese John Brown, pubblicato
nel 1780 e caratterizzato per molti versi da una disarmante ingenuità, viene dagli storici della medicina ascritta all’innovativa abolizione, promossa
da quest’opera, della diversità ‘essenziale’ dei fenomeni della vita e della
malattia.19 Secondo Brown, la vita consiste in una incessante reazione agli
stimoli che provengono dall’esterno e mirano alla sua dissoluzione; in
questo processo dialettico di resistenza alla ‘non-vita’ che ispirerà la Naturphilosophie del romanticismo tedesco, la malattia insorge quando la risposta dell’organismo è eccessiva o all’opposto insufficiente. Di qui la riduzione di tutte le malattie esistenti in due soli gruppi, le ‘steniche’ e le
‘asteniche’, e di qui, soprattutto, la radicale proposta di considerare la salute e la malattia come due varianti solo quantitativamente diverse di un
medesimo fenomeno. Nell’impossibilità di concepire la vita se non nell’opposizione a ciò che tende alla sua negazione, il sistema medico di
Brown impone così all’immaginario non solo scientifico dell’Occidente la
fondamentale immanenza della morte rispetto alla vita.
Ciò che accade all’inizio dell’Ottocento a Parigi muta però in modo
ancora più significativo la percezione del rapporto tra la vita e la morte.
La controversa ‘riscoperta’ tardo-settecentesca dell’anatomia patologica,
che come ricorda Foucault era in realtà praticata sin dal Rinascimento ma
veniva considerata uno strumento di quella ‘sorella inferiore’ della medicina che era la chirurgia, è resa possibile da un cambiamento di prospettiva operato dalla clinica classica nei confronti delle potenzialità epistemologiche riconosciute al cadavere. Mentre nella concezione tradizionalmente clinica della malattia l’autopsia non può avere valore gnoseologico,
poiché l’immobilità della morte nulla dice rispetto a una malattia intesa
come dispiegamento temporale di una sequenza di sintomi, le innovative
19
Sull’influenza del pensiero di Brown nella medicina occidentale, si veda Brunonianism,
numero speciale di Medical History (8, 1988), a cura di Roy Porter e Walter F. Bynum.
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GRETA PERLETTI
ricerche di Xavier Bichat, Gaspard Laurent Bayle e René Théophile Laënnec presuppongono uno sguardo medico che non può dirsi ‘scientifico’ se
non si appropria della lezione anatomica: al medico non è dato di riconoscere la malattia del paziente se non sa percepire l’interno del corpo vivo
con la medesima chiarezza che gli si offre nell’apertura cadaverica.
Nasce così un tipo di conoscenza che si serve di uno sguardo contaminato dalla morte per fondare la profondità dell’individuo. Mentre nella
salute è la superficie esterna del corpo a trattenere lo sguardo, rendendo
opaca e impenetrabile la visione dell’interiorità, la presenza della malattia
invita l’occhio a un esercizio di scavo che “ha il potere di portare alla luce
una verità che accoglie solo nella misura in cui le ha dato vita” (NC, p.
7). Guidato dalla luce chiarificatrice dell’apertura cadaverica, lo sguardo
solleva, strato dopo strato, tutti quei veli che, opponendosi solo in apparenza alla vista ‘scientifica’, di fatto fondano non soltanto la profondità
nascosta al di là della superficie visibile, ma anche la natura assolutamente veritiera e interessante di ciò che da quella profondità emerge.
Da ciò deriva il nuovo statuto della malattia polmonare nella medicina
di inizio secolo: dissimulando la propria presenza negli anfratti più inaccessibili del corpo, la tisi diventa il ‘segreto’ dell’individuo, la macchia interiore il cui reperimento diventa oggetto di un’irresistibile operazione di
conquista. Grazie all’orizzonte di visibilità fornito dall’anatomia patologica, diventa possibile per Jean Nicholas Corvisart, medico personale di Napoleone e professore onorario di medicina clinica alla Scuola di Parigi, imporre all’attenzione europea, insieme alla validità clinica della percussione,20 soprattutto il potere scopico garantito al ‘segno’ che dalla percussione
si produce. Si origina così, oltre alla validità diagnostica riconosciuta all’auscultazione del paziente, anche la supremazia scientifica del segno prodotto nel corpo dall’arte medica rispetto al sintomo riportato dal malato.
