Col senno di Poe prima parte free

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Col senno di Poe prima parte free
AVVERTENZA
Il testo che segue è uno dei capitoli del La Saga dei Sughi, il più ambizioso
progetto eroicomico dai tempi del Don. Per saperne di più sulla Saga e i
suoi artefatti artefici riuniti sotto l’insegna dell’ Officina Totòre visita il sito
www.officinatotore.it
Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione
per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che
questa dicitura sia riprodotta.
© Turi Totore
La storia che segue è pura invenzione, frutto della fantasia debordante
dell’autore. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente
accaduti è puramente casuale.
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Col senno di Poe
Giacinto Recchia
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Al popolo norvegese
talmente bello da sembrare greco
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I
Erano solo volgari insinuazioni quelle che circolavano sul conto di
quei due o ciascuna sequenza d’undici sillabe mendaci aveva il suggello
d’una veritiera?
Nulla più d’un ignobile impulso diffamatorio aveva sommessamente
propalato certe perifrasi tanto vaghe quanto poco lusinghiere, prima che
l’invigorirsi del tono e la proliferazione dei dettagli conferisse ad una
diceria l’irremissibilità d’una sentenza passata in giudicato?
Dapprincipio era stato così. Poi era successo che le parole, queste
ambigue sodali altrettanto capaci di far da sestante quanto da sirene
sviatrici, avevano finito per sostituirsi alla realtà obliando d’esserne lo
spettro. Ma la realtà, cui pure non par vero di poter talvolte disertare il
mondo, se n’era riappropriata con furia alla fine delle ferie, provvedendo la
ridda di fandonie del corpo che più gli si addiceva.
Quali fossero i veri nomi di quei due, alla Biolbarba S.p.A. lo
sapevano solo le impiegate dell’ufficio personale; per tutti gli altri erano
Bibì e Bebè, in organico da ormai un biennio con mansioni di geometra
disegnatore e ingegnere calcolista. Donde discendessero tali nomignoli, ma
soprattutto come avessero potuto scalzare quelli di battesimo in poco meno
di sette settimane, era da ascrivere al talento riannomatorio del responsabile
contratti, a sua volta contrassegnato dall’epiteto di dottor Capestro per la
sua maestria nell’inserire clausole all’apparenza innocue ma in grado, al
bisogno, di metter carponi i fornitori. Era stato lui a coniare per il geometra
l’appellativo di “Bibì”, traendo ispirazione da quel suo ticchio un po’ da
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tirchio di adoperare quattro telefoni cellulari, ciascuno dotato di due diversi
piani tariffari (uno per i messaggi, uno per le telefonate) che l’obbligavano a
transire da uno all’altro, a seconda dell’ora e della compagnia del ricevente:
non era difficile vederlo entrare in ascensore annunciato da una sventagliata
di bì-bì mentre, intento a digitare forsennatamente con ambo le mani sulle
tastiere di due telefonini, sproloquiava nel microfono di quello innestato tra
clavicola e mandibola e il quarto, sospeso alla cintura, non tralasciava di
trilleggiare, in attesa che la segreteria telefonica s’avviasse ed egli potesse
ascoltare, mediante l’auricolare che gli tappava l’altro orecchio, il
messaggio in corso di registrazione. L’ingegnere, invece, doveva il
soprannome di “Bebè” a quella sua voce da infante (da corista castrato per i
più malevoli) che lo aveva frustrato per tutta l’adolescenza e ancora oggi,
che di anni ne aveva quaranta ed era il vegliardo di casa, non smetteva di
sdegnarlo quando faceva dire agli imbonitori telefonici, non appena udivano
il suo “pronto?”: “Ciao piccolo, mi passi la mamma o il papà?” L’equivoco
si ripeteva anche sul lavoro, e se i primi tempi egli si era limitato a far
presente all’interlocutore che aveva chiamato gli uffici di una Società per
azioni che contava oltre settecento dipendenti e non un’azienda a
conduzione familiare (non riuscendo tuttavia a persuaderli d’essere lui
quello che cercavano senza ricorrere alla testimonianza giurata di un collega
dal tono baritonale), aveva finito per diventare un po’ scorbutico, mettendo
a punto la seguente replica: “le garantisco che sono un ingegnere e ho già
completato da alcuni decenni lo sviluppo, se non ci crede posso inviarle una
fotocopia del diploma di laurea ed un campione di peli pubici per posta!”
Non era passato molto tempo prima che il Direttore di commessa lo
esortasse (lasciando intendere che in caso di ripulsa glielo avrebbe imposto)
a comunicare con i clienti esclusivamente tramite posta elettronica.
Che i due nomignoli, vivificati dall’accentazione alla francese, che
s’attagliava alla perfezione ai modi e alle movenze vagamente femminine
d’ambedue, avessero in sé le doti per affermarsi è certo (forse avrei dovuto
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scrivere che i due epiteti avevano i numeri per farsi un nome); ma la
circostanza addizionale che i loro portatori avessero preso servizio in pari
data, fossero stati sistemati nello stesso ufficio e avessero inevitabilmente
finito per pranzare seduti al medesimo tavolo, aveva fornito ai colleghi il
destro per etichettarli come il duo Bibì & Bebè, accelerandone la
consacrazione. Il peggio, tuttavia, doveva ancora arrivare.
Sia il geometra che l’ingegnere commisero l’imprudenza di ritenere
priva di esiti extramuscolari l’istituzione della consuetudine di misurarsi a
tennis tutti i mercoledì, dopo il lavoro: ma si sbagliavano. Fu sufficiente che
un amministrativo dell’ufficio gare, assiduo del medesimo circolo, riferisse
scherzosamente nei pressi della macchinetta del caffè d’averli veduti
scambiarsi dritti e rovesci in gonnellino, perché nello spazio d’una
settimana l’increspatura dovuta a quelle prime folate di riso gonfiasse in un
maroso inarrestabile. Ci fu chi non esitò a giurare sui propri cari che sotto il
gonnellino i due indossavano lingeria guarnita di merletti, e che il Bibì
esibiva come fascia elastica per impedire al sudore di liquefacere il mascara
un’appariscente giarrettiera color mammola; altri assicurarono d’averli visti
a fine machìa (in un atteggiamento senz’altro poco macho) drenare limonata
da un bicchierone condiviso, tenendo le fronti madide accostate nell’atto
d’incrociare gli sguardi e le cannucce. A quattordici giorni da quell’iniziale
accolta dinanzi al distributore automatico n’ebbe luogo una seconda, in cui
colui che aveva dato il via alle maldicenze udì il mellifluo mallevadore del
“sistema qualità” domandarsi, a voce inusitatamente alta, se un ispettore del
loro Ente certificatore avrebbe classificato come “non conformità” di
prodotto o di processo il caso di due dipendenti banditi dallo Sporting Club
di Via Feltre perché scoperti da un inserviente mentre s’inculavano
vicendevolmente nella doccia riservata ai portatori di handicap.
Nondimeno la curiosità degli astanti, svelando una generalizzata
carenza di discernimento, non era stata suscitata dalla “doccia riservata ai
portatori di handicap”, bensì dall’avverbio che la precedeva nella frase.
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Risultava per tutti meno astruso che gli appartenenti alla categoria degli
oggidì chiamati “diversamente abili” frequentassero il circolo in qualità di
atleti anziché di spettatori (cimentandosi in epiche disfide sulla terra rossa
che li vedevano spedire la pallina in campo avverso tenendo la racchetta con
i denti, rotolarsi verso la linea di fondo per recuperare un pallonetto, sbavare
intrappolati nella rete dopo un azzardato tentativo di schiacciata) piuttosto
che risolvere in maniera compatibile con le proprie cognizioni dell’umana
anatomia quel “vicendevolmente” che puntualizzava la maniera della
sodomia.
Chi, senza dissipazione di parole, venne a capo dell’enigma, fu
l’architetto Sgrò, dell’Ufficio rapporti con gli Enti territoriali. Dotato di
formidabile mano, al servizio d’un’inventiva tanto fervida quanto depravata
che dava al nome la funzione d’una telegrafica didascalia, egli riuscì con
tratti morbidi e pur sicuri a tracciare l’identikit di quel “vicendevolmente”
su cui s’erano arrovellati il cervello i colleghi meno immaginifici.
L’omiciattolo armato che piantonava l’ingresso del palazzo, un potenziale
omicida per sua stessa ammissione patito di “iconografia erotica astergibile”
(volgarizzabile in “riviste porno idrolavabili”), asserì di non avere mai
veduto nella sua quarantennale carriera di voyeur, che spaziava dalle
incisioni indiane del duemila avanti Cristo alle più recenti performance di
Terry Luss (una reginetta del porno che si era fatta montare – il che sarebbe
il minimo - una micro-telecamera a tenuta stagna al termine del colon
sigmoideo ed una sulla cervice dell’utero regalando ai suoi sostenitori –
ch’era in realtà lei a sostenere - strabilianti inquadrature durante i rapporti
anali e vaginali (la terza – installata in gola - l’aveva deglutita insieme ad un
gallone di sperma nel corso di una gang-bang – che aveva visto impegnata
la prima divisione di fanteria dell’esercito di sua maestà la regina
d’Inghilterra - intitolata “Ventimila seghe sotto i nari” (le riprese fatte dalla
telecamera itinerante erano state vendute ad una casa di produzione
olandese che ne aveva ricavato un filmetto del genere fanta-porno -
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intitolato “Viaggio al centro della Terry” – nel quale si dava modo allo
spettatore di seguire le peripezie di un manipolo di spermatozoi determinati
a compiere un viaggio impossibile dall’epiglottide alla tuba uterina
(memorabile la sequenza in cui i sopravvissuti dopo aver resistito per
diciannove ore abbarbicati ad una ragade - opponendosi alle violente
scariche diarroiche che minacciavano di fargli concludere la perigliosa
peregrinazione verso il perineo nel sifone del water – finalmente utilizzando una buccia d’uva mal digerita a guisa di mongolfiera - riescono
a sfruttare le correnti ascensionali dovute a un peto non trattenuto e a risalire
una salpinge (il film si concludeva con le riprese fatte sfruttando la
telecamera collocata sulla cervice: cioè con la lotta mortale tra i due
spermatozoi che erano riusciti a superare la spirale contraccettiva (seguirà
un secondo episodio psico-horror girato all’interno dell’utero, donde
l’embrione - schiacciato dal peso d’esser figlio d’un fratricida – ricuserà
d’uscire seguitando ad accrescersi nel ventre della madre ben oltre il nono
mese (la scena finale vedrà Terry Luss - ridotta ormai ad una gigantesca
sfera la cui vulva ha un’estensione longitudinale superiore al metro e mezzo
- squarciarsi nel dare alla luce una creatura bionica con una telecamera al
posto della testa)))))); l’omiciattolo armato (di cui si diceva sei parentesi or
fu (esclusa questa (e questa))) nel contemplare l’opra dell’architetto ebbe a
proclamare che la simmetria della posizione la rendeva d’ineguagliabile
bellezza, surclassando perfino il sessantanove tra tribadi, che scontava il
limite, difficilmente tollerabile per un appassionato del dettaglio anatomico,
di mantenere gli organi genitali ad una distanza ch’egli reputava siderale.
S’incapricciò del disegno al punto da chiedere allo Sgrò l’autorizzazione che questi gli negò per timore di strascichi legali - a poterne inviare copia ad
un rinomato regista di film porno.
Si trattava di un numero di bassa acrobazia il cui unico segreto per una
corretta esecuzione era che gli artisti, a preferenza non artritici, avessero
passato la trentina lasciandosi alle spalle la fase del “turgore irreversibile”:
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quello stadio cocciutamente stadico che va dai dodici ai vent’anni, in cui il
pene in erezione è tanto tumido da non ammettere la minima declinazione
prima dell’orgasmo: se ne sta lì, incollato all’ombelico, e nemmeno
avvalendosi d’un palanchino lo si potrebbe indurre a far la riverenza. Col
tempo anche il membro più membruto s’indocilisce, prestandosi a effettuare
rotazioni intorno al proprio fulcro; si sdrucciola a questo punto nell’ambito
della cinematica, ed è puro cinema quello che si mette in scena
nell’illusione di riprodurre il vecchio film: al vincolo ad “incastro” è
subentrato ormai un vincolo “a cerniera”: il quale prefigura quel “carrello”,
che più avanti negli anni darà modo all’inanime appendice di sottrarsi
all’imbarazzo riparando nella scissura meridionale della regione glutea.
A voler dar conto di quel “vicendevolmente” senza dissipazione di
grafite, non c’è alternativa allo stilare l’ennesima scheda descrittiva da
accludere a quel “prontuario dell’infilzamento” le cui bozze sono da
millenni in perpetua revisione:
1)
si adagino i copulanti su di un fianco in posizione
antisimmetrica, le ossa dei rispettivi ischi essendo raccostate;
2)
traggano verso lo sterno le ginocchia e quello a queste,
curando che grandi glutei e vasti laterali non si contraggano;
3)
inoltrino ciascuno il proprio pene semitumescente oltre lo
spiraglio che s’apre tra le cosce, subito serrandole per
impedirne la retrocessione;
4)
s’addino quindi a saggiare l’altrui polpa con la punta della
propria,
l’ano
dell’uno
all’uretra
dell’altro
facendo
combaciare e viceversa;
5)
ci si adoperi quindi per far assaporare ai rispettivi posteriori,
rievocando in un gioco di affondi e contraffondi l’adagio
newtoniano “ciò che un corpo dà riceve”, quella che ai
posteri sarà tramandata come “sodomia bilaterale”.
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A giudicare dalla diffusione che aveva avuto negli uffici,
l’illustrazione doveva essere riuscita molto meglio della descrizione;
guadagnandosi nientemeno il benestare del geometra Bibì, ch’ebbe la
ventura d’imbattersi in una riproduzione del disegno dimenticata sul vetro
della fotocopiatrice. Al collega ch’era tornato sui propri passi per recuperare
il foglio, e vedendolo s’era irrigidito predisponendosi ad una colluttazione,
Bibì aveva riservato un’espressione che a suo dire era di gratitudine più che
di contrarietà. L’uomo avrebbe anche diramato la notizia, non si sa quanto
veritiera, della sparizione del foglio incriminato.
A pochi giorni dall’episodio, in ossequio al consueto meccanismo
dell’iterazione accrescitiva, in parecchi sarebbero stati disposti a giurare sui
propri figli che un’intera parete della camera da letto del geometra Bibì
fosse occupata da una gigantografia di quel disegno.
Ma cosa c’era di vero in tutto ciò che si vociferava?
Inizialmente nulla.
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Al geometra Bibì non piacevano le scene di sesso tra lesbiche: quelle
scene che invece eccitano massimamente gli uomini, trovando in esse un
sostegno al remotissimo e mai dismesso proposito di convertire a furia
d’imposture un loro desiderio in un principio universale: che le donne sono
tutte troie, troie talmente avide di cazzo da poter raggiungere il parossismo
solo facendone a meno. Lui aveva il debole per le inculate: soprattutto per i
primi piani del proemio, durante il quale l’inamidata massa carnea insidia
l’inumidito muscolo anulare nel conato d’insediarvisi coattivamente; lo
aggradavano in particolare le inquadrature ravvicinate, che impedivano
d’individuare il sesso del titolare di quell’ano anonimo annerito dalla
confricazione che l’ha reso anidro. Non sapere se i testicoli del
sodomizzante arietassero a fine corsa grandi labbra tumide o scroti
rattrappiti gli procurava un sovrappiù di voluttà, che avrebbe forse dovuto
insospettirlo. Ciò che infine gli faceva raggiungere l’orgasmo, senza
nemmeno bisogno d’incrementare il ritmo delle oscillazioni cubitali, anzi
potendole troncare lasciando ch’ogni cosa venisse a compimento per pura
simpatia, era il momento in cui il cilindro veniva cavato dal didietro e il
primo fiotto di sperma sborrava dall’uretra: l’attimo dopo era lui a sfregiare
lo spazio con uno schizzo perlaceo, non riuscendo ad astenersi dal
protendere la lingua verso il video.
Quest’ultimo incoercibile riflesso guastava la festa al geometra Bibì,
la cui tracotanza preeiaculatoria tracollava a passo doppio rispetto alla
decongestione dei corpi cavernosi, lasciandolo in preda ai sensi di colpa e al
disgusto di se stesso. S’affrettava allora ad asciugarsi alla meglio con una
salviettina; a espingere il videoregistratore; a promettere solennemente agli
dei ultraplafoniani di non più orgasmare in circostanze affini, in nessun caso
osando usar lussuria sventolando la mucosa della lingua. Tutte balle: sapeva
bene che non avrebbe tenuto fede al giuramento a lungo.
Ciò che invece non è dato sapere, è se il geometra Bibì dubitasse della
propria identità sessuale: più probabile ch’egli dubitasse fosse opportuno
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dubitarne; per questa ragione, forse, non era mai stato con una donna, né
con un uomo: o meglio, era stato con entrambi, ma in loro assenza.
Del tutto dissimile era la storia dell’ingegner Bebè, che in vita sua
s’era unito carnalmente con donne, uomini e con quel loro recente
compendio costituito dai transessuali, senza mai patire la fase post-coitale.
In una sola occasione aveva sofferto lo scongiungimento, ma ciò era da
attribuire ad una caratteristica anatomica della femmina della specie al cui
ululante festino aveva preso parte. Non di meno egli non aveva in nessun
caso dubitato della propria identità sessuale: lui prediligeva le donne, per
carità!, il restante essendo un comodo ripiego: un espediente per
raggiungere l’orgasmo lesinando il preziosissimo bene di cui le prime non
paiono saziarsi mai: il tempo degli spasimanti.
Imporre a se stesso costumi più austeri, quanto meno per ragioni
igieniche, non sarebbe stato difficile se al progredire dell’età avesse tenuto
dietro il fisiologico regresso nella secrezione d’ormoni d’una certa risma,
ma le lancette del suo orologio biologico dovevano essersi bloccate sulla
verticale: e a tredici anni come a venti, e a trentatre come a quaranta, la
frenesia di fornicare era sempre stata massimale. Facevano eccezione i suoi
primi quindici giorni di caserma, in cui lo stress, o qualche filtro rovesciato
malevolmente nella marmitta del rancio, lo avevano espropriato
dell’alzabandiera mattutino, costringendolo a sottoporsi ad un esame per la
misurazione dei potenziali evocativi sacrali che gli era costato l’equivalente
di ottanta decadi.
Tale condizione parapriapesca, se egli avesse avuto un’indole meno
riguardosa verso le apparenze: da poter intraprendere l’unica carriera che gli
s’attagliava, ovvero quella di attore porno, avrebbe potuto fargli
sperimentare quella gioiosa unità d’azione e di pensiero cui perviene solo
qualche onesto mignottone; invece, aveva più rischiosamente ardito di
cimentarsi in una galoppata tenendo i piedi in due staffe che pendevano da
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selle differenti, una sul cavallo dei pantaloni ed una sullo sfenoide, turcica
questa e cristeriana quella, comandate da vettori divergenti che lo avrebbero
costretto a vivere in eterno come un maiale alla vigilia dello squartamento.