Opposto all’opacità “infedele” dei sintomi, il segno profondo della
percussione diventa la “vera luce” che rivela “il reale stato degli organi del
petto”:21 a occhi esercitati a “disegnare in filigrana la futura autopsia”
20
Il metodo della percussione del torace del paziente era stato proposto nel 1761 da
Leopold Auenbrugger, ma la sua proposta viene ignorata fino alla riscoperta di questo metodo promossa a inizio Ottocento da Corvisart. Foucault motiva il ritardo nella diffusione
del testo di Auenbrugger con la ‘scandalosa’ preminenza del segno sul sintomo. Cfr NC,
pp. 172-76, e John O’Neal, “Auenbrugger, Corvisart, and the Perception of Disease”, Eighteenth-Century Studies, 31:4, estate 1998, pp. 473-89.
21
Jean Nicholas Corvisart, “Sur la percussion de la poitrine” in AA.VV., Enciclopédie des
Sciences Médicales, Paris: Bureau de l’Enciclopédie, 1848, p. 198.
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
/ 189
(NC, p. 176) si apre insomma il mondo complesso e solo in apparenza
imperscrutabile dell’interiorità individuale. Come ricorda Bichat, le funzioni degli ‘invisibilmente visibili’ cuore e i polmoni sono, “se mi è consentito usare quest’espressione, il termometro dell’anima”.22
A partire da queste considerazioni sulla natura veritiera del segno prodotto dalla percussione, Laënnec spinge a un’interpretazione ancora più radicale la simultanea coincidenza del discorso della morte e di quello dell’individualità. Egli infatti combina le osservazioni di Corvisart con la lezione di Gaspard Laurent Bayle, che durante la discussione della propria
tesi di laurea scandalizza gli autorevoli maestri della commissione (tra cui
figurava Philippe Pinel nel ruolo di presidente)23 con la sua concezione della tisi come ontologicamente inscindibile dalla lesione polmonare. Facendo
propria l’intuizione di Bayle che non vi è tisi se non vi è ferita nel polmone, Laënnec rivoluziona la concezione clinica della malattia, e annette la
morte al centro stesso dell’individualità. Mentre in Bichat e in Corvisart è
ancora riconoscibile una certa fedeltà alla clinica classica, poiché la morte si
pone come l’orizzonte di visibilità che consente di rintracciare il ‘segreto’ di
una malattia che continua a essere caratterizzata da un decorso clinico ancora fondamentalmente ‘essenziale’, Laënnec individua nei tubercoli la forma con cui la morte non soltanto si attualizza nella vita, ma diventa responsabile dei fenomeni patologici che nella vita si registrano. Si tratta di
un mutamento epistemologico significativo, destinato a cambiare non solo
la diagnostica, ma anche la nosologia tradizionale: da causa prossima o effetto secondario della malattia, come era nella clinica tradizionale, l’alterazione polmonare si trasforma nel principio originario da cui si irradiano
successivamente tutti i sintomi, facendo così della morte non soltanto la
conferma ma anche – con un cruciale cambiamento di prospettiva – la ragione stessa di quel segreto profondo che è la tisi.
L’uso dello stetoscopio, scoperto e proposto appunto da Laënnec nel
suo Traité de l’Auscultation Médiate (1819), si rivela come il sistema più
efficace per la produzione di segni “nuovi, sicuri, per lo più salienti”:24 la
22
Marie François Xavier Bichat, Recherches Physiologiques sur la Vie et la Mort (1800),
Paris: Brosson, 1805, p. 302.
23
Si veda il saggio di Mirko D. Grmeck “La discussione della tesi di Gaspard-Laurent
Bayle. Atto di fondazione della scuola anatomo-clinica parigina”, BioLogica, 2-3, 1989,
pp. 29-38.
24
René Théophile Hyacinthe Laënnec, Traité de l’Auscultation Médiate (1819), Bruxelles: Culture et Civilisation, 1968, vol. 1, p. 8.
190 /
GRETA PERLETTI
voce che pare “uscire direttamente dal petto”25 illumina26 caverne, escavazioni, intasamenti, componendo in un unico movimento la localizzazione
spaziale e l’estensione diacronica della malattia. Ma l’insistenza con cui
Laënnec istruisce il proprio pubblico relativamente alla precisione e all’abilità tecnica necessarie per cogliere la relazione biunivoca tra il segno e la
mappatura spazio-temporale della lesione ci consente anche di riconoscere un corollario importantissimo di questa nuova centralità epistemologica della morte. Quando il medico parigino si profonde nei dettagli della
descrizione dei segni, accogliendo nella sua spiegazione metafore e paragoni desunti dal mondo naturale – il rantolo “secco sonoro” assomiglia
tanto al verso di una tortorella da far credere al medico che il paziente ne
nasconda una sotto il letto; le dimensioni dei tubercoli al primo stadio
sono comprese tra quelle di un grano di miglio e di un grano di canapa
–27 il suo linguaggio ci mostra l’avvenuto passaggio da una concezione ‘essenziale’ della malattia a una ‘individuale’. Nella sua apertura a una nuova
“raffinatezza qualitativa, sempre più concreta, più individuale, più modellata” (NC, p. 183), il linguaggio di Laënnec sfida l’aristotelica indegnità
scientifica dell’individuo, sostituendo all’insignificanza attribuita alla variante individuale nella tradizione essenziale della malattia la assoluta necessità di una lettura differenziale dei casi. Al vecchio motto scolastico
che insegnava che “Individuum est ineffabile”,28 Laënnec contrappone insomma il concetto di ‘vita patologica’, una morte-in-vita che non è dicibile se non entro la rubrica dell’individualità attualizzata.
Le ricerche sulla tisi di Laënnec presuppongono dunque un rapporto
non di semplice simultaneità, ma di vera dipendenza, tra il sapere sull’individuo e quello sulla morte. La visibilità della morte trasforma il tisico,
nelle parole di Foucault, in “uomo […] ‘polmonare’” (NC, p. 186) proprio perché lo rende riconoscibile come individuo profondo e interessante. Il legame della tisi con l’individualità interessante – un legame che ri25
Ivi, p. 17.
In questo senso l’etimologia del termine ‘stetoscopio’ (‘vedere il torace’) pare in perfetta sintonia con il panorama epistemologico che lo fa nascere e che privilegia, appunto,
la vista rispetto agli altri sensi; stupisce la meraviglia di autori come lo storico Thomas
Dormandy, che considera la scelta del sostantivo stetoscopio una “definizione non appropriata [a misnomer] poiché significa solo ‘esame visivo’”. Thomas Dormandy, The White
Death: A History of Tuberculosis, London-Rio Grande: Hambledon Press, 1999, p. 33.
27
René Théophile Hyacinthe Laënnec, op. cit., vol. 2, p. 3 e vol. 1, p. 21.
28
Cit. in Carlo Ginzburg, “Spie. Radici di un paradigma indiziario” (1979), in Id., Miti, emblemi, spie, Torino: Einaudi, 1986, p. 171.
26
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
/ 191
sulta fondante nell’analisi delle metafore della tubercolosi svolta da Susan
Sontag nel celebre saggio Malattia come metafora –29 si origina dunque
nella medicina grazie alla vicinanza con la morte, e questo ci permette di
avanzare una spiegazione dell’eccezionalità del malato alternativa rispetto
a quella suggerita da Ariès. Lo storico francese non si chiede perché l’ossessiva estetizzazione del malato riguardi in maniera pressoché esclusiva
persone affette da tisi, ma alla luce dell’analisi dei discorsi medici relativi
al male polmonare si può forse ipotizzare che la centralità di questa malattia dipenda dalla sua capacità di promuovere il passaggio non tanto
dall’orrore della morte alla perfezione del malato, quanto piuttosto da
una morte intesa come “falce, che livella tutte l’erbe del prato”30 a una
morte che invece è incaricata di dar forma all’individuale. All’irrilevanza
‘macabra’ dell’individuale nelle malattie ‘essenziali’ si sostituisce insomma
la modulazione necessariamente individuale del ‘morboso’,31 una modulazione che costituisce peraltro la probabile spiegazione della lunga fortuna
della tisi come malattia ereditaria e non infettiva.