C’era tuttavia un’ulteriore complicazione. Non essendo egli un creso
né un adone, l’appagare i propri appetiti giovandosi del soma d’una qualche
volentierosa esponente del gentil sesso avrebbe comportato ch’egli
consacrasse alle attività ricognitive, e alle manovre propedeutiche alla presa,
tutto se stesso: ventiquattro ore al giorno: per trecento sessantacinque giorni
all’anno. Il bisogno di menare una vita almeno a prima vista normale lo
aveva costretto, fin dai primi minuti della pubertà, ad acquisire l’abito di
menarselo tre volte al dì, prima dei pasti; abito che non si era mai potuto
permettere d’accantonare, se non esponendosi al rischio d’essere espulso dal
consesso civile per il reato di violenza carnale giornaliera. A partire dai
ventanni il desiderio della carne altrui s’era fatto però così imperioso, da
non poter più essere tenuto a freno strattonando di tanto in tanto il frenulo.
Fu in quel periodo che incominciò a compulsare le riviste
specializzate in annunci licenziosi, inseguendo il miraggio di relazioni
agevoli e piccanti: aveva stimato che una serqua di seriche ninfomani,
selezionate avendo cura che i cicli ovarici non si sovrapponessero
invalidandone più di due alla volta, potesse garantirgli di che vivere
serenamente. Ma aveva fatto i conti senza l’ostio. La prima singola con cui
si ritrovò a convegno fu un’ottantenne, la quale lo aveva allettato con una
foto risalente a sessant’anni prima, che Bebè aveva per errore ritenuto uno
di quei ritratti in costume d’epoca che si fanno nei parchi di divertimento; le
aveva perciò risposto altrettanto spiritosamente mandandogliene uno di se
stesso vestito da torero, e quando la intravide sotto il parasole che aveva
indicato come segno di riconoscimento, scossa da un tremito diffuso di
chiara origine parkinsoniana, il suo unico rammarico fu di non essere un
torero autentico e avere a disposizione un cospicuo numero di banderillas da
piantarle dietro il collo. La seconda fu una tossica, che si sarebbe potuta
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definire pelle e ossa se a furia di grattare non se la fosse scorticata tutta, la
quale ebbe l’insolenza di pretendere cinquemila lire per una sega fatta
direttamente con i metacarpi in una cabina per le fototessere. La terza, celata
dietro un annuncio che recitava “femmina venticinquenne, soda come
nessuna altra, cerca maschio capace di farle mancare il respiro”, si era
rivelata una povera sciagurata che una disfunzione costringeva a vivere in
un polmone d’acciaio; in quella occasione Bebè s’era mostrato
particolarmente crudele: “Mi spiace,” le aveva detto prima d’andar via, “ma
non ho portato l’apriscatole”.
Poi fu la volta di una serie di singole per vocazione invece che per
patrimonio genetico, culminata in un tete-a-tete con un ex peso-medio
suonato che a quarant’anni sonati s’era risolto a non farsi chiamare più
Bruno La Macina bensì Mimì La Smorfiosa. La sua sarta, dopo svariati
tentativi d’imbastitura, doveva essersi rassegnata a tenere insieme i pezzi
del talleurino ch’egli indossava per l’occasione adoperando tendini
d’animale selvatico, l’unico materiale capace di resistere alle sollecitazioni a
cui ogni minima contrazione muscolare sottoponeva le cuciture del vestito,
e al giovane Bebè, che del pugilatore aveva solo il setto deviato e un affanno
da decimo round, era toccato sudar freddo per riuscire a declinare l’invito a
recarsi tosto in un motel senza mortificarne l’orgoglio e risvegliarne i
tricipiti ancora ben torniti.
Questa successione d’episodi, venuta a coronamento di lunghi anni di
fantasticherie frustrate, fece maturare nel quasi ingegnere la convinzione
che troie nel vero senso della parola, di quella sorta vagheggiata traendo
ispirazione dai lungometraggi pornografici, non esistevano. Creature di
sesso femminile per le quali scopare fosse un’inderogabile esigenza
fisiologica come cibarsi e respirare, ma soprattutto una cosa che cominciava
sfilandosi le mutandine e finiva rimettendosele, non erano di questa terra: e
quand’anche qualche raro esemplare l’abitasse, non gli era ancora capitato
d’incontrarlo: e se mai avesse avuto la fortuna d’incapparci, non era
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scontato che se ne sarebbe accorto: e se pure la sua intuizione gli avesse
permesso d’avvedersene, nulla di più facile che vederlo allontanarsi
sottobraccio d’altri sette assatanati meno titubanti. D’altronde nemmeno le
prostitute rispondevano appieno alle sue esigenze, difettando in un
particolare che le rendeva un esoso surrogato delle troie ambite:
l’eccitazione. Il sesso, persino per uno come lui, non poteva ridursi a
eiaculare nella gomma facendo pancia contro pancia con qualcuna che
prima di farsi penetrare doveva umettarsi le grandi labbra con il lubrificante.
Sembrava una situazione senza via d’uscita, sebbene la difficoltà
maggiore fosse per lui quella di trovare una via d’entrata: non riuscire a fare
sesso lo rendeva enormemente irritabile, e l’unico sedativo efficace sui suoi
nervi era far sesso. Il problema ed il riparo si fomentavano a vicenda,
riducendo a tal punto la sua capacità di esercitare una qualsiasi forma di
dominio su se stesso da farlo parere un indemoniato.
Ironia della sorte, o sortilegio dell’ira, allacciò rapporti con una setta
satanica che tutti i mercoledì, stando alle parole dell’emissario che reclutava
adepti via internet, organizzava orge in uno scantinato all’estrema periferia
di Milano. S’erano ben guardati dallo specificare che quei consessi non
annoverassero baccanti tra i partecipatori ma solo baccalà, all’infuori
d’un’attempata meretrice che vi prendeva parte in veste, o meglio, in
sottoveste di sacerdotessa del Maligno. Non era difficile figurarselo
quest’ultimo, mentre se la rideva alle spalle degl’iniziati.
Dopo aver dato prova d’una sincera vocazione a farsi servo del
Principe delle Tenebre mediante il versamento di liquidi, per il momento
inorganici, su un contocorrente postale intestato a un certo Lucio Porta,
Bebè era pervenuto, in una di quelle brumose serate meneghine in cui
l’oppressione dei vapori acquosi invoglia ad anelare il clima dell’inferno,
dalle parti di Via Folli, fermandosi in corrispondenza di un ammuffito
portone di legno che segnava il livello raggiunto dall’acqua del vicino fiume
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Lambro durante l’ultima esondazione. Aveva secondo i patti pigiato sul
pulsante contraddistinto dall’iscrizione 666, non potendo fare a meno di
notare che per il tasto immediatamente superiore l’inquilino, per contrastare
la minaccia che l’altro numero rappresentava, aveva scelto come
identificativo il 113. La cosa doveva aver suscitato lo spirito d’emulazione
tra i condomini, che in verità si disprezzavano vicendevolmente per il fatto
di abitare nel più marginale degli edifici periferici, i quali avevano adottato
come contrassegni citofonici il numero d’emergenza di carabinieri, guardia
di finanza, vigili del fuoco, croce rossa, protezione civile, comitato
antiusura, soccorso mariti maltrattati, facendo di quella stamberga a quattro
piani il palazzo citofonicamente più prestigioso di Milano. L’unica
apparente eccezione era rappresentata dal pulsante in alto a destra, che a
prima vista si presentava privo di cifre o lettere; in realtà, chi lo avesse in
piena notte illuminato con una torcia elettrica, nel distogliere poi il fascio di
luce avrebbe visto comparire a caratteri fosforescenti l’acronimo del
Servizio per le informazioni e la sicurezza militare.
Non appena il portone si aprì una voce, arrochita dall’altoparlante del
citofono, tartagliando esortò Bebè a intraprendere la discesa verso il tartaro,
cosa ch’egli attuò, a passo di tartaruga, tenendosi pronto a riguadagnare
l’uscio e darsela a gambe in caso di pericolo. Nulla, tuttavia, lo sgomentò al
punto di farlo retrocedere; tantochè pochi minuti dopo lo ritroviamo
mescolato agli altri accoliti. Di occulto costoro presentavano le sole
estremità, avendo i piedi coperti da disomogenei pedalini e la testa nascosta
sotto un’inquietante cappuccio nero; il resto del corpo si mostrava senza
veli, ma con alquanti peli che non facevano certo ben sperare.
L’officiante, aduso a mettersi in contatto con lo spirito del male,
oltrechè con quello ricavato dai prodotti della distillazione, a giudicare dalla
prominenza di un addome che non trovava la propria ragion d’essere nella
macredine
del
corpo,
attese
all’incominciamento
del
cerimoniale
declamando formule propiziatorie in una lingua arcana, che a Bebè parve di
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matrice avellinese. Brandiva con la mano destra un arrotato coltellaccio,
mentre la manca si levava verso il neon: l’indice ed il mignolo protesi nel
riprodurre l’ornamento craniale tipico di Belzebù; un involucro di stoffa,
appeso al collo con una catenella (un lascito, forse, di qualche suo antenato
che aveva fatto fortuna nel mondo dell’accessoristica per impianti sanitari)
sbatacchiava all’altezza dello sterno, come fosse in colluttazione con una
forza misteriosa alla quale non si rassegnava di soccombere.
La vittima da sacrificare, velata da un raffinato baby-doll ottenuto
cucendo assieme la garza d’alcune centinaia di bomboniere, se ne stava
distesa su una barella che a giudicare dalla freccia del pianale sembrava
l’unica vera candidata al martirio (inaugurando un’era nella quale era l’ora
dell’ara a scoccare per prima); nella snervante attesa dell’immolazione la
donna aveva provveduto all’olocausto d’un intero pacchetto di sigarette
senza filtro i cui mozziconi, macchiati di rossetto, giacevano sulla moquette
in compagnia di un fiasco vuoto, probabile cagione di quel russamento
rantoloso che ne rendeva l’irsuto contorno del cavo orale più osceno
dell’adito uterino; quest’ultimo, disboscato dall’età e dall’attività, si
mostrava imbronciato come doveva esserlo stato il suo muso da puttina
presuntuosa prima d’accingersi a ripiegare sulla professione di puttana.
Obbedendo alle ingiunzioni provenienti da sotto l’unico cappuccio
listato di rosso, che scagionavano l’impianto citofonico a discapito dei
monopoli di Stato, la dozzina di affiliati si disposero in circolo attorno ad
una portantina trafugata da qualche ospedale che fungeva da ara sacrificale.
Il ministro dell’Anticristo, più adatto a evocare la minestra con le croste che
un
berlicche
in
attesa
dell’Apocalisse,
abbassò
il
coltellaccio
posizionandone la punta a pochi centimetri dallo sterno sgombro della
dormiente; il rischio che la ferisse mortalmente era concreto, se l’esercizio
non gli avesse consentito di anticiparne gli inopinati trasalimenti. Imputabili
verosimilmente a crisi d’apnea dovute a quei dodici chili di mammelle
smottate verso il collo che le impedivano di respirare, per il sacerdote erano
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la testimonianza della battaglia in atto tra arcangeli ed arcidiavoli che aveva
come teatro il corpo della petecchiosa peripatetica. A sentir lui era la fase
più critica del cerimoniale, quella in cui egli doveva spendere tutto se stesso
per influenzarne l’esito. Era dunque a puro titolo risarcitorio che il
protettore-propiziatore riscuoteva dagli adepti un contributo mensile per gli
oneri di “connessione agli inferi”.
Tra questi rientrava il criceto che il celebrante aveva estratto ad un
certo punto dall’involucro di stoffa; trattenendolo per la coda mentre si
dibatteva come un impiccato ad una corda troppo corta, al quinto timoroso
fendente l’aveva decollato facendone gocciare il sangue sull’epaccia della
posseduta. L’operazione era riuscita meno cruenta di quanto l’improvvisato
beccaio s’aspettasse; su un addome piatto e con il sacrificio di ben più
voluminosa bestia, la piena di eritrociti avrebbe straripato formando una
rutilante pozza ai piedi del lettino: al contrario, il grinzuto ventre della
donna e la pochità plasmatica dell’animale, fecero sì che il sangue ristesse
in prossimità dell’ombelico. Bebè ritenne a stento un conato di vomito, poi,
dimentico d’essere incappucciato, altrettanto faticosamente dissimulò la
propria incredulità per gli effetti che la scena aveva avuto sugli astanti; i
quali se ne stavano lì, tastando con lo sguardo le spoglie mortali
dell’immane mortadella, mettendo in mostra i membri erettisi d’un colpo
dopo il risolutivo affondo della lama. Un lieve batticuore opprimeva Bebè,
timoroso potesse trattarsi d’una messinscena il cui unico scopo fosse quello
di persuaderlo a guadagnare la barella (diminutivo per nulla promettente) e
cavargli il muscolo cavo dal covo che s’era ricavato dentro il petto. L’esito
palese del palpitamento, che poteva anche aspirare a esserne motivo
rifiutando la carica di ripercotimento, vide protagonista un altro muscolo a
vocazione involontaria, il quale, all’insaputa del suo legal rappresentante,
s’ingrossò palpabilmente.
La sedicente vestale, che del mantenere vivo il fuoco sacro (ossia il
potere calorigeno della regione subsacrale) aveva fatto la propria ragion
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d’essere a partire dai quindici anni (quindi da ben dieci lustri dianzi),
avvertendo il campo erettrico generato dai dipoli inturgiditi, divaricò le
gambe senza indugio esponendo una falla che nessun fallo avrebbe mai
potuto tamponare.
Gli adepti, altrettanto sollecitamente ruppero il circolo e si disposero
su due file parallele. Ad un comando secco del negromante i capofila si
fecero avanti e diedero inizio ad una tenzone sguainando i propri
carnascialeschi brandistocchi. La disfida non ammetteva esclusione di colpi:
che s’attaccasse di punta, taglio, controtaglio, o addirittura di piattone,
l’importante era fiaccare l’avversario e degradarne il ferro a fodero. Ad ogni
turno un perno ebbe lustro, ma l’altro, pur frusto, poté ritentare. L’ordine di
merito del torneo diede quello di penetrazione: Bebè, che dopo aver subito
due clamorosi smacchi era riuscito ad affinare la propria tecnica, si
posizionò a metà classifica. Introdursi nella maliarda malcurante si rivelò
sotto l’aspetto tattile meno gratificante del rimetter le mutande, per contro
Bebè non ebbe difficoltà ad ammettere che dallo strofinamento del proprio
membro con quello degli altri contendenti un certo qual piacere l’aveva
ricavato.
Nei giorni successivi egli riandò l’ore di lascivia vissute nello
scantinato, giungendo alla conclusione che a quegli uomini era accomunato
dalla stessa idea del sesso: da ciò sarebbe stato tratto, alla tenera età di
venticinque anni, a recarsi per la prima volta in un cinema porno.
Per anni s’era domandato come potessero tali sale continuare a
prosperare dopo l’avvento dei videoregistratori: perché esporsi al rischio
d’essere scorti da un conoscente mentre si usciva dal cinematografo, quando
era possibile visionare lo stesso genere di film a casa propria? Il motivo gli
fu chiaro a conclusione della fase d’adattamento pupillare: come aveva
inconsapevolmente presentito, ai clienti dei cinema porno non interessava il
film bensì gli altri distratti spettatori. Tutte le sale ospitavano loculi e
cunicoli protetti da ponderose cortine dietro le quali si spacciava un sesso
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spiccio, scevro di manfrine e di cautele; le immagini proiettate sullo
schermo altra funzione non avevano che di creare un’aura onnipervasiva di
concupiscenza. Non trattandosi tuttavia di film del genere gay, Bebè
congetturò che la maggior parte dei frequentatori infoltissero al pari di lui la
schiera degli eterosessuali in fase di ripiego: approfittavano del buiore dei
budelli per sbatacchiarsi sbadatamente, tentando di doppiare i doppiatori e
dar corpo all’eco degli attori che copulavano a due dimensioni: c’erano
parecchi anziani tra di loro, numerosi extracomunitari (baluba il cui balioso
balano non balzeggiava le belle buana) e non era raro imbattersi in un nano.
Li accomunava la difficoltà a fare colpo (anche “uno” soltanto) sul gentil
sesso; la qual cosa avvalorava l’ipotesi dell’opzione omosessuale come
surrogato di quella naturale.
Se questo era il giro (a non voler dire il “girone”), chi come Bebè era
di giovanile aspetto, carnagione eburnea, e non infima statura, aveva gioco
facile a fare la subretta e a mettere gli ammiratori sui ginocchi; espressione,
quest’ultima, da intendere nel significato proprio e figurato, così come
quella che dapprincipio egli “giammai s’abbassò al livello loro, né si sporcò
le mani”, limitandosi a largire il proprio uccello alla laringe più audace e più
edace. Al suo esordio Bebè aveva sentito l’esigenza di rimanere in
prossimità della tenda per poter tenere gli occhi sullo schermo, poi, vinta la
presunta ripugnanza, aveva abbassato lo sguardo sull’alacre apneista. Era
stato infine lui a suggerire al suggitore di tirare fuori il proprio arnese e di
menarselo simultaneamente. Risale a quel periodo l’ammissione con se
stesso di subire il fascino del pene.
Sentimento ch’egli analizzò accuratamente, non senza apprensione,
per essere certo che si trattasse soltanto di “fascino” e non d’”invidia”. Un
dettaglio che avrebbe potuto funestargli l’esistenza, facendone un caso di
studio da presentare ai convegni di psicoecceteria. Che una fanciulletta si
sentisse discriminata per il fatto di non possedere il pene poteva passare, che
ciò accadesse ad un venticinquenne corredato da un sesso che alla massima
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elongazione misurava ventidue centimetri era fuori da ogni logica. Logica
che Bebè non esitò ad accantonare la prima volta che si decise ad
agguantarne uno che non fosse il proprio: la sensazione di dominio che
provò fu tale da stentare a distaccarsene: s’era sentito un re con in mano il
più prestigioso tra gli scettri.
Negli anni a “venire”, per ragioni soprattutto igieniche, non avrebbe
mai osato di più, con tutto ciò non esitando a riconoscere che il cazzo lo
attraeva enormemente. Non gli uomini, sia ben chiaro!, unicamente il loro
singolarissimo attributo, considerato da un punto di vista esornativo. Una
valutazione estetica la sua, che prescindeva dall’organismo che aveva
l’organo in organico: ossia l’esatto opposto di quanto interveniva per la figa.
Costei, una piega che imita una piaga, ha, temperatura a parte, un
temperamento da temperatoio, derivando il suo potere seduttivo dalle
fattezze di colei che se la porta a spasso: a ciò si deve l’espressione una
“bella figa”; per contro il pene è bello lui: e più vago ancora egli sarebbe se
non fosse vincolato ad alcun corpo.
Neppure la modalità dell’orgasmo sfuggivano alla comparazione.
Bebè giudicava l’eiaculazione maschile, per la sua facoltà di esprimere
dall’uomo fino all’ultima lacrima di piacere trasformando la pura gioia in
tangibile materia, una sorta di rivelazione mistica che non aveva bisogno di
parole; nella donna, invece, l’acme del coito era così aleatorio da generarne
troppe: “Sei venuta cara?... Sei svenuta?” Figurarsi, la signora dorme della
grossa e sta sognando il Minotauro.
A favore delle dame deponeva il melo che accompagnava l’orgasmo
delle meno dome, una musica che i padiglioni auricolari di Bebè non
esitavano a catalogare tra le celestiali: il non plus ultra sarebbe stato
abbinare la veduta d’una venuta mascolina all’ascolto d’una muliebre. Da
questa considerazione scaturirà la sfrenata passione di Bebè per i
transessuali: essi incarnavano la perfezione in materia di sesso: erano delle
iperdonne, troie come soltanto gli uomini sanno esserlo.
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Questa inclinazione alla licenziosità non deve tuttavia trarre in
inganno: dopo quindici anni di condotta parafrocesca l’ingegner Bebè non
l’aveva ancora preso nel culo; il che non significa che non ci avesse
provato: solamente non c’era mai riuscito, senza perciò essere in gran pena.
Nemmeno il prender moglie aveva agevolato un suo ritorno, se mai
l’aveva bazzicata, all’isola della normalità; neppure la conclamata bellezza
di costei l’aveva distolto dal cercarne altre, convalidando il principio che
fosse più allettante scoparsi per la prima volta una strega che per la
centesima una dea. Decorsa la fase della passione travolgente, la consorte
aveva avanzato la pretesa d’una commedia precoitale inconciliabile con una
foia che lo spingeva spesso a replicare: “I preliminari? Li facciamo dopo!”
Le vecchie abitudini avevano ripreso allora il sopravvento.
Continuò a frequentare i cinema porno per alcuni anni, fino a quando
non incappò in un energumeno arrapato per sfuggire al quale fu costretto a
precipitarsi verso un’uscita d’emergenza.
S’era così ritrovato al centro d’uno spazio a cielo aperto, in una gelida
serata dicembrina, attorniato dai retri di fatiscenti case popolari. L’unico
accesso alla via era chiuso da un’alta inferriata, ma Bebè non aveva
nemmeno preso in considerazione la possibilità di chiedere aiuto
esponendosi al pubblico ludibrio, ritenendosi abbastanza agile da poter
scongiurare il rischio dell’assideramento scavalcandola: impresa nella quale
s’era cimentato per ben tre quarti d’ora, prima di rimanere impigliato con il
cavallo dei pantaloni in una delle acuminatissime punte. La prospettiva di
pagare il fio delle proprie colpe con l’impalamento gli era parsa
anacronistica; solo per questo aveva accantonato ogni forma di cautela,
mettendosi a lanciare stridi degni d’un cinghiale in pericolo di vita.
All’interno del caseggiato non un locatario aveva perseverato nella propria
attività resistendo all’impulso ad affacciarsi: Bebè era stato tratto in salvo
nella generale ilarità da due anziani signori che indossavano il cappello
degli alpini, i quali non avevano accolto le istanze di alcuni beceroni
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secondo cui bisognava “lasciarlo appeso per le palle a quel maiale: che tanto
non gli servono!”
Due giorni dopo, a letto, Bebè aveva letto sul giornale, che aveva
fortunatamente messo solo le iniziali, la notizia del proprio salvataggio e
appreso che il mattino appresso, nei cessi di quello stesso cinema da cui era
fortunosamente evaso, era stato rinvenuto il corpo di un uomo ucciso a
coltellate. La polizia, concludeva l’articolo, era sulle sue tracce. Sue di chi:
di lui o dell’assassino?
Rimuginando l’interrogativo s’era girato su di un fianco e aveva
tentato di prender sonno abbracciando il corpo di suo figlio, un bambino di
tre anni che lo adorava come un Dio.
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Per il suo quarantunesimo genetliaco l’ingegner Bebè, da ormai oltre
un anno in organico alla Biolbarba S.p.A., era rientrato a Milano dalla
località balneare dove aveva accompagnato la consorte ed il bambino, con la
prospettiva di ricongiungersi a loro a fine mese. Che avesse scelto di non
trascorrerlo a casa propria in solitudine bensì in una birreria dove suonavano
blues in compagnia del geometra Bibì, era comprensibile; che a fine
concerto, ispirati dal gallone di cervogia irlandese che gli sciabordava nello
stomaco, si fossero trasferiti a casa di Bibì per fumarsi uno spinello,
rispondeva all’episodico bisogno di trasgressione a cui gli uomini di mezza
età fanno appello per apparir più giovani a se stessi di quanto non si
sentano; che avessero infine avuto l’idea di guardare un film porno, poteva
costituire il naturale epilogo per una serata consacrata alla trita terna “sesso
droga e rock ‘n roll”: ma la somma dei tre termini, e più ancora l’inversione
di sequenza, avevano portato l’ingegner Bebè ad un livello di eccitamento
tale da impedirgli d’acquietarsi senza raggiungere l’orgasmo. Cosa ch’egli
fece, con una disinvoltura sorprendente per entrambi, adoperando il cavo
orale del collega; il quale, dal canto suo, si premurò di eiaculare nelle
mutande stimolandosi con la sola forza del pensiero.
L’esperienza non gli riuscì sgradita, se presero l’usanza d’usar le
successive sere per sfrenarsi in usamenti al lume della luna.
L’ingegner Bebè li considerava un agevole provvedimento, a un
tempo ludico e antiluetico, per sopperire alla lontananza della moglie,
garantendosi quel minimo sindacale di tre-quattro orgasmi a settimana al di
sotto del quale un uomo maturava a suo giudizio il diritto a praticare lo
stupro; sennonché l’intera faccenda era complicata dalla circostanza che il
geometra Bibì, divenuto sapevole d’averci rimesso per la sua irresolutezza
gli anni sessualmente più proficui, aveva deliberato di recuperare il tempo
perso.
Furono tre settimane vissute all’insegna della dissolutezza: tre
settimane in cui Bibì passò dall’illibatezza all’empito coprofago. Vennero
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bruciate in ventuno giorni le tappe che richiedono comunemente un pari
numero di anni: masturbazione, sesso orale e sodomia furono liquidate nei
primi quattro incontri; si sperimentò a stretto giro (ma sulla strettezza
qualcuno potrebbe avere da ridire) la penetrazione con ortaglie e utensili,
prima di procedere alla compera d’un fallo in lattice, animato da un motore
a ciclo diesel, che riproduceva il pisciolare d’un cavallo di colore; a dodici
giorni da quel primo approccio fu inaugurata la fase feticista, a quindici si
concluse quella sadomaso; infine, dopo un maldestro tentativo di
coinvolgere nei loro giochi l’intera famiglia della filippina che puliva la
casa di Bibì, approdarono al travestitismo. La sera del ventinove luglio, a
due giorni dalla partenza per le ferie, Bebè, come dono d’addio prima di
ritornare alla normalità, s’arrese alle insistenze di Bibì e accettò di recarsi
l’indomani allo Ziiip Club.
All’una e mezza di notte, dopo un’ora di peripli dell’isolato, avevano
trovato finalmente approdo a non più di venti metri dall’ingresso del locale:
distanza massima che Bebè s’era dichiarata disponibile a percorrere a piedi
conciata in quella tal maniera, nonostante la protezione offertagli
dall’elegantissimo flabello di piume di pavone.
Si erano addobbate per il debutto in società nel garage di Bibì,
garrendo come garibaldini in gara per una giarrettiera mentre provavano
capi di vestiario tratti fuori da una serqua d’arche che il geometra aveva
ereditato da una prozia: la quale aveva intrapresa la carriera di cantante
lirica, prima di ripiegare su quella meglio remunerata di tenutaria d’un
bordello mettendo a frutto i sontuosi costumi di scena, oltre alla facoltà di
gorgheggiare coprendo i finti ululati delle sue lupe. Gli accessori
provenivano da “Il pozzo della pazza”, una bottega dalle parti di Porta
Ticinese battuta da agenti di commercio che trattavano articoli così inusuali
da non aver neppure un nome.
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Nonostante fossero ben avvezzi all’estravaganza della clientela, i
buttadentro avevano lungamente titubato prima di fargli oltrepassare la
soglia del locale. Il metro e ottantacinque di Bibì, messo in cima a un paio
di zatteroni da ventisei centimetri innalzava la volta cranica del geometra
oltre la soglia dei due metri e dieci, cui doveva aggiungersi il mezzo metro
di spessore d’una parrucca riccia degna della corte del Re Sole; col suo
misero metro e settanta, abbinato ad un posticcio nero e liscio in voga
dell’epoca del charleston, l’ingegnere, che gli stava a fianco, faceva la figura
dello gnomo, nemmeno tanto alto. Quando poi dovette mettersi carponi per
riprendere l’accendino evaso dalla trousse e finito sotto il banco della
biglietteria: le copiose frange che ne adornavano il vestito s’erano disposte
in modo tale da indurre un tizio in coda a chiedere a Bibì se si trattasse del
suo cane da passeggio. Il geometra, gravato da un quantitativo di lustrini
bastevole a corrompere l’insieme dei capivillaggio dell’Africa, aveva
suscitato una seconda ondata d’ilarità replicando, senza nemmeno volgersi:
“Stia attento signore, perché è ghiotto di salsicce”.
Lo Ziiip Club, una volta superata la seconda galleria di
precompressione (un vincolo imposto dall’ASL per limitare i casi
d’incrinatura del timpano) appariva una discoteca come tante: pessima
musica sulla cresta d’immani onde sonore che gonfiavano la superficie di un
oceano nero fumo sul cui fondale braccia elevate fluttuavano come alghe
ignare; in realtà non era una discoteca come tante, certamente non come
quelle che Bebè, seppure riottosamente, aveva frequentato in gioventù. Ben
presto gli fu chiaro donde il nome discendesse: l’art director che l’aveva
concepito mirava ad evocare il suono d’una cerniera lampo in precipite
calata. Obiettivo che l’insegna aveva centrato facendo dello Ziiip, complici
alcune pensate dell’animazione, il locale più “in” nell’ambiente pederasta
meneghino. Un essere “in” che si prestava all’invenzione d’un intero
catalogo di doppi sensi, banali in un ambiente dove i sensi erano per
definizione multipli.
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I transessuali che in apparente somnosi si dimenavano incatenati ai
cubi al centro della pista tenendo contraddittoriamente in mano un cuba
libre (sorta di Eve abbandonate da un Adamo in fuga con la formosa moglie
del serpente, e perciò costrette a surrogarlo con una costola destinata a
passare di mano in mano, prima che la comunità si risolvesse a lasciarla
impiantata stabilmente tra le cosce dell’unica tra di esse che non dava segni
evidenti di rigetto) suggerivano la possibilità di generare ulteriori sensi
mediante l’ibridazione dei cinque disponibili. Ch’esistessero una tattilità
visiva, una vista olfattiva, un odorato uditivo, un orecchio gustatorio ed un
gusto palmare era fuor di dubbio per chi subiva il fascino di questi
multiesseri plurisessuati le cui striminzite minigonne, fusciacche ai limiti
del coccige, davano modo alla nere natiche marmoree di competere, in
un’entusiasmante gara di saldezza, con le basaltiche poppe esorbitanti. Di
quest’ultime, per finta sorrette dagli esili legacci che connettevano due
triangoli equilateri di stoffa inscritti nell’aureola dei capezzoli, si sarebbe
detto che nulla, nemmeno una carica di tritolo fatta brillare sullo sterno,
avrebbe potuto scuoterle. Non fosse stato per la bislunga appendice che
ciondolava oltre l’orlo della mini come il battaglio nella bocca d’una
campana slegata, sarebbe sorto il dubbio che tali creature non fossero
soggette alla forza di gravità, bensì esistessero “a cavallo” tra questo mondo
ed uno parallelo regolato da altre leggi fisiche. Esattamente all’altezza del
“cavallo” dei cavalieri che intorno ad essi esseri s’assembravano si
registrava il maggior numero d’imbizzarrimenti.
Dovunque lo sguardo si posasse erano uomini avvinti ad altri uomini:
mute lingue che si levigavano mutuamente: unghie sbiancate nell’artigliare i
semiglobi posteriori d’un appassionato sconosciuto partecipe allo sforzo di
comprimere le patte: cerniere che si mordevano con una ferocia tale da far
scoccar scintille. In passato s’erano verificati diversi casi di pantaloni in
tessuto sintetico che avevano letteralmente preso fuoco provocando un
fuggi-fuggi generale; tant’è che la direzione del locale era corsa ai ripari
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mettendo a disposizione dei clienti più ardenti pezze tessute con fibre
d’amianto, da frapporre tra i fulcri di spinta prima di dar corso ai
pomiciamenti.
Che si potesse pervenire a un siffatto livello d’eccitazione senza
concedersi lo sfogo della copula era per Bebè inconcepibile e nella mezz’ora
che gli occorse per raggiungere il banco degli alcolici sgomitando tra i
congiunti (nel senso di appiccicati), si persuase che doveva esserci il trucco.
Dall’alto d’uno scanno su cui s’era accoccovato per centellare un tumbler di
rumme che si era procurato al prezzo di un barile, non aveva potuto fare a
meno di guardare con sospetto al continuo andirivieni di frisoni in fregola in
prossimezza d’una tenda situata a bordo pista; una tenda oltre la quale
s’intravedeva un corridoio scarsamente illuminato da una fioca luce rossa.
Che fosse quel corridoio la ragione per la quale Bibì aveva così tanto
insistito a recarsi allo Ziiip Club?
Di lì a poco avrebbero tralasciato di ballare, varcando mano nella
mano la soglia dell’enigmatico budello.
Fatti circa venti passi furono obbligati ad una svolta a sinistra di un
angolo (novanta gradi) molto in voga tra gli habituè, ritrovandosi sulla
sommità d’una scala che calava a precipizio verso il centro della Terra. Bibì
dovette percorrerla di sbieco tenendosi precauzionalmente da una spalla del
suo accompagnatore e da un mancorrente fissato alla parete, trepidando
sulla cima dei suoi trampoli per tutto il tempo della scesa. A fine rampa li
attendeva una doppia cortina di pesantissima stoffa che segnava l’inizio
d’un altro budello, più fosco del primo e maleolente: richiudendosi alle loro
spalle il sipario estinse l’eco della musica esplosa dagli altoparlanti,
gravando l’orecchio del solo onere di trasdurre in impulsi deciferabili
dall’encefalo il rumore dei loro passi. Ciononostante i reni, sintonizzati loro
malgrado su infrasoniche frequenze, avrebbero seguitato a captare le note
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basse che correvano a rotta di collo dentro muri maestri e pavimenti
precettori: il sordo martellamento, come le cupe vibrazioni che preludono
alla piena, si sarebbe propagato lungo i dotti che dai due emuntori
conducono allo stramazzo dell’uretra, mettendo l’intero sfogatoio in uno
stato d’ansiosa aspettazione. Una seconda deviazione, anch’essa come la
precedente d’un angolo (retto) alquanto in auge tra gli “aficionados” con
qualche rudimento non obliato (bensì costantemente oliato) di proctologia
euclidea, indirizzò i due hidalgo adulterati verso una porta a due ante
girevoli sul cui epistilio un tubulo luminescente disegnava la scritta “Ben
Venuti”. Una rapida estimazione podo-topografica diede a entrambi la
certezza di stare per accedere ad un ambiente posto al di sotto della pista.
Prima di superare l’uscio dovettero lasciare in custodia le scarpe ad un
inserviente il quale, a norma di regolamento, li dotò di due paia di stivali da
palude.
Tosto che le ante terminarono di andare e venire intorno ai cardini non
più testimoniando dell’avvenuto transito, i due si ritrovarono in una sala
oscura. Preste le pupille furo a oltremodo dilatarsi fino a inghiottire tutta
l’iride, senza perciò riuscire a catturare nemmeno un micolino di fulgore:
altre essendo le anatomiche parti a cui rimettersi. I timpani dicevano
flebilmente d’uno sciabordio come di sparuto drappelletto d’esploratori,
dagli occhi pescosi per la levataccia, ch’avanzano armati di canna e di
guadino nell’acqua bassa di un bacino (e forse di “bacini”, sebbene d’altro
genere, in quel tetro anfiteatro ve n’era più di uno) che il passaparola
vorrebbe favolosamente peschereccio. Bibì e Bebè si muovevano con la
circospezione di abietti pescatori attenti a non mettere in subbuglio l’acqua
e i suoi abituali abitatori (che pure dovevano essere stati preavvertiti
dell’imminente avvento dalle ultime sventagliate di lucore), in realtà la loro
principale preoccupazione era di non rovinare a terra scivolando sulla
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viscida patina che ricopriva l’invisibile impiantito: risultato: l’ingegnere e il
geometra procedevano alla cieca sorreggendosi a vicenda. Come unico
riferimento spaziale avevano un’enigmatica doppia coppia di stelle che
indicavano tutti i punti cardinali simultaneamente: si trattava di pannelli
luminosi d’un verde che in quel buio pareva incandescente, al centro
d’ognuno dei quali albeggiava la sagoma d’un omino bianco che se la dava
a gambe. Che il segnale avesse lo scopo di render noto che ai negri non era
concesso di mettersi in salvo utilizzando vie di fuga riservate ai bianchi, non
era improbabile in una società sempre più pervasa dal seme del razzismo;
ancor meno peregrina era allora la presunzione che l’omino, la cui uniforme
bianchezza denunciava il suo essere in adamitico costume, stesse fuggendo
da qualcuno che lo aveva spaventato a morte dopo averlo denudato: ma chi
poteva osare tanto? L’ipotesi d’un negro superdotato desideroso di rendere
giustizia ai figli d’Africa discriminati in caso d’incendio era coerente con le
precedenti, ma negava l’evidenza che i pallidi frequentatori del locale per
nessun motivo sarebbero fuggiti di fronte ad un uomo di colore, soprattutto
se questi sopravveniva a tutta birra da tergora. Non sarebbe stato più
veritevole rappresentare sullo sfondo di quel prato elettrico un omino bianco
messo a quattro zampe nella fremente attesa che la prima ombra di
passaggio lo coprisse?
Bebè e Bibì, che nel regno delle ombre avevano appunto
l’impressione d’esser finiti, dopo i primi incerti passi s’erano fermati,
protendendo le braccia nel disperato tentativo di surrogare con dieci
polpastrelli due pupille.
Pochi secondi dopo Bebè aveva avuto un sussulto, a stento trattenendo
un urlo: i sensori impiantati sulle punte delle dita segnalavano la presenza
d’una massa in fase d’accostamento. Aveva ritratto le mani e serrato i pugni
preparandosi al peggio. “Non abbia timore,” lo aveva rassicurato una
profonda voce maschile, “faccio parte dell’animazione e devo soltanto
assolvere il mandato di mettervi in condizione di prender parte al festino”.
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Li aveva quindi invitati a consegnargli le parrucche, che avrebbero ritrovato
al guardaroba, aiutandoli a calzare quello che a loro parve un casco da
motociclista completo di visiera. Ma non era una visiera che gli proteggeva
gli occhi, né apparteneva ad un casco da motociclista.
Si trattava di un elmetto militare, del tipo in dotazione ai reparti
speciali statunitensi impegnati nella guerra del golfo, facilmente reperibile
via internet dopo che il pentagono aveva deciso d’acquisirne di più
sofisticati per tenere alte le spese militari in tempo di pace: un elmetto
provveduto d’un visore d’infrarossi per i combattimenti notturni, in grado di
tramutare le emissioni termiche dei corpi in segnali percepibili dall’occhio.
In parole povere, il calore umano veniva convertito in luce per poi ridiventar
calore durante la deflagrazione della polvere da sparo. Calcolare il
rendimento di questo ciclo termodinamico non era elementare, ma chi vi
fosse riuscito avrebbe potuto stimare il valore in kilojoule di una vita
umana. A Bebè tornò in mente un articolo letto su un quotidiano alcuni anni
prima, ai tempi del conflitto appunto, in cui era riportato il caso d’un
soldato di colore uscito fuor di senno dopo aver assistito allo spegnimento
di un nemico appena colpito. Il cronista, adottando un tono tra il
paternalistico e il razzista che gli faceva dipingere il negro come un
bambinone animista o un animale rimbambito, raccontava che il tiratore,
nell’osservare il corpo riverso dell’avversario che veniva inghiottito dal
buio mentre andava raffreddandosi, era rimasto a tal segno impressionato da
non trovare più il coraggio per premere il grilletto e stenderne altri ancora.