Sebbene alcuni autori di trattati medici sulla tisi avessero avanzato l’ipotesi della contagiosità della tisi tra XV e XVII secolo,32 nel Settecento e
fino a tutta la prima metà dell’Ottocento la proposta di trasferire la specificità della malattia dalle peculiarità individuali della costituzione del malato a un agente patogeno capace di colpire indiscriminatamente viene per
lo più tacciata di ignoranza e superstizione. Le lettere di John Keats e di
George Sand (che assiste Chopin nelle fasi terminali della malattia) sono
fitte di indignati riferimenti all’assurda paura mostrata dal popolo italiano
nei confronti della trasmissibilità della malattia polmonare; e gli stessi Bay29
“Fu con la tbc che venne chiaramente formulata l’idea della malattia individuale
[…]. La malattia era un modo per rendere una persona ‘interessante’ – che era la definizione originaria del ‘romantico’”. Susan Sontag, Illness as Metaphor (1977), trad. it. di Ettore Capriolo e Carmen Novella, Malattia come metafora, Torino: Einaudi, 1992, p. 30.
30
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Torino: Einaudi, 1960, p. 558.
31
“[I]l Macabro implicava una percezione omogenea della morte, una volta varcata la
sua soglia. Il Morboso autorizza una percezione sottile del modo in cui la vita trova nella
morte la sua figura più differenziata.” (NC, p. 185).
32
I più noti sostenitori della possibile natura infettiva della tisi sono Fracastorio nel Rinascimento e Sylvius nel XVII secolo. Per la ricostruzione delle posizioni a favore della
trasmissibilità della tisi nel XVII e XVIII secolo, e delle resistenze che a questa teoria vengono mosse, rimandiamo al classico lavoro storico di René e Jean Dubos, The White Plague: Tuberculosis, Man, and Society (1952), New Brunswick-London: Rutgers University
Press, 1987, pp. 28-33, e allo studio di Charles Coury, Grandeur et déclin d’une maladie.
La tuberculose au course des âges, Suresnes: Lepetit, 1972, pp. 104-10.
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GRETA PERLETTI
le e Laënnec periscono entrambi di tisi senza sospettare che il contatto con
i pazienti possa aver contribuito all’insorgere della loro malattia. Ciò che
appare inaccettabile nella concezione infettiva della malattia è proprio la
negazione dell’individualità interessante che il contagio presuppone. Concetti come l’ereditarietà e la diatesi si configurano allora – fino alle soglie
di quel cruciale 1882 che segna, con la scoperta del bacillo da parte di Robert Koch, l’inizio di un radicale mutamento di segno nelle metafore mediche della tubercolosi –33 come gli ultimi baluardi che la medicina ottocentesca erge a difesa del potere individualizzante attribuito alla tisi per la
sua capacità di fare intravedere quel ‘morboso’ che la medicina stessa ha
costruito come ‘interessante’. È proprio questo sodalizio tra la tisi e l’individualità interessante a favorire la trasformazione della malattia polmonare
da ‘mal sottile’ a ‘mal gentile’, con la trasfigurazione del sintomo della magrezza in un superiore affinamento spirituale prodotto nel contatto con la
morte. Nella celebrazione della bellezza tisica trapela così anzitutto la funzione di ‘segno’ attribuita alla spiritualizzazione del malato: essa ha il potere di certificare in maniera inequivocabile, con la sua mera presenza, l’appartenenza a una gens elitaria, la cui aristocrazia si misura meno sui diritti
di sangue che sul valore tutto borghese dell’individualità speciale.
Nell’ultima parte di questo saggio, vorremmo rivolgerci alle riflessioni
evocate nell’immaginario culturale dal riconoscimento del valore ‘gentile’
della malattia polmonare, per soffermarci sulle luci e le ombre generate
da un simile affidamento della convalida dell’individualità interessante al
discorso della morte.
Le ambiguità del mal gentile: tra spiritualità e spettralità
In una breve novella del 1910, Luigi Pirandello individua il dramma dei
fratelli Annibale e Marco nella minaccia che, sotto le spoglie della tisi che
ha già sterminato l’intera loro famiglia, incombe sulle loro esistenze.34 La
33
Da malattia individualizzante, la tubercolosi diviene lo stigma degli strati più poveri
della società, il simbolo di una degenerazione sociale che può essere trasmessa per contagio o per ereditarietà. Rimandiamo a Linda Bryder, Below the Magic Mountain: A Social
History of Tuberculosis in Twentieth-Century Britain, Oxford: Clarendon, 1988; Barbara
Bates, Bargaining for Life: A Social History of Tuberculosis, 1876-1938, Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1992; Sander Gilman, “Tuberculosis as a Test Case” in Id.,
Kafka, the Jewish Patient, New York-London: Routledge, 1995, pp. 169-228.
34
Luigi Pirandello, “L’uccello impagliato” (1910) in Id., Novelle per un anno, Milano:
Mondadori, 1990, vol. 1, pp. 363-73.
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
/ 193
novella narra il tentativo dei due protagonisti di sottrarsi a un destino che
parrebbe già segnato, ma il rigoroso rispetto di un regime di vita depurato da ogni eccesso concede almeno all’assennato primogenito Marco una
apparente vittoria sulla malattia (Annibale invece, cedendo alla tentazione
proibita dell’amore, cade vittima della consunzione). Il titolo di questa
novella, “L’uccello impagliato”, fa riferimento a un grottesco oggetto che,
caro a Marco negli anni della sua lotta alla malattia, viene dall’uomo distrutto quando, credendo di aver vissuto abbastanza e essendosi dunque
risolto ad abbandonare i propri modi frugali, egli viene sopraffatto dalla
mancata comparsa del proprio personalissimo nemico e, in maniera in
apparenza inspiegabile, si suicida.
Nella centralità riconosciuta nel titolo della novella all’uccello impagliato, con la sua problematica compresenza della vita e della morte, si
condensa la ricca congerie di significati assegnati alla tisi nell’immaginario. Quando l’illusione della vittoria sulla malattia si rivela a Marco nella
sua natura di mero differimento della morte, l’uomo non riesce a sostenere la vista dell’uccello impagliato: distruggendone l’imbottitura, egli mira
soprattutto alla liberazione dall’inquietudine suscitata dalla morte-in-vita
di cui l’oggetto è emblema. Allo stesso modo, la malattia polmonare, attraverso l’esibizione di un’avvenenza che poggia sulla spiritualizzazione,
costringe a un equilibrio precario quel tipo di percezione estetica: la magrezza e il pallore diventano in quest’ottica non soltanto leggiadri, ma anche spettrali, e l’aspetto etereo del tisico può rovesciarsi nella sinistra supposizione che la vita in questi individui sia soltanto apparente.
Gli studi sul folklore registrano, soprattutto nella regione del New England, casi di identificazione popolare del malato tubercolare con il morto-vivo,35 e a quest’interpretazione non sono peraltro estranei neppure alcuni testi medici, se fino alla metà del Settecento si poteva trovare in
un’autorità come van Swieten il vampiresco rimedio di far coricare il malato accanto a “giovani ragazze ben fresche e sane” affinché potesse assorbirne quasi osmoticamente la salute.36 Nella sua condizione liminale tra il
discorso sulla vita e quello sulla morte, l’‘individuo polmonare’ entra a far
parte di quella costellazione di fenomeni, esperienze e figure che, soprattutto nella forma del vampiro, recepisce quel sentimento di “ambivalenza
35
Si vedano gli episodi che, sulla base dei risultati di ricerche di tipo antropologico,
vengono citati in Thomas M. Daniel, Captain of Death: The Story of Tuberculosis, Rochester: Rochester University Press, 1997, pp. 166-74.
36
Cit. in Charles Coury, op. cit., p. 132.
194 /
GRETA PERLETTI
affettiva”37 connaturato allo straniamento perturbante dell’originaria funzione di “assicurazione di sopravvivenza”38 richiesta al doppio.