Nessuno era riuscito a persuaderlo che il cadavere non fosse svanito nel
nulla, che l’alba avrebbe restituito le spoglie da rendere alla moglie: ciò che
aveva visto, ciò che aveva smesso di vedere, significavano per lui una sola
cosa: non erano azioni da guerriero quelle ch’era chiamato a compiere, ma
da demonio. Come mai Bebè fosse stato colpito da quell’articolo, per sua
fortuna scritto con cartucce da salva, al punto di rammentarsene a distanza
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d’anni non era chiaro: che vi avesse scorto l’inquietante prospettiva di poter
conquistare l’immortalità unicamente reincarnandosi in un termosifone?
La prima cosa che Bebè intravide una volta acquisita la capacità
d’investigare il buio fu il volto di Bibì. Era una maschera inespressiva,
superiormente blindata dall’ombra della fredda materia con cui erano stati
forgiati l’elmetto ed il visore; la falce della mandibola era al contrario
distinguibile, ma soltanto le labbra emergevano nettamente dall’oscurità,
almeno fino a quando il geometra non fece saettare l’abbacinante lingua
ricacciandole nell’umettosa tenebra. Entrambi volsero allora lo sguardo
verso il centro della sala.
Dove fino a un istante prima regnava un buio così assoluto da far
temere che lo spazio ne fosse stato risucchiato (e solo l’ostinato impulso
degli occhi a persistere nella ricognizione impediva al tempo di far la stessa
fine) era adesso un pullulare d’ombre chiare: macchie di luce sfarfallavano a
mezz’aria, in una scatenata pavanella ch’aveva nella propria sfrenatezza il
movente di se stessa. L’interpretazione della luminosa pantomima, che
oscuramente esercitava su Bebè e Bibì una formidabile attrattiva, risultava
loro assai difficoltosa; di certo i soldati dovevano addestrarsi a lungo prima
di sentirsi a proprio agio con quell’aggeggio sul nasale aggetto e non
vuotare a vuoto il caricatore dopo aver preso lampiridi per lampadari.
Il geometra e l’ingegnere cominciarono ad avanzare verso la pulsante
massa grigio argentea, la cui fisionomia non s’andava ancora delineando.
Ma ecco che all’improvviso, non senza raccapriccio, i due s’avvidero
d’essere a pochi passi dalle trincee nemiche. Uomini dalle uniformi grigio
topo erano indistinguibilmente ammassati gli uni sugli altri e alcuni di essi,
in segno di sfida o di scimmiesca resa?, mostravano le terga agli invasori:
terga eccezionalmente fulgide, che spiccavano come lune piene in una nitida
notte agostana. Ve n’erano una decina che si candidavano al primato della
candidezza, ma era proprio questo candore a renderle più oscene suscitando
il desiderio d’allunarvi, sebbene al prezzo d’una candidiosi.
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Un gran numero di navicelle, che gl’ingegneri avevano conformato
alla silhouette del pesce siluro, tacendo sull’adulterazione del numero di
Reynolds, solcavano l’atmosfera concretando quel paesaggio che gli
scrittori di fantascienza avevano utopizzato; si differenziavano le une dalle
altre soltanto nella mole, testimoniando che il trasporto aerospaziale aveva
ormai superato la fase pionieristica per passare dalla costruzione di prototipi
alla produzione in serie. Tutti i vettori presentavano una carlinga cilindrica,
listata d’alcune venature che potevano esser di rinforzo o di passaggio
impianti, e si muovevano grazie ad una coppia di propulsori collocati a
poppa che, retratti in fase di volo, solevano a fine viaggio subire una ptosi
predisponendosi perfino a fungere da dispositivo d’atterraggio. La cabina di
comando aveva la forma d’un ellissoide, sezionato da un piano sghembo in
corrispondenza dell’innesto con la fusoliera; la giunzione tra le due parti
avveniva con un risalto, che solo l’esistenza di un meccanismo di sgancio in
caso di pericolo poteva giustificare. Capitava che qualche grosso razzo, da
troppo tempo in viaggio e con la ciurma in odore di ammutinamento,
puntasse verso uno di quei neonati pianeti al neon; l’unica parte visibile
della navicella erano allora i propulsori, i quali, visti da tergo, emanavano
una luce così intensa da far dubitare che in fase d’allunaggio il comandante
accelerasse anziché decelerare.
Lo scenario non permaneva a lungo nella medesima configurazione,
anzi s’evolveva così rapidamente d’assimilare quello scantinato ad un
universo miniaturizzato ove tutto succedeva con una tale speditezza, da far
apparire intollerabilmente torpido l’universo a grandezza naturale. Si
trattava di un microcosmo in cui il tempo divorava l’avvenire.
Lune un
d’incolonnamenti
momento
aerei
prima lustre al
per
l’eccessive
punto
d’esser cagione
richieste
d’autorizzazione
all’atterraggio s’oscuravano di punto in bianco (degenerando da bianco in
punto), come per la frapposizione di un sipario ascensionale levatosi dalla
ribalta (era questo un esempio di antigravità?); altre, non meno portuose,
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s’accendevano accompagnate dal fruscio dei tendaggi che scivolavano sulla
rotondeggiante superficie, come una palpebra sull’argentina sclera
dell’occhio d’un ciclope agrigentino.
Sovente si registravano vere e proprie deflagrazioni silenziose:
fiammate di materia ad altissima temperatura provocate da mini-big-bang
che segnavano l’improvviso nascimento di nuovi mondi: interi sistemi di
galassie che altrettanto frettolosamente si spegnevano, senza dar modo
all’apatia di mutare in affezione e quindi in nostalgia. Sprazzi di luce di
lancinante intensità squarciavano le tenebre: comete in pazza corsa,
noncuranti della sorte dell’universo e della propria. Un alone tremulo
appariva nel momento di massimo splendore, come se al culmine
dell’esistenza presentissero l’imminenza della fine. Flebili lamenti
accompagnavano l’accendimento e la fulminea estinzione d’una tal sorta
d’astri.
Un incessante movimento avveniva nell’intorno di taluni corpi che,
pur essendo celesti, sentivano di zolfo; si trattava di pianeti costituiti da un
nucleo freddo, che i visori restituivano come un circoletto nero, attorniato
da un fulgido anello che attraeva irresistibilmente le altre stelle spingendole
a defezionare dalla propria orbita per gettarsi nella sua arroventata spira. Ad
ognuno di questi tragici suicidi succedeva un’eclissi totale, al termine della
quale l’astro estrinsecava il proprio estro mai estremato, rinnovandosi in un
chiarore abbacinante. Che tali buchi neri si cibassero per non soccombere
d’altri corpi celesti, rispondeva ai principi che informavano la materia tutta;
ch’avessero fatto di necessità virtù ricavandone piacere, era perfino
ammirevole; di certo Bibì e Bebè non furono rincorati da quell’anteprima
sulla sorte che attendeva il mondo.
La fase di formidabile sfavillamento che succedeva all’ingestione
d’una stella era accompagnata da un fenomeno che risultava astruso perfino
ai due esterriti astrofisici distanti dall’ostile ostio poche stecche: dal nucleo
oscuro dell’anello luminoso colava un plasma incandescente fatto di stellari
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stille: era un semplice rigurgito dovuto all’abbuffata o abbuffarsi era l’unico
rimedio alla portata d’un rugoso astro atrabiliare che volesse affievolire la
venefica influenza del suo proprio fiele? Tracce di questa attività escretiva
erano ben visibili sul pavimento; all’apparenza immote, un più attento
esame ne avrebbe svelato il tardigrado moto di rivoluzione: che non era però
ellittico, e quindi destinato a ritornare indefinitamente, bensì spiraliforme
intorno a un punto nel quale la nebulosa sembrava destinata a scomparire.
Lo scarico di un bidet avrebbe disegnato qualcosa di molto simile nel bere
la bollosa acqua con i residui delle abluzioni. Era davvero irragionevole
considerare il cosmo alla stregua di un convoglio di globi che andavano a
tutta carriera verso il cannello di un imbuto? Un interrogativo troppo
complicato per essere affrontato così su due piedi; anche se c’era il fondato
sospetto che chi quei piedi s’era premurato di munirli di stivali di caucciù,
avesse piena contezza d’ogni cosa che in quell’oscurità interveniva.
Intanto che Bibì e Bebè titubavano sul contegno da tenere, incerti tra i
dettami della moderna profilassi e le deviazioni ispirate dall’istinto,
l’iniziativa venne assunta dalle cosiddette basse sfere, non di rado prevalenti
sulle alte. Entrambi assistettero impotenti all’emersione da sotto l’orlo delle
minigonne d’un membro, tanto tracontento quanto tracotante, che da minuto
aerolito bruno stava mutandosi in caudata stella il cui nucleo ardente
abbarbagliava come neve sotto il sole, anzi come un sole ricoperto dalla
neve. Bibì e Bebè troncarono allora gli indugi rimettendosi alle invisibili
forze che imperano sul pieno, e che lo impepano: s’incamminarono verso la
pangea che ribolliva innanzi a loro nella speranza di reperire un buco nero
in cui obliarsi, prima di tutto d’esser soli condannati a dileguarsi.
Al via di questa uccellagione abbandoniamo ahinoi i nostri eroi:
riusciranno a sedare il desiderio di dissodare un sedere siderale?
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Li ritroviamo, alle prime luci dell’alba, nel chiuso del garage da cui
erano partiti. L’ingegnere, che vorrebbe con una maschia stretta sancire la
fine della loro avventura erotica, sta tendendo la mano: ma il geometra non
se ne cura e, all’improvviso, fa una cosa che Bebè non gli ha mai concesso:
lo bacia sulla bocca! Ci mette tanto ardore da spaccargli un labbro e
costringere Bebè a sferrargli una ginocchiata per riuscire a liberarsi dal suo
abbraccio. Mentre Bibì mugola di dolore tenendosi i testicoli Bebè sale in
macchina e va via: una doccia, l’ultima striscia di coca e alcune ore
d’autostrada lo separano dal figlio.
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La sera del cinque di agosto l’ingegnere si trovava con la famiglia
sotto l’ombracolo del Cicicubebè, una pizzeria sul lungomare il cui nome
avrebbe dovuto, nei piani del sessantenne proprietario, evocare atmosfere
brasiliane in omaggio all’avvenente ed avvertita diciottenne che stava alla
cassa: una baiadera oriunda di Baia ch’aveva nei suoi quattro sporti un tale
sponsor d’aver persuaso l’attempato arrembatore ad impalmarla pur di
acquisire il diritto d’impalarla; in realtà l’insegna faceva pensare ad un
gigantesco carillon all’interno del quale servissero da mangiare; non a caso
la clientela era costituita unicamente da coppie con bambini strepitanti.
Esibendo due mozziconi di grissino inseriti nel meato uditivo, Bebè era
intento ad affettare la pizza del figlio, una quattro stagioni senza funghi, né
carciofi, né prosciutto, né tanto meno olive: ossia una pizza come quella del
suo papi ma retrocessa a margherita senza commettere l’errore di nominarla,
quando, d’un tratto, gli parve di riconoscere, sotto l’unico finimento di una
fettuccia di raso rosa che le partiva, una caracollante pariglia di natiche
ponsò. Il “parve” perse ogni ipotetica parvenza non appena il fiaccheraio del
fiammeggiante tiro a due si voltò, lanciandogli uno sguardo di brace.
Quel fuoco senza fiamma avrebbe inesorabilmente risalito il nervo
ottico dell’ingegnere propagandosi alla massa cerebrale; i suoi pensieri
sarebbero arsi per tutta notte, non certo di passione ma d’una prepotente
collera.
La mattina seguente, corroboratosi con un caffé doppio che avrebbe
dovuto fargli dimenticare di non aver chiuso occhio, Bebè accompagnò la
moglie e il figlio fino all’ombrellone; poi, adducendo il pretesto d’un
problema di carburazione dell’automobile, tornò sui propri passi.
Andirivenne sul lungo mare per un paio d’ore, nutrendo la speranza di
incrociare Bibì a passeggio con un gelosissimo fidanzato sottobraccio.
Aspettazione che non fu delusa nella sola prima parte, poiché quando
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finalmente s’imbatté nell’ex amante questi non era in compagnia, né diede
segno d’attendere qualcuno; per di più, alla domanda di cosa ci facesse lì
rispose: “Ti pedino, amore”.
Bebè sentì un moto d’indignazione crescere dentro di lui, ma preferì
evitare di dare spettacolo battibeccando con un tizio sul cui osso sacro erano
imperniate le variegate piume d’uno spropositato ventaglio.
“Troviamoci stasera al Birimbao,” propose, richiamando alla memoria
il nome della discoteca più trasgressiva di quel tratto di costa, “lì darai meno
nell’occhio addobbato una ballerina del Carnevale di Rio”.
“Mi leggi nel pensiero,” rispose Bibì in tono sciropposo, “ci vediamo
a mezzanotte: all’ingresso del privè”; quindi volse le spalle e si allontanò
sculettando su vertiginosi tacchi che davano ai polpacci un risalto degno di
quelli d’un tuffatore olimpionico in procinto di abbandonare il trampolino.
Bebè lo seguì con lo sguardo, sognando d’essere l’addetto alla
manutenzione che nottetempo ha vuotato la piscina.
All’ora di cena, senza dare spiegazioni, l’ingegnere ruppe la
consuetudine trascinando la famiglia nella direzione opposta a quella del
Cicicubebè; la sola insegna sarebbe stata sufficiente a fargli andare il cibo di
traverso, visto che nelle ultime dodici ore aveva sviluppato un’irresistibile
avversione per il Brasile. Fosse rientrato nelle sue possibilità, non avrebbe
esitato a tramutarne gli abitanti in cocorite e le città in uccelliere, privando
l’insieme dei Bibì che infestavano le riviere del pianeta, e i proprietari dei
ritrovi in cui si scalmanavano, della principale fonte d’ispirazione nel
vestire e nel gestire.
Trovarono posto in un locale che si chiamava Mister Krauto e lì,
attorniato da donne e uomini teutonici che non si facevano alcuno scrupolo
d’addentar lunghe salsicce guardandosi negli occhi, Bebè venne a
domandarsi se una vittoria dell’Asse non gli avrebbe risparmiato parecchie
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complicazioni.
Che si
fosse propagato l’inevitabile bisessualismo
conseguente allo smodato consumo di birra da parte dei maschietti, o che
avesse avuto successo la soluzione finale che Baffettino voleva riservare
agli omosessuali: in entrambi i casi egli ne avrebbe tratto giovamento. Un
ghigno gli deformò la faccia mentre immaginava Bibì, vestito solo d’un boa
di struzzo, muovere sotto i colpi di staffile verso la bocca d’un forno
crematorio. Altri tempi, oggigiorno il protocollo di Kyoto osterebbe
all’immissione d’un tal genere di scorie nell’atmosfera. Alternative tuttavia
ce ne sarebbero; si potrebbe ad esempio, con buona pace degli ecologisti cui
andrebbe garantita la prelazione sull’estratto, procedere alla centrifugazione
dei finocchi.
Rientrati in albergo, Bebè non seppe escogitare nulla di meglio che
fingere di ricevere una telefonata sul cellulare. Per diversi minuti simulò di
opporre resistenza alle insistenze del virtuale interlocutore, producendosi a
beneficio esclusivo della consorte in plateali gesti d’insofferenza; infine,
chiedendole scusa con lo sguardo, accettò l’invito dell’immaginario gruppo
di colleghi in vacanza lì vicino.
A mezzanotte lasciò la stanza, non senza aver battagliato con se stesso
per vincere la tentazione di allacciare al polpaccio, nascondendolo sotto gli
ampi calzoni di lino color panna, il coltello da sub.
Per poter superare il primo sbarramento di buttafuori e avvicinarsi alla
biglietteria, Bebè si vide costretto a metter mano al portafoglio; destava
sospetto il fatto che non fosse vestito in maniera estravagante, né desse
l’impressione di essere sotto l’effetto di qualche sostanza psicotropa.
Diversi occhi l’osservarono segretamente fino a quando non si ridusse sul
lastrico rilevando il 100 % delle quote di un whisky doppio che ammiccava
da dietro il banco: se non aveva mostrato il tesserino in quella circostanza,
si poteva star tranquilli che non era un poliziotto. La situazione mutò non
appena si unì a Bibì: fu come bighellonare per il vaticano sottobraccio al
Papa: nessuno trovò più nulla da ridire sul suo abbigliamento, al contrario in
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molti considerarono “geniale” l’essersi vestito in maniera banalmente sobria
allo scopo di mettere in risalto il costume del suo fiancheggiatore. Ma
vediamolo, muovendo dal basso verso l’alto, quest’abito di gala adatto a un
golem.
I piedi, che avrebbero fatto la disperazione di qualsiasi aspirante
Cenerentola, erano racchiusi in un paio di scarpe con il tacco a spillo la cui
peculiarità era quella di essere in polimetilmetacrilato trasparente. Se
l’intento era quello di evocare le delicate estremità dell’eroina della fiaba di
Perrault l’effetto lasciava un po’ a desiderare, dando piuttosto l’impressione
che una delle sorellastre, adoperando grasso d’oca e uno speciale calzatoio,
fosse riuscita a introdurre un piede quarantacinque in una scarpina numero
trentasei e s’accingesse a rovinare la vita all’ignaro principe; la ripidezza
delle suole era tale che le ultime falangi delle dita, pressate oltre ogni dire
nell’angusta punta della scarpa, apparivano così esangui da far pensare a
globi oculari di pesci surgelati cui il freddo avesse bloccato la fuoruscita
dalle orbite. Se invece si trattava di un espediente un tantino appariscente
per annunciare al mondo l’apertura della caccia al principe, il dubbio che
attanagliava l’ingegner Bebè era che toccasse a lui la parte del corteggiator
coatto. Le gambe, trattate certamente con unguenti al napalm, non recavano
traccia della minima eruzione pilifera e avevano smarrito quel biancore che
Bebè così ben rammemorava: erano d’una liscezza isotropa e quasi
impalpabile e avevano il colorito proprio dei ricoverati nel reparto grandi
ustioni; lingue argentine, forse dipinte sull’epidermide adoperando un gel
all’uranio locupletato, risplendevano intermittentemente sotto le luci
stroboscopiche e creavano l’effetto d’una zebra a zonzo in una notte
plenilunare, costringendo il disarmato Bebè a confidare in un leone che
balzasse da dietro un divanetto e dilaniasse il geometra Bibì. L’inguine era
coperto, si fa per dire, da un copertone d’auto sospeso col tramite di tre
catenelle ad un cinturone borchiettato, gravato oltre a ciò dall’onere di
ridurne il giro-vita. L’insieme ricordava quel genere di altalene che
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popolavano gli orti di periferia, prima che il boom edilizio ne riducesse il
numero ad una per ogni 55.000 abitanti facendone la principale causa del
brusco calo delle nascite, dettato dall’inconscia aspirazione di ripristinare
l’antica proporzione; l’unica palese discrepanza consisteva nell’elemento
destinato a dondolare in sincrono con il copertone: dalle tibie levigate dei
fanciulli si passava agli aggrinziti scroti dell’ormai noto agrimensore: i
quali, per buona sorte, non godevano della piena libertà avendo come
domicilio coatto un fanale d’auto d’epoca, il cui vetro apribile garantiva al
detenuto l’ora d’aria. Il busto di Bibì era esposto alle intemperie, non
potendo contare che su di un corpino consistente in un intreccio a maglie
larghe di passafina viola, che fingeva d’imbrigliare un reggiseno gonfiabile
in procinto di scoppiare. Un arnese tra la collaressa e la gorgiera ne
incurvava la cervice, dando motivo all’ingegnere di rammaricarsi che non
fosse una garrota ben oliata. Dalla filiera delle produzione olearia proveniva
il copricapo che adornava del geometra il cacume: si trattava d’un piccolo
frantoio a pile da cui stillava un linimento che serviva a mantenere lustra la
fluente chioma posticcia di Bibì.