Non stupisce che nella figura dell’artista tisico gli effetti di simili riflessioni si amplifichino a dismisura. La malattia polmonare si presta infatti, in virtù della duplice connotazione di spiritualità e spettralità riconosciuta alla sua sintomatologia, a rimandare come in un infinito gioco
di specchi le ambiguità implicite nella vicinanza metaforica tra l’artista e
il vampiro. Tanto il motivo dell’artista come “parassita psichico”39 che
sfrutta le energie altrui per riversarle nella propria opera quanto, all’opposto, quello della vampirizzazione delle forze umane operata dal lavoro
creativo, sono generati dall’attribuzione all’arte di un potere paradossalmente ‘individualizzante’, e per questo motivo particolarmente affine alla
disturbante eccezionalità del mal gentile. Non diversamente dalla sinistra
‘elezione’ concessa all’uomo ‘polmonare’ dal tocco della morte, l’ingresso
nel mondo dell’arte comporta sia un’elevazione spirituale sia una condanna spettrale, come dimostra la circolarità inestricabile che si crea nel
XIX secolo tra i motivi intrecciati della genesi morbosa della creatività da
un lato e della morbogenesi dovuta alla creatività dall’altro. Questa duplice azione del processo artistico si ritrova in una lettera che il poeta John
Keats scrive mentre sta assistendo il fratello Tom, affetto da consunzione
polmonare (la lettera è del 1818, e precede quindi di due anni l’episodio
di emottisi che rivelerà al poeta di aver contratto la medesima malattia):
Vorrei poter dire che Tom sta un po’ meglio. Durante tutto il giorno, la
sua identità grava su di me così tanto che sono costretto a uscire – e sebbene mi fossi ripromesso di dedicare qualche tempo solo allo studio sono
costretto a scrivere, e a immergermi in immagini astratte per liberarmi
dell’aspetto, della voce, della debolezza di Tom – con il risultato che [so
that] ora vivo in una febbre continua – deve essere come veleno per la vita, anche se mi sento bene.40
37
L’espressione, mutuata da Totem e Tabù di Freud, viene ripresa da Serpieri per spiegare in chiave psicoanalitica le ragioni della persistenza della figura del vampiro nell’immaginario occidentale. Alessandro Serpieri, “Il mito del vampiro tra l’immaginario antropologico e l’immaginazione letteraria” in Ada Neiger (a cura di), Il vampiro, Don Giovanni e
altri seduttori, Bari: Dedalo, 1998, p. 147.
38
Sigmund Freud, op. cit., p. 287.
39
James B. Twitchell, The Living Dead: A Study of the Vampire in Romantic Literature,
Durham: Duke University Press, 1981, p. 142.
40
John Keats, The Letters of John Keats, 1814-21, a cura di Hyder Edward Rollins,
Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1958, vol. 1, pp. 368-69.
DAL MAL SOTTILE AL MAL GENTILE
/ 195
Il ricorso alla scrittura, inizialmente motivato da un impulso che spinge il
poeta a creare un argine ‘simbolico’ alla minaccia di contagio psichico
rappresentata dalla sofferenza del fratello, si carica invece di una valenza
patogena, che trasforma il ‘rimedio’ in un ‘veleno’. L’uso alquanto inaspettato della seconda proposizione consecutiva di questo brano salda in
una concatenazione strettissima i due volti di questa arte-pharmakon, che
si configura tanto come una ‘spirituale’ rielaborazione provocata da un
incipiente processo morboso (dalla pressione dell’identità del fratello al
contatto con le immagini astratte) quanto come uno ‘spettrale’ agente di
disorganizzazione organica (la febbre).
Per questa paradossale coincidenza di elevazione e condanna che ripropone nel processo del ‘divenire-artista’ la medesima compresenza di
vita e morte associata all’orizzonte metaforico della malattia polmonare,
la morte per tisi finisce con l’essere identificata con la realizzazione della
morte dell’io necessaria alla superiore affermazione dell’arte. L’affinamento graduale assicurato dalla spiritualizzazione del ‘mal gentile’ sembra
confermare la paradossale convinzione che la rinuncia al sé sia la condizione dell’accesso a una più alta dimensione dell’esistenza. Nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel sostiene che la morte per consunzione di Spinoza sia “in accordo perfetto con il suo sistema, all’interno del
quale pure ogni singolarità, ogni individualità scompare [verschwindet]
nell’unica sostanza”.41 Una simile associazione tra la tisi e una sorta di
ideale cupio dissolvi dell’individualità in un superiore elemento trascendentale è particolarmente incoraggiata dalla lingua tedesca, in cui il termine stesso di consunzione, Schwindsucht, porta inscritto letteralmente
l’anelito (Sucht) verso la perdita del sé (schwinden, ‘scomparire’).
Nei racconti Il Monaco Nero (1894) di Anton Čechov e Sebastian van
Storck di Walter Pater (1897) la consunzione dei due protagonisti li spinge verso uno schopenhaueriano abbandono del principium individuationis, necessario per trasformarli in ‘soggetti conoscenti puri’. Per Kòvrin
come per Sebastian, il raggiungimento di una soggettività speciale, che li
innalzi al di sopra degli uomini comuni, è inseparabile dall’azione della
malattia della creatività. La tisi di Kòvrin realizza quel graduale assottigliamento del corpo anticipato dal monaco nero, oggetto della follia allu41
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie
(1833), trad. it. di Ernesto Codignola e Giovanni Sanna, Lezioni sulla Storia della Filosofia, Firenze: La Nuova Italia, 1964, vol. 3, p. 106.
196 /
GRETA PERLETTI
cinatoria del protagonista, come vera conditio sine qua non per una autentica comprensione del mondo: “tu hai sacrificato la tua salute all’idea, ed
è prossimo il tempo in cui le sacrificherai anche la vita. Che c’è di meglio? È ciò cui tendono tutte le nature nobili che il cielo ha altamente dotate”.42 In modo simile, l’aspirazione di Sebastian verso l’ideale contemplativo dell’“unica mente assoluta” viene definita esplicitamente dal narratore “passione di Schwindsucht – noi non possediamo la parola equivalente”,43 e questa “consunzione intellettuale” alleata alla “vena di mal sottile fisico” (SS, p. 121) di Sebastian è intrecciata diffusamente all’isotopia
dell’acqua,44 rafforzando l’impressione di scioglimento garantita dall’elemento che, nelle parole di Bachelard, “dissolve nel modo più completo.
Ci aiuta a morire totalmente”.45
L’idea che la tisi possa sancire la celebrazione della soggettività artistica
nel momento in cui viene promossa la morte del sé non è scevra, come è
intuitivo immaginare, di risvolti ‘spettrali’. La conclusione di entrambi i
racconti è in questo senso emblematica: colto dalla morte, Kòvrin dimostra una gioia velata dal terrore, che proietta un’ombra sinistra sulla genialità che l’uomo ritiene di aver raggiunto (MN, p. 316). Secondo una
logica simile, Sebastian si fonde con l’amato mare d’Olanda solo quando
tenta di salvare la vita di un bambino, emblema di quella particolarità finita e accidentale che costituiva nel suo sistema filosofico il maggiore impedimento alla contemplazione trascendentale (SS, pp. 113-14). Ma è soprattutto nell’alterità riconosciuta dagli altri personaggi ai protagonisti di
questi due racconti – considerati l’uno temibile per una incontrollabile
follia (MN, p. 310), l’altro sospettabile di una oscura cospirazione politica (SS, p. 110) – che è possibile intravedere come, a fine secolo, la dipendenza dell’individualità dalla morte si colori di toni sinistri. L’aspirazione
42
Anton Čechov, “Čërnyj Monách”, trad. it. di Agostino Villa, “Il Monaco Nero”, in
Id., I racconti, Torino: Einaudi, 1994, vol. 2, p. 299 (d’ora innanzi, MN).
43
Walter Pater, “Sebastan van Storck”, trad. it. in Ritratti Immaginari, a cura di Mario
Praz, Milano: Adelphi, 1980, p. 105 (d’ora innanzi, SS).
44
Quando il narratore menziona la predisposizione alla tisi del giovane Sebastian, ricorda che essa avrebbe potuto essere ovviata “se un altro accidente avesse fissato la sua dimora
tra i monti invece che sulla riva” (SS, p. 121). Poco oltre, il medico di Sebastian esprime
l’opinione che la consunzione sia legata al suolo olandese, per la presenza di “acque, egli
osservava, non al loro posto, ‘al di sopra del firmamento’” (SS, p. 123).