“Si può sapere cosa ti sei messo in testa?” esordì Bebè, dopo che si
furono accomodati a sedere su di un sofà dalla foggia di delfino che in luogo
della pinna dorsale presentava un allineamento di sei dildo d’eminenza e
diametro crescente.
“Niente di che,” rispose Bibì con tono frivolo, “una cosuccia che ho
trovato dal rigattiere.”
“Non mi riferisco alla macina con cui vorresti creare l’illusione
d’esser dotato di meningi passibili della spremitura, ma a quello che ti passa
per la testa.”
“Mi passa che ti amo e non posso fare a meno di vederti.”
“Non dire cretinate!” sbottò Bebè, che proprio una risposta di tal
genere paventava di ricevere. “Mi auguro ti renda conto del fatto che sono
un “uomo” sposato, ho un figlio e non mi sogno nemmeno lontanamente di
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mandare tutto al diavolo …” e qui Bebè adottò una locuzione volutamente
triviale, “… per una sbornia di sborra!”
“Adesso non fare quella faccia; non voglio negare d’aver trascorso tre
settimane piacevoli, ma si è trattato di una parentesi che considero “chiusa”.
Ho piacere che tu abbia trovato il coraggio di essere te stesso, però ti chiedo
di non farlo a spese mie.”
“Ma io ti amo e ...”
“Tu immagini di amarmi, ma stai prendendo un abbaglio: non è amore
quello che provi, è gratitudine, verso l’armamentario che ti ha facilitato la
gioiosa scoperta: senza però essere il motivo della gioia; guardati intorno: ti
renderai immediatamente conto che sulla terra pullulano le persone che vale
la pena di amare, d’un amore magari corrisposto. Detto ciò, profittando
dello sconcerto che la tassatività dell’ultimo asserto aveva provocato,
s’allontanò, senza che l’affranto spasimante ardisse protestare alcunché.
Costui era sprofondato nei cuscini, al punto da presentarsi ormai come
un tutt’uno con il divano a foggia di focena, e l’illusoria continuità tra il
tronco e l’appendice imbottita che partiva dal bracciolo per biforcarsi in
un’ampia pinna caudale adagiata sull’impiantito, avrebbe fatto credere al
più disincantato zoologista d’aver stanato il mitico mostro marino per metà
madame e per metà merluzzo: una sirena dal gorgozzule intasato di
polistirene, che stiracchiava in una orrenda smorfia labbra non più capaci di
articolare suoni e richiamare il nauta fuggitivo.
Rientrato in hotel l’Itacese si distese sulle lenzuola di sudore intrise e
accese, intruse i piedi perennemente ghiacci tra i penelopeschi polpacci,
quindi aspirò con le capienti nari il narcotico profumo di Telemaco; ma
un’immagine ossedeva la sua mente impedendogli di prender sonno. Non
poteva fare a meno di riandare all’istante in cui il suo tono s’era fatto da
imperativo a intimidatorio, e un impasto di lacrime e mascara aveva rigato il
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volto di Bibì assimilandolo a quello di un detenuto che lo fissava da dietro
le sbarre arrugginite; proprio allora, sotto il ventaglio di ciglia finte che
ombreggiavano gli occhi del collega, gli era parso di cogliere un’espressione
di pericolosa ostinatezza.
Ben presto fu invaso dal timore che le sue parole non avrebbero sortito
alcun effetto, anzi rischiavano di far precipitare la situazione. Se Bibì non
avesse trovato nessuno su cui riversare sentimenti covati per trent’anni, e
prima
ancora
dare
libero
sfogo
a
pulsioni
ch’avevano
scosso
definitivamente il freno, la naturale conseguenza non sarebbe stata quella di
trasformarsi in un maniaco votato a rovinargli l’esistenza? Gli tornò alla
memoria una pellicola passata sugli schermi due decenni prima, che
raccontava la storia di una pacifica famigliola la cui esistenza veniva
sconvolta da una psicopatica invaghitasi del capofamiglia dopo una notte di
sesso. Bebè non rammentava l’epilogo del film; ma poteva figurarsi come
sarebbe finito il suo, una volta che la devotissima Penelope avesse appreso
che il suo Ulisse la tradiva con un procio. Volle tuttavia spingersi oltre, e
immaginare la faccia del bambino quando la madre, per dargli conto
dell’aver messo alla porta l’adorato padre, lo avrebbe messo a parte
dell’oltraggioso fatto che questi premeva le labbra su altri maschi oltre a lui.
La tempesta di innocenti, e tuttavia cocenti, baci che il dermatologo gli
aveva imposto di abbonire se voleva risparmiare al figlio un futuro da
spellato, quali ombre avrebbe proiettato alla luce di quell’infamante
affermazione? Chi poteva escludere che nella fragile mente del bambino
avrebbe allignato la malsana idea d’esser stato vittima d’un padre pederasta?
E come avrebbe potuto convivere con un simile sospetto se non mettendosi
alla prova e divenendo anch’egli tale? Bebè non tardò a rappresentarsi il
futuro nipotino nell’atto di confidargli le insolite attenzioni che il genitore
soleva riservargli, e a vivere l’angoscia del non saper che fare. Doveva
strangolarne il padre, ossia suo figlio? Soffocare la creatura per impedire al
male di perpetuarsi? Appendersi ad una forca, e pagare il fio d’esser stato
© Turi Totore
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l’iniziatore? Nel tentativo di procurarsi un alibi rivangò la propria infanzia:
anatomizzò il rapporto con il padre: quello tra questi e il suo; poi attaccò a
congetturare sulla figura del bisnonno. Ne ricavò una sola solida certezza: se
voleva risparmiare una chiamata di correo allo stesso Adamo, scagionando
Eva dall’accusa d’aver provocato la cacciata dall’Eden, non aveva che
un’alternativa: schiacciare la testa al geometra Bibì!
Cionondimeno, essendo egli consapevole d’una certa sua inclinazione
a darsi talvolta in preda a forme di delirio paranoico, piuttosto che
almanaccare intorno ai metodi per attuare il proposito ferale si limitò a
raccomandarsi a Dio, pur nutrendo il sospetto che il Sommo Artefice
riluttasse a precipitarsi in soccorso di un qualunque depravato.
S’addormentò alle prime luci dell’alba e quando la consorte lo scrollò
notificandogli ch’era l’ora dell’asciolvere, riuscì ad articolare a malapena un
“vi raggiungo in spiaggia”.
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Alle undici sonate l’ingegner Bebè pervenne all’ombrellone. Poco ci
mancò che gli venisse un accidente: suo figlio era intento all’edificazione
d’uno smisurato castello di sabbia, avendo per coadiutore il geometra Bibì.
Costui, dopo aver atteso che si risolvesse l’improvvisa crisi
respiratoria che aveva fatto temere a Bebè per la propria permanenza in vita,
gli si accostò porgendogli amichevolmente la mano; segmento dell’arto che
l’ingegnere omise d’amputargli con un morso, in segno di gratitudine per
aver ben dissimulato d’aver con lui dimestichezza. Fu il bimbo a occuparsi
delle presentazioni, prima di arruolare il padre come aiuto-sterratore.
Nelle quattro ore successive, privandoli perfino dell’elementare diritto
al nutrimento, il pargolo non fece altro che impartire disposizioni costruttive
talmente dettagliate da suscitare l’ammirazione d’alcuni vicini d’ombrellone
e l’odio d’altri: fece raddoppiare lo spessore delle mura del mastio e scavare
un passaggio sotterraneo che conducesse al mare; dispose l’erezione di una
terza cinta muraria, completa di cammino di ronda protetto, e ne pretese la
bugnatura a diamante; popolò l’abissale fossato con tappi di sughero e pezzi
di legno cui affibbiò incomprensibili nomi cavati da un glossario dei mostri
marini che riteneva a memoria; vigilò infine sulla posa d’una griglia in ghisa
sottratta su sua intimazione ad una caditoia stradale, che fu installata a
protezione dell’unica e sola entrata.
Conclusi i lavori, il fanciullino proclamò che si trattava di Minas
Tirith, la Città dei Re, edificata su sette livelli e protetta dal Gran Cancello
di Gondor: la fortezza più grande di tutta la Terra di Mezzo. Gli spettatori
manifestarono reazioni discordanti: un signore s’avvicino al bambino per
chiedergli l’autografo; un altro, dopo aver malmenato il figlio reo d’aver
fabbricato una semplice autorimessa, fu colto da un malore.
Giacevano i corpi dei due aiutanti abbandonati sulla sabbia ma con lo
sguardo volto all’opera, che sembravano intenti a contemplare a caccia di
particolari perfettibili; in realtà i loro occhi guardavano senza vedere e i
rispettivi cervelli, torrefatti dalle troppe ore trascorse a tirar su torri sotto il
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sole, non era certo fossero più in grado di elaborare elementari forme di
pensiero. Fu Bebè il primo a dar segno di non aver subito danni irreparabili,
pronunciando senza balbettamenti un intero periodo che ospitava
nientemeno una proposizione secondaria: propose, acidamente, di erigere un
palazzotto a mezzo miglio dal castello per albergare gli amici del principino
senza dar noia al re e alla regina.
Bibì accolse la proposta ma suggerì, non scevro di malizia, di
destinarlo a dimora notturna del re quando era in lite con la moglie.
“Il re e la regina vanno d’accordissimo,” asseverò Bebè, “soprattutto
di notte”.
“Che strano,” lo incalzò Bibì, “circola voce che qualcosa non funzioni
e addirittura la sovrana re sia prossima a richiedere l’annullamento del
matrimonio”.
“Nulla di più falso!” replicò Bebè stizzosamente, “mi risulta anzi che
su maestà abbia affidato al comandante della guardia il compito di mozzare
la lingua a chiunque metta in circolazione simili voci.”
“Oh, ma se ne pentirebbe amaramente;” obiettò Bibì sibilando, i suoi
delatori potrebbero incattivirsi e diventare ancora più molesti.”
Bebè si sollevò da terra e si diresse verso il mare. Bibì gli diede il
tempo di sbollire un po’ di rabbia, poi lo raggiunse in acqua.
“Tesoro,” sussurrò non appena gli fu vicino, “farti arrabbiare è
l’ultima cosa che voglio. Desidero solo non starti troppo lontano e ti
prometto che nel farlo sarò discreto come un agente segreto”.
“Cosa intendi per “non troppo lontano”: tra me e mia moglie?”
“Non sarebbe una cattiva idea.”
Bebè sentì il sangue saturargli gli occhi.
“Ascolta,” ringhiò, “quello che è successo a Milano è un capitolo
chiuso! Devi rassegnarti all’idea che siamo soltanto colleghi di lavoro; anzi,
se non ti risparmi queste sceneggiate da tredicenne innamorato, ti giuro che
presento le dimissioni, cambio società e non mi vedrai mai più!”
© Turi Totore
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“Magari,” bisbigliò Bibì mostrando un autocontrollo per nulla
promettente, “non ci sarà nemmeno bisogno di presentarle…”
“Cosa vorresti dire?” domandò Bebè; e al silenzio opposto dal suo
interlocutore reagì tuffandosi e nuotando sotto il pelo dell’acqua fino al
limite della propria capacità polmonare.
Nel riemergere sentì qualcosa sfiorargli la nuca: era Bibì: aveva gli
occhi umidi e l’espressione di chi stia per scoppiare in lacrime.
“E’ colpa tua,” attaccò, “se sta succedendo tutto questo. Chi è stato a
spingermi la testa in direzione della propria patta la notte del sette di luglio?
E adesso proprio tu vorresti gettarmi via come uno straccio. Se potessi,” il
tono per un attimo s’intenerì, “ti accontenterei, ma è qualcosa che va oltre le
mie forze. Non costringermi a rinunciare a te: ti avverto che potrei non
rispondere più delle mie azioni.”
“E’ una minaccia?”
“E’ un avvertimento, che do a me stesso a voce alta affinché tu possa
udire ed aiutarmi a non perdere il controllo.”
“Cosa dovrei fare per venirti incontro: divorziare, affidare mio figlio
ai servizi sociali e condurti sottobraccio all’altare?”
L’espressione sognante che s’impossessò del volto di Bibì, mise a
dura prova la padronanza dei propri nervi mostrata fino a quel momento da
Bebè.
“Non chiedo tanto,” attestò Bibì mentre allungava il braccio sotto
l’acqua, “mi accontenterò di essere il tuo amante”.
Bebè si sottrasse all’oscena presa prima che Bibì s’avvedesse
dell’incipiente erezione, dirigendosi a placide bracciate verso riva.
Rientrati in albergo, Bebè si diede subito da fare per addormentare il
bimbo; poi tentò con insistenza la moglie, finché non gli riuscì di placare il
prurito occasionato dalla subdola palpazione subeqorea.
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Si svegliarono alle sette, grazie ad una manata assestata dal bambino
sulla più sensibile tra le contrade paternali, cui seguì la richiesta d’esser
condotto immantinente in spiaggia, per accertare lo stato della città
fortificata. Prima di uscire Bebè si trattenne nell’ufficio del direttore
dell’albergo, al quale chiese di quantificare la penale in caso di partenza
anticipata.
In spiaggia trovarono una doppia sorpresa: una piacevole per il padre,
che registrò l’assenza di Bibì; una dolorosa per il figlio, cui avevano
distrutto a pedate il monumento. Bebè si premurò di consolarlo
promettendogli di costruirne uno ancora più grande l’indomani, ma omise di
specificare che i movimenti terra sarebbero cominciati nottetempo, radendo
al suolo l’autorimessa di quel piccolo idiota gongolante.
Risollevato il morale del bambino, un mezzo trillo provvide a
deprimere quello dell’adulto: era un sms di Bibì. C’era scritto: Lido dei
sogni. Domattina. Ore undici.
Fu, quella, la terza notte consecutiva in bianco.
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Nelle due settimane successive Bebè, a prima vista in preda ad uno di
quegli slanci giovanilistici che sono soliti colpire gli uomini che hanno da
poco superato la soglia dei quaranta, istigandoli a rivaleggiare con la
memoria che essi hanno di se stessi non già nell’illusione di fermare il
tempo, ma di farlo arretrare e migliorare i primati personali (il che talvolta
avviene, ottenendo il suffragio della scienza grazie alle risultanze
dell’esame autoptico), instaurò la prassi dell’ora di moto giornaliera. A
spingerlo all’azione, in realtà, non era tanto la voglia di ripristinare un
corretto funzionamento della muscolatura che negli ultimi anni aveva
ceduto al sistema scheletrico l’onere di contrarsi e muovere il tutto, quanto
un impegno a cui non poteva sottrarsi.
Alle dieci e cinquantanove egli rattrappiva simultaneamente tutti i
muscoli eccezion fatta per i facciali (i quali se ne stavano adunati sotto il
mento come quelli d’un atleta che dopo anni di estenuanti allenamenti
avesse scoperto di non dover partecipare alle olimpiadi, bensì di essere in
procinto di sfidare il Nazareno in una riedizione della Via Crucis prodotta
da una televisione vaticana), balzava dalla sdraio, calzava speciali pedalini
antimiceti, perturbava l’atmosfera con una serie di plateali respirazioni
propedeutiche da 22 centilitri, quindi si portava sulla battigia e partiva verso
sud. A giudicare dall’ampiezza delle falcate, dalla smisurata dilatazione
delle nari, dalla luce ferina ch’emanavano i suoi occhi, lo si sarebbe detto
diretto al porto di Taranto: da dove avrebbe mosso alla volta di Corfù,
misurandosi a nuoto con una motonave; una volta approdato avrebbe scalato
a mani nude il Pantokratòr, dalla cui cima sarebbe decollato appeso a una
malmesso deltaplano; il viaggio sarebbe terminato alle undici e 59 con un
carpiato da quota cinquecento. Un minuto dopo la consorte, sollevando lo
sguardo dalle pagine del libro, lo avrebbe visto emergere dall’acqua,
promessa italiana del pentathlon moderno.
Se l’ingegner Bebè osava dileguarsi a velocità così smaccatamente
sostenuta, lo si doveva al fatto che alle dodici in punto, ossia sessanta
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secondi dopo il via datogli dal mossiere immaginario, egli aveva già tagliato
il traguardo e stava brindando alla vittoria sotto il pergolato del Lido dei
Sogni, in compagnia del geometra Bibì. Quest’ultimo, a seguito
d’un’insincera dichiarazione di Bebè, il quale gli aveva garantito che in
topless era molto più sensuale, aveva rinunciato al pezzo di sopra del
costume tanto da sembrare, almeno all’apparenza, un normale vacanziere.
“All’apparenza”, appunto; perché chi avesse udito le parole che
sussurrava nel chiuso della cabina dopo essersi sbarazzato anche del pezzo
di sotto, non avrebbe potuto fare a meno di pensare che lui da solo
costituiva un motivo sufficiente per proporre l’immediata riapertura dei
manicomi.
Cosa fosse accaduto nella mente del geometra Bibì era un mistero che
poteva esser chiarito solo da un intenditore dell’umana psiche, qualora
s’arrivasse a ritenere ch’egli ne possedesse una e non fosse invece la sua
mancanza a determinarne la condotta. Come poteva una persona che per
trent’anni aveva vissuto dentro i confini della norma, mutare tanto
radicalmente in un lasso di tempo così breve? Bebè n’era stato l’istigatore, è
vero, ma tra i due invertiti adesso i ruoli s’erano invertiti. Non toccava più a
Bibì essere attanagliato dai sensi di colpa dopo aver fatto sesso, né dubitare
che valesse la pena di dubitare della propria identità: era Bebè che
abbandonando la cabina giurava a se stesso di non metterci mai più piede;
ed era sempre lui che a partire dal terzo rendez-vous venne ogni volta colto
sulla via del ritorno da un attacco di vomito, vedendosi costretto a
immergersi e rimettere sott’acqua. Un’operazione ch’egli portava a
compimento senza rimanere soffocato sol perché il getto gli prorompeva
dalla gola così violentemente da non incontrare alcuna opposizione; se non
quella dei bagnanti che guadagnavano la riva disgustati.
Non avevano, poveri loro, lo stomaco del geometra, che aveva ormai
acquisito una dimestichezza con l’organico degna d’un vivisezionatore. In
pochi giorni non s’accontentò più di farsi eiaculare nelle fauci trangugiando
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fino all’ultimo spermatozoo; né di gargarizzare il cavo orale con urina
aromatizzata al rum: si mostrò capace di pretendere che l’ingegnere
defecasse su un foglio di giornale, e di conservare lo stronzo in cabina per
poter di tanto in tanto pregiarsi d’annusarlo. Almeno fino a quando non
trovò un biglietto sulla porta in cui c’era scritto: “Si prega la gentile
clientela di non lasciare in cabina ad asciugare le interiora”.
Alle undici e cinquantanove l’ingegner Bebè inforcava gli occhialini
e, adempiuta la liturgia della ostentata ventilazione alveolare, si tuffava in
mare. A giudicare dall’ampiezza delle bracciate, dalla smisurata dilatazione
della bocca, dalla spuma color farina ch’emanavano i talloni, lo si sarebbe
detto diretto al porto di Trieste: da dove avrebbe mosso alla volta di
Durazzo, misurandosi in gara di prestezza con un locomotore; lì avrebbe
tentato la scalata d’un’organizzazione criminale, vedendosi poi costretto a
prendere il largo a bordo di un moscone a remi e traversare l’Adriatico
incalzato dalla prua d’un fuoribordo; il viaggio, per l’eccessivo slancio,
sarebbe terminato contro la massicciata della linea ferroviaria alle dodici in
punto. Un secondo dopo la consorte si sarebbe voltata, vedendolo emergere
indenne dalle contorte lamiere del Bologna-Brindisi appena deragliato,
promessa italiana della metallurgia.
E in effetti una qualche “vena” metallifera doveva pure averla
l’ingegnere, se dopo la performance mattutina, e la replica pomeridiana, la
notte s’affannava per adempiere i doveri coniugali. Voleva scongiurare il
sospetto che la propria mascolinità fosse in declino? Peccato che per fargli
completare l’erezione la moglie aveva dovuto condiscendere a introdurgli il
dito medio e l’anulare nell’intestino retto.
Finalmente la vacanza venne alla conclusione e Bebè fu visto mentre
caricava l’automobile in preda ad un fervore che non poteva avere la propria
ragion d’essere nella prospettiva di ricominciare a lavorare. Evidentemente,
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il pensiero di sottrarsi a quel tour de force sessuale gli procurava una tale
gioia da impedirgli d’immaginare altro.
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Durante le prime settimane il geometra Bibì, reduce da venti giorni di
sesso sfrenato consumato nella cabina del Lido dei Sogni (rivelatosi “degli
Incubi” per l’ingegnere), non si mostrò particolarmente fremebondo. Con
tutta probabilità poter contemplare Bebè in qualsiasi momento della
giornata, riuscire a mangiar seduti allo stesso tavolo senza dover ricorrere a
sotterfugi, disporre a piacimento d’occasioni per sfiorarne un braccio,
fungevano da lenitivi capaci di tenere a bada la passione fino all’aperitivo
del venerdì sera, dopo il quale poteva conflagrare tra le lenzuola ignifughe
ch’erano entrate a far parte del corredo paranuziale di Bibì. Ma erano
proprio le circostanze che acchetavano quest’ultimo a condannare Bebè a
vivere in uno stato di perenne ambascia.
Il modo in cui Bibì lo guardava, il tono che adottava nel parlargli, non
potevano a suo giudizio passare inosservati. E la volta che il geometra,
costretto per alcuni giorni a casa da una febbre, aveva dovuto comunicare ad
un collega la password d’accesso al proprio computer per dargli modo di
recuperare alcune tavole di un progetto, poco ci mancò che l’ingegnere, il
quale aveva colto l’interrogativo “Bebe?” sussurrato nel ricevitore e il
malizioso sogghigno che aveva storto le labbra del digitatore dopo la
conferma, rassegnasse le proprie dimissioni. Se ciò non avvenne, lo si
dovette al fatto che trovò il modo di partecipare al depositario del
compromettente bisillabo una curiosa serie di coincidenze di cui era stato
testimone, alcuni mesi avanti, dalle parti del cimitero monumentale: aveva
visto, pensate, un sosia del collega, a bordo di un’automobile identica alla
sua, che a memoria pareva condividerne anche il numero di targa, caricare
un superbo transessuale; che fosse un transessuale non c’erano dubbi, visto
che prima di farlo montare, per il momento a bordo, il sosia aveva preteso
che gli facesse vedere l’uccello; richiesta a cui l’uoma aveva adempiuto
senza esitazione, mettendo in mostra un arnese che avrebbe fatto trasalire
una giumenta. Che Bebè non avesse potuto assistere alla scena se non da
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una delle macchine in coda dietro quella del sosia, era un presunzione su cui
sia lui sia il sosia del sosia preferirono sorvolare.
Al rientro in ufficio dalla malattia Bibì scoprì che Bebè non solo
aveva cambiato stanza, ma s’era nientemeno trasferito di piano. In nessun
modo l’ingegnere riuscì a persuaderlo dell’opportunità di questa scelta: gli
disse che rischiavano di diventare la barzelletta dell’ufficio; che non
riusciva a lavorare mentre lui lo fissava con occhi languidi; che si sentiva
mancare il respiro nell’udirlo sospirare come una dodicenne; che se non
teneva una condotta meno da infatuato rischiava d’esserlo d’un infartuato.
Bibì non voleva sentire ragioni e finì per scoppiare in lacrime davanti al
distributore automatico, non curandosi della mezza dozzina di colleghi che
esitavano a venir fuori dall’ascensore. Nel disperato tentativo di calmarlo,
Bebè propose l’installazione di una web-cam che gli consentisse di poterlo
rimirare ininterrottamente all’insaputa di tutti.
L’entusiasmo con cui Bibì accolse la profferta fu tale da farlo dubitare
d’averne sottovalutato le conseguenze; un’incertezza che l’ingegnere ebbe
l’impulso di rimuovere immediatamente, fracassando il cranio del geometra
con la lattina di the al limone appena sputata dal distributore.
L’instaurazione di questa innovativa forma di telecolleganza sul
lavoro si rivelò in termini di rendimento molto meno proficua di quanto
avesse immaginato. Fintantoché Bibì era stato suo dirimpettaio, era bastata
una sbirciata per accertarsi se lo stesse guardando oppure no; ma adesso, che
davanti a sé aveva l’insondabile pupilla di quell’occhio elettronico, sentiva
d’essere costantemente sotto osservazione. Incontrò serie difficoltà ad
abituarcisi, finendo per contrarre il ticchio di avvicinare sovente il proprio
occhio a quello della telecamera, come a voler indovinare, da un’attenta
perscrutazione della lente, se all’estremo opposto vi fosse quello di Bibì. La
situazione precipitò la mattina del quarto giorno quando, dopo aver
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sollevato la cornetta del telefono che squillava insistentemente, egli udì la
voce del collega ammonirlo di sfilare subito il dito dalla narice. Angosciato
dall’esistenza di questa entità superiore che sapeva tutto di lui mentre lui
d’ogni cosa era all’oscuro, diventò paranoico.
Parlava al telefono coprendosi la bocca con la mano, nel timore che
l’entità fosse in grado di leggergli le labbra; evitava di rivolgersi ai colleghi
per paura che il grande fratello incestuoso s’ingelosisse; lasciò allignare
nella propria mente l’idea, di cui lui per primo ammetteva l’assurdità, che
quell’occhio riuscisse a frugargli i pensieri. Paventava soprattutto che
potesse scoprire quale tra di essi l’ossessionava maggiormente: quello di
essere un Odisseo postmoderno in lotta con un ciclope elettronico. Sognava
di brandire un portamine arroventato e di accecarlo, dopo averlo fatto cadere
in stand-by con un software soporifero; ma lo sognava con una tale
insistenza, che la sua produttività s’era ormai ridotta del 33 per cento. Si
rese conto che di questo passo le sue prospettive di carriera alla Biolbarba
erano nulle: a meno che …
Una plumbea mattinata ottobrina, di quelle in cui l’orologio biologico
sembra arrancare a parecchi fusi di distanza da quello che cinghia il polso, e
solo una matura avversione all’eccentricità trattiene dal calzare elmetti da
minatore con tanto di torcia incorporata; una mattina, insomma, in cui
Milano avrebbe potuto contendere il primato dell’illucentezza alla città di
Atlantide dopo l’inabissamento, l’ingegner Bebè si presentò in ufficio
inforcando un paio di occhiali a specchio dalle enormi lenti a goccia.
Timbrò alle nove e undici; tentò uno scambio di battute in ascensore,
con un’impiegata che non osò dargli corda nell’incertezza di aver di fronte
uno psicopatico assunto in virtù di qualche obbligo di legge; alle nove e
tredici fece un trionfale ingresso nella stanza, salutò affabilmente i colleghi
sbalorditi e guadagnò la scrivania: come per incanto, grazie alla protezione
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offerta dalle lenti che rendevano i suoi occhi imperscrutabili e restituivano
all’elettronica pupilla la raddoppiatura di se stessa, riprese, finalmente, a
lavorare. Attaccò a farlo con una lena straordinaria, galvanizzato dall’idea
d’essersi affrancato dalla tirannia oculare, a scapito del geometra Bibì.
Non era difficile immaginare lo stato in cui versava, adesso che la
specchiatura degli occhiali (per giustificare i quali Bebè aveva dovuto
produrre un falso certificato medico che attestava fosse affetto da una grave
forma di fotofobia, mettendo così a tacere le voci che lo davano per
cocainomane da tre grammi al giorno) faceva in modo ch’egli vigilasse su
se medesimo. Occhieggiando la finestra attiva in un angolo del video, non
vedeva ormai nient’altro che il riverbero dell’obiettivo a cui era collegato il
suo nervo ottico virtuale: un occhio che guardava un occhio intento a rimirar
se stesso nell’atto di scrutarsi. Che vortice! C’era da finire dritti in
manicomio.
Ma il geometra non apparteneva alla categoria degli arzigogoloni e si
limitò a considerare quegli occhiali a specchio un espediente per
raddoppiare la distanza; e giacché il suo autocontrollo era inversamente
proporzionale al quadrato della lontananza, ben presto non fu più capace di
dominare l’impulso a ridimensionarla. Per la seconda volta dopo l’esilio del
geometra nel Lido dei Sogni, Bebè aveva commesso un tragico errore: per
non assecondare un’istanza che gli pareva eccessiva, avrebbe finito per
doverne esaudire di ben più gravose.
Ogniqualvolta Bebè s’allontanava per andare a sorbire un caffè o
mingere rischiava, all’uscita dalla stanza, d’essere investito da un
trafelatissimo Bibì, al quale non di rado capitava di presentarsi privo di una
scarpa o d’una manica di camicia perse nella precipitosa galoppata. Innante
al distributore automatico (Bebè aveva ormai smesso di frequentare il bar
aziendale nella speranza che l’incontro potesse apparir casuale) Bibì non
riusciva a trattenersi dal sussurrare qualche svenevolezza, tramutando quella
che doveva essere una pausa di ristoro in 5 minuti di stazionamento sulle
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spine. Ugualmente arduo era orinare in santa pace; dovere fisiologico a cui
era costretto ad adempiere barricato all’interno della turca, opponendosi
all’insistenza di Bibì a far pipì congiuntamente.
Fallito il piano di plottare a grandezza naturale una fotografia a
mezzobusto da appendere in propria vece alla parete prima d’assentarsi (per
colpa dei colleghi che gli avevano imposto, dopo due settimane in cui lo
stratagemma aveva funzionato, di cambiarsi la sudicia camicia e maleolenta
dando modo a Bibì di smascherare l’impostura), Bebè si ripromise di non
abbandonare per nessun motivo la postazione di lavoro. Sostituì il caffé con
cioccolatini ripieni, che attaccò a ingurgitare in quantità industriali; smise di
frequentare all’ora di pranzo bar e pizzerie nei dintorni dell’ufficio,
nutrendosi unicamente di panini che si portava da casa; imparò a ritenere
l’urina per dieci ore di fila.
Dopo un mese di quella vita le sue emorroidi s’erano accresciute al
punto che un ricamino sarebbe stato sufficiente a farle passare per cuscini;
contrasse la cistite, da egli ritenuta d’esclusiva pertinenza femminile, il che
aggravò la crisi d’identità in atto; tentò, in relazione al brusco accrescimento
del consumo di cioccolato, di scongiurare una recrudescenza dei suoi annosi
problemi dentari munendosi di spazzolino, borraccia e sputacchiera, che
adoperava più volte al giorno nella generale ripugnanza.
A metà novembre ricevette una convocazione scritta da parte del
Vicedirettore del personale.
Non appena si trovò al di lui cospetto questi, tralasciando i
convenevoli, lo avvertì che il crollo di produttività registrato nelle ultime
due
commesse,
insieme
ad
alcuni
comportamenti
“francamente
imbarazzanti” di cui era venuto a conoscenza, se perduranti avrebbero
pregiudicato il suo avvenire alla Biolbarba.
Bebè uscì dall’ufficio a testa bassa, ma covando una speranza.
Fu proprio agitando lo spauracchio del licenziamento in tronco, che
persuase Bibì a liberarlo dal giogo della web-cam; come contropartita
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dovette rendersi disponibile a incrementare i convegni amorosi settimanali.
Bibì propose che quello del venerdì fosse preceduto da uno il mercoledì
sera, in surrogazione della partita a tennis: “in fondo,” aveva detto senza
strappare al suo interlocutore il minimo accenno di sorriso, “si tratta sempre
di strapazzare delle palle”.
Nelle settimane che seguirono la situazione in ufficio sembrò tornare
alla normalità.
Il malessere non era tuttavia sparito; s’era soltanto trasferito, facendo
in modo che Bebè ricavasse da quei congiungimenti nient’altro che un
profondo disgusto di sé. Non avendo idea, o piuttosto avendone solo di
catastrofiche, di come Bibì avrebbe potuto reagire, s’era ben guardato dal
fargli intuire alcunché; e aveva adottato la precauzione di ridurre a un paio
al mese le unioni carnali con la consorte, paventando le conseguenze di una
sua defaillance in ambito extraconiugale. Ma si sarebbe rivelata l’ennesima
ingenuità l’aver creduto che la questione fosse semplicemente pneumatica.
Ben presto Bibì prese a lamentare una mancanza di trasporto che non
ebbe esitazione a imputare al carattere oltremodo routiniero della relazione.
Si trattenne però dall’enunciare quale riteneva fosse il rimedio; che mise per
la prima volta in atto la vigilia di natale, quando in ufficio non erano
presenti più di tre persone a piano.
Procedendo lungo i corridoi con la circospezione di un agente della
CIA il geometra guadagnò la stanza dell’ingegnere e, al riparo della
scrivania, gli somministrò una prestazione degna d’un provetto fontaniere.
Il nuovo anno cominciò all’insegna del sesso in ufficio, lasciando
inascoltata la richiesta, formulata questa volta da Bebè, di portare piuttosto a
tre gli incontri settimanali. A prima vista egli non l’aveva propugnata con la
dovuta decisione, ma la sua cautela derivava dal convincimento che fosse
meno rischioso accondiscendere ai voleri di Bibì, quali che fossero, anziché
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tentare di resistergli. Più d’una volta, al termine d’una sessione di sesso
spinto, aveva avuto l’impressione che Bibì lo guardasse con occhi allucinati
senza vederlo, come se l’amplesso gli fornisse il destro per introiettare la
figura dell’amato divenendo un tutt’uno a se bastante; ne derivava una
sensazione d’intangibilità, quando non di onnipotenza, la cui ricerca
l’avrebbe reso capace di qualunque cosa.
Alla luce di ciò, quali alternative si presentavano a Bebè se non quella
di assoggettarsi alla bibina potestate?
Cominciarono a intrattenere rapporti carnali quotidiani a fine orario di
lavoro; una prassi che, a palazzo spopolato, pretendeva le sole due cautele
di posporre l’avvio degli usamenti al passaggio dei nettacessi e di eleggere
come alcova un ufficio ogni volta diverso. Per due mesi, a partire dai primi
di gennaio, fecero sesso sulle scrivanie di colleghi che il giorno appresso
avrebbero impiegato diverse ore a mettere ordine nelle proprie carte e a
disgiungere senza sbrindellarli quei fogli che risultavano incollati
saldamente; copularono sullo sterminato tavolo attorno al quale si riuniva il
consiglio di amministrazione, cavandosi il capriccio d’inseminare la
poltrona del presidente dopo aver fatto un uso improprio del microfono
assegnato all’amministratore delegato; ebbero l’ardire di cimentarsi in un
una sodomia a cavalcioni della fotocopiatrice che riprodusse, per un incauto
tocco, duecentosei doppioni dei loro genitali in piena azione.
Che si trattasse d’un gravoso impegno cui adempiere non senza
patemi era innegabile, tuttavia Bebè lo riteneva un minor male a paragone
della certezza d’esser licenziato per manifesta improduttività. L’unica
distrazione dal lavoro si consumava nell’ultima mezz’ora, da consacrare di
necesse alla visione di filmati pornografici che gli permettessero d’ereggere
la sacra stele da configgere nel sacro di Bibì.
Un lunedì mattina, ai primi tepori marzolini, arrivò la doccia fredda.
Esacerbato dai due giorni d’astinenza, ch’egli imputava alla pervicacia
d’ispirazione familista con cui Bebè oppugnava le sue richieste d’incontri
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sabbatici o domenicali, Bibì lamentò che gli svaghi dopolavoristici avevano
cessato d’esser tali e dichiarò di volerne d’anticiparne l’ora. Bebè
comprendeva che l’idea d’essere sodomizzato in una fascia oraria in cui la
società lo retribuiva potesse stuzzicar la fantasia del geometra: così come il
timore d’essere scoperti a brache calate su un pianerottolo accrescerne
l’eccitazione; ma quando gli venne in mente che forse era questo il vero
obiettivo di quel demente: ossia che tutti fossero al corrente ch’erano amanti
incontinenti: Bebè ritenne ch’era ormai venuto il tempo di far punto. Cosa a
cui diede immediato corso sferrando un pugno nello stomaco a Bibì, che si
ritrovò boccheggiante ai piedi del distributore di bevande calde.
Per una settimana il geometra non si fece vedere né sentire. Che fosse
barricato nel suo ufficio o in ferie, oppure penzolasse da una trave del
soffitto, all’ingegnere non importava: se provava rammarico era soltanto per
non aver agito prima, risparmiandosi otto mesi d’angherie.
Il geometra si rifece vivo alle ore otto e cinquantasei dell’otto marzo,
con una e-mail che aveva per oggetto “festa della donna”.
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Il messaggio non conteneva testo, ma aveva in allegato un file in
formato mp3. Bebè tirò un sospiro di sollievo. Si trattava con tutta
probabilità d’una breve sequenza hard scaricata da internet: uno di quei
micrometraggi che Bibì, sapendolo un estimatore, soleva inviargli
titolandoli in successione “delicatessen n° …”. Nel primo anno di lavoro il
geometra gliene aveva inviati almeno un paio a settimana: si andava dal
nanerottolo centrafricano dotato di un pene lungo un piede (e di un piede
lungo un pene) che praticava a se stesso una fellatio limitandosi a reclinare
il capo, alla pingue matrona che macchiava il talamo con un ippopotamo;
dall’abnorme eiaculazione d’una contadina ucraina capace di estinguere un
falò al momento dell’orgasmo, alla peloponnesiaca che dava alla luce
un’anguria mastodontica senza che il documentarista si fosse premurato di
chiarire se le avevano impiantato il seme nell’utero tre mesi prima o
l’avevano introdotta mediante un martinetto a maturazione già avvenuta; dal
“bukkake” dell’operaia giapponese che ingollava lo sperma d’un centinaio
di colleghi in camice senza batter ciglio (anche perché le palpebre erano
appiccicate per colpa dei cattivi tiratori), al frate coprofago il cui volto
aureolato da un asse da cesso attendeva l’avvento delle scariche diarroiche
d’una collegiale acqua e sapone. L’invio di un messaggio con allegato, dopo
lunghi mesi di silenzio elettronico, fu interpretato da Bebè come tacita
ammissione d’essere andati troppo oltre e di voler redire a prima di quel
fatidico sette luglio.
Il filmino si rivelò a basso tenore erotico rispetto alla media storica:
ritraeva un uomo in guepiere nell’atto d’immolare il proprio deretano alla
causa della cristi-anità facendosi impalare da un beduino assatanato.