45
Gaston Bachelard, L’Eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière (1942), trad.
it. di Marta Cohen Hemsi e Anna Chiara Pedruzzi, Psicanalisi delle acque, Como: RED,
1992, p. 72.
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/ 197
alla morte-in-vita dell’arte rischia infatti di venir confusa con l’interesse
morboso per quell’annullamento della vita che il discorso della degenerazione non esiterà a identificare con l’atteggiamento debole e rinunciatario
che caratterizza l’arte del ‘tramonto delle nazioni’.
In questa prospettiva, si può forse spiegare anche la violenza del ‘tuono’ che chiude, in maniera abbastanza sorprendente, il capolavoro La
Montagna Incantata (1924) di Thomas Mann, il testo che, pubblicato dopo una gestazione decennale, può considerarsi l’ultima riflessione sull’individualità ‘morbosamente interessante’ del malato di tisi. Certo non è
possibile in questa sede rendere ragione della ricchezza ermeneutica dell’opera di Mann, ma si può forse suggerire che alla Bildung di Hans Castorp non sia estranea la consapevolezza della dipendenza dell’individualità speciale dalla morte. Quando il giovane ingegnere apprende, dopo
una frettolosa auscultazione, dell’esistenza nei suoi polmoni di un ‘punto
molle’, l’ambivalente reazione del suo “cuore […] dolorante di una gioia
e una speranza mai conosciute prima”46 registra già la natura paradossale
dell’eccezionalità che ha scoperto di possedere. Ma è soprattutto la successiva esperienza della radiografia a farlo pervenire all’intuizione che
l’improvvisa evidenza della profondità interiore – che egli scruta con un
“travolgente piacere dell’indiscrezione” e insieme un senso “di commozione e devozione religiosa” (MI, p. 202) – dipende dall’adozione di uno
sguardo che osserva “in anticipo […] la futura opera di decomposizione”
(MI, p. 203) del suo stesso corpo. La “libertà” che, come segnala il paragrafo successivo a questa rivelazione, deriva dall’ingresso ‘da paziente’ nel
sanatorio è in fondo identificabile con la decisione di esplorare le potenzialità ‘individualizzanti’ del ‘morboso’.
In questo senso, l’‘incremento’ che nel viaggio spiritual/spettrale di
Castorp viene raggiunto, all’insegna di un placet experiri che fa rifiutare al
giovane anzitutto la scissione tra la vita e la morte proposta, con movimento uguale e contrario, dai due pedagoghi, è legato all’attraversamento
quasi nietzscheano della morte emblematizzato nell’episodio “Neve” (MI,
p. 437-65). E tuttavia il culto dell’individualità ‘geniale perché morbosa’,
già minata dai divertiti commenti della voce narrante sul controverso valore dell’otium della montagna, subisce un drastico arresto con l’irruzione
della guerra alla fine del romanzo.
46
Thomas Mann, Der Zauberberg, trad. it. di Ervino Pocar, La Montagna Incantata,
Milano: Corbaccio, 1992, p. 170 (d’ora innanzi, MI).
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GRETA PERLETTI
Posta al vaglio dell’imperativo dell’azione, la validità del modello del
‘morboso interessante’ viene a mancare, suggerendo che la dipendenza
dell’individualità speciale dalla morte possa ormai valere solo nel tempo
‘incantato’ (o intossicato) della montagna. Quando Castorp si ritrova a
imbracciare le armi nella pianura, egli si rivela insomma pronto a entrare
in quella nuova “mondiale sagra della morte” (MI, p. 689) che, rendendolo indistinguibile dagli altri soldati in balìa del medesimo ‘incanto’ di
distruzione, sancisce il crollo delle potenzialità ‘gentili’ del culto morboso
dell’individualità. Nell’avvento di una diversa ‘febbre maligna’ che interesserà l’intera umanità, si chiude l’era delle potenzialità elitarie della tisi:
ormai riconosciuta come tubercolosi, ad essa spettano nuove metafore e
nuove storie.