Sebbene le riprese fossero state effettuate con una telecamera d’infima
qualità e in una stanza male illuminata restituendo immagini sgranate e
intermittenti, tuttavia v’era certezza delle parti in causa ed il soggetto
risultava
alla
portata
degli
spettatori
dotati
d’una
mente
non
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eccezionalmente acuminosa. Bebè non poté fare a meno d’interrogarsi sul
perché gli avesse indirizzato un filmino così casto.
Come doveva interpretare il fatto che il volto di chi brandiva la
scimitarra carnicina fosse fuori inquadratura al pari di quello del
martirizzato? Cosa voleva comunicargli Bibì con un filmino in cui due corpi
privi di capo copulavano contronatura? Valeva come promessa che
avrebbero d’ora in avanti fatto sesso badando a garantirsi un assoluto
anonimato? O come impegno a identificarsi in quegli attori senza testa
potendo così astenersi dal replicarne le prosaiche gesta?
Entrambe le interpretazioni avrebbero segnato la fine di un incubo; la
seconda, poi, avrebbe provocato in Bebè un tale senso di liberazione da
indurlo a lanciare un’alleluia la cui eco avrebbe errato per i corridoi della
Biolbarba S.p.A. nei giorni a seguire. Ma l’esclamazione di giubilo gli
rimase in gola, per effetto della scena con cui il filmino giunse a
compimento.
Al
centro
dell’inquadratura,
adagiata su
un
ventre villoso,
campeggiava la faccia di Bibì; il quale fissava con spudoratezza l’obiettivo
mentre era intento a strapazzare il congestionato gingillo dell’infedele; il
volto di quest’ultimo, deformato da una smorfia che tradiva l’imminenza
dell’orgasmo, emergeva dalla tappezzeria blu del divano come quello di un
naufrago in procinto d’annegare: apparteneva a Bebè, dalla cui strozza stava
per salire un rantolo, annunciatore dello zampillo che avrebbe centrato il
volto estasiato del collega.
Per prima cosa Bebè eliminò il messaggio dalla cartella “in arrivo”e si
affrettò a svuotare il “cestino”, affatto consapevole della vanità
dell’operazione. Fosse vissuto anteriormente all’invenzione della stampa, in
un tempo in cui d’un documento non esistevano doppioni, il comando
“elimina” gli avrebbe garantito la sparizione dell’originale e con esso d’ogni
© Turi Totore
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altro esemplare potenziale; ma alle soglie del terzo millennio, l’aver cassato
un file dalla memoria del proprio personal computer non lo tutelava che da
se stesso.
Una copia del messaggio, e quindi dell’allegato, sarebbe rimasta sul
server centrale della Società per quattro mesi, come prevedeva la procedura
interna di monitoraggio e salvaguardia dei flussi di posta: c’era solo da
augurarsi che il responsabile dell’archivio elettronico non avesse l’abitudine
di ficcanasare nella corrispondenza o, peggio ancora, il dovere d’ufficio di
farlo. Un’altra quiesceva nel disco rigido del geometra; mentre il capostipite
d’una cotal progenie (distinzione quanto mai ingannevole dacché l’ordinata
sfilza di zero e uno aveva annullato la distanza tra padri e prole) doveva
essere al sicuro nel compurter di casa a cui, con tutta probabilità, era stata
collegata la telecamera che aveva registrato l’innaturale coito.
Tre secondi sarebbero bastati a Bibì per inoltrare il filmino a tutti i
dipendenti della Biolbarba presenti nel suo indirizzario: tre minuti per
trasferirlo su un sito internet e metterlo a disposizione di chiunque fosse
interessato a visionare materiale porno amatoriale che avesse tra i
protagonisti l’impeccabile ingegner Bebè.
Sarebbe stata una mossa del tutto irrazionale, considerando che
apparteneva a lui l’ospitale deretano e suo era il viso che ne raccoglieva lo
sprezzante sprizzo; ma chi poteva garantire che il geometra non fosse uscito
di senno, tanto da essere disposto a rovinarsi pur di danneggiare lui? Se non
potevano essere uniti nella gioia, allora: che fossero uniti nel dolore! E di
dolore, nel mettere in circolazione quel filmino, Bibì ne avrebbe procurato a
iosa. Per ricavarne cosa?
Bebè riformulò l’interrogativo originario: che diavolo voleva
comunicargli Bibì con un filmino in cui lo si vedeva affaccendarsi intorno
alla sua fecciosa faccia con la pretesa d’affertilirla?
Si trattava dell’illusorio tentativo di attizzare una passione che non si
era in verità mai accesa? Intendeva rammentargli dei piaceri a cui avrebbe
© Turi Totore
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rinunciato licenziando un così devoto ancello? Molteplici supposizioni
furono passate al vaglio, ma nessuna prevalse sulle altre fino a quando non
gli tornarono alla memoria le parole pronunciate in mare da Bibì, subito
dopo l’inaugurazione del castello di sabbia. Una in particolare gli era
rimasta impressa, per il tono timidamente intimidatorio adottato al momento
di pronunciarla: era la parola “avvertimento”, e nel rievocarla Bebè avvertì
come un avvampamento. Erano forse i prodromi della menopausa?
Macchè! Era lo sdegno suscitato dal sospetto che già allora Bibì
disponesse del filmino e non escludesse di farne uno strumento di ricatto in
caso di necessità. Bebè fu costretto a dar fondo alle proprie modestissime
riserve d’ottimismo, per non esser sopraffatto dal pensiero che si trattasse
del primo episodio di una lunga serie: un teleromanzo in centocinquanta
puntate, che sarebbe andato in onda su un canale satellitare tutti i mercoledì,
per ben tre anni, con il titolo: “due amabili scrofe”. No, ci voleva una mente
oltremodo perfida per concepire un piano simile in pieno innamoramento;
più verosimile che Bibì avesse fatto la ripresa per uso personale, e chissà se
proprio la visione ossessiva di quel corto non gli avesse mandato in corto i
circuiti cerebrali. Per anni egli era stato un insaziabile consumatore di video
pornografici proiettando i propri desideri su creature virtuali che gli
sembravano tanto vicine quanto irraggiungibili; finalmente era riuscito ad
azzerare la distanza, regalandosi per soprappiù il piacere iperrealistico di
vedersi in azione sullo schermo.
Se le cose stavano così, come avrebbe potuto astenersi dal mettere il
filmino in circolazione privandosi della voluttà di sapere che altri avrebbero
goduto identificandosi con lui? E magari farsi recapitare una video cassetta
in cui si vedevano quegli stessi uomini far sesso davanti ad un monitor che
rimandava la scena girata all’insaputa di Bebè? A questo punto niente e
nessuno l’avrebbe trattenuto dall’incontrare questi patiti dell’autovoyeurismo e interpretare filmini in cui si accoppiava con i personaggi che
aveva veduto accoppiarsi assistendo al suo primo accoppiamento sotto
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l’occhio di una telecamera. Ne avrebbe ricavato ulteriore materiale da
mandare in rete, nella speranza che il circolo vizioso non s’interrompesse.
Qual’era il suo obiettivo finale? Potersi masturbare all’imbocco di una
sterminata galleria di televisori dentro cui s’agitavano fantasmi a due
dimensioni che ad ogni passo s’illudevano di recuperare quella persa.
Incapace di porre vincoli neuro-urbanistici all’abusivismo ideativo di
tipo paranoico, Bebè s’abbandonò all’immagine del geometra Bibì in moto
orbitale attorno all’orbe per conto dell’Agenzia spaziale. Primo esemplare
di creatura transumana i cui tessuti paraorganici ospitavano fili conduttori
alimentati da scaglie fotovoltaiche che la ricoprivano integralmente, la sua
missione senza termine sarebbe stata quella di galleggiare in assenza di
gravità all’interno d’una sfera cava di cristallo capace di convergergli
addosso i raggi solari. La superficie interna del globo alternava a
infinitesimi pixel microscopici obiettivi che gli davano modo d’essere nel
contempo televisore e telecamera: una sorta di occhio atto a scrutar dentro
se stesso, e far dell’uomo che ne costituiva il centro un essere immortale ed
autosufficiente. Prospettiva tutto sommato interessante, se le riviste di
mezzo mondo non avessero abbinato alla notizia alcuni fotogrammi delle
loro prodezze sul divano azzurro, scrivendo che l’unica ragione che aveva
spinto il geometra a prestarsi all’esperimento, era stato l’amore non
corrisposto per quel maiale dell’ingegnere.
Per tutta la mattina Bebè fissò lo schermo del computer, digitando a
casaccio sulla tastiera: voleva creare l’illusione che stesse lavorando,
laddove era intento a interrogarsi sulla condotta da tenere. Scontro aperto o
pacificazione? La scelta si rivelò così difficile che ad un certo punto, per
scongiurare il pericolo di una crisi isterica, fu obbligato a prendere in
considerazione l’ipotesi d’essersi sbagliato. Era proprio sicuro che fossero
lui e Bibì i protagonisti del filmino? Oggigiorno si rimediano programmi
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per fare senza difficoltà cose impensabili; figurarsi se un appassionato del
computer come il geometra non era in grado di produrre artigianalmente un
fotomontaggio pornografico.
Era stato lo shock della prima visione a onnubilargli la mente; ma se
avesse riguardato il filmino una seconda volta, con tutta probabilità avrebbe
individuato la striscia di sovrapposizione tra le loro gole e quelle degli
interpreti.
C’era un intoppo: come fare a recuperare il file eliminato? Chiedere ai
gestori del server di ripristinare il messaggio erroneamente cancellato, a
rischio di metterli in sospetto e indurli a curiosare? Scrivere a Bibì che
l’allegato era illeggibile e perciò di rispedirglielo, correndo il pericolo che
venisse interpretata come una provocazione cui replicare inoltrando il file a
qualcun altro? Tanto valeva tornare al dilemma originario, in attesa che si
rinfocolasse la speranza che il filmino fosse contraffatto.
Certo il ciclo non poteva riprodursi all’infinito se non in danno alla
sua integrità psicofisica, senza dubbio compromessa dalla risoluzione
disperata di gettarsi dall’ottavo piano.
A trattenerlo dal guadagnare il cornicione fu un secondo messaggio di
posta elettronica, questa volta privo di allegati, che pervenne nel tardo
pomeriggio. Conteneva un invito a cena, per quella stessa sera, formulato
con un tono talmente perentorio da non ammettere la possibilità che venisse
declinato, neppure in caso di sfracellamento. Un simile evento avrebbe
prodotto un solo effetto: d’intervenire al banchetto in qualità di spezzatino.
A questa seconda e-mail Bebè riconobbe il merito d’aver fugato ogni
dubbio sul significato della prima: quello in atto era un lampante tentativo
di ricatto.
Prendere coscienza di ciò, al termine di un calvario durante il quale la
calvaria era stata il teatro di un’interminabile via Crucis che annoverava,
come s’è visto, stazioni orbitali, annientò Bebè. Incapace perfino di
concepire la possibilità di opporre un diniego, o di patteggiare un rinvio, si
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limitò a telefonare a casa e inventare una scusa per la moglie, che non trovò
nulla da ridire; fu il bambino a complicar le cose, ricordandogli con la sua
vocina squillante che avevano in programma di vedere in tv quel film di
pirati. Fu sempre lui a farle precipitare, aggiungendo di non preoccuparsi
perché “allora non lo guardo neanch’io papi e ce lo vediamo insieme
un’altra volta”.
Poco mancò che Bebè scoppiasse in lacrime davanti ai colleghi;
ancora meno che desse voce ai propri pensieri quando la commozione mutò
in collera:
“Questo frocio di merda vuole appropriarsi della mia vita! Questo
ciucciacazzi vuole distruggermi carriera e famiglia.”
A quel punto, in ossequio ad un automatismo mentale che datava
dall’adolescenza, Bebè visse in un intervallo di sei secondi il ventennio
successivo.
Bebè risponde al secondo messaggio chiedendo un’ora per ultimare
alcune cose; un tempo ch’egli ritiene sufficiente perché si compia la
desertificazione degli uffici. Scaduto il termine occulta un taglierino nella
tasca interna della giacca e prende il montacarichi che si trova in fondo al
corridoio. Avrà così modo di appurare la presenza di colleghi al piano
superiore prima di raggiungere l’ufficio di Bibì situato all’estremo opposto.
Quella puttana dell’ufficio acquisti è ancora lì, ma è talmente concentrata
sulle carte da non accorgersi di lui. Starà cercando il modo, maligna, per
fottersi qualche centinaio di euro sulle prossime forniture di carta igienica
e pagarsi l’ennesima iniezione stirarughe. Possibile non si renda conto di
quanto risparmierebbe affidandosi alle cure di un gigolo senegalese capace
di farle la ritidectomia operando dal di dentro? Perché non ammettere che
il fortissimo richiamo esercitato dal verbo inoculare deriva dall’inconscia
rimozione della “o”? Bebè fa il suo ingresso nell’ufficio di Bibì esibendo il
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sorriso più ipocrita di cui sia stato mai capace e avvia amabilmente la
conversazione senza fare il minimo accenno alla e-mail della mattina. Non
fino a quando lo scemamento del ticchettio dei tacchi gli dà la certezza che
sono rimasti in due. Solo allora si porta dietro le spalle di Bibì facendogli
credere che intende massaggiargli i muscoli del collo. Al contrario, lo
afferra con una mano per i capelli e con l’altra appoggia la lama del
taglierino sulla carotide. Bibì è costretto a eliminare il messaggio e
l’allegato incriminati, né può rifiutarsi di avviare la formattazione
dell’intero disco rigido. Qualche minuto dopo sono nel parcheggio
sotterraneo. Bebè è talmente fuori di sé che in nessun caso Bibì
azzarderebbe una reazione. Si mette al volante e guida fino a casa propria,
dove gli viene intimato di indicare il posto in cui si trova l’originale del
filmino. E’ sul portatile. All’interno di una cartella battezzata B&B. In
compagnia d’una ventina di file dal contenuto analogo. Prima di
cancellarli Bebè li visiona uno ad uno, la qual cosa gli procura un’erezione
involontaria. Ne approfitta per sodomizzare Bibì con inaudita violenza
mentre, sotto la minaccia di evirarlo istantaneamente, lo costringe a
giurare di lasciarlo in pace. Nel momento in cui sta per lasciare
l’abitazione, sorge in lui il sospetto che Bibì nasconda altro. Mette a
soqquadro l’appartamento e trova, tra la branda e il materasso, un album
di foto tratte dalla loro filmografia. Tra di esse spicca, ingrandita a tutta
pagina, quella ispirata al disegno dell’architetto Sgrò. E’ a quel punto che
Bebè perde il controllo dei nervi e lo uccide con trecento colpi di taglierino.
Dire che lo uccide è un eufemismo. In effetti lo fa a fette. E poi infierisce
sulle fette. Ma prima di morire Bibì ha fatto in tempo ad urlare a
squarciagola per una dozzina di minuti. E i vicini a chiamare la polizia. E
la polizia a sfondare la porta a fare irruzione quando ormai la vittima è già
stata frullata. Bebè è tratto in arresto, pur in assenza di prove. Viene
interrogato per tutta la notte. Anche con metodi che poco si addicono al suo
status d’ingegnere. Tuttavia non apre bocca. E’ disposto a farsi uccidere
© Turi Totore
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piuttosto che confessare le vere ragioni del suo gesto. Il commissario non si
spiega come possa mostrarsi così sereno dopo quello che ha commesso.
Non può immaginare da quale incubo si sia liberato. Non può sapere che al
solo pensiero che non esistano più in circolazione filmini che lo riguardano
egli prova un’immensa gioia. Che non durerà però in eterno. A un certo
punto irrompe nella stanza un funzionario che si occupa di reati a sfondo
sessuale. Si precipita verso l’unico bagno di servizio tenendo una mano
premuta sulla bocca, ma scopre che è occupato. S’inginocchia e rimette
l’anima in un cestino. Nel momento in cui si volta per chiedere scusa ai
colleghi impallidisce, nonostante paia impossibile, ancora di più. Si
allontana facendo segno di aspettare. E’ di ritorno un minuto dopo
portandosi appresso un computer portatile. Spiega d’aver scaricato da un
sito illegale russo uno snuff film. Uno di quelli in cui ci sono sequenze di
sevizie perpetrate su donne e bambini che non si capisce se siano vere o
simulate. Questa volta la vittima è un uomo, e le immagini sono
indubbiamente reali. Il funzionario non ha mai visto niente di simile,
tuttavia, diversamente da quanto accade di solito, l’assassino ha il volto
scoperto. Si tratta di Bebè, che impiega un attimo a capire. Quel demonio di
Bibì deve aver azionato alla chetichella il sistema di telecamere nascoste
trasmettendo in tempo reale su internet la propria morte. Le riprese si
concludono con l’irruzione della polizia nell’abitazione. Gli agenti che vi
hanno preso parte chiedono una copia del finale da poter mostrare a casa.
La storia fa il giro del mondo. Nei giorni seguenti il file verrà scaricato da
circa trecentomilioni di persone facendo di Bebè un’autentica celebrità
planetaria. Ciò non gli regala l’agognato successo con le donne, anzi,
perde l’unica di cui poteva disporre a piacimento. La moglie lo rinnega
pubblicamente e per proteggere il figlio dall’invadenza dei media si
trasferisce in una località segreta.
Quando Bebè esce di prigione sono trascorsi venticinque anni. E’
invecchiato. Non abbastanza per abbandonare il proposito covato negli
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ultimi diciassette. A partire dal momento in cui gli avevano detto del
suicidio del figlio. Il quale si era gettato dal balcone a soli sette anni dopo
che un vicino di casa, innamorato inesaudito della madre, gli aveva
documentato le ultime ore da libero cittadino del frocio assassino di suo
padre. Ch’egli non aveva mai smesso di piangere, sapendolo morto da eroe
per difendere una donna in cinta da un tentativo di stupro. Bebè riuscirà a
procurarsi l’indirizzo di quel tale, che dai tempi della condanna al
pagamento di 36 euro di ammenda a copertura delle spese di pulizia del
selciato vive a Milano. Si apposterà a poche decine di metri dall’edicola
ove si reca tutte le mattine; seguirà l’acquisto della consueta copia della
Gazzetta dello Sport; poi, mentre l’uomo approfitta del verde per
attraversare al strada tenendo gli occhi intenti alla prima pagina, Bebè gli
passerà di sopra con un’automobile presa a noleggio. Finisce per essere di
nuovo sotto torchio, nello stesso ufficio, a vent’anni di distanza. La polizia
sarà messa sulle sue tracce dall’articolo di un giornalista del Secolo XIX,
che poi si scoprirà essere stato l’amante omosessuale della vittima. Costui
mette in collegamento gli episodi avvenuti a così tanti anni di distanza e fa
scoprire la coincidenza che Bebè ha lasciato il carcere alcuni giorni prima
che il pirata della strada entrasse in azione. Bebè è tratto in arresto, pur in
assenza di prove. Viene interrogato per tutta la notte. Anche con metodi che
non si addicono al suo status d’ingegnere in pensione. Tuttavia non apre
bocca. Il commissario è convinto che sia il responsabile dell’accaduto.
Vorrebbe trattenerlo a tutti i costi ma non sa a cosa appigliarsi. Roba da
mettersi le mani nei cavilli. Finché non passa di lì un funzionario. Uno che
si occupa di infrazioni al decreto legislativo due-otto-cinque del
novantadue. Entra cereo in bagno e ne esce con un bicchiere di acqua in
mano. Sta per spiegare ai colleghi che lo interrogano con lo sguardo i
motivi di quel suo pallore, quando sbianca ancora di più. Si allontana
facendo cenno di aspettare. E’ di ritorno un minuto dopo portandosi
appresso un computer portatile. Spiega d’aver scaricato dal programma di
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gestione delle telecamere distribuite lungo la rete viaria comunale le foto
relative alle infrazioni all’articolo 41 comma 2 lettera a del Nuovo Codice
della Strada. Nella prima immagine che mostra ai colleghi si vede Bebè che
digrigna i denti al volante di una berlina. La seconda ritrae il retro
dell’automobile mentre supera un incrocio con il semaforo sul rosso. A
nessuno dei colleghi sfugge il particolare dei due piedi discernibili dalle
parti del tubo di scappamento. Bebè si convince d’avere nella tecnologia un
acerrimo nemico. Fa richiesta dell’elenco telefonico di Genova e si chiude
in un ostinato silenzio.
Tornato alla realtà grazie all’iterato “posso svuotare il cestino?”
dell’addetto alle pulizie, Bebè si decise a salire al sesto piano. Ai suoi occhi,
quelli d’un uomo che ormai viveva nell’assoluta indeterminatezza, Bibì fece
al contrario l’impressione d’una persona che esercitava un totale controllo
sulla propria esistenza; come pure su quella del collega, ridotto oramai al
rango d’una marionetta. Impressione che divenne certezza non appena egli
varcò la soglia della di lui abitazione, scoprendo che la tavola era già
allestita per due. Possibile che Bibì non fosse stato nemmeno sfiorato dal
dubbio che potesse rifiutare l’invito? Evidentemente no! E l’aver
apparecchiato voleva essere una pura esibizione di potere.
L’occhio di Bebè indugiò per una frazione di secondo sulla lama che
divideva il tagliere coi salumi, rivedendo l’intera successione di eventi che
avrebbero portato alla prima condanna per omicidio. Di lì a un’ora avrebbe
maturato il convincimento che trascorrere il prossimo quarto di secolo in
galera non fosse la cosa peggiore che potesse capitargli: il pensiero di
ridursi in una cella di un metro per due l’opprimeva meno che figurarsi un
burattino nella mani d’un demiurgo munito di diploma tecnico. Il quale, per
tutta la durata della cena, si sarebbe speso per avvalorare questa idea,
ostinandosi a manifestare la propria passione e la disponibilità a fare
© Turi Totore
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qualsiasi cosa pur di non perderlo; se si eccettua l’unica che Bebè agognava,
ossia che lo lasciasse perdere.
Nel dopocena la tenue linea di demarcazione tra quella vita in libertà e
la detenzione sparirà del tutto, grazie ad uno speciale lubrificante e all’uso
sapiente d’un’intera linea di falli in silicone di calibro crescente. A
coronamento di tre lustri d’attività paraomosessuale Bebè avrà l’onore, in
una nuvola dall’asfissiante odore, di comprendere quale carico di sofferenza
sottacesse l’espressione “prenderlo nel culo”. Ne penetrerà il senso
metaforico al momento d’esser penetrato da quello letterale grazie ai suoi
cronici problemi di emorroidi, che lo costringeranno ad assentarsi
dall’ufficio stante la mancanza d’una postazione aerea che gli avrebbe
consentito di lavorare sospeso mediante un’imbracatura. Nelle interminabili
giornate in cui giacerà prono su letto, accudito dalla moglie comunque
scettica sulla spiegazione maritale d’essersi seduto sul bordo d’un
portaombrelli ritenuto erroneamente vuoto, scaglierà alcuni trilioni di
anatemi su Bibì non concedendogli attenuanti. Le lacrime versate dal
geometra saranno giudicate un’aggravante, in quanto non suscitate dal
rammarico per il dolore occasionato ma dall’emozione d’essere stato il
primo a sodomizzare l’ingegnere. Un atteggiamento meno narcissico
avrebbero ridimensionato il compiacimento di Bibì per quella che non
poteva in alcun modo essere considerata una conquista, bensì uno stupro ai
danni di uno sventurato il cui rigido retto, già riluttante ad adempiere al
naturale ufficio d’espulsione delle feci, s’era sempre opposto all’adozione
del senso unico alternato.
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La rievocazione di quanto era avvenuto la sera dell’otto marzo
divenne per Bibì un’attività a tempo pieno. La scena, vissuta nella realtà da
un’unica e banale prospettiva che mostrava la groppa di Bebè scossa dai
suoi affondi intermittenti, nei giorni successivi fu oggetto d’incessanti
rivisitazioni a cui contribuirono le migliaia di spezzoni pornografici
sedimentati nella sua mente. In fase di montaggio il geometra aggiungeva
primi piani del proprio pene mentre s’inabissava nell’ano del collega;
inquadrature dello sfintere che permaneva dilatato anche dopo l’estrazione,
dando modo alla lingua di recare refrigerio alle pareti surriscaldate
dell’ultimo tratto d’intestino; zumate su un singolo follicolo pilifero,
domiciliato sulla cute d’uno scroto reso violaceo dall’avidità della suzione;
sequenze in cui l’intero apparato genitale veniva deglutito, prima d’essere
restituito con i segni dell’aggressione subita da parte dei succhi gastrici. Di
aggiunta in aggiunta si pertingeva alla ricostruzione di un’eiaculazione
parossistica equiparabile all’effusione del magma da un cratere, e come
questo capace di sfigurare chi lo ricevesse in viso; onere che gravava su
Bebè, il quale, per recitare nell’eventuale sequel, avrebbe dovuto sottoporsi
ad una plastica facciale. Fin qui gl’innocui vaneggiamenti.
Il problema era che quando Bibì rimemorava la sodomizzazione, la
qual cosa avveniva senza sosta la notte come il giorno, il suo pene s’erigeva
imperiosamente, ponendo come vincolo alla declinazione il raggiungimento
dell’orgasmo.
Durante la settimana di assenza di Bebè, come pure in quelle
successive al suo rientro, Bibì aveva tentato di sbrigarsela da solo. Alla fine
si era dovuto arrendere all’evidenza che la masturbazione, cui era costretto a
ricorrere con cadenza oraria, non lo appagava; all’opposto, lo faceva sortire
dal gabinetto frustrato e carico d’odio verso Bebè, che sedeva ignaro su una
ciambella gonfiabile. La conseguenza fu quella di favorire la comparsa di
elementi sadomaso nell’azione, che acquisivano sempre maggiore rilevanza
ogniqualvolta questa veniva risognata. Si cominciò con qualche sporadico
© Turi Totore
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buffetto sulle natiche, presto rimpiazzato da unghiate ferine sulla schiena e
cannibalesche morsicature dietro il collo; a queste subentrarono sigari
cubani da spegnere sull’epidermide maculandola d’una miriade di piaghe da
decubito, tagliole per topi le cui branche si chiudevano sui capezzoli,
boccette d’acido, cesoie, staffili a novantanove code piombate in punta;
infine apparve una ghigliottina, con l’unico scopo di partire la cervice di
Bebè nell’istante in cui Bibì stava per raggiungere l’orgasmo provocando
uno straordinario spasmo anale.
Nessuno, tanto meno il geometra, era in grado di prevedere fino a
quando tutto ciò sarebbe rimasto nell’ambito dell’immaginazione. Fu quindi
per il bene di entrambi, a sentir Bibì, per arginare quest’incalzante processo
degenerativo, ch’egli impose due sveltine al giorno sul pianerottolo supremo
della scala d’emergenza.
Inizialmente Bibì s’accontentò di raggiungere l’orgasmo a mano,
limitandosi ad occhieggiare le pudenda di Bebè; presto pretese di palparle,
poi d’imboccarle, infine che gli fossero appoggiate tra le natiche. Non si può
dire che indugiò nel reclamarne la parziale introduzione, quindi l’integrale,
lamentando tuttavia che la messa in atto (di quell’etto in pieno itto)
avvenisse senza il minimo trasporto. A metà aprile, quando l’escoriazioni
anali di Bebè si furono rimarginate, venne ratificato unilateralmente un
trattato in base al quale la mattina sarebbe stato l’ingegnere a inculare il
geometra, mentre il pomeriggio sarebbe toccato al geometra apparigliare i
conti. Fu il colpo di grazia.
Il calo di rendimento di Bebè, un dato ormai acquisito dai vertici
aziendali che ne avevano di recente disposto l’estromissione da due
importanti progetti, si tramutò in tracollo. L’insonnia, un disturbo che lo
aveva tormentato per la prima volta l’estate appena scorsa in concomitanza
dell’inopinato avvento del collega sulla costa, s’impadronì delle sue notti. A
© Turi Totore
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cominciare dall’entrata in vigore delle nuove norme sullo sfruttamento dei
tafanari, diventò per lui impossibile addormirsi prima delle quattro di
mattina, racimolando tre ore di sonno a malapena. Si presentava in ufficio
abbigliato impeccabilmente, ma con una faccia da ecceomo eruttato dalla
terra dopo trentanni di miniera. S’era fatto tardo e taciturno, e andava
soggetto ad attacchi d’ansia al minimo inciampo: proprio lui, che appena
assunto s’era messo in luce per la freddezza con cui aveva gestito
un’imbrogliatissima commessa.
La spia di questa metamorfosi era la compulsione a esaminare il
quadrante dell’orologio diverse volte al minuto; una coazione innescata
verosimilmente dal perenne incombere dell’appuntamento al pianerottolo, e
di cui non poteva certo dar conto ai manager che gli rimproveravano
l’ineleganza di quel gesto durante le riunioni con i committenti. Trenta
minuti prima dello squillo che fungeva da start l’intervallo tra un’occhiata e
la successiva si riduceva ad una manciata di secondi, impedendogli di
svolgere qualsivoglia attività diversa dal rimuginare ciò che l’attendeva e la
possibilità che qualche suo collega dotato di poteri parapsichici fosse in
grado di leggergli il pensiero. Allora si sforzava di ripetere mentalmente
cantilene che impedissero al cervello di evocare l’immagine di Bibì alla
pecorina; purtroppo per lui questo esercizio lo induceva ad estraniarsi,
finendo per recitare filastrocche a voce alta nello sbigottimento generale. In
aggiunta, il timore di non essere all’altezza delle aspettative di colui che
ormai considerava un pericoloso psicopatico, arrivò a fargli preferire il
rendez-vous pomeridiano a quello mattutino. Rischiava di diventare il primo
caso di ricchione per ansia da prestazione.
Ai primi di maggio fu convocato nell’ufficio del responsabile risorse
umane, che lo accolse cerimoniosamente alla presenza d’uno sconosciuto il
cui cognome fu fatto precedere dal titolo di dottore. Dottore in cosa?
Bebè, sospettando che i colleghi telepati avessero informato lo
direzione del tenore dei suoi pensieri, non ebbe esitazione nel catalogarlo
© Turi Totore
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come psichiatra e perciò a mentire spudoratamente. Attaccò, prim’ancora
che gli rivolgesse una domanda, dicendo che la moglie aveva grossi
problemi psichici e che negli ultimi mesi, essendo venuta a mancare per una
profonda crisi depressiva che l’aveva spinta al suicidio la madre di lei, la
situazione era degenerata; tanto che i servizi sociali avevano minacciato di
affidare il figlio ad una comunità se la donna non si fosse sottoposta ad una
terapia farmacologica monitorata attraverso esami periodici del sangue. Per
alcune settimane era riuscito a somministrarle i medicinali di nascosto con il
pasto serale, ma quando se n’era accorta aveva tentato di ucciderlo a
forbiciate. Rivelò, non senza che il rossore che gl’imporporò il viso per
l’enormità della menzogna venisse scambiato dai due uditori per
mortificazione, d’aver dovuto prendere una settimana di malattia non per un
problema di emorroidi, bensì per la ragione che due forbiciate erano andate
a segno nelle natiche. Tutto era successo mentre tentava di sottrarsi alla
furia omicida della moglie spiccando un salto ad alto coefficiente di
difficoltà che doveva portarlo dalla ringhiera del suo balcone su quella dei
vicini. I quali purtroppo erano in ferie ed egli sarebbe di sicuro morto
dissanguato se non fosse arrivata una loro parente che aveva l’incarico
d’annaffiargli i gerani. Disgraziatamente la donna era debole di cuore e nel
trovarsi di fronte un uomo con i pantaloni abbassati e le mani sporche di
sangue era stata stroncata da un infarto. Tra una settimana si sarebbe svolto
per direttissima il processo che lo vedeva imputato per omicidio colposo.
Stava per aggiungere d’aver saputo che il giudice era un suo compagno di
liceo a cui aveva rubato la ragazza, quando lacrime e singhiozzi
gl’impedirono di proseguire. S’era forse immedesimato nel personaggio al
punto da ritenere veritiere le proprie folli fole? O piuttosto era l’idea che la
realtà fosse più nera dell’immaginazione ad averlo trasformato in una fonte?
Non riuscì a intermettere di piangere una volta fuori dall’ufficio del
responsabile risorse umane né dopo aver riguadagnato il proprio,
alimentando nei colleghi la speranza che l’avessero licenziato in tronco.
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Lacrime seguitarono a rigargli il viso per tutto il pomeriggio: perfino
durante la “pausa caffé” imposta dal concupiscente conculcatore, il quale,
mostrandosi inaspettatamente misericordioso, suggerì di sospendere i
convegni al pianerottolo fino a quando non fosse guarito da quella grave
lipemania.
Non si trattava di misericordia, ma del timore di ripetere l’azzardosa
esperienza d’introdurre il proprio pene tra una doppia fila d’arrotati denti
scossi dal singhiozzo.
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La prima settimana di requie bastò a Bebè per ristabilirsi; tuttavia
simulò di avere ancora i nervi a pezzi producendosi in tremori,
tartagliamenti, esplosioni di riso immotivate ogni qualvolta s’imbatteva nel
geometra Bibì. La sceneggiata, che doveva risparmiargli di tornare sotto le
sue grinfie, funzionò finché i due non s’incontrarono casualmente in un
caffé. Bebè non poteva sapere che Bibì stava cercando di sopire la sua
smania amorosa bevendo un cocktail dietro l’altro nel separè a fianco, e
diede il meglio di sé nel tentativo di far colpo su di una venticinquenne
appena assunta alla Biolbarba. Allorché il profilo di Bibì fece capolino da
dietro il paravento Bebè reputò vano deprimere i muscoli facciali, che si
congelarono in un rictus sotto lo sguardo fiammeggiante d’ira dell’amante.
La ripresa delle ostiolità, animata da un forte sentimento di rivalsa per
il fatto d’esser stato buggerato, avverrà all’insegna d’un’assoluta mancanza
di prudenza. Copuleranno nel gabinetto riservato agli handicappati mentre
ignari colleghi s’avvicenderanno in quello a fianco; dietro una polverosa
scaffalatura intanto che l’archivista è sulle tracce di un fantomatico
fascicolo dal n° di protocollo immaginario; nell’ascensore fermato
artatamente tra il quarto e il quinto piano, accompagnati dall’esortazioni del
responsabile prevenzione e protezione a non farsi prendere dal panico; ai
piedi d’un plotter in fase di stampa, avendo come lenzuolo un foglio AO
ricamato con il profilo longitudinale di una complanare. L’acme si
raggiungerà il dodici di giugno, quando Bibì avanzerà la pretesa di
chiamarlo sul telefono cellulare nel corso della presentazione al
committente del piano di commessa per la costruzione di un centro
commerciale.
Bebè strapperà la concessione di poter disattivare la suoneria, ma
come contropartita si vedrà costretto ad impostare sulla massima intensità
l’avviso di chiamata a vibrazione. Nulla di strano, sennonché il telefono,
protetto da un preservativo, dovrà infilarselo su per il culo prima di entrare
nella sala riunioni. Esso non cesserà nemmeno un istante di vibrare, mentre
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la lavagna luminosa proietterà tempi e costi delle varie fasi di realizzazione.
Bebè si congederà grondante di sudore e con i crampi ai glutei per lo sforzo
di trattenere il cellulare ed evitare di ritrovarselo imbizzarrito nelle mutande.
Uscendo udrà qualcuno dei presenti domandare se sia possibile a quell’età
soffrire di parkinsonismo.
Nel lavarsi le mani dopo aver recuperato dal water il cellulare egli si
guarderà allo specchio, provando una tale pena per se stesso da ritenere
giunto il momento di risolvere una volta per tutte la faccenda.
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La mattina del quattordici giugno Bebè e Bibì furono visti entrare
furtivamente in un bar prossimo all’ufficio, appollaiarsi su due sgabelli
color caviale al riparo di una grossa colonna tinta salmone e ordinare alla
bislunga cameriera di presumibili origini scandinave cappuccino e brioche
anziché vodka e aringhe.
Al sicuro dietro un vistoso paio di baffi di schiuma nocciola Bibì si
stava interrogando su cosa potesse aver spinto l’ingegnere a violare la regola
imposta da lui stesso di farsi vedere il meno possibile insieme, quando
questi cominciò a parlare.
“Non possiamo più andare avanti in questo modo,” disse. “Ho
riflettuto a lungo e ho maturato la convinzione che siamo a un bivio:
dobbiamo capire se il nostro rapporto è destinato a diventare una cosa
importante o a rimanere un gioco perverso che prima o poi ci stuferà.”
“Personalmente,” rispose Bibì, “non sono a nessun bivio, è dal
principio che considero la nostra una storia importantissima, di cui il gioco è
solo la componente più appariscente.”
“Per te è diverso Bibì. Non hai una moglie, né un figlio: sei un uomo
le cui scelte producono effetti solo su te stesso; a me risulta tutto più
complicato.”
“Vorresti dire,” esclamò Bibì, “che se non avessi una famiglia...”
“Non correre. Non dico questo. Però, se non ce l’avessi, sarei libero di
mettere alla prova me stesso.”
“Metterti alla prova?”
“Si. Provare a fare un passo in più. Provare,” e dicendo questo il volto
di Bebè s’accese d’un rossore, “a stare insieme veramente, evitando che
l’ipocrisia con cui stiamo vivendo questa passione ci costringa a diventare
folli fino al punto da dover maledire il giorno in cui tutto ha avuto inizio.”
“Ma io,” replicò Bibì, “non maledirei quel giorno nemmeno se le
conseguenze dovessero essere fatali.”
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“E’ proprio questo il punto,” disse Bebè bruscamente. Poi proseguì:
“Ho bisogno di capire cosa sono disposto a mettere in gioco, ma non posso
capirlo vivendo in uno stato di angoscia perenne. E’ per questo che ti
propongo di fare una vacanza insieme, io e te, in un luogo dove abbiamo la
certezza di non incontrare nessuno che ci conosce. Voglio raggiungere un
isola del mare del nord, in questo periodo dell’anno in cui non fa mai buio,
così da poter raddoppiare il tempo dello stare insieme e capire se sono
disposto a rinunciare a tutto il resto per avere te.”
Nell’udire tali parole la mandibola di Bibì era stata attratta in maniera
lenta ma inesorabile dal tavolino, tanto che adesso, se lo avesse voluto,
avrebbe potuto gustare il cappuccino poggiando la tazza, compresa di
piattino, direttamente sulla lingua.
“Passeremo dieci giorni sulle isole Lofoten, nel mar di Norvegia”
disse Bebè; “da considerarsi come luna di miele anticipata, come prova di
viaggio di nozze prima delle nozze, una sorta di precollaudo il cui esito non
dobbiamo dare per scontato. Magari,” concluse, “al rientro dalla vacanza
non ci sopporteremo più a vicenda”.
“Ne dubito,” replicò Bibì, forse temendo che fosse proprio questo il
recondito obiettivo di Bebè, “sono convinto che invece non sarai più capace
di rinunciare a me”.
